Nonsoloconcordia. Riflessioni sulla sicurezza in mare

Qualche giorno dopo l’incendio sulla “Norman Atlantic”, la rivista “Internazionale” mi chiese di scrivere per il loro sito un commento sull’incidente, che contenesse una breve riflessione sulla sicurezza in mare. Scrissi un testo di una pagina e mezzo circa, che si può leggere qui nell’Appendice 1. Mi limitai a parlare delle navi RoRo, sia perché la “Norman” fa parte di quella categoria, sia perché hanno, tra tutte, un’incidentalità molto elevata. Espressi l’opinione, come si può vedere, che una delle cause della scarsa sicurezza è da ascriversi alle condizioni di lavoro degli equipaggi ed alla pressione sul costo del lavoro esercitata dagli armatori, per cui anche un naviglio tecnologicamente avanzato e moderno, se gestito secondo il criterio del massimo risparmio sul costo del lavoro, può diventare insicuro.

Qualche giorno dopo Nicola Capuzzo, un giornalista ben noto nell’ambiente dello shipping, che io stimo per la sua attenzione e precisione, scrive sul suo blog che nella mia riflessione ci sono elementi “pretestuosi” in quanto l’incidente sulla “Norman” non andrebbe inquadrato nell’ambito delle scelte armatoriali ma in quello della difficile situazione dei porti greci dove si ammassano centinaia di migranti che, clandestinamente, cercano di entrare in Italia. Il suo intervento si può leggere nell’Appendice 2. Di “fatalità” invece parla un altro interlocutore di questo piccolo dibattito, che si è sviluppato sul blog di Capuzzo. E’ Fabrizio Vettosi, un amico, ben noto nel mondo della finanza dello shipping, che prende anche lui le distanze dalle mie affermazioni, sottolineando l’efficienza e la modernità della “Norman Atlantic” sulla quale ha viaggiato più volte (efficienza e modernità, sia detto per inciso, che io non ho messo in dubbio, anzi). Le sue affermazioni sono riportate nell’Appendice 3. Sono intervenute altre persone poi, io stesso con una breve replica, e alla fine mi è rimasta l’impressione che ci sia una forte reticenza a parlare di questi argomenti e una forte resistenza, anche in persone di grande esperienza ed onestà, ad ammettere che esiste un problema della sicurezza in mare e che questo problema non è affatto risolto con la relativa emarginazione delle cosiddette “carrette del mare” o di armatori sub standard. E’ un problema che riguarda anche il naviglio nuovo e sofisticato che armatori di tutto rispetto mettono in servizio, praticando però una politica del lavoro basata sul basso costo e non sul rispetto delle professionalità, sullo sfruttamento bello e buono e non sull’attenzione alle condizioni e all’ambiente di lavoro. Per non parlare poi della non assunzione di responsabilità sulla natura del carico.

Pertanto ho pensato che tacere su queste cose non serva a nessuno, quindi ripropongo in forma un po’ più elaborata certe mie riflessioni, sulla base anche di una lettura di fonti internazionali la cui autorevolezza è difficile, credo, mettere in dubbio.

In Europa come andiamo?

Cominciamo col dare un’occhiata al recente rapporto dell’European Maritime Safety Agency (EMSA), Annual Overview of Marine Casualties and Incidents 2014.((http://www.emsa.europa.eu/emsa-documents/latest/item/2303-annual-overview-of-marine-casualties-and-incidents-2014)) Sul frontespizio sono riportati i grandi numeri per il 2013: 2.550 incidenti, di cui 81 molto seri, 54 navi perdute, 2.872 navi coinvolte, 74 morti, 754 persone ferite, 165 inchieste aperte. Questo rapporto copre gli anni 2011, 2012 e 2013, in ottemperanza alla Direttiva del 2009 che impone agli stati europei (tranne quelli privi di flotta come la Repubblica Cèca e la Slovacchia) di istituire speciali enti incaricati di svolgere delle inchieste sugli incidenti più gravi e di trasmetterne all’Agenzia i risultati in modo da avere delle idee più chiare sulle principali cause, oltre che sulle modalità degli incidenti stessi.((Direttiva 18/EC del 23 aprile 2009.)) Gli stati (28 paesi dell’Unione più Islanda e Norvegia) ci hanno messo un po’ di tempo per attrezzarsi, quindi i dati quantitativi dal 2011 al 2013, che mostrano una crescita importante anno dopo anno degli incidenti, non sono molto significativi perché il numero degli incidenti rilevati era in funzione della capacità degli Stati di rilevarli, ci trovavamo cioè in una fase di rodaggio. Oggi quasi tutti gli stati coinvolti sembrano essere completamente attrezzati per svolgere queste indagini, quindi d’ora in avanti le statistiche EMSA sul numero degli incidenti, dei morti ecc. saranno più affidabili, in quanto comprendenti l’intero universo preso in considerazione e non solo l’universo degli stati più solleciti a creare gli enti preposti alle indagini. Le navi prese in considerazione sono quelle recanti bandiera di uno degli stati membri, quelle che hanno avuto incidenti nelle acque territoriali o nelle acque interne di uno degli stati membri e le navi con incidenti che recano danno a interessi sostanziali degli Stati membri (dizione questa molto vaga ma che si riferisce chiaramente all’inquinamento da oil spilldi regioni costiere). Non vengono prese in considerazione le navi di armamenti europei che battono bandiere di comodo. Ma allora che significatività possono avere questi dati? E’ il solito modo di far finta di far qualcosa per la sicurezza mentre alla fine si è creata un’altra burocrazia inutile?

Non sarei così negativo. L’interesse è dato dal fatto che si prende in considerazione quella componente della flotta mondiale che presumibilmente segue le regole più severe in materia di tabelle d’armamento e di dotazioni di bordo, cioè le navi battenti bandiera degli stati dell’Unione. Quindi l’indagine focalizza il segmento “nobile” dell’offerta; se anche all’interno di questo segmento troviamo delle zone d’ombra per quanto riguarda la sicurezza, a maggior ragione dobbiamo preoccuparci e tenere desta l’attenzione, evitando il solito “tutto va ben madama la marchesa”. Secondo elemento, anche se i dati sono parziali, ci danno qualche indicazione utile sulle circostanze e le modalità con cui gli incidenti si verificano. Teniamo presente che gli incidenti vengono distinti in due grandi categorie: casualty with the ship (quando ad essere coinvolta è anche la nave) e occupational accident (quando sono coinvolte solo delle persone, quindi incidenti sul lavoro).

Dunque, scorrendo le tabelle riguardanti il triennio 2011-2013 scopriamo che:

  1.  le tipologie di naviglio con la maggiore incidentalità sono, in ordine decrescente: general cargo, Ro Pax, passeggeri, container carrier, peschereccio, bulk carrier, dredger, chemical carrier, petroliera, rimorchiatore, nave special purpose, RoRo tuttomerci, nave di appoggio alle piattaforme off shore
  2. le navi general cargo rappresentano il 50% degli incidenti che hanno coinvolto un’altra nave e il 35% degli incidenti sul lavoro
  3. perdita di controllo, contatto, incagliamento, collisione sono le modalità d’incidente più frequenti ((Per “perdita di controllo” s’intende sia impossibilità di manovrare la nave (per varie cause) che perdita di carico o di carburante.))
  4. il 57% di casi di affondamento con perdita totale ha riguardato dei pescherecci
  5. i casi di navi trovate inadatte alla navigazione hanno riguardato soprattutto le general cargo, i pescherecci e subito dopo le navi passeggeri
  6. il 75% dei decessi nei tre anni 2011, 2012 e 2013 si è verificato tra i membri degli equipaggi
  7. solo un quarto degli incidenti si è verificato in mare aperto, più del 50% in acque interne (internal waters), quindi nei canali, negli arcipelaghi o nelle aree portuali
  8. solo un quarto degli incidenti può esser classificato come “serio” o molto serio”.

La lettura di questo Rapporto, pur nella sua parzialità, sembrerebbe restituire un quadro tutt’altro che negativo: le aree di grande insicurezza sarebbero limitate al general cargo (dove purtroppo si concentrano ancora le “carrette del mare”) ed ai pescherecci. Certo, rimane in evidenza la situazione delle Ro Pax, ma le Ro Ro tuttomerci sembrano essere più che sicure. Una volta di più però abbiamo la dimostrazione che la percezione della gravità o meno del fenomeno dell’incidentalità in mare dipende dalla volontà e dall’efficienza degli stati di saperla descrivere, censire, monitorare e comunicare. Gli incidenti in mare possono avvenire senza che nessuno ne sappia niente, le acque internazionali sono da sempre territorio di nessuno, navi cariche di rifiuti tossici possono essere fatte affondare da gente senza scrupoli all’oscuro della comunità internazionale. Le compagnie di armamento non sono certo felici di dare notizia d’incidenti che possono esser sfuggiti all’attenzione degli stati e della comunità marittima, mentre sono prontissime, nel caso di navi noleggiate, a scaricare l’intera responsabilità sul proprietario. Gli incidenti vengono liquidati come “fatalità” o “errore umano” e quando il caso è così clamoroso da non poter evitare un’inchiesta, spesso i risultati dell’inchiesta non fanno chiarezza né sulla dinamica né sulla causa dell’incidente. Può accadere allora che qualcuno, anche in posizione di un certo rilievo, perda la pazienza e decida di parlar chiaro.

Gli ammonimenti di Svensen

Il caso che ha creato sconcerto nella comunità internazionale è quello della “MOL Comfort”, la portacontainer da 8.110 TEU che si è spezzata in due al largo delle coste dello Yemen, il 17 giugno 2013 mentre era in viaggio da Singapore a Jeddah. Un troncone della nave rimase ancora a galla qualche giorno per poi affondare definitivamente, mentre l’altra parte affondò subito. Un caso così evidente di difetto di costruzione rischiava di rovinare la reputazione della cantieristica giapponese ma soprattutto della società di classificazione Nippon Kaiji Kiokai, meglio conosciuta come ClassNK, leader mondiale.((Le società di classificazione navale europee sono le più antiche, esse hanno come clienti i proprietari del naviglio, mentre le società di classificazione asiatiche, cresciute in maniera esponenziale negli ultimi decenni, hanno come clienti i cantieri.)) Il cantiere di costruzione era infatti il Mitsubishi Heavy Industries che l’aveva consegnata nel 2008 all’armatore Mitsui Ocean Lines (MOL). L’inchiesta avviata dal Ministero giapponese non ebbe l’avvertenza di chiedere la partecipazione anche di qualche soggetto estero, esponendosi al sospetto di voler condurre un’indagine “casalinga”. Probabilmente anche per ragioni di rivalità e di concorrenza, la DNV GL, la società di classificazione nata dalla fusione di Det Norske Veritas e del Germanischer Lloyd, divenuta, grazie alla fusione, la prima al mondo, scalzando in tal modo Class NK dalla vetta della classifica, decise di avviare una propria indagine sull’incidente, giustificandola con il fatto di essere leader mondiale nella certificazione delle portacontainer e quindi di avere un interesse strategico a dare ai suoi clienti il massimo di garanzie di competenza. L’indagine mise in luce alcuni gravi errori nel design della nave e delle sue gemelle, e DNV GL decise di rendere pubblici questi risultati in un drammatico intervento alla Conferenza Internazionale degli Assicuratori Marittimi (IUMI), nel settembre 2014, pochi giorni prima che venisse pubblicato il report dell’indagine giapponese. ((“THE MOL Comfort casualty was likely attributable to hull girder collapse on account of ‘non-robust design’, DNV GL has proclaimed in a dramatic intervention only days before scheduled publication of the official report”, in David Osler, IUMI 2014: MOL Comfort design not robust, claims DNV GL, “Lloyd’s List”, 24 settembre 2014.)) L’accusa era pesante e soprattutto inusitata in quell’ambiente. Quando venne pubblicato il report giapponese, il Maritime Chief Executive di DNV GL Tor Svensen rincarò la dose affermando che “nulla di nuovo” era venuto alla luce che non fosse già stato evidenziato dall’indagine della sua società. ((Max Tingyao Lin, ClassNK’s MOL Comfort design not robust, claims DNV GL, “Lloyd’s List”, 3 novembre 2014.))

Questo inusitato scontro tra società di classificazione fu interpretato e banalizzato come un puro scontro tra rivali sul mercato, ciascuno interessato a squalificare l’altro, ma sta di fatto che da parte giapponese non è mai stato portato alla luce nessun elemento che potesse essere interpretato come una smentita delle analisi della DNV GL o che potesse in qualche modo squalificare la società rivale. Tor Svensen infatti in parecchie occasioni, del tutto slegate dal caso ‘MOL Comfort’, ha ripetuto non solo che la sicurezza in mare è un problema aperto, il quale deve preoccupare lo shipping ma che nell’opinione pubblica e sulla stampa si dà molta più importanza ai problemi ambientali dell’inquinamento causato da certi incidenti che alla perdita di vite umane degli equipaggi.((Si veda per esempio una sua intervista su https://www.youtube.com/watch?v=RsWUO0OlN_w)) Le sue affermazioni più esplicite su questa tematica furono fatte in occasione della celebrazione dei 150 anni di fondazione della Det Norske Veritas e sono state riportate da “Lloyd List” il 29 ottobre 2014.((Max Tingyao Lin, DNV GL urges shipping to cut deaths and accidents at sea by 90%.)) In sintesi Svensen afferma che:

  1.  l’incidentalità in mare è 10 volte maggiore che nelle industrie in terraferma
  2. occorre ridurla del 90% nei prossimi 5-10 anni
  3. il 50% degli incidenti è causato da errori di navigazione
  4. pertanto l’automazione può contribuire a ridurli notevolmente (la sua società sta lavorando al progetto di un natante senza equipaggio per le acque interne)
  5. gli incidenti con maggior numero di morti riguardano i ferry e le navi Ro Pax, in particolare quando vengono modificate
  6. non ci sono particolari evidenze che gli armatori abbiano abbassato gli standard di sicurezza perché le regole sono molto più stringenti
  7. ci sono armatori che tagliano i costi il più possibile ma non possono alla lunga reggere la concorrenza, il mercato chiede qualità.

Dopo il gran numero d’incidenti che si sono verificati alla fine dell’anno 2014 nel giro di pochi giorni, tra cui quello della “Norman Atlantic”, Svensen è tornato sull’argomento dinanzi alla stampa. Sapendo di essere stato criticato per gli atteggiamenti assunti sul caso ‘MOL Comfort’, Svensen dichiara che non ha intenzione di “tener la bocca chiusa” finché perdura la situazione d’insicurezza che provoca 2.000 vittime all’anno (in altra occasione aveva parlato di 800 vittime e di altrettanti feriti). “Dobbiamo cambiare mentalità e passare a un approccio che esalta le azioni di prevenzione”. Soprattutto, insiste, è necessario sapere di più sulle cause degli incidenti e sulle ragioni sottostanti che le hanno determinate, andando alla radice dei problemi. Tornando sul caso ‘MOL Comfort’, “non sappiamo ancora tutto quello che dovremmo sapere”, dice, occorre pertanto maggiore trasparenza, occorre una volontà di tutti i maggiori stakeholders (armatori, proprietari di navi, governi, enti di regolazione, società di classificazione, assicuratori) di non opporsi più con strumenti legali alla completa diffusione dei risultati delle indagini con speciose motivazioni di riservatezza e di danno alla concorrenza. Se questo non basta, deve intervenire l’IMO. Nei casi di total loss può essere necessario to imposemandatory reporting requirements. Si dichiara infine fiducioso che la tecnologia possa portareun grande aiuto. ((Janet Porter, DNV GL’s Svensen steps up pressure for transparent casualty investigations, “Lloyd’s List” 21 gennaio 2015.))

Le prese di posizione di Svensen non hanno a fondamento solo delle convinzioni morali o ideologiche o solo delle convenienze commerciali. Infatti non si deve dimenticare una cosa che il “Lloyd’s List Class Report 2014”, reso disponibile online a metà dicembre 2014, dice esplicitamente e cioè che la seaworthiness di una nave cannot be guaranteed when a ship is in service, but depends on how crew maintain, load and run the vessel. La certificazione della Class Society che una nave è adatta alla navigazione non è assoluta ma è condizionata dal modo in cui viene gestita la nave stessa. Questo è un punto importantissimo che molti dimenticano quando affermano che la sicurezza di una nave è data solo dall’efficienza delle sue dotazioni tecnologiche e dalla loro rispondenza alle normative. E’ l’uso che l’uomo fa della tecnica il punto chiave, non la tecnica in sé! Questo ovviamente, nei casi d’incidente, apre il campo a una serie infinita di variabili che sono l’oggetto della negoziazione con le società di assicurazione, per suddividere le responsabilità tra proprietario, operatore, società di gestione e di reclutamento equipaggi ed altri. Perché, diciamo le cose come stanno, delle vite umane alla maggioranza degli stakeholders non interessa un gran che, interessano i soldi delle assicurazioni. E un po’ la reputazione.

La settimana nera

Il 28 dicembre 2014 la nave Ro Pax ‘Norman Atlantic’, battente bandiera italiana, costruita nel 2008, di proprietà della Visemar, noleggiata da Anek Lines, s’incendia al largo di Igoumenitsa. 11 vittime accertate ma è ancora incerto il numero dei dispersi finché le autorità greche non avranno consegnato ai magistrati di Brindisi, dove la nave è stata ricoverata, una lista completa e attendibile delle persone imbarcate. Ci sono stati anche due morti albanesi in un mezzo di soccorso per la rottura di un cavo. Ancora non accertate le cause dell’incendio.

Lo stesso 28 dicembre il cargo battente bandiera del Belize ‘Lady Aziza’, costruito nel 1991, entra in collisione con il cargo turco ‘Gokbel’, costruito nel 2011, all’imboccatura del porto di Ravenna e ne causa l’affondamento. Due morti, quattro dispersi, i cui cadaveri verranno ritrovati sulle spiagge romagnole qualche giorno dopo.

Il 1 gennaio la nave ‘Bulk Jupiter’ un cargo registrato alle Bahamas, di 56.009 dwt, costruito in Giappone nel 2006 e di proprietà della società norvegese Gearbulk, affonda al largo delle coste del Vietnam, causando la morte di 18 uomini dell’equipaggio, tutti filippini. E’ sopravvissuto soltanto uno, il cuoco, che si è rifiutato di collaborare con le indagini.

Il 2 gennaio 2015 la nave battente bandiera cipriota ‘Cemfjord’, specializzata nel trasporto di cemento, di 2.327 dwt, costruita nel 1984, affonda al largo delle coste scozzesi, causando la morte di 8 uomini di equipaggio, sette polacchi e un filippino. Il comandante russo era ubriaco ed è stato in arresto per 35 giorni, non era nuovo a disavventure del genere, con la stessa nave. ((

http://www.vesselfinder.com/news/2315-Master-jailed-35-days-for-being-drunk.))

Il 4 gennaio la car carrier ‘Hoegh Osaka’, registrata a Singapore, di 51.170 tonn, costruita nel 2000, che si era inclinata fortemente dopo la partenza da Southampton, viene deliberatamente spinta su un banco di sabbia al largo dell’isola di Wight, dove giace per qualche settimana su un fianco finché sarà recuperata e riportata in porto, senza danni per l’equipaggio ma con forti danni al carico di auto di alta gamma.

Bilancio: 45 morti ed una trentina di dispersi, in una settimana tante vittime quante ce ne sono state in tutto il 2013 nell’universo preso in considerazione dal rapporto dell’EMSA. Due sole navi non erano sotto bandiere di comodo (‘Norman’ e ‘Hoegh’) tutte le altre lo erano. Su sei navi quattro erano state varate dopo il 2000, una sola delle navi coinvolte può essere definita una “carretta”, anche se l’anno di costruzione vale fino a un certo punto, occorre sapere le modificazioni a cui può essere stata sottoposta una nave nel corso della sua vita. In due casi è evidente che c’è stato qualche problema nella gestione del carico (‘Norman’ e ‘Hoegh’), in due casi errori di navigazione causati da comandanti ubriachi o poco esperti (‘Lady Aziza’ e ‘Cemfjord’) e nel quinto caso, dopo il mistero dei primi giorni, si è capito che l’incidente era dovuto alla liquefazione del carico. In una settimana uno spaccato della situazione mondiale. Se in questo quadro a qualcuno viene in mente di proporre una riflessione, come ho fatto io, citando, tra i problemi legati alla sicurezza, anche quello del rapporto con il lavoro portuale, non mi sembra proprio che si possa parlare di “pretestuosità”. Ben altro atteggiamento ha tenuto infatti la stampa specializzata più autorevole e gli organi d’informazione noti per la loro serietà. Due soli esempi.

Il “Guardian” del 10 gennaio 2015 pubblica un lungo articolo di Rose George, autrice di un libro sui lati nascosti del mondo dello shipping, la quale comincia subito con l’aggiungere qualche nome in più alla lista già lunga della “settimana nera”: il cargo ‘Sea Merchant’, in viaggio tra Busan e Antique, affonda il 10 settembre 2014 dopo che il carico di cemento si era spostato di colpo da una parte, morto il chief engineer; ‘Araevo’, petroliera greca, noleggiata dalla centrale elettrica del porto di Derna, viene bombardata dall’aviazione libica perché “sospetta”, due morti, un croato e un rumeno. Il cargo ‘Better Trans’ affonda il 20 novembre 2014 nel mare in tempesta al largo delle Filippine. Il ‘Run Guang 9′ ha un’esplosione a bordo al largo di Guangdong, due membri dell’equipaggio risultano dispersi.((Nel database www.vesselfinder.com sono registrate tre navi con questo nome, una general cargo, una petroliera e una nave per il trasporto di prodotti raffinati dal petrolio. Poiché l’ultima posizione rilevata risale ai primi di gennaio, avendo consultato il sito il 31 gennaio, penso si tratti del cargo.))L’autrice intervista gli esperti di IHS Maritime, che pubblica il World Casualty Statistics ((https://www.ihs.com/products/maritime-world-casualty-statistics.html)): le dicono che in un modo o nell’altro vanno perdute due navi alla settimana, senza contare i pescherecci e le imbarcazioni più piccole. Ciononostante, considerando le 85.000 navi in servizio commerciale calcolate dall’IMO, i dati statistici delle “perdite totali” e degli inquinamenti da rilascio di idrocarburi dicono che c’è un continuo miglioramento. Ma la brava Rose George non si dice convinta e interroga Glen Forbes, che dirige l’agenzia d’intelligence marittima “Oceanus Live”, il quale è piuttosto esplicito: “Seafarers’ safety and security is compromised by poor safety standards, old and decrepit vessels, unscrupulous owners, blacklisted flag registries, and even near-slavery on fishing vessels.” Senza contare poi i “ghost ships” acquistati a prezzi di rottamazione e riempiti di migranti mandati allo sbaraglio e che costringono spesso gli equipaggi di navi che passano nelle vicinanze a soccorrerli in base alle norme della SOLAS, pur essendo privi di addestramento e di mezzi.((International-Convention-for-the-Safety-of-Life-at-Sea (SOLAS), 1974. Iniziata dopo il naufragio del Titanic, ha avuto una prima formulazione nel 1929 e poi è stata continuamente emendata; è integrata con i diversi Codici IMO (International Maritime Organization): International Safety Management (ISM), Fire Safety Systems (FSS), Fire Test Procedures (FTP), Life-Saving Appliances (LSA).))Scettica si dimostra l’autrice (e non è l’unica come vedremo) nei confronti dell’ausilio che può dare l’automazione, c’è il rischio anzi di crescere una generazione di ufficiali incollati allo schermo del computer che si dimenticano magari di dare un’occhiata fuori ogni tanto. Fatica e stress causati da tabelle d’armamento ridotte all’osso sono la norma, il 70% della flotta mondiale naviga sotto bandiere ombra. “A greater problem is fatigue: working seafarers tell me they are routinely knackered because there are no longer enough crew on board (…) 60% of ship accidents are due to errors made by what the industry curiously calls ‘the human element’, and much of that is due to fatigue”. Quando succede un incidente grave è difficile avere informazioni, molto spesso i parenti di persone perite o disperse in incidenti in mare finiscono per non sapere mai cosa è veramente accaduto ai loro cari. La vicenda della ‘Norman’ – potrei aggiungere io – conferma purtroppo questo giudizio con cui la brava Rose chiude il suo articolo. ((Molto spesso si ricorre al fai-da-te, più strutturata sembra l’iniziativa http://www.maritimevictimsinternationalhelpline.com))

Il 4 gennaio 2015 “Lloyd’s List” pubblica un articolo di Michael Grey, che si lamenta come l’immagine dello shipping sia ormai affidata alle tragedie piuttosto che alle performances e, forse rispondendo idealmente alle dichiarazioni di Svensen, si chiede se veramente la tecnologia può garantire maggior sicurezza, citando uno dei tanti libri che dimostrano come i computer stiano provocando un generale “de-skilling”. Ormai abbiamo capito che avere una visione puramente “tecnologica” della sicurezza non basta più. Ma, si chiede Grey, qualcuno sta facendo qualcosa, a livello di formazione professionale, di società di classificazione, di autorità di regolazione per cambiare questa mentalità? Non sembra proprio. ((A bleak new year, “Lloyd’s List”, 4 gennaio 2014.))

The human factor

Che cosa emerge da questi pochi accenni al modo in cui in ambienti molto legati allo shipping si affrontano i problemi della sicurezza in mare? A me sembra incontrovertibile che emerga un notevole imbarazzo ed una consapevolezza che l’approccio mentale avuto sinora non è più sostenibile. Occorre cambiare mentalità e rivedere il sistema di valori.((Interessante lo studio della Solent University di Southampton, 15 Years of Shipping Accidents: a review for WWF, 2012.)) In pratica questo significa tornare a mettere l’uomo al centro, ma in maniera completamente rovesciata rispetto all’uso disonesto che viene fatto quando l'”errore umano” diventa l’alibi per occultare tutta la catena di responsabilità che porta ai disastri. Giustamente, in un passaggio del suo articolo, la George ricorda che molto spesso i comandanti svolgono solo il ruolo di “capri espiatori” e vengono abbandonati, da chi li ha ingaggiati, alla magra soddisfazione di punirli da parte di società che hanno subito alcune conseguenze del disastro. Difficile parlare oggi in questi termini quando l’attenzione è concentrata tutta su comandanti alla Schettino o alla Lee Joon-seok, quello del traghetto sudcoreano ‘Sewol’, il cui affondamento ha causato più di 300 vittime. Ma è un fatto incontestabile che l'”errore umano” da solo non spiega molte delle dinamiche degli incidenti anche più gravi. Un esempio da manuale è quello della ‘Rena’ la portacontainer da 3.352 TEU, noleggiata da MSC, che il 5 ottobre 2011 andò a cozzare contro il reef neozelandese, rimase per più di tre mesi adagiata su un fianco sulla barriera corallina, perdendo carburante e container, alfine si spezzò in due e finì per affondare dopo aver provocato con il rilascio del carburante il maggiore disastro ecologico mai avvenuto in quella regione, considerata uno dei paradisi naturali del pianeta.((L’incidente è avvenuto nel 2011 ma se ne parla ancora oggi, gennaio 2015, v. http://www.vesselfinder.com/news/2833-Four-commissioners -to-decide-the-faith-of-Rena- wreck. Ai tempi dell’incidente ho seguito con una certa attenzione i mezzi d’informazione ed in particolare “International Freighting Weekly”, “Lloyd’s List”, “NZ Herald”, CNN e Associated Press e molti siti specializzati, come www.shipwrecklog.com, www.maritime-executive .com, www.braemarhowells.com, o di freelance come www.thejackalmann.blogspot.com. E’ stato scritto un libro sull’incidente: Black Tide: the story behind the Rena disaster, di John Julian, pubblicato da Hodder Moa, 2012. Ma la fonte con le informazioni più costanti, che ancora oggi continua a dare notizie giorno per giorno è www.renarecovery .org.nz. Gli strascichi giudiziari non sono ancora terminati tre anni e mezzo dopo, le migliori società al mondo di salvage, da Smit a Svizer alla stessa Braemar, sono state chiamate a intervenire; c’è stata una partecipazione straordinaria di volontari. Costamare afferma di aver già speso più di 300 milioni di dollari in risarcimenti e costi delle operazioni per contenere il rilascio di carburante (si parla di più di 1.000 tonnellate di nafta uscite dai serbatoi) e per recuperare i container perduti. Qualche settimana fa è stata istituita la commissione di 4 membri per decidere sulla rimozione completa del relitto che giace a circa 50 metri di profondità. La Baia di Plenty è una delle località turistiche più frequentate della regione ed i danni economici, oltre che ambientali, sono rilevanti. Molto attiva nelle rivendicazioni è la comunità maori. Sin dal primo momento sono state rivolte pesanti accuse al governo neozelandese e alle autorità locali per non aver reagito prontamente per arrestare l’inquinamento. Si parlò di tragedia annunciata perché da anni le associazioni ambientaliste avevano chiesto di tenere lontane le navi dalla barriera corallina e di regolamentarne il passaggio. In realtà la prima accusa non sembra giustificata se si leggono alcune relazioni tecniche. L’accesso ai serbatoi era reso difficile dal grado d’inclinamento del relitto, ben presto l’energia era mancata sulla nave e la liquefazione del carburante, preliminare alla sua aspirazione dai serbatoi, divenuta difficile, senza contare il mare cattivo che si era alzato un paio di giorni dopo, costringendo i mezzi di soccorso a fermarsi. Le tecnologie adeguate a far fronte al disastro arrivarono con la Smit e la Svizer, ma a quel punto il peggio era già avvenuto. Portata in giudizio, la Costamare è stata condannata al pagamento della ridicola somma di 300 mila dollari neozelandesi con la motivazione: “sì ha inquinato, ma non lo ha fatto deliberatamente”. L’entità dei risarcimenti è stata oggetto di una trattativa puramente politica tra governo, Costamare/Diana e società di assicurazione. Secondo certe fonti, il costo del noleggio per MSC sarebbe stato di 15 mila dollari al giorno, una bella cifra per una nave in quelle condizioni!)) La successione degli avvenimenti è sconcertante: per la prima settimana dopo l’urto non si sa di chi è la proprietà della nave, MSC declina ogni responsabilità dicendo che l’aveva noleggiata, non solo, ma nega che nei container ci fossero sostanze tossiche, poi deve ammetterlo ma lo farà, secondo quanto scrive una pubblicazione del Lloyd, dichiarandone una quantità inferiore a quella reale. E’ solo una settimana dopo il disastro che la Costamare, un armamento greco, si decide a dichiarare per bocca del suo responsabile Diamantis Manos di essere la proprietaria della nave e di essere “deeply sorry” per quanto accaduto. Qualche settimana dopo dichiarerà di non essere veramente la proprietaria Costamare, bensì la sua controllata Diana Shipping. La nave viaggiava sotto la bandiera di comodo della Liberia. L’Agenzia Associated Press inizia a investigare sull’accaduto e trova un muro di gomma nell’ambiente, chiede di poter vedere i documenti dell’ultima ispezione che la nave ha subito, in un porto australiano, ma dovrà ricorrere a mezzi legali, invocando il Freedom of Information Act, per poterli vedere. Si scopre così che sulla nave erano stati riscontrati ben 17 elementi fuori norma e che ciononostante, invece di fermarla, le autorità australiane l’avevano autorizzata a ripartire. Si viene a sapere dal Rapporto preliminare d’inchiesta che la nave al momento dell’impatto viaggiava con il pilota automatico, malgrado fosse stata messa in allarme da terra che stava viaggiando troppo vicina alla barriera corallina e non a 5 miglia di distanza come da regolamento. Non era dotata di sistemi automatici di allerta e di correzione della rotta, il comandante dichiarerà di aver guardato fuori con il binocolo ma di non aver visto niente, nove minuti prima dell’impatto il radar di bordo aveva segnalato un ostacolo ma la nave aveva mantenuto il suo corso. Commenta l’Associated Press: “So, who is to blame? Is it the flag country for pressuring authorities for the ‘Rena’ to be released? The Australian maritime authorities who let the ship go under violations? The captain and officer currently facing criminal charges in NZ for operating a ship in a ‘risky and dangerous’ manner? Or is it the maritime industry, as a whole, seeking to cut costs at other expenses?”((What we didn’t know about Rena disaster, www.maritime-executive.com, 22 dicembre 2011.))Il capitano Mauro Balomaga, 44 anni e l’ufficiale di rotta, Leonil Reon di 37 anni, ambedue filippini, verranno arrestati e condannati, il primo non solo per la sua condotta in navigazione ma per aver “altered ship documents after the crash”. Il comandante, sconterà metà della pena in Nuova Zelanda e nel settembre 2012 tornerà a casa. Come non considerarlo un capro espiatorio? Subito dopo l’impatto le autorità neozelandesi non avevano potuto salire a bordo, è credibile che dietro ci fosse solo la decisione del capitano e non anche quella dell’armatore? MSC sin da subito ha cercato di lavarsene le mani, dicendo che la nave era noleggiata. Già, ma di chi è la responsabilità del carico e dell’itinerario? Con chi si tiene in contatto costante il comandante, con il proprietario o con l’operator? E una volta che le responsabilità del carico sono incontrovertibili come mai, invece di collaborare con piena lealtà alle indagini, si cerca di nascondere la verità? Quanti container della ‘Rena’ portassero sostanze tossiche non si è mai accertato del tutto, alcuni erano tra quelli caduti in mare, costituendo un pericolo per le squadre dei soccorritori e per i natanti in transito. Secondo un alto funzionario della Dogana britannica, intervistato da “Lloyd’s List”, ben 30 container trovati con merci pericolose non erano registrati sul manifesto di carico della ‘Rena’.((Mike Weir, Rena and Napoli disasters highlight need for change in import-export rules, says HMRC official, in “Lloyd’s List”, 2 maggio 2012.))Nel formato del bill of lading che si trova on line sul sito di MSC c’è scritto che le sue navi portacontainer non trasportano merci pericolose. Ma i fatti lo smentiscono.

Il 14 luglio 2012, in pieno Atlantico, un’esplosione a bordo della ‘MSC Flaminia’, portacontainer da 6.750 Teu, in viaggio tra Charleston e Anversa, causa la morte di due membri dell’equipaggio, ambedue tedeschi, un altro marinaio, un filippino, morirà per le ustioni riportate qualche mese dopo. Sulla nave si sviluppa un incendio che fa temere per la sua esistenza, l’equipaggio viene evacuato, l’incendio domato e la nave rimorchiata verso un porto europeo.((La prima nave accorsa sul luogo dell’incidente fu una petroliera russa. Ad un certo punto sono state messe su Internet delle immagini impressionanti dell’incidente, scattate da un passeggero che viaggiava sulla “MSC Flaminia”, un ex marinaio, un certo Rosen, ma poi furono tolte.))A questo punto avviene l’incredibile. Non è tanto la MSC quanto la società di ship management ad occuparsi dell’equipaggio e della nave: è la tedesca NSB, che sta per Niederelbe Schiffahrtsgesellschaft Buxtehude. Per cinque settimane la ‘MSC Flaminia’ vaga nell’oceano in attesa che un porto accetti di darle rifugio, nazioni marinare di grande tradizione come la Gran Bretagna, l’Olanda, la Spagna rifiutano di accogliere la nave, sembra che gli usi della solidarietà marinara praticati da secoli non valgano più niente.((Secondo dichiarazioni del Germanischer Lloyd sarebbero stati sette i paesi che hanno rifiutato di accogliere la nave: Irlanda, GB, Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo.))Alla fine ci pensano i tedeschi a togliere dai pasticci i loro connazionali della NSB e il 9 settembre 2012 accolgono la nave nel porto appena finito di costruire, ma allora non ancora entrato in funzione, di Wilhelmshaven, il controverso Jade Weser Port. ((La nave poi è stata trasportata nel porto di Costanza sul Mar Nero, per essere riparata nei cantieri della Daewoo; le sono state apportate modifiche ai motori e da qualche mese è tornata in servizio come eco-ship.)) Tutto questo lascerà pesanti strascichi di polemiche, in particolare gli inglesi reagiranno con veemenza all’accusa di essersi rifiutati di accogliere la nave. ((anet Porter, UK rejects claims it refused refuge for MSC Flaminia, in “Lloyd’s List”, 23 novembre 2012.))Poiché in quel caso di errore umano non si poteva proprio parlare, nei giorni immediatamente successivi all’incidente il tema più dibattuto fu: cosa trasportava la ‘MSC Flaminia’? Sostanze infiammabili evidentemente, merce pericolosa, come mai? La risposta in questi casi da parte dell’armatore è sempre la stessa: non è colpa nostra se chi ci ha affidato la merce ha fatto una falsa dichiarazione sulla sua natura, se la dogana non se n’è accorta ecc. ecc.. Viene dunque a galla una volta di più la piaga delle misdeclaration, un problema reale, dichiarazioni false sulla natura della merce oppure sul peso reale del container (tanto da indurre le autorità di regolazione a rendere obbligatorio pesare i container prima dell’imbarco), la piaga del poor packaging, del cattivo stivaggio o del cattivo imballaggio della merce contenuta nel container.((“TT Club’s own claims experience shows that 65% of all incidents involves loss or damage to cargo and of these, our analysis suggests over one-third result from poor packing. This trend is borne out by statistics from the container lines’ Cargo Information Notification System, where some 35% of incidents investigated are found to have been caused by poorly or incorrectly packed containers”, in Peregrine Storr-Fox, The perils of packing in “Lloyd’s List”, 21 ottobre 2013. V. anche Damian Brett, Shippers welcome container-packing code, in “Lloyd’s List”, 19 dicembre 2014.))Problemi che ci dicono come l’approccio al tema della sicurezza deve coinvolgere l’intera filiera logistica, comprendere quindi le regole del lavoro portuale ma anche la situazione nei magazzini e nelle piattaforme logistiche, là dove le spedizioni vengono preparate. Ma non basta ancora, una cosa è la dinamica di un incidente, altra cosa è la gestione del disastro, la reazione sia degli attori coinvolti che degli organismi di governo del territorio. E’ comprensibile, è logico, che le responsabilità nella marina commerciale siano divise tra più soggetti, suddividere i rischi fa parte di una prassi antichissima, qualcuno può avere una copertura assicurativa riguardante l’equipaggio, qualcun altro una riguardante i passeggeri (è il caso della ‘Norman’ sembra), un altro ancora o uno dei due precedenti ha una copertura assicurativa per la nave, un altro ancora per la merce. In generale i principali titolari dei contratti di assicurazione sono il charterer, l’operator e il crew manager. Tutto ciò non giustifica però i comportamenti da “scaricabarile” che anche grandi nomi dello shipping praticano sistematicamente nel caso in cui le loro navi sono coinvolte in incidenti. Non è tollerabile un così aperto disprezzo del bene pubblico e delle autorità pubbliche quando lo spazio in cui si muove il loro business è per il 99,99% uno spazio pubblico! Il risultato di questi comportamenti è il diffondersi della diffidenza reciproca, la rottura di quei legami di solidarietà che hanno assicurato alla cultura del mare la sua aura di prestigio, che hanno contribuito al suo fascino presso le giovani generazioni. Quando si scatenò il dibattito sul rifiuto opposto da molti stati di dare asilo alla ‘MSC Flaminia’ ci fu chi, scrivendo con brutale franchezza, disse: chi poteva sapere quanti container con merce pericolosa c’erano ancora sulla nave, che avrebbero potuto infiammarsi o esplodere nel porto di asilo? Chi poteva fidarsi delle dichiarazioni dei responsabili della nave?

Le frustrazioni della regolazione internazionale

Dopo l’incidente della ‘Norman’, Emanuele Grimaldi, titolare di una delle maggiori compagnie armatoriali in Europa, specializzata in traffici Ro Ro e con navi car carrier, Presidente della Confederazione degli Armatori Italiani, interrogato dai giornalisti, dichiarò che il suo settore è sottoposto a delle norme internazionali rigorosissime e stringenti per quanto attiene le caratteristiche del naviglio e in particolare le sue dotazioni di sicurezza. E’ vero, ma è altrettanto vero che spesso queste norme hanno un potere vincolante più virtuale che reale. Di sicuro esse comportano un impegno burocratico che rischia certe volte di sommergere i comandanti sotto un fardello di scartoffie. Le norme internazionali che regolano la navigazione sono fondate sul principio della libera adesione degli stati, non su un ordinamento giuridico sovranazionale dotato di poteri di coercizione contro coloro che non le rispettano. Sono norme pattizie, non sono Trattati. Sulle navi vige la legge del paese di bandiera, anche se una nave si trova nelle acque territoriali di uno stato diverso da quello dove è stata registrata, la giurisdizione penale di questo stato non ha il diritto di intervenire su fatti interni alla nave. E’ già molto se lo stato interviene contro la violazione di norme internazionali su navi battenti la sua bandiera. La condizione di schiavitù a cui sono ridotti certi equipaggi di pescherecci nel sud est asiatico sotto gli occhi delle autorità è ben nota. In Europa però la situazione è diversa. Con il Memorandum of Understanding di Parigi, meglio conosciuto come Paris MoU, che conferisce agli organi del Port State Control (PSC) dei singoli stati a) il potere ispettivo sulle navi straniere, b) il potere di detenzione di una nave sulla quale sono state trovate gravi violazioni delle convenzioni internazionali e c) il potere di metterla al bando, si è creato un coordinamento tra organi di controllo che consente di lottare in maniera più efficace contro le navi sub standard. Il Memorandum infatti è un accordo tra amministrazioni, non ha lo statuto di una vera e propria Convenzione, ma il fatto che l’Unione Europea abbia deciso di trasporre i principi base del Memorandum nel diritto comunitario e di emanare una serie di Direttive in proposito, ha creato un quadro giuridico con potere sanzionatorio. ((www.parismou.org. Attualmente sono 27 i Paesi che hanno aderito al MoU. In Italia sono le Capitanerie di Porto responsabili del PSC.)) Ora, da quando è entrata in vigore la Maritime Labour Convention (MLC) del 2006, si sono create le premesse per lottare contro il supersfruttamento della gente di mare, perché nei paesi che hanno aderito sia al MoU che alla MLC gli organi del PSC possono intervenire non solo in merito alle carenze tecniche della nave ma in merito alle condizioni umane e lavorative dell’equipaggio.((Nel primo anno i paesi che vi hanno aderito (e hanno sottoscritto il Paris MoU) hanno effettuato mediante il Port State Control ispezioni sulle navi in transito che hanno portato a 112 detenzioni, 51 delle quali hanno avuto origine da violazioni nel pagamento dei salari all’equipaggio. Gli altri motivi di detenzione sono stati: condizioni sanitarie e di prevenzione infortuni non conformi alle norme, equipaggi numericamente inferiori alle tabelle d’armamento prescritte, cibo e alloggiamenti sub standard, v. James Baker, Paris MoU reports 113 vessel detentions for MLC deficiencies, in “Lloyd’s List”, 17 novembre 2014.))

Resta il fatto che questa regolazione internazionale procede con estrema lentezza, mentre il mondo va di corsa. Ci sono voluti sette anni per passare dall’emanazione della MLC alla sua entrata in vigore. Il “Lloyd’s Register” ha intervistato Rob Brindle, un grande esperto dell’IMO dopo il primo anno di vigenza della MLC, quando erano 65 i paesi che avevano ratificato la Convenzione. ((http://www.lr.org/en/news/news/ILO-MLC-a-year-on.aspxILO MLC a year on – an interview with Rob Brindle.)) “E’ erroneo pensare”, risponde, “che la Convenzione si applichi direttamente alle navi e agli equipaggi; essa si rivolge agli stati membri perché i suoi principi applicativi debbono passare attraverso le singole legislazioni nazionali”. Si è cercato di fare in modo che l’applicazione della MLC sia la più flessibile, dando ai singoli stati la possibilità di recepirla ciascuno secondo le proprie esigenze. Questo non è un problema quando si tratta di una sola bandiera ma lo diventa per i ship manager che hanno in portafoglio navi registrate con diverse bandiere. Alla domanda: “Come hanno percepito la Convenzione sul Lavoro Marittimo gli equipaggi?”, la risposta è: “sanno che esiste ma non capiscono che benefici porta a loro, perché non c’è stata da parte degli armatori un’azione di formazione e d’informazione sufficiente”. Alla domanda “Quali problemi si sono presentati agli ispettori, quali criticità sono emerse?”. La risposta è stata: “Abbiamo dovuto imparare cose nuove per noi: il rapporto tra ship manager e crew manager, accordi collettivi, accordi per singolo equipaggio ecc. (…) “inoltre sono sorte delle difficoltà sulla definizione di shipowner”.

Infatti. Dopo sette anni di discussioni ed un anno d’entrata in vigore della Convenzione, ancora non si era chiarita definitivamente la distinzione tra proprietario (owner) e soggetto (manager) che gestisce di fatto la nave in base ad uno dei diversi contratti, bare boat ecc.. Per capirci, sulla base degli esempi fatti finora, la distinzione tra Costamare e MSC nel caso della ‘Rena’ o tra MSC e NSB nel caso della ‘Flaminia’ o tra Visemar e Anek Lines nel caso della ‘Norman Atlantic’, la distinzione che riguarda le responsabilità dell’uno e dell’altro (in riferimento alle norme della MLC). Scusate se è poco.

Allora il 22 agosto 2013 “Lloyd’s List” affronta l’argomento e scopre che la confusione è totale, intervista sette soggetti ed ottiene sette diverse risposte.((Liz McMahon, MLC 2006: Who is the shipowner and why does it matter?, in “Lloyd’s List”, 22 agosto 2013.))La definizione della MLC è ampia, sembra quasi che gli estensori abbiano fatto uno sforzo disperato per evitare lo “scaricabarile”, per non lasciare vie d’uscita a nessuno dei principali soggetti che concorrono a produrre un servizio marittimo commerciale, ma nel far questo hanno elaborato una definizione nella quale le ambiguità sono evidenti. Essa dice che il proprietario è: “the owner of the ship or another organisation or person, such as the manager, agent or bareboat charterer, who has assumed the responsibility for the operation of the ship from the owner and who, on assuming such responsibility, has agreed to take over the duties and responsibilities imposed on shipowners in accordance with this convention, regardless of whether any other organisation or persons fulfil certain of the duties or responsibilities on behalf of the shipowner”. In base alle norme dell’Associazione delle società di classificazione (IACS), shipowner, per quanto riguarda l’applicazione della MLC, è il titolare dell’International Safety Management Document of Compliance (ISM DoC). Che cos’è? Vale la pena leggersi la voce relativa al codice ISM dell’IMO su wikipedia edizione inglese. ((http://en.wikipedia.org/wiki/International_Safety_Management_Code.)) Di solito io non cito wikipedia e la utilizzo con molta circospezione, alcune voci sono fatte egregiamente, altre meno, ci sono discontinuità nelle edizioni delle diverse lingue, insomma è un’istituzione benemerita ma non è (né pretende di essere) la verità assoluta. Ma in questo caso i primi capoversi della voce sembrano scritti apposta per dare legittimità al mio modesto intervento sul caso ‘Norman’. La necessità di scrivere una Codice di sicurezza, considerato tra le più importanti conquiste dell’IMO, fu determinata dal terribile incidente capitato alla Ro Pax ‘Herald of Free Enterprise’, una nave dotata di tutte le tecnologie moderne, al largo di Zeebrugge nel 1987, che costò la vita a 193 persone. L’ISM Code è uno standard internazionale per la gestione e la conduzione di una nave in sicurezza e per prevenire gli inquinamenti determinati dal rilascio di determinate sostanze. Tutte le società proprietarie di navi o che gestiscono una nave debbono essere in possesso del documento che attesta il rispetto di quelle norme. Ora, nel caso in cui owner e manager sono lo stesso soggetto, non c’è problema ma quando, com’è il caso più frequente, il manager è un third-party manager, la cosa si complica. Ma si complica proprio in riferimento alla Convenzione sul lavoro marittimo. E’ il problema del lavoro, ancora una volta che rappresenta il hic Rhodus hic salta! Come può una società che ha in portafoglio la gestione di navi registrate sotto bandiere diverse, tra cui molte flag of convenience, accettare di essere titolare di un ISM DoC? Viene fatto l’esempio di una di queste, tra le maggiori al mondo, che ha navi registrate sotto 32 bandiere diverse, corrispondenti a 32 stati, di cui solo 18 hanno ratificato la Convenzione e ciascuno di questi ha una sua interpretazione sulla definizione di shipowner. Qualcuno dei soggetti intervistati sostiene che nel Documento possono esservi due nomi, quello del proprietario e quello del manager, altri negano questa possibilità che andrebbe contro la posizione dell’International Labour Organization, uno dei massimi promotori della MLC, che considera responsabile delle condizioni dell’equipaggio una sola entità, owner o manager che sia. A dirimere la questione dovrebbero essere le società di classificazione, ma queste sono prese in mezzo tra le esigenze delle Amministrazioni di bandiera e l’IMO. L’articolo lascia l’ultima parola ai giuristi, uno di questi afferma: “the definition of ‘shipowner’ may be further clarified by the member state”, un altro: “some managers have been reluctant to sign the DMLC. It is true to say that the complex relationship between owner, manager and crew doesn’t suit well with one person taking overall responsibility and this is not assisted by the confusion over who signs the certificate”. Risultato finale? Che si rinvierà l’interpretazione ai singoli stati, come aveva affermato Brindle, ossia non ci sarà nessuna interpretazione “giusta” o “sbagliata”, bensì la confusione totale. E’ quello che si voleva sin dall’inizio?

Ma il volonteroso lavoro dell’articolista di “Lloyd’s List” non trae la conclusione più importante che a me sembra la seguente: si registrano le navi sotto bandiere di comodo proprio per sfuggire alle norme sul lavoro e sulle tabelle di armamento (oltre che all’imposizione fiscale); gli stati delle flag of convenience di solito non ratificano le Convenzioni dell’IMO, ma alcuni le ratificano, come la SOLAS, perché conviene, e accettano gli standard di sicurezza del Codice ISM finché si tratta di norme che riguardano le dotazioni tecniche e le procedure d’utilizzo delle medesime. Ma quando si tratta di lavoro e di condizioni dei lavoratori non ci stanno più. Non è un caso che più di 60 stati hanno ratificato l’ISM Code e solo poco più di 20 la Convenzione sul lavoro marittimo

Ha ragione dunque Roberto Giorgi di V.Ships a dichiarare a “Lloyd’s List”: “Non si è ancora superata l’idea che l’equipaggio è un puro peso economico per l’armatore. Un’industria che dedica così poco tempo ai bisogni della sua forza lavoro o a rispettare certe minime condizioni salariali e di ambiente di lavoro, avrà un bel da fare a convincere i giovani a restare nel settore”. ((Craig Eason, Depriving crew of dignity and respect will hinder recruitment, in “Lloyd’s List”, 28 novembre 2014.))

Pochi giorni dopo queste nobili e realistiche dichiarazioni, NSB (Niederelbe Schiffahrtsgesellschaft Buxtehude), l’armamento con la flotta più consistente battente bandiera tedesca, società molto seria che abbiamo appena visto all’opera nell’incidente alla ‘MSC Flaminia’, annunciava che entro il 2017 tutte le sue navi avrebbero effettuato il flagging out e di conseguenza più di 400 marittimi tedeschi avrebbero perso il posto. Il salario minimo di 8,50 all’ora introdotto dalla signora Merkel e in vigore dal 1 gennaio 2015 era troppo per il signor Lutz Weber? Oppure era la Convenzione sul Lavoro Marittimo a spaventarlo?((David Osler, Weber: “Unfortunately, Germany, as a maritime location, offers European and German sailors no prospects.”, in “Lloyd’s List”, 3 dicembre 2014.))

Qual è il differenziale tra i salari europei ed i salari asiatici nel settore marittimo?

Il 22 agosto 2014 “Lloyd’s List” pubblicava una sua piccola inchiesta sui differenziali salariali tra marittimi EU e marittimi asiatici o dell’est europeo. ((www.lloydslist.com/ll/world/europe/?list=special-report&pg=6)) Primo problema, la mancanza di dati: l’International Chamber of Shippign almeno da dieci anni non ne fornisce, probabilmente perché non li raccoglie. E’ stato necessario quindi ricorrere a fonti disparate e non omogene come l'”Annual Operating Cost Survey” edizione 2013 di Moore Stephens. Secondo questa fonte, i costi per l’equipaggio sarebbero differenziati per tipologia di naviglio ed oscillanti tra il 35 e il 46% del totale dei costi operativi.((I costi operativi comprendono il costo dell’equipaggio, dell’assicurazione, delle manutenzioni e delle riparazioni, il costo per i materiali di consumo ed i costi amministrativi. Se si dovesse calcolare anche il costo del bunker l’incidenza del costo del lavoro sarebbe irrisoria, soprattutto in un periodo, come il 2012, in cui il prezzo del petrolio era alle stelle.))Non contento, il giornalista di “Lloyd’s List” si è rivolto ai consulenti di Precious Alliance, che svolgono anche attività di benchmarking. “La differenza non è tale da scoraggiare un armatore ad impiegare personale europeo”, rispondono, “per esempio il comandante polacco di un product tanker può portare a casa 7.500/8.500 dollari al mese, un suo analogo filippino 6.500/7.000, ma se andiamo sulle bulk carrier i 4.000/5.500 dollari di un comandante polacco non sono molto lontani da 3.500/4.200 di un comandante filippino. ((S’intende solo per gli 8/9 mesi che trascorrono in media a bordo in un anno, non per 12 mensilità.))L’International Maritime Employer’s Council dà numeri diversi: un comandante filippino con 6.000 dollari sarebbe pagato la metà di un tedesco, mentre i terzi ufficiali cinesi, ucraini e filippini starebbero in una fascia che va dai 2.000 ai 4.000 dollari. Non contento di questi dati, il giornalista è andato da un sindacato britannico e si è fatto mostrare le buste paga dei suoi affiliati. Ci sarebbe un livello di paga minima riconosciuto dalla Maritime Commission dell’ILO, vincolante per tutti i 183 stati membri che lo riconoscono, arrivato a 585 dollari nel 2013, che, calcolando 104 ore di straordinario e le ferie, fa 1.028 dollari al mese. In generale il differenziale sarebbe forte per i gradi più elevati, mentre man mano che si scende nella gerarchia, le retribuzioni europee e quelle asiatiche si avvicinano molto.

Alcuni amici che operano in Italia nel settore del crew management, ai quali ho sottoposto questi dati, non sono d’accordo su quest’ultimo punto, anzi, sarebbe il contrario. “Proprio tra gli ufficiali stiamo assistendo ad un progressivo livellamento degli stipendi a prescindere dalla nazionalità. Il mercato del lavoro, malgrado la crisi, sembra ancora essere caratterizzato da una generale scarsità di offerta di lavoratori qualificati a livello internazionale. Sulla bassa forza invece c’è un divario tra i marittimi europei soggetti ai contratti di lavoro nazionali e quelli extra UE, solo in parte mitigato dall’applicazione, per questi ultimi, dei livelli salariali definiti dall’Intenational Transport Federation, superiori a quelli ILO”.

Segnalo inoltre che i laburisti inglesi hanno chiesto che i marittimi stranieri vengano trattati come quelli britannici, riconoscendo loro lo stesso ‘minimum wage’.((David Osler, Labour pledges to reopen seafarer pay differentials debate, Thursday 29 January 2015.))

Navi e porti, marittimi e portuali

La scintilla che aveva fatto partire la piccola e garbata polemica che si è sviluppata sul blog di Nicola Capuzzo nasceva da alcune mie affermazioni in merito alla cosiddetta “autoproduzione”, ossia alla possibilità, fortemente voluta dagli armatori e consentita dalla legge italiana, di affidare il lavoro di carico e scarico dei veicoli sulle navi Ro Ro a membri dell’equipaggio e non a chi questo lavoro è deputato a farlo, cioè il lavoratore portuale. La mia opinione è che in tal modo si corre il pericolo di fare un lavoro che può mettere a rischio la nave, perché l’equipaggio ha tante altre mansioni da compiere durante la sosta in porto, a cominciare dalla manutenzione e dal controllo delle apparecchiature e delle dotazioni tecniche, al controllo dei passeggeri, siano essi con o senza veicolo, alle pulizie; ci fosse una mano d’opera sovrabbondante a bordo lo si potrebbe capire, ma sappiamo che c’è una cronica tendenza a ridurre gli organici.((Proprio mentre scrivevo queste note mi è stato segnalato che su “Il Golfo, quotidiano di Ischia e Procida” del 5 febbraio è apparsa una lettera di denuncia di marittimi imbarcati – a chiamata sembra, on demand direbbe l'”Economist” -sui traghetti che collegano Napoli con le isole. Ma si tratta di situazioni estreme, che si verificano su navi di compagnie di dimensione locale, ben note per la scarsa attenzione al lavoro dei marittimi. La cosa più preoccupante è quando violazioni gravi alle norme di sicurezza e alle regole del lavoro portuale si verificano su imbarcazioni di compagnie con cui l’Italia si presenta sulla scena dello shipping internazionale. Spesso è il cattivo esempio di quelli considerati migliori a incoraggiare le pratiche più brutali.)) Lo si potrebbe capire se l’equipaggio o l’armatore avessero una minima organizzazione a terra, ma chi l’ha vista mai è bravo. Il lavoro di carico e scarico dei mezzi non è un lavoro né semplice né leggero, si tratta di caricare, spesso in retromarcia, dei semirimorchi da mt 13,60 e di farcene stare nella stiva il più possibile, si tratta soprattutto di agganciarli bene al pavimento della stiva, di fare bene “il rizzaggio” – operazione fondamentale per impedire che i movimenti della nave in seguito al moto ondoso non provochino spostamenti dei semirimorchi e dei veicoli, che guarda caso, non poggiano con tutta la superficie sul pavimento ma sono dotati di quella strana cosa rotonda che si chiama “ruota”, ben felice di muoversi appena può. Abbiamo visto che disastri può provocare lo spostamento del carico in quei sette/otto esempi che abbiamo fatto. Nel caso delle Ro Ro c’è uno stillicidio di incidenti di questo genere, anche se molti non hanno conseguenze tragiche per la nave e quindi non vengono segnalati, ma a rimetterci sono i “padroncini” o le aziende di autotrasporto. Ma casi di incidenti mortali durante le fasi di carico e scarico, quando la nave è in porto, non sono infrequenti.((Il 16 dicembre 2013 su un traghetto della Grimaldi nel porto di Brindisi rimase schiacciato un camionista greco di 57 anni, un incidente tra i tanti, senonché alle indagini risultò che era stato imbarcato irregolarmente. Dietro la dinamica degli incidenti c’è sempre qualcosa che si aggiunge alla “fatalità”.)) Il lavoro di carico e scarico è un lavoro nocivo, dopo la prima mezz’ora che i trattori, le “ralle” che agganciano i semirimorchi, dotate di motori diesel, entrano ed escono dalla stiva, questa diventa una camera a gas. E’ più logico, è più sicuro, è più efficiente questo lavoro, se svolto da chi professionalmente è stato addestrato per farlo ed ha i mezzi giusti per farlo piuttosto che da lavoratori che fanno un altro mestiere. Ma questo ragionamento non sembra evidente tra i professionisti del settore. Anzi, uno di loro e non degli ultimi, il bravo e fantasioso Paolo Federici, NVOCC di tutto rispetto, interviene nel dibattito dicendo una cosa che mi avrebbe fatto cadere le braccia se non l’avessi già sentita tante volte dagli armatori: “La domanda è questa: ‘chi ha più interesse a fare meglio il lavoro di rizzaggio? Chi poi sulla nave ci resta e magari ci rischia la vita (quindi il personale di bordo ) o chi invece fatto il lavoro (bene o male ) se ne torna a casa (quindi il personale di terra) ?’ Datevi da soli la risposta…”. ((Sono intervenute nel dibattito anche alcune voci a mio favore, in particolare quella di Vladimiro Mannocci, portuale di Livorno in pensione, che di rizzaggi e derizzaggi sulle Ro Ro ne ha fatti a migliaia.)) E ci mette pure la faccina che strizza l’occhio. Anche per l’ormeggio mi sono sentito dire tante volte: “che cosa ci vuole a prendere una cima e metterla attorno a una bitta? E’ una stupidaggine, ci vuole della gente apposta?” La domanda me la facevano molto seriamente, senza nessuna strizzatina d’occhio.

Se si clicca su Google “autoproduzione” vi salta fuori un documento del 2012 in cui le compagnie che effettuano traffici Ro Ro in Italia scrivono al Ministero per invocare la liberalizzazione delle operazioni di rizzaggio e derizzaggio, le quali all’epoca sarebbero costate 60 milioni di euro all’anno.((http://www.gruppocpl.it/Contents/300712.pdf))Divisi per 9, tante erano all’epoca le compagnie promotrici del documento, fa 6,6 periodico. Indubbiamene una bella cifra, in particolare per chi ha molte navi e quel 6,6 periodico diventa magari 20 o 24. Però, non so perché, forse perché sto invecchiando, da un po’ di tempo non riesco a immedesimarmi in certi imprenditori, mi sento attratto irresistibilmente dalla mia identità di contribuente, di professionista a Partita Iva, e mi faccio domande strane, tipo: “quanto costano a noi contribuenti le operazioni di intervento in caso di inquinamento o di incidente in mare? Perché dobbiamo essere noi a pagare i contributi del personale imbarcato sulle navi battenti bandiera italiana?” e simili. E mi torna in mente la domanda dell’Associated Press sul caso della ‘Rena’, “Who is to blame? Is it the maritime industry, as a whole, seeking to cut costs at other expenses?”

La speranza è che certe tragedie non accadano invano e che la svolta avvenga all’interno del settore, che siano i proprietari delle navi e coloro che ne riempiono le stive con la merce loro affidata ad essere i primi a segnalare i pericoli, a denunciare le “bad practice”, a emarginare gli operatori senza scrupoli. Da questo punto di vista, dopo la “settimana nera” è successo qualcosa d’importante, anche se circoscritto ad un mercato particolare. Non è il caso della ‘Norman Atlantic’ ad aver fatto scattare la giusta reazione ma quello della ‘Bulk Jupiter’ che trasportava bauxite, scomparsa con tutto l’equipaggio. L’unico superstite si è chiuso in un muto silenzio, ma gli specialisti non hanno avuto difficoltà a capire cos’era successo, perché molti incidenti analoghi si erano verificati su navi con lo stesso carico, in particolare quelle in partenza dai porti della Malesia, anche se non tutte erano affondate. Era successo che la bauxite, che appare come una polvere composta da particelle di diversa grandezza, con l’umidità si era liquefatta, quindi, ad un movimento brusco della nave o a un’onda particolarmente violenta, il carico si era spostato tutto da un parte, la nave s’era capovolta ed era affondata in un attimo (non sono un tecnico e pertanto consiglio la lettura del testo di cui fornisco il link in nota). ((http://www.skuld.com/topics/cargo/solid-bulk/cargo-liquefaction/liquefaction-risks-from-bauxite-cargoes/))

Il 2 febbraio con un comunicato d’inusitata violenza, un’antica istituzione dello shipping greco, che esiste a Londra da 80 anni, the Greek Shipping Co-operation Committee, denunciava l’irresponsabile comportamento di quegli operatori che, pur di risparmiare, si rifiutavano di far effettuare da un’agenzia indipendente i test sulla composizione del carico, per verificare se esisteva o meno il rischio di liquefazione. ((Nigel Lowry, Dismay at lack of action after bulker tragedies, in “Lloyd’s List”, 2 febbraio 2015.)) Oppure semplicemente dichiaravano il carico classificandolo come merce di un diverso grado di pericolosità, in base alle norme fissate dall’IMO (categoria C, B, A…). Ancora una volta la piaga delle “misdeclaration”. Si parlava di “uno scandalo che fa vergogna al nostro settore”, di “comportamenti deplorevoli, oltraggiosi, totalmente inaccettabili”, si chiedeva urgentemente all’IMO di prendere delle misure, tra cui quella di mettere tra i rischi di categoria A la possibile liquefazione di sostanze polverose, ma si rivolgeva soprattutto agli operatori del settore: “without decisive action by the industry, more lives continue to be put at risk on a daily basis”. Ancora più duro il neo-Presidente del Comitato, Haralambos Fafalios: “People are taking commercial risks with people’s lives. I find it unconscionable that we should allow this to take place. We are talking about seafarers’ lives being utterly wasted. It’s unjustifiable that they have been lost. We’re not talking about a freak accident that might damage a ship, but about something that people are closing their eyes to”. Nel resoconto di “Lloyd’s List” si faceva un’amara considerazione sul mercato: con i noli delle bulk carrier prossimi allo zero, alcuni operatori avranno pensato di guadagnare caricando merce a rischio altissimo, merce che nessun comandante serio avrebbe accettato di imbarcare.

Conclusioni

Il lettore che mi avrà seguito fin qui avrà capito che non ho voluto fare “lo storico” o “il sociologo” di certa incidentalità, non ho voluto fornire versioni particolari o appoggiarne una piuttosto che un’altra sui singoli avvenimenti, ho voluto invece far vedere con quale tono, con quale approccio, con quale mentalità, con quale spirito, si può fare informazione sulla sicurezza in mare o si può formulare giudizio, commento. Chiudo queste riflessioni con la convinzione ancora più forte di prima che occorre cambiare mentalità, occorre mettere al centro l’uomo lavoratore, perché è da lui che dipende se una tecnologia è adeguata oppure no, perché l’ambiente è importante ma se non si ha rispetto per l’uomo come si può averlo per la natura? Mi pare evidente da quanto si è detto, in particolare sulla vicenda della Convenzione sul Lavoro Marittimo, che solo una pressione costante e rigorosa dei mezzi d’informazione può assicurare che nei nostri paesi le interpretazioni che vengono date alle norme dell’IMO corrispondano ai principi ispiratori della MLC. E’ di fondamentale importanza il ruolo che può svolgere l’informazione, quella specialistica e quella generalista, nel tenere desta l’attenzione, evitando il sensazionalismo. ((

Evitando magari di fare fronzoli letterari. Ho riportato in appendice l’editoriale del quotidiano di un posto di mare come Trieste a proposito della ‘Norman’. La città, che è stata una delle capitali della marineria e oggi un centro mondiale della vela, avrebbe meritato forse qualcosa di meglio.

  1. ))

 E’ il ruolo di formazione di una mentalità, di una cultura, di un’opinione pubblica che, se degenerano, come spesso accade oggi purtroppo, producono più disastri del più irresponsabile armatore, del più sconsiderato comandante, del più disonesto funzionario pubblico. Proprio nella vicenda della ‘Costa Concordia’, come ebbi modo di sostenere all’epoca dell’incidente,((v. furiacervelli.blogspot.com/…/costa-concordia-la-movida-galleggiante.html,

http://www.humanitech.it e altro.))

è più vergognosa, più idiota, la trovata turistica dell'”inchino”((Consiste nel far passare la nave rasente la costa di fronte a luoghi di particolare attrazione turistica e naturalistica. Quando il Ministro Clini, che non era certo un Torquemada, emanò un decreto che regolamentava questa pratica idiota, ci fu una levata di scudi da parte della lobby crocieristica, che dipinse a tinte fosche le conseguenze di quel decreto: “70 mila posti di lavoro a rischio!” Finché in Italia esiste gente così, finché questa è la nostra imprenditoria turistica, possiamo solo aspettarci il peggio.))- accettata come normale e magari divertente dall’opinione pubblica – o la fuga di Schettino?

Ma è ancora più importante tenere a mente le ammonizioni di Svensen. Occorre un’attenzione istituzionale sugli incidenti, occorre censirli attentamente, occorre che si rendano pubbliche le perizie tecniche sul perché e per come sono avvenuti. Occorre che ci sia un soggetto terzo deputato alla raccolta e alla diffusione di queste informazioni. Può esserlo l’Authority sui trasporti? Oppure in nome della concorrenza e del libero mercato continueremo a permettere l’osceno gioco di roulette russa con le vite umane?

So che questo mio scritto, se viene in certe mani, sarà giudicato “denigratorio”. In realtà, se lo si legge con occhi onesti, si capisce che è redatto pensando alle migliaia e migliaia di ufficiali e di lavoratori del mare che ogni giorno con abnegazione, dedizione e professionalità portano in giro per il mare le 85 000 imbarcazioni commerciali attualmente in servizio. Sono persone che sanno affrontare gli imprevisti con freddezza, che curano gli interessi dei loro datori di lavoro con serietà, che se sbagliano pagano di persona e molto spesso pagano per errori e manchevolezze di altri. Penso a tutti coloro che nei porti, a terra, sono da supporto a questa gente. E’ per questi uomini che occorre tenere alta la guardia. Chiudo pensando che un giorno mi sarebbe piaciuto poter stringere la mano a quel comandante della ‘Emma Maersk’, 170 mila tonnellate, che si è trovato a dover salvare una nave diventata improvvisamente quasi ingovernabile, mentre era in convoglio nel Canale di Suez, seguito a distanza d’allarme da una gasiera.((Marine Accident Report, December 2013, www.dmaib.com.)) E ci è riuscito.

Appendice I

http://www.internazionale.it/opinione/sergio-bologna/2014/12/30/perche-tutti-questi-incidenti-sulle-navi

Ancora una tragedia su una nave traghetto. Su queste navi, che trasportano quotidianamente migliaia di passeggeri, l’incidentalità è la più elevata rispetto alle altre tipologie di naviglio. I progressi della tecnica di costruzione in questi ultimi anni sono stati notevoli. Nel risparmio di carburante, nella tenuta in mare, nella sicurezza in generale. Ma anche la nave dotata delle più sofisticate tecnologie può diventare insicura se viene gestita in maniera sbagliata e se nelle operazioni portuali non vengono rispettate certe regole. Come sempre, è la deregulation del lavoro la causa dei principali incidenti. Non sappiamo ancora quali sono state le cause che hanno provocato l’incendio sulla “Norman Atlantic”, una nave ispezionata il 19 dicembre e trovata in ordine, costruita nel 2009, quindi giovanissima rispetto a una flotta mondiale che nel settore dei traghetti vede in esercizio navi con età media di vent’anni. Certamente è emerso che qualcosa nelle operazioni d’imbarco non era proprio in ordine, si sono trovati dei clandestini, non si sa quante persone erano a bordo. Purtroppo questa è un piaga, soprattutto nei collegamenti tra paesi del basso Adriatico, che è una via della droga e del contrabbando di uomini ed altro. Insufficienti controlli di frontiera. Inoltre, nei traghetti si sposano due mercati del lavoro tradizionalmente soggetti al rispetto molto “disinvolto” delle regole, quello dell’autotrasporto e quello marittimo- portuale. I traghetti sono di due tipi: quelli misti, passeggeri e merci, chiamati ro-pax e quelli tuttomerci. La stiva di ambedue è occupata da veicoli. Una delle principali cause d’incidenti si verifica quando i veicoli, soprattutto i veicoli pesanti, i camion, non vengono bene agganciati al pavimento della stiva (il cosiddetto “rizzaggio”) perché, in caso di forte moto ondoso, i camion si spostano e la nave rischia di ribaltarsi. Su chi debba effettuare l’operazione di “rizzaggio” e su chi debba effettuare le operazioni di imbarcare e sbarcare i mezzi pesanti (si tratta in genere di semirimorchi o di camion con autista) c’è diversità di opinioni. Gli armatori sostengono che queste cose le possono fare gli stessi uomini dell’equipaggio (cosiddetta “autoproduzione”). Certo, risparmiano sui costi portuali e la legge purtroppo glielo consente. E’ a discrezione del Presidente dell’Autorità Portuale concedere o meno l’autoproduzione. Altri sostengono che deve essere la mano d’opera portuale specializzata a sbarcare e imbarcare i camion ed a provvedere alla loro messa in sicurezza, perché gli uomini dell’equipaggio, durante la sosta della nave in porto, hanno molte altre cose da fare, dalla manutenzione al controllo appunto dell’identità dei passeggeri. Il grande pubblico viene tenuto all’oscuro, ma incidenti mortali nella fase d’imbarco o sbarco di veicoli pesanti dovuti a fretta o inesperienza o, addirittura, com’è accaduto a Brindisi, all’utilizzo di forza lavoro irregolare, non sono infrequenti. E ciò che suscita scandalo è che il ricorso a queste pratiche non viene fatto soltanto da armatori borderline ma anche da società amatoriali di fama, alle quali è legata l’immagine del nostro paese nel mondo.

Altre due cause d’incidenti nei traghetti sono la difettosa chiusura del portellone e la falsa dichiarazione sul tipo di merce trasportata sui camion (es. merce pericolosa dichiarata come normale). Nel primo caso, la nave imbarca acqua, soprattutto in condizioni di mare avverso, e può affondare. Nel secondo caso, purtroppo assai frequente nelle navi portacontainer, la merce pericolosa, per esempio sostanze infiammabili, non dichiarata o dichiarata normale, può provocare incendi ed esplosioni (com’è avvenuto alla “MSC Flaminia” in mezzo all’Atlantico nel 2013). L’incendio sulla “Norman Atlantic” potrebbe aver avuto la stessa dinamica? I camionisti scomparsi che cosa trasportavano? La dogana greca ha fatto tutto il suo dovere?

Questa tragedia può servire d’insegnamento, ne tengano conto coloro che stanno lavorando all’imminente legge di riforma dei porti: si vieti una volta per tutte l'”autoproduzione” nei porti italiani. Durante la sosta in porto gli equipaggi delle navi traghetto e delle navi Ro Ro debbono pensare alla manutenzione, al controllo dell’efficienza degli strumenti, debbono pensare al controllo dei passeggeri e della merce. A caricare e scaricare i camion e a metterli in sicurezza ci pensano i portuali, è il loro mestiere, vengono pagati per questo, sono stati professionalmente preparati a questo.

Sergio Bologna

Appendice II

Norman Atlantic e disciplina del lavoro portuale

Nico Capuzzo / 3 gennaio 2015

Questa mattina mi è capitato di leggere, a proposito del naufragio della nave Norman Atlantic, un intervento del prof. Sergio Bologna su Internazionale (eccolo qui), dove si sostiene che le cause dell’incidente potrebbero essere riconducibili alla deregulation del lavoro a bordo delle navi per le operazioni di rizzaggio e derizzaggio dei carichi.

Bologna nel suo parere dice: “Si vieti una volta per tutte l’autoproduzione nei porti italiani”. Vietare l’autoproduzione alle compagnie di navigazione significa limitare la facoltà degli armatori di utilizzare proprio personale di bordo per svolgere le funzioni di rizzaggio e derizzaggio dei carichi a bordo delle navi traghetto. A beneficiarne sarebbero le compagnie portuali che già oggi in molti scali godono di un’esclusiva su questa attività.

L’intervento su Internazionale si conclude dicendo: “A caricare e scaricare i camion e a metterli in sicurezza ci pensino i portuali, è il loro mestiere, vengono pagati per questo, sono stati preparati a questo.”

A mio parere accostare il delicato tema del lavoro portuale al naufragio della Norman Atlantic è quantomeno fuorviante e pretestuoso (senza voler mancare di rispetto al prof. Bologna con le cui tesi spesso mi sono trovato invece concorde).

In attesa che gli esperti e la Magistratura accertino le cause di questo incidente, è stato possibile fin da subito escludere (nonostante la confusione creata spesso da alcuni media generalisti) che la nave fosse “una carretta del mare” (semmai era una delle unità più moderne e apprezzate sul mercato: leggi qui), che ci fossero troppi camion in stiva (il Comandante nel suo interrogatorio ha detto che il garage era carico al 75% della capienza complessiva) e che l’incendio possa essere stato innescato da semirimorchi carichi di olio che per le condizioni marine avverse vagavano qua e là nel garage come fossero saponette in una vasca (anche quest’ultima ipotesi è stata esclusa fin da subito).

Secondo chi conosce bene queste navi e queste linee, una delle cause più probabili per l’innesco dell’incendio potrebbero essere i fornelletti per cucinare o altri sistemi di riscaldamento installati a bordo dei camper e dei camion imbarcati. Probabilmente dimenticati accesi o utilizzati da qualche clandestino nascosto nei camion. Le esperienze passate hanno dimostrato che spesso sono queste le cause più comuni di incendio nelle stive delle navi traghetto. Una volta scoppiato l’incendio in mezzo al mare, il vento fa il resto.

Per questo ritengo sia fuorviante parlare di deregulation del lavoro portuale come possibile causa di un incidente come quello che ha colpito la Norman Atlantic. L’armatore Emanuele Grimaldi, convinto sostenitore dell’autoproduzione in banchina, quantomeno come possibile strumento di negoziazione con le compagnie portuali, da tempo sostiene che i suoi marittimi conoscono le navi meglio dei portuali e che il lavoro di rizzaggio/derizzaggio dei carichi saprebbero farlo come, se non meglio, dei colleghi che lavorano a terra (leggi qui). Ovviamente do per scontato il rispetto di tempi e condizioni di lavoro accettabili che nel trasporto marittimo sono regolate da varie Convenzioni Internazionali (l’ultima in ordine cronologico è la MLC 2006).

Chi può dimostrare l’assunto per cui il rizzaggio delle merci in stiva svolto dai portuali sia più sicuro rispetto alla stessa funzione svolta dai marittimi di bordo? E’ vero, come dice Bologna, che i portuali sono stati preparati a svolgere queste attività, che è il loro mestiere e che vengono pagati per questo, ma la vera domanda è se sia giustificato o meno questa riserva di lavoro. Sul fatto che vada riorganizzato il lavoro nei porti e nei centri logistici italiani credo siano tutti d’accordo, ma rendere il lavoro portuale un servizio di interesse generale come vorrebbe le compagnie genovesi CULMV e Pietro Chiesa e la savonese Rebagliati (leggi qui), credo vada in direzione contraria al libero mercato e ai dettami dell’Unione Europea. Tantomeno credo sia lungimirante salvare le compagnie portuali con gabelle imposte ai terminalisti (vedi il caso di Genova) o con il salvataggio pubblico (come nel caso dell’ALP Livorno: leggi qui).

Forse sarebbe il caso più semplicemente di “far tornare i conti”, proporzionare i lavoratori delle Compagnie all’effettiva necessità del porto in relazione ai traffici movimentati (a Genova i volumi reggono ma 1.000 portuali evidentemente i terminalisti non se li possono permettere), stabilire regole chiare e aumentare i controlli sulle situazioni irregolari (mi riferisco soprattutto a quello che talvolta succede nel panorama della logistica dove il lavoro è completamente in mano alle cooperative).

Si lavori per trovare un inquadramento giuridico valido e applicabile contemporaneamente alle realtà portuali e retroportuali. Perché un container movimentato a La Spezia non è diverso da un container movimentato all’interporto di Verona, e un muletto guidato in banchina a Genova non è diverso da un muletto guidato presso la piattaforma logistica di Amazon a Castel San Giovanni (Piacenza).

E se proprio si vuole chiamare in causa la tragedia del Norman Atlantic lo si faccia per affrontare il delicato tema dell’immigrazione clandestina che da molti anni (basti digitare “clandestini Patrasso” o “clandestini Igoumentisa” su YouTube) ha nelle linee marittime fra Italia e Grecia una delle direttrici principali dei traffici di persone. Questo sembra non interessare a nessuno.

Appendice III

Fabrizio Vettosi 4 gennaio 2015 alle 14:36

Scusatemi se intervengo sull’argomento che vede protagonisti alcuni amici (Sergio Bologna e Nicola Capuzzo) che stimo per la loro competenza. Ho commentato qualche giorno fa per Il Secolo IX e per un altro blog l’accaduto, ed il primo commento che mi viene da fare è sicuramente in linea con quanto sostiene il nostro ultimo lettore. ovvero il sensazionalismo giornalistico e giudiziario (con i PM in cima alle gru ma che non sono forse mai saliti su una nave) che, quando si tratta della modalità marittima, raggiungono l’apice spettacolistico, sino ad inviare, al freddo con -2°, un giornalista per due giorni davanti alla sede della Visemar pensando di scoprire chissà quale arcano; e che dire del reiterato concetto errato, cercando di creare sospetto nella pubblica opinione, che la nave “ha cambiato tre volte il nome e proprietario in 5 anni”, confondendo tra armatore, linea, noleggiatore, etc. Insomma come al solito, scarso spirito di lobby, litigiosità e spazio per i detrattori ignoranti ed in malafede pronti al cannibalismo giornalistico. Ovviamente cosa diversa quando un’incidente è causato da altra modalità logistica; vogliamo forse ricordare quanti morti causa l’autotrasporto irregolare ogni anno ? e nemmeno un aereo che cade con 200 persone a bordo fa notizia come una nave che subisce una sciagura. Sono salito almeno tre volte sulla Norman Atlantic, ed era un’ottima nave, gli armatori sono persone molto serie e scrupolose e la nave era al limite dell’intake, quindi chi conosce bene le problematiche connesse al rizzaggio e derizzaggio sa bene che il rischio in questi casi è limitato. Non penso che occorra ricercare a tutti i costi un colpevole, anche se nel nostro sistema giustizialista ciò avviene quasi sempre, non penso che esistano portuali bravi ed “autoproduttori” meno bravi, la professionalità non va mai a scapito della sicurezza e, su ciò, penso che il settore armatoriale abbia fatto negli ultimi decenni passi enormi nel rispetto delle normative internazionali che come sapete sono estremamente stringenti (SOLAS, IMO, Marpol, etc.). D’altro canto, nel traffico di linea pax e merci, la reputazione è un asset intangibile strategico che ogni compagnia tende a preservare, pena la compromissione della propria posizione competitiva. Perché, quindi, non pensare che con mare Beaufort 8 e venti ad oltre 40 nodi, non possa essersi trattato di fatalità; con quel vento e, tenuto conto, dove si è sviluppato l’incendio (ponte alto) è molto possibile che il propagarsi di fuoco e fumo, alimentato dal vento stesso, non possa essere stato arginato dal sistema antincendio. Non voglio alimentare polemiche, ma forse, tenuto conto che eravamo a 15 miglia dalla costa Albanese (meno di Napoli-Capri) forse si poteva fare qualcosa in più in tema di tempestività nei soccorsi. La prova, peraltro, che l’equipaggio ed il comandante abbiano fatto il proprio dovere, a mio avviso, si evince dal fatto che sembrerebbe che non ci siano vittime a bordo. Ricordo anche che a bordo c’erano molte cisterne con olio d’oliva e che, quindi, la tesi evidenziata da Nicola non è del tutto peregrina, sappiamo bene, infatti, che molti trasportatori, all’insaputa dell’equipaggio, sostano nei mezzi guidati, o accendono fornellini da campeggio; purtroppo la nave non è un aereo e, nonostante, la massima perizia ed attenzione, certi fenomeni possono sfuggire.

Appendice IV

“Il Piccolo” di Trieste, 31 dicembre 2014

QUELLA NAVE E L’ANGOSCIA DEI RACCONTI DI MARE

di PIER ALDO ROVATTI

Dunque il 2014 si chiude con la tragedia del traghetto partito da Patrasso e mai arrivato ad Ancona. Alle fiamme divampate nella stiva si sono aggiunti il mare a forza otto e un vento impetuoso e gelido. Abbiamo letto testimonianze drammatiche. Abbiamo letto testimonianze drammatiche sulle centinaia di naufraghi in attesa di essere soccorsi, bloccati per infinite ore sui ponti più alti della nave tra il fumo poderoso dell’incendio e un gelo assiderante. Qualcuno invaso dal panico si è gettato in mare, qualcun altro ha cercato un po’ di caldo avvicinandosi in modo assurdo a quelle fiamme capaci di sciogliere le suole delle scarpe. Alla fine, dall’acqua e dall’aria, i soccorritori li hanno lentamente salvati, quasi tutti, anche se non si conoscono ancora le cifre precise dei morti e dei dispersi. Cosa ci dice questo dramma di mare? Facciamo fatica a tirare un sospiro di sollievo per una strage che poteva avere proporzioni allucinanti: le testimonianze angosciate contrastano con la soddisfazione di un esito positivo, e restano dubbi sulle condizioni di sicurezza del traghetto e anche sul numero esatto di quanti erano effettivamente a bordo. È vero che molte porte tragliafuoco erano appena state dichiarate fuori uso o malfunzionanti, e che insomma si sapeva che le condizioni di sicurezza del traghetto erano precarie? È vero che la lista dei viaggiatori non tiene conto di coloro che si sono imbarcati in modo non ufficiale, cioè clandestino? Queste domande, che chiedono risposte puntuali, avvelenano un poco il sollievo diffuso. Ma forse il dramma del traghetto alla deriva ci invia un messaggio che oltrepassa tali aspetti e altri analoghi che dovranno comunque essere chiariti. È un messaggio che ci invia ancora una volta la potenza distruttiva del mare in tempesta e lo scatenamento degli elementi atmosferici. Perfino l’incendio a bordo, che può essere ricondotto solo in parte al caso, appartiene a una scena che non ci è nuova e che staziona nella nostra memoria. Quante volte abbiamo trovato in letteratura il furore del mare in tempesta e il comportamento dell’uomo di fronte a esso? Per un lettore di Joseph Conrad è uno scenario quasi famigliare, e già si va indietro di centocinquant’anni (e si potrebbe indietreggiare di moltissimo). Non vorrei essere però frainteso. Non sto affatto minimizzando questo evento che abbiamo sotto gli occhi, con le sue vittime, le sue terribili paure e sofferenze, e anche con le sue derive di eventuali dubbi e responsabilità. Al contrario, vorrei ingrandirne la dimensione al livello di una vera tragedia, di un “racconto” al tempo stesso epico e quotidiano nel quale il mare, la bufera, il fuoco e infine il caso avverso, restano i padroni di un teatro che sembra immodificato nonostante i miracoli della tecnologia. Voglio evidenziare che questo teatro è ancora il nostro, malgrado tutto, e che ci deve far pensare. Avremmo però bisogno di raccontarlo senza parole accomodanti, senza tradirlo. Forse non ne siamo più capaci se non ricorrendo alle retoriche dei sentimenti buoni e delle dietrologie sospettose. Perciò ho appena ricordato Conrad, cioè uno che del mare conosceva, per così dire, l’anima misteriosa e brutale, e che ha avuto l’ingegno di raccontarcela; uno che si sentiva a casa sua solo quando stava su una nave (le navi di allora!), anche se scoppiava la tempesta. Dalle pagine di Tifone a quelle di Lord Jim e di Cuore di tenebra, abbiamo appreso quel messaggio che ora ci pare di ascoltare anche dalle cronache del traghetto in fiamme e assalito dai marosi. Ma non abbiamo più un Marlow (la voce narrante di tanti romanzi di Conrad) capace di raccontarci l’evento alla sua altezza. Disponiamo solo di segmenti di cronaca spicciola che producono un pragmatismo drammatico quanto superficiale di cui, alla fine, ci restano solo sensazioni vaghe e banali. Avvertiamo che il messaggio che ci arriva dalla drammatica vicenda del traghetto potrebbe contenere ben altro, oltre la paura e poi il sollievo per aver evitato il peggio, ma semplicemente non abbiamo le parole (la cultura?) per comunicarlo a noi stessi e agli altri.

Febbraio 2015

Poscritto del 5 settembre 2015

Abbiamo citato più volte il caso del cargo “Bulk Jupiter”, affondato il 2 gennaio di quest’anno coi suoi 19 membri d’equipaggio, di cui uno solo, il cuoco di bordo, si è salvato. Il 18 agosto è uscito il Rapporto Ufficiale sull’incidente, redatto dall’Autorità Marittima delle Bahamas, paese di bandiera della nave, con sede a Londra.((http://www.bahamasmaritime.com/downloads/Reports%20-%202001%20to%20date/Bulk%20Jupiter%20Final%20Report.pdf ; ringrazio Riccardo Degli Innocenti per la segnalazione.)) Man mano che si avanza nella lettura, il rapporto appare come un lavoro accurato e scrupoloso, ma questa impressione crolla miseramente nelle due paginette di conclusioni. Vediamolo in dettaglio.

Il cargo, costruito in Giappone nel 2006 e quindi di competenza della società di classificazione giapponese, la ClassNK – pesantemente sotto accusa per il caso “MOL Comfort” di cui abbiamo parlato – era partito dal porto thailandese di Maptaphut il 9 dicembre 2014 diretto al porto malese di Kuantan per imbarcare un carico di bauxite, dove era arrivato il 12 dicembre, ma aveva dovuto aspettare qualche giorno all’ancora prima di ottenere l’ormeggio. Le operazioni di carico avevano dovuto essere interrotte più volte a causa delle piogge eccezionali di quei giorni e per guasti tecnici alla gru, sicché la nave ha potuto ripartire solo il 30 dicembre per fare rotta verso il porto cinese di Quingdao. In navigazione aveva ricevuto una notifica di allerta da parte del servizio FleetWeather che una tempesta tropicale si avvicinava alla zona con onde alte sino a 5 metri e suggeriva una rotta alternativa. Ma la nave aveva cambiato destinazione su istruzioni del noleggiatore giunte il 31 dicembre, avrebbe dovuto fare bunker a Hong Kong prima di dirigersi verso Quingdao. Alle ore 6.54 del 2 gennaio la Guardia costiera giapponese riceveva un segnale di soccorso ed iniziava le operazioni di ricerca e salvataggio, coinvolgendo la Guardia Costiera Vietnamita che avrebbe in seguito preso in mano le operazioni lanciando segnali alle navi che incrociavano nella zona, la prima delle quali ad arrivare in prossimità della posizione segnalata fu una portacontainer della ZIM, che fu investita del ruolo di On Scene Coordinator. Ma i soccorritori non trovarono traccia del cargo, recuperarono un superstite, il cuoco di bordo, e due corpi, quello del comandante della nave, ancora in vita, ma che sarebbe deceduto poco dopo, e quello del primo ufficiale. Si stima che la nave sia affondata il 2 gennaio tra le 6.54, ora della richiesta di soccorso, operata manualmente da qualcuno ancora in plancia e le 7.00, ora in cui la richiesta è stata captata dalle Autorità Marittime vietnamite che hanno cercato di mettersi in contatto con la nave senza ottenere risposta. Il cuoco di bordo ed i corpi dei membri dell’equipaggio deceduti sarebbero rimasti in acqua 8 ore prima di essere recuperati da un rimorchiatore d’altura. Il cuoco è stato trasferito dopo alcune ore sulla nave soccorso “SAR 413” ed è stato sbarcato nel porto vietnamita di Vung Tau verso le 16 del 4 gennaio. All’epoca si disse che non aveva voluto collaborare alle indagini, di questo fatto non c’è menzione nel rapporto.

Da una descrizione più dettagliata dei fatti, contenuta nella sezione 3 del Rapporto, risulta che il tempo alla partenza era buono, che il pilota non aveva notato nulla di irregolare nel portare la nave fuori dal porto e che il comandante aveva comunicato al proprietario della nave, la società norvegese Gearbulk, ed alla società Winning Shipping Ltd di Singapore che l’aveva noleggiata, il tempo stimato di arrivo a Quingdao (ore 10.00 dell’8 gennaio). Dopo qualche ora il tempo cominciava a peggiorare e arrivava, la mattina del 1 gennaio, la notifica di allerta per il monsone tropicale che la nave avrebbe incontrato se avesse proseguito verso Nordest in direzione della Cina; FleetWeather raccomandava di spostarsi verso Est per evitarlo ( Fleetweather recommends vessel commence immediate RL-10N/111E, RL 09N/120E, then most direct to Quingdao via east of Taiwan…) ma dalla nave si rispondeva che l’itinerario era cambiato, dovendo prima fare bunker a Hong Kong, secondo indicazioni del noleggiatore comunicate il 31 dicembre e chiedeva suggerimenti per una via alternativa su South West Lamma Anchorage di Hong Kong, distante più di mille miglia nautiche a sud di Quingdao, uno dei porti del Nord della Cina. Dal Rapporto non risulta se l’abbia ottenuta, risulta che l’ultimo e mail inviato dalla nave al proprietario ed ai noleggiatori sia stato delle 12.54 del 1 gennaio con la conferma di un arrivo al terminal del bunker alle ore 9.00 del 5 gennaio. Ma dalle ore 23 circa del 31 dicembre la nave aveva cominciato a ridurre la velocità; quella necessaria a raggiungere la destinazione nei tempi che erano stati comunicati era di circa 10 nodi, la nave prima del naufragio procedeva a 5 nodi, come se invece di cambiar direzione il comandante avesse pensato di poter meglio affrontare le onde riducendo la velocità. Oppure erano proprio le onde e il vento a rallentarne la corsa? A questo punto è determinante la testimonianza del cuoco.

La sera del 31 avrebbe preparato il necessario per festeggiare la mezzanotte (“senza alcool” – precisa – “solo è stata stappata una bottiglia di champagne per quelli che volevano fare un brindisi”), poi, la mattina del 2, dopo che nel corso delle 24 ore precedenti il tempo era andato peggiorando molto, si era svegliato alle 6 in punto per preparare la colazione, finito il lavoro era rientrato in cabina con la nave che rollava paurosamente, alle 6.40 circa era scattato l’allarme con l’ordine all’equipaggio di presentarsi sul ponte di comando, vi si era diretto ma aveva incontrato altri membri dell’equipaggio che gli avevano detto di raggiungere invece le scialuppe di salvataggio collocate a sinistra sul ponte A. Ritornato precipitosamente in cabina per raccogliere il suo patentino, il giubbotto di salvataggio e la tuta d’immersione, aveva avvertito che la nave, arrestato il rollio, restava inclinata a 45°, c’è il black out, si accendono le luci di emergenza ma ormai è impossibile raggiungere la posizione delle scialuppe. Allora l’uomo infila la scala interna dove incontra il Comandante che gli ordina di seguirlo, riescono a raggiungere l’esterno e si trovano su una piattaforma a dritta già quasi sommersa dalle onde, il capitano si butta in acqua con il salvagente indosso, si butta anche lui dopo aver indossato il giubbotto, cercando di raggiungere una zattera di salvataggio che galleggiava con nessuno sopra, non ci riesce, i due uomini nuotando si allontanano il più possibile, quando si voltano la nave è scomparsa nei flutti. Se le ultime evidenze di vita a bordo sono il distress signal ricevuto dalla Guardia Costiera giapponese alle 6.54 e quello ricevuto dai vietnamiti alle 7.00 vuol dire che la nave si è inclinata e poi capovolta nel giro di una decina di minuti, inabissandosi con i 16 uomini dell’equipaggio mai trovati.

Non c’era bisogno dell’inchiesta per capire che qualcosa era successo al carico e che questo qualcosa aveva un nome preciso “liquefazione”. L’ipotesi era stata formulata subito dopo l’incidente. Gli estensori del Rapporto concentrano quindi la loro attenzione sul modo in cui viene estratta, trasportata al porto d’imbarco e depositata la bauxite. Prima però verificano lo stato della nave e delle sue dotazioni di bordo e l’adempimento o meno di tutti gli obblighi previsti in materia di sicurezza e di piena efficienza. La nave risultava essere sotto contratto di time charter con la società Winning Shipping Ltd di Singapore dal 9 dicembre, i membri dell’equipaggio però navigavano da anni per il proprietario, la Gearbulk norvegese, l’unico superstite addirittura dal 1996 – erano tutti filippini. Anche il Comandante (45 anni) lo era, aveva già viaggiato sul “Bulk Jupiter” altre volte ed aveva una lunga esperienza con carichi di bauxite. L’equipaggio era in sovrannumero. In sostanza, la Winning Shipping aveva potuto noleggiare una nave in piena efficienza con un equipaggio qualificato e sperimentato, almeno nelle figure chiave.

Il porto malese di Kuantan, privatizzato nel 1998, è un porto importante per la bauxite ma da poco; ha iniziato nell’aprile 2014 ed a dicembre dello stesso anno aveva già imbarcato più di 800 mila tonnellate. Come si spiega questo boom?

La Reuters l’11 agosto 2014 dava la seguente notizia da Giacarta:

Indonesia has no plans to wind back a seven-month old ban on exports of unprocessed nickel ore and bauxite that has led to billions of dollars in planned investments in smelters, top government officials said. Indonesia – previously the world’s top exporter of nickel ore and a major bauxite producer – effectively halted all but processed metal shipments in January in an effort to force miners to build smelters, winning the country bigger returns from exports of its mineral resources.

Uno dei maggiori esportatori al mondo di bauxite aveva deciso dunque di bloccare l’esportazione di quella allo stato grezzo, per costringere i produttori a investire in macchinari di processo e ricavarne insomma un maggior valore aggiunto. Quindi erano state aperte o riaperte in tutta fretta le miniere malesi per sostituire la bauxite indonesiana ed il porto di Kuantan aveva visto le sue banchine riempirsi di navi. Ne traevano vantaggio soprattutto gli esportatori di bauxite grezza. Il minerale viene da miniere a cielo aperto esistenti nelle vicinanze, viene stoccato in prossimità o dentro la cinta portuale, prelevato da camion ribaltabili che lo depositano a ciglio banchina dove le gru di bordo lo caricano nelle stive con le benne. Come si vede dalle foto allegate al rapporto, per il minerale grezzo, unprocessed, non c’è nessun riparo, nessuna copertura a protezione degli accumuli, il minerale rimane esposto alle intemperie tutto il tempo che precede la sua immissione nelle stive; solo a quel punto viene protetto dai portelloni. Le miniere più grandi e meglio attrezzate lavano e filtrano il materiale prima di avviarlo direttamente al porto su dei camion telonati, che assicurano quindi una certa protezione. Nei giorni in cui il “Bulk Jupiter” rimase ormeggiato a Kuantan si verificarono delle piogge in quantità mai vista da un secolo a questa parte, costringendo le operazioni di carico ad arrestarsi per l’equivalente di più di 8 giorni lavorativi. Se si aggiungono i quattro giorni in cui la nave è rimasta all’ancora in attesa di un ormeggio libero, si può immaginare il disappunto, la rabbia e la fretta di chi l’aveva appena noleggiata, fattori questi che contribuiscono a creare quella commercial pressure che fa mettere in secondo piano la preoccupazione per la sicurezza. Degli uomini, perché la sicurezza della merce è un problema assicurativo.

Alla partenza “Bulk Jupiter” aveva imbarcato 46.400 tonnellate di bauxite grezza (raw and unwashed) proveniente direttamente dalla miniera. Il ritardo nelle operazioni di carico creava qualche problema, costava fior di dollari. Era necessario recuperare il tempo perduto in navigazione? Gli investigatori non si pongono questa domanda, puntano subito al sodo: la composizione fisica del carico.

Fuori dal porto di Kuantan c’è l’Inspectorate Malaysia, controllato dal gruppo Bureau Veritas, la società di classificazione francese, che offre a terzi il servizio di test della condizione fisica dei carichi di bauxite, ne preleva dei campioni – su richiesta del caricatore o dell’armatore o semplicemente del comandante – per accertarne il tasso di umidità, la percentuale di umidità necessaria a raggiungere il punto di stato fluido (FMP, flow moisture point) e il massimo di umidità accettabile per poter trasportare su nave il materiale in sicurezza (TML, transportable moisture limit). Senonché, le norme riguardanti il trasporto marittimo di rinfuse solide (Individual Schedules for Solid Bulk Cargoes) nello specificare che il caricatore è obbligato a fornire informazioni esatte e dettagliate sulle caratteristiche chimiche e fisiche del carico, che il comandante può interpellare le autorità dei porti di carico e scarico sui criteri di accettazione della merce, precisa anche che per la bauxite no test is required, non c’è l’obbligo di prelevare dei campioni e di farli esaminare da un ente indipendente. Nella scheda riguardante la bauxite il minerale viene descritto come un materiale con contenuto di umidità massimo del 10%, per il 70% e fino al 90% composto da granuli di diametro da 2,5 mm a 500 mm e da polvere per il 10% e fino al 30%, con un fattore di carico (tonnellata per metro cubo) che va da 0.72 a 0.84 e che per quanto riguarda il modo di manipolarlo, stoccarlo, trasportarlo, le precauzioni da prendere in rapporto alle condizioni atmosferiche ecc., non sono richieste misure di prudenza specifiche, no special requirements, insomma un materiale che non presenta rischi di sorta. Ma il punto chiave è che il Codice che regola il trasporto di rinfuse solide (IMSBC, International Maritime Solid Bulk Cargo Code) nella sua Appendice 1 non definisce la bauxite come materiale a rischio di liquefazione, malgrado i numerosi incidenti che si sono verificati in questi ultimi anni (v. pp. 20/21 del mio testo e note 40,41 e 42).

Questa lacuna ingiustificabile delle normative lascia interamente alla conoscenza e all’accortezza del comandante la responsabilità di assumersi l’onere di far testare il grado di umidità del carico prima di accettarlo. Solo lui? E chi noleggia la nave, ha la responsabilità dell’itinerario e fissa lo scheduling, ha la responsabilità commerciale e assicurativa del carico, quello se ne lava le mani? Proprio così, nel nostro caso. Scrive il Rapporto, a pagina 8:

Bulk Jupiter was under Time Charter with Winning Shipping Ltd based in Singapore. The contract agreement was signed on the 09th December 2014 which stipulates reporting requirements and detailed instructions to which Bulk Jupiter is understood to have complied. The BMA attempted to establish a line of communication with Winning Shipping Ltd to confirm the extent to which Bulk Jupiter had complied however no response was received.

Winning Shipping si è sottratta alle indagini, non ha risposto alla richiesta di informazioni degli investigatori. A Kuantun dello stato del minerale sembra non interessarsi nessuno, per primi non i proprietari delle miniere che lo accatastano in porto senza nemmeno una tettoia, non l’autorità portuale, non il consorzio che gestisce le operazioni di handling e che probabilmente si chiama fuori perché la nave viene caricata con le gru di bordo, non l’agente marittimo di Winning Shipping, che si limita a scrivere nello “Statement of the Facts” controfirmato dal comandante che “la bauxite, trasportata su camion scoperti e depositata in porto era bagnata dalla pioggia (wetted by the rain) prima di essere imbarcata”. Piogge che non si vedevano da cent’anni e di cui il Comandante deve aver parlato con le due Compagnie se non altro per giustificare le continue interruzioni delle operazioni di carico, che hanno fatto perdere più di 8 giorni di lavoro, solo in minima parte dovute ad un guasto nelle gru. Gearbulk, il 24 dicembre, suggerisce di fare un test secondo le procedure dell’IMSBC, un cosiddetto “Can Test”, che non è accurato come quello sulla base del prelievo di campioni del materiale ma che comunque dà qualche indicazione. Non ci sono documenti che attestano se il test è stato effettuato o no. L’altra società, la Winning Shipping, ha scelto il silenzio.

The Charterers, Winning Shipping, have not been forthcoming in providing any information to assist in this investigation. This is regrettable as the instructions requested from the Master, to which he must comply, under the terms of the Charterers General Instructions, state under section “Cargo availability/Dead Freight” the Charterers request from the Master a daily record of any quantity of drainage cargo moisture pumped overboard during the voyage, and report the drained amount every 48 hours. On arrival at discharge port the vessel is

Al porto d’arrivo, secondo le Charterers General Instructions, il comandante deve presentare un dettagliato rapporto sulle condizioni del carico, ivi compresa la quantità di acqua presente in stiva che è stata pompata ed espulsa. Il rifiuto di collaborare da parte di Winning Shipping non ha permesso di sapere se il comandante aveva preso questo provvedimento nelle 56 ore in cui la nave è rimasta in mare dopo la partenza da Kuantun.

hours; no evidence has been provided to confirm or deny that a daily record was being recorded by the Master and sent to Winning Shipping. This vital piece of evidence could assist in determining the Master’s awareness of whether water was present in the cargo holds and what subsequent action was conducted as a result.

Gli investigatori sono venuti in possesso di una dichiarazione da parte del caricatore (la società OXI PTE Ltd) sullo stato fisico del materiale ed il suo grado di umidità, rilasciata l’11 dicembre, una settimana prima dell’inizio delle operazioni di carico del “Bulk Jupiter” ed è stata messa a confronto con le dichiarazioni relative a due altre navi che avevano caricato bauxite poco dopo il “Jupiter”. Tutte e tre riportano gli stessi parametri contenuti nella definizione della bauxite dell’IMSBC, come se fossero state copiate pari pari, quindi con tasso di umidità del 10%. Qualcuno si era preoccupato però di controllare lo stato del minerale, un esportatore, Good Boss Resources SDN, BHD, aveva dato mandato di effettuare dei prelievi di campioni e di testarne il grado di umidità dal giorno 17 al giorno 30 dicembre; i dieci test che sono stati così effettuati hanno accertato un grado di umidità sempre superiore al 21%. I risultati erano stati consegnati il 17 gennaio, una data posteriore al preventivato arrivo del “Bulk Jupiter” a Quingdao e questo semplice fatto dimostra, secondo gli investigatori, che non erano stati effettuati a beneficio del Comandante o della Compagnia del cargo affondato.

Quando la bauxite è molto umida e bagnata la distanza tra i granuli si riduce, i movimenti della nave contribuiscono a comprimere la massa che dallo stato solido passa a uno stato viscoso. Un movimento brusco della nave causato da un’onda particolarmente violenta può far spostare la massa viscosa verso un lato ma proprio il suo grado di viscosità impedisce che, ad un movimento contrario, essa torni in equilibrio, come potrebbe accadere se fosse fluida. La nave rimane dunque sbilanciata e se successivi movimenti aumentano la pressione sul lato già sotto sforzo può capovolgersi ed affondare.

Una delle navi che avevano caricato bauxite negli stessi giorni, la “Orchid Island”, mentre era in navigazione venne informata il 3 gennaio dall’operatore, Mitsui OSK Line (MOL) dell’affondamento della “Bulk Jupiter” e il comandante venne invitato a controllare lo stato del carico nelle stive. Ci era andato il primo ufficiale a controllare de visu, dichiarerà successivamente:

“to my horror I saw that the cargo in No.4 hold had liquefied and the surface of the cargo was now flat and moving to port and starboard in a jelly-like fashion. There were also pools of water in each corner of the surface of the cargo”.

Verranno drenate più di 70 tonnellate d’acqua dalle stive, la nave sarà dirottata verso il porto più sicuro e vi arriverà senza danni.

L’altra nave che aveva caricato bauxite negli stessi giorni era la “Medi Okinawa”, i controlli effettuati sul materiale hanno accertato un tasso di umidità del 15,1%, benché quello dichiarato fosse del 10%. Questo dimostra che caricare bauxite fradicia senza preoccuparsi delle conseguenze era un andazzo generale a Kuantan.

Appurato che tutte le dichiarazioni prese in esame erano risultate false, gli investigatori pongono finalmente il problema delle commercial pressure che possono aver indotto il comandante a rinunciare a una verifica dello stato fisico del carico ma lasciano cadere immediatamente il discorso e infilano una serie di citazioni dal contratto di noleggio e dai protocolli di risk management dalle quali risulta che la responsabilità delle decisioni in merito è tutta e sempre del comandante. Il manuale operativo di Gearbulk anzi raccomanda al comandante di ispezionare le stive due volte al giorno, di chiudere i portelloni in caso di pioggia e, se necessario, di sospendere le operazioni di carico, rifiutando ogni forma di indennizzo proposta dal noleggiatore o dal caricatore e interpellando in caso di dubbio la sede locale dell’assicurazione.

Viene preparata così la sentenza finale, il verdetto che esalta l’accuratezza e la correttezza di Gearbulk anche nei confronti delle famiglie delle vittime, non spende neanche una parola su Winning Shipping e addossa tutta la responsabilità al comandante deceduto per non aver eseguite le istruzioni dei suoi committenti, non aver ordinato delle ispezioni al carico, non aver richiesto un test sul tasso di umidità presente nel minerale, per non aver coordinato in maniera efficiente le azioni da compiere per l’abbandono della nave poco prima dell’affondamento. Un verdetto di condanna senza appello nei confronti di un uomo che ormai non poteva più difendersi. Seguono alcune raccomandazioni banali sulla formazione degli equipaggi, su certi dettagli dei sistemi di risk management, mentre l’Autorità Marittima delle Bahamas si impegna – bontà sua – a portare davanti all’apposito comitato dell’IMO la questione della liquefazione della bauxite….nel 2016. Gearbulk s’impegna a pagare gli studi agli orfani dei membri dell’equipaggio deceduti e giura di non mettere più piede nel porto di Kuantun.

Resta la curiosità di sapere un po’ di più di Winning Shipping Ltd. E’ una grossa società che si presenta su Internet con un bel sito dove troviamo le solite filastrocche del business globale:

SUCCESS THROUGH SERVICE QUALITY, OPPORTUNITY CREATION THROUGH INNOVATION, SUPREMACY FROM PROFESSIONALISM, MUTUAL BENEFIT FROM COOPERATION, THE POWER OF UNITY, PRUDENCE FOR THE FUTURE

Winning International Group is founded on a culture of diligence, responsibility, integrity and caring for every employee. We are committed to developing our staff and supporting them in realizing their utmost potential.

We adhere to the basic principles of: 1) Integrity: Fundamental to the success of every company, we continue to uphold our pledge of integrity, while working closely with our clients and suppliers to create opportunities for all. 2) Innovation: Over the years, Winning International Group’s success has been driven by the ingenuity of its employees and management. We will constantly engage innovative solutions to stay ahead in the competitive global market. 3) Mutual Benefit: With the support of our clients, we actively seek to create mutually beneficial situations, thus ensuring everyone profits from our endeavors.

Dispone di una flotta di 50 bulk carrier, per 1,7 milioni di tsl, leader nel commercio di bauxite, nickel, materiali ferrosi, allumina, carbone e materiali da costruzione tra Indonesia e Cina, offre diversi servizi allo shipping ed è in sostanza un trader di petrolio e commodities con volumi pari a 30 milioni di tonnellate (core business il carbone indonesiano); la sede centrale è a Singapore, la sede di Quingdao ha stretto un accordo con il Ministero dei trasporti cinese per creare una scuola di formazione degli equipaggi.

In bella evidenza sul sito la notizia della cerimonia con cui Winning inaugura in Africa una nuova linea di trasporto della bauxite dal porto di Katoukuma. Assistevano all’evento il Presidente della Guinea Sékuba Konaté ed una decina di Ministri del suo governo. Tra le 80 pagine del numero di marzo 2015 del loro magazine, ce ne sono un paio in inglese, che spiegano la filosofia della loro penetrazione in Guinea:

A trip in August 2014 to meet the government officials to cement the understanding of the concept’s advantages. The model was deep in their mind, and their mindset was ready. Then we started to draft a Logistics Convention to secure our legal position – not exclusivity, but the role of regulating the river logistics activities – both ours and the others – put us in the driving seat.

Non la vecchia logica delle concessioni, non il principio proprietario, ma regolatori del sistema logistico. Così sperano di realizzare il sogno del loro Presidente Sun Xiushun:

To be the ONE in creating the People’s Republic of China bauxite supply chain. The resources: in Guinea.

Un bell’esempio di neocolonialismo cinese in Africa, la dimostrazione di una potenza economica di fronte alla quale ogni autorità di regolazione arretra. Occorre aggiungere però che gli investigatori dell’Autorità Marittima delle Bahamas non avevano un compito facile, disponendo di un solo testimone oculare e non disponendo della maggior parte di documentazione scritta. A difesa del povero comandante, va ricordato che l’accusa di non aver ottemperato alle istruzioni ricevute non è riferita ad istruzioni impartite direttamente, di cui non c’è evidenza documentale, ma a quelle che potevano essere desunte dalla lettura attenta dei Manuali e dei regolamenti. Il ragionamento è un po’ forzato e potrebbe essere rovesciato. Infatti gli investigatori hanno dimenticato di menzionare un documento non di poco conto e cioè la Clause for Charter Party relativa alle rinfuse solide a rischio liquefazione, redatta dal BIMCO il 25 luglio 2012 e diffusa come “Special circular” ((Anche di questa segnalazione sono debitore a Riccardo Degli Innocenti,https://www.bimco.org/en/Chartering/Clauses_and_Documents/Clauses/Solid_Bulk_Cargoes_t hat_Can_Liquefy.aspx, BIMCO, Baltic and International Maritime Council, una delle più antiche Associazioni di shipowner.)) nella quale si dice esplicitamente non solo che il noleggiatore deve fornire al comandante, prima che avvenga l’imbarco del carico, i risultati dei test sul tasso di umidità ma autorizza i comandanti a rifiutare il carico o a rifiutarsi di partire se non sono certi che il carico è in condizioni fisiche di sicurezza. E’ la posizione degli shipowner che intendono tutelarsi verso chi, noleggiando le loro navi, agisce con eccessiva leggerezza. Gearbulk ha dovuto subire un total loss ed ha perduto uomini che si erano formati alla sua scuola, si sarà chiesta se scegliersi un cliente come Winning, che è anche suo concorrente nel mercato del dry bulk, sia stata una buona idea.

Sergio Bologna

Milano, 5 settembre 2015