Note di storia e attualità del dibattito sugli organismi geneticamente modificati

Scientific understanding is our joy. Economic and political understanding is our duty” 

Henry Wallace

Gli organismi geneticamente modificati (OGM) sono al centro di accesi dibattiti e controversie fin dall’inizio degli anni Settanta, ovvero quando mosse i primi passi la tecnologia che li fece nascere, quella del DNA ricombinante, e quando non esisteva ancora nessuna loro applicazione pratica. Da allora gli OGM e le biotecnologie hanno rappresentato a più riprese, da una parte, fonte di speranza e di attesa per una nuova fase di sviluppo del processo capitalistico dominata dalle scienze della vita; dall’altra parte, fonte di gravi preoccupazioni per le conseguenze potenzialmente dannose per l’uomo e l’ambiente naturale.

A seguito della scoperta della struttura spaziale del DNA, del “dogma” di monodirezionalità del flusso dell’informazione genica (DNA> RNA> proteine), dei primi risultati della genomica nella classificazione di geni e cromosomi, nel 1972 il biologo Paul Berg dell’Università di Stanford, in California, utilizzando dei particolari enzimi di origine batterica che fungono da forbici e aghi di sutura dei filamenti di materiale genetico, riuscì a creare la prima molecola di DNA proveniente da specie diverse, collegando tre geni del batterio Escherichia Coli, con un pezzo di cromosoma del Simian Virus 40, un virus che può indurre tumori nei mammiferi. L’idea di Berg era quella di utilizzare il virus, capace di integrarsi nel cromosoma della cellula infetta, come “vettore” per trasferire DNA esogeno nelle cellule di un roditore e studiarne le espressioni. Molti colleghi manifestarono a Berg la preoccupazione che batteri contenenti il genoma del virus tumorale potessero sfuggire dalle aree di laboratorio e infettare le persone, i ricercatori prima di tutti. Paul Berg decise così di non concludere l’esperimento e promosse la costituzione di un comitato di scienziati, chiamato “Committee on Recombinant DNA”, che nel 1974 pubblicò una lettera su Science e Nature, le riviste scientifiche più prestigiose nel mondo, comunicando l’esistenza di rischi biologici, “biohazards”, connessi alle nuove biotecnologie, proponendo una moratoria su certi tipi di esperimenti particolarmente pericolosi, almeno fino alla definizione nella natura e della dimensione dei rischi, nonché della loro gestione ((http://science.sciencemag.org/content/185/4148/303)). La moratoria venne accettata da tutti gli scienziati e i centri di ricerca, e Berg organizzò una conferenza sui rischi e sulla regolamentazione della tecnologia del DNA ricombinante, che si tenne nel 1975 ad Asilomar, un parco nazionale sulla costa californiana, e che coinvolse 140 tra scienziati delle università pubbliche, giuristi, funzionari governativi e giornalisti. La maggior parte degli scienziati era convinta che la nuova biotecnologia potesse aprire eccezionali opportunità nella medicina, nell’agricoltura e nell’industria ma che effettivamente sussistessero dei rischi potenziali i cui effetti sulla salute dell’uomo e sull’ambiente erano sconosciuti. Fu così che sotto gli occhi dei giornalisti (erano gli anni del Watergate) biologi, fisici, avvocati e funzionari discussero animatamente per tre lunghi giorni fino a convergere sulla decisione di sospensione della moratoria e sulla definizione di un disciplinare volontario volto a garantire la sicurezza della tecnologia del DNA ricombinante. Le linee guida di questo disciplinare, che prevedono barriere fisiche e biologiche volte a contenere nei laboratori gli OGM pericolosi, vennero poi confermate dall’Istituto Nazionale di Sanità statunitense e da enti simili in altri paesi.

Tra il 1973 e il 1974, contemporaneamente a questi accadimenti che hanno rappresentato un momento unico per la discussione pubblica sulla politica della scienza, Stanley Cohen dell’Università di Stanford e Herbert Boyer dell’Università della California, due componenti del ristretto gruppo di genetisti che aveva costituito la commissione promossa da Berg, portarono a compimento queste prime sperimentazioni biotecnologiche, riuscendo ad introdurre una molecola di DNA ricombinato -contenete i geni di resistenza ad un antibiotico- in un batterio, il quale rappresentò il primo organismo geneticamente modificato, capace di replicarsi esprimendo i caratteri determinati dalla sequenza di DNA esogeno -ovvero la resistenza all’antibiotico-. Nel 1974 le due università statunitensi decisero di richiedere il brevetto per la tecnologia del DNA ricombinante ( a nome di Cohen e Boyer come inventori) ((https://www.google.com/patents/US4237224)), aprendo di fatto l’era della commercializzazione della biologia molecolare e delle grandi promesse economiche dell’ingegneria genetica((http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=29&tipo_articolo=d_saggi&id=329#page_scan_tab_contents)).

In questo contesto estremamente delicato, Boyer venne contattato dal finanziere Robert A. Swanson, entusiasta della nuova tecnologia e delle sue potenzialità commerciali, insieme al quale fondò nel 1976 la Genentech (nome nato dalla contrazione di Genetic Engineering Technology), la prima azienda biotecnologica, che raggiunse rapidamente il successo con l’invenzione e il brevetto dei metodi biotecnologici -tramite batteri- per la produzione di somatostatina, di insulina e dell’ormone della crescita. Nei quattro anni successivi alla creazione della Genentech, nacquero oltre un centinaio di società che cercarono di replicare questo modello di business, nato dall’unione di genetisti e uomini d’affari. Molte di queste nuove aziende biotecnologiche cominciarono ad occuparsi anche della manipolazione delle piante. Alcune di queste, come Agrigenetic, iniziarono anche ad acquisire le società sementiere, vedendo nel seme la “merce-veicolo” per eccellenza delle applicazioni biotecnologiche in campo agricolo.

Monsanto, l’ azienda chimica americana nata all’inizio del Novecento per produrre dolcificanti artificiali, che poi si era espansa nella chimica di base e nella produzione di diserbanti, fu la prima grande multinazionale agrochimica a vedere nelle applicazioni dell’ingegneria genetica la via di salvezza a lungo termine delle proprie prospettive di sviluppo, turbate già allora dalle crisi petrolifere e dalle critiche dei movimenti ecologisti e dei consumatori. Nel 1976, dopo avere iniziato la commercializzazione del suo nuovo erbicida a base di glifosato, il “Round Up”, Monsanto investì decine di milioni di dollari nella creazione di un centro di ricerca interno sulle biotecnologie, iniziando a collaborare con genetisti operanti nelle Università e ad acquisire diritti sui brevetti sviluppati delle nuove società biotecnologiche, come quello sviluppato da Genentech per la produzione della somototropina, l’ormone della crescita bovina, di cui si conosceva l’effetto di stimolo alla produzione di latte e su cui Monsanto stava lavorando da diversi anni .

Gli anni ’80 si aprirono con la sentenza della Corte Suprema sulla brevettabilità degli organismi viventi e la quotazione in borsa a New York di Genentech, evento che rappresenta uno dei più rapidi incrementi di valore azionario della storia, con il valore delle azioni passato da 35$ a 88$ dopo meno di un’ora dall’inizio delle contrattazioni. Iniziò così il boom degli investimenti delle multinazionali farmaceutiche e petrolchimiche nelle biotecnologie e nelle aziende sementiere. Nel corso del decennio, forti degli enormi capitali investiti, i centri di ricerca delle società biotecnologiche e di Monsanto iniziarono a definire le tecnologie e a sviluppare le prime applicazioni dell’ingegneria genetica alle piante agrarie.

Le tecnologie elaborate per “ricombinare” il DNA delle piante furono sostanzialmente due. La prima fu basata sull’utilizzo dell’ Agrobacterium tumefaciens, batterio tumorale capace di infettare le piante attraverso la trasmissione di un segmento di DNA, che penetra all’interno delle cellule integrandosi nel loro genoma. Questo batterio, opportunamente manipolato per neutralizzare il suo effetto patogeno, si presta ad essere usato come vettore per trasferire delle parti del genoma di batteri, vegetali o animali nelle cellule di una pianta, dalle quali poi può essere rigenerato l’intero organismo grazie alle sofisticate tecniche di coltura in vitro della biologia cellulare. Successivamente fu definita la tecnologia basata sul “gene gun“, un congegno inventato da alcuni ricercatori americani della Cornell University, da questa brevettato, che permette di sparare direttamente nelle cellule delle piante dei proiettili costituiti da particelle di metalli ricoperti dal materiale genetico manipolato che si vuole trasferire.

La ricerca di applicazioni commerciali di queste biotecnologie agrarie si orientò in diverse direzioni. Calgene, una giovane società biotecnologica californiana, sviluppò ad esempio un pomodoro modificato geneticamente per rallentare il processo di maturazione, che dipende da un gene che era stato “silenziato” praticamente duplicandolo. Monsanto, il cui gruppo di ricerca sulle piante nel 1983 aveva vinto la corsa per la creazione della prime cellule vegetali transgeniche -una petunia a cui era stato inserito il gene di resistenza agli antibiotici prelevato da un batterio ((http://www.vib.be/en/about-vib/plant-biotech-news/Pages/The-race-towards-the-first-genetically-modified-plant.aspx))- focalizzò gli investimenti sulla creazione di colture industriali -ibridi di mais, soia, cotone e colza- contenenti il gene di resistenza al Round Up e un gene proveniente dal Bacillus Thuringensis. Questo batterio del suolo produce una tossina letale per le larve di alcuni insetti parassiti, i lepidotteri. Dato che le tossine di questo batterio, chiamate brevemente Bt, usate dagli anni ’30 anche in agricoltura biologica, sono molto selettive e fondamentalmente innocue per la maggior parte degli insetti utili e per l’uomo, le “piante Bt” furono presentate come l’alternativa ecologica, tecnologicamente avanzata, agli insetticidi chimici sui quali si era focalizzata la contestazione seguita alla pubblicazione di Silent Spring, e che stavano dimostrando una sempre minore efficacia a causa dello sviluppo di resistenze tra gli insetti patogeni.

Gli anni ’80, grazie alla prospettiva di questa bio-rivoluzione, videro quindi l’inizio di quel processo di concentrazione del potere economico e scientifico sulle biotecnologie, anche agrarie. Contemporaneamente si assistette al progressivo disimpiego del settore pubblico dalla ricerca sul miglioramento delle piante. L’esempio forse più eclatante è quello della vendita, da parte del governo Thatcher, dei programmi di ricerca e della aziende sperimentali afferenti al Plant Breeding Institute (PBI), l’avanzato centro di ricerca pubblica sul miglioramento vegetale, che nel corso degli anni ’70 poteva vantare la paternità di circa l’80% dei grani coltivati in Inghilterra. Nel 1987 il PBI fu venduto a Unilever, una multinazionale agro-alimentare, che anni dopo lo vendette a Monsanto((http://ageconsearch.umn.edu/bitstream/158859/2/Richard_Gray_Galushko-Gray%20AES%20Warwick.pdf)).

Nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, le lobby industriali e finanziarie iniziarono quindi a pressare la politica per vedere realizzati i risultati di vendita delle nuove merci biotecnologiche, condizione necessaria al ritorno degli ingenti capitali investiti . Nel 1993 la Food and Drug Administration autorizzò la vendita del primo prodotto biotecnologico di interesse agrario: l’ormone bovino della crescita che Monsanto commercializzò con il nome di “Posilac”. Seguì nel 1994 l’autorizzazione alla vendita del pomodoro di Calgene, il “Flavr Savr”, e dopo due anni quella delle sementi di soia, colza, mais e cotone resistenti al glifosato e ai lepidotteri.

Il lancio del Posilac fu preceduto da accese polemiche dovute principalmente agli effetti negativi della somotrotopina sulla salute dei bovini. Proprio per ragioni relative al benessere animale, l’Unione Europea nel 1994 vietò l’utilizzo del farmaco e altri paesi seguirono l’esempio europeo. Il lancio del pomodoro Flavr Savr, modificato per rallentare il processo di appassimento, si svolse in maniera molto curiosa, prima negli Stati Uniti e poi Inghilterra. Negli Stati Uniti il prodotto fu commercializzato fresco. Calgene, la giovane azienda biotecnologica che lo aveva brevettato, si occupò direttamente della produzione, della distribuzione e della promozione del prodotto, anche nei supermercati, pubblicizzando chiaramente il prodotto come pomodoro geneticamente modificato e cercando di veicolare ai consumatori i vantaggi della nuova creatura delle biotecnologie. Il prodotto venne accolto abbastanza positivamente dai consumatori americani ma l’inesperienza nella gestione logistica del prodotto fresco fu causa di gravi difficoltà finanziarie per Calgene, che poi venne acquistata nel 1996 da Monsanto, la quale interruppe immediatamente la politica di comunicazione verso i consumatori. Lo stesso anno il pomodoro Flavr Savr venne lanciato in Inghilterra sotto forma di doppio concentrato, in una barattolo a marchio commerciale di due importanti catene di supermercati, Sainsbury’s e Safeway. Durante il 1997 i due colossi della distribuzione inglese vendettero oltre un milione e mezzo di pomodoro in scatola chiaramente etichettato. Nel frattempo negli USA, la diffusione della coltivazioni modificate geneticamente autorizzate nel 1996 fu incredibilmente rapida. Senza nessun obbligo di etichettatura, in quanto considerate sostanzialmente equivalenti alle colture convenzionali, il mais, la soia e la colza transgenici, apprezzati dagli agricoltori industriali, si diffusero in tutto il sistema agro-alimentare, come mangimistica animale e come ingredienti dei prodotti industriali trasformati. L’amministratore delegato di Monsanto, Robert Shapiro, nel 1999 dichiarò che si trattò del ” lancio di maggior successo mai registrato prima con qualsiasi altra tecnologia, incluso l’aratro“.

Nonostante il successo tra gli agricoltori americani delle colture geneticamente modificate (GM), il 1998 e il 1999 furono anni horribilis per l’immagine di Monsanto e delle applicazioni agrarie delle biotecnologie. Questo periodo ha rappresentato uno dei momenti più accesi del dibattito pubblico sugli OGM, che ha fortemente influenzato i successivi sviluppi economici, politici e sociali. In Europa, l’esplosione dello scandalo di “mucca pazza” minò alle fondamenta la fiducia dei consumatori nel sistema agro-industriale. Gli organismi geneticamente manipolati iniziarono ad essere visti come il caso estremo di azzardo con la natura, i cosiddetti “Frankenfoods. Nel settembre del 1998 la rivista inglese The Ecologist pubblicò un numero speciale dedicato alla storia dell’azienda di Saint Luis: “The Monsanto Files: Can we survive genetic engineering?” ((https://nature.berkeley.edu/srr/Alliance/novartis/monsanto.htm)). Il numero si apre con una lettera aperta a Robert Shapiro, il presidente di Monsanto dove gli editori , Edward Goldsmith e il nipote Zac, dichiarano di rappresentare un movimento, quello ecologico, che è contro le biotecnologie in generale, e il cibo biotecnologico in particolare. Secondo questo movimento l’immagine di consapevolezza sociale e ambientale che Monsanto mostra nel pubblicizzare le sue sementi GM è in netta contraddizione con una storia di inquinamenti ambientali su vasta scala e con la produzione del più venduto erbicida del mondo, il Roundup a base di glifosato. Per i Goldsmith, mentre Monsanto dichiara che lo scopo delle sementi GM è nutrire gli affamati, in realtà mette a rischio uno dei punti cardine dell’agricoltura sostenibile, la conservazione e il miglioramento degli ecotipi. Il primo articolo è firmato dal Principe Carlo e si intitola “Seeds of Disaster“. Il numero prosegue con inchieste dettagliate sulla storia di Monsanto, sulle relazioni con i regolatori pubblici e sulla strategia di comunicazione bollata come “greenwashing”. In Inghilterra, a causa dell’emergenza e alla popolarità di questo movimento ostile agli OGM -e sostenitore dell’agricoltura biologica- Sainsbury’s e Safeway decisero di ritirare dagli scaffali i loro barattoli di purea di pomodori GM. L’Unione Europea implementò di fatto una moratoria sulle coltivazioni di OGM. Dall’altra parte dell’Oceano il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, sommerso dalle critiche dei consumatori, fu costretto a ritirare la proposta di inserire le sementi GM tra quelle ammesse nel regolamento sull’agricoltura biologica. La prestigiosa rivista Nature pubblicò un articolo scientifico dell’entomologo John Losey della Cornell University nel quale l’autore sostenne l’esistenza di danni causati dalle coltivazioni Bt alle popolazioni della farfalla monarca, molto popolare in Nord America. Nonostante studi successivi dimostrassero che le dosi di Bt in campo non sono tossiche per le larve di farfalla, la monarca divenne uno dei simboli nelle giornate di protesta a Seattle contro la concentrazione del potere in mano a poche multinazionali. Sotto la pressione dell’opinione pubblica e del presidente della Fondazione Rockefeller, Gordon Conway, che temette un danno di immagine generalizzato a tutte le biotecnologie, Monsanto fu costretta a dichiarare pubblicamente di non volere commercializzare sementi modificate geneticamente per essere sterili, che alcuni attivisti anti-OGM stigmatizzarono con la fortunata etichetta “Terminetor” e associarono al pericolo di una nuova “Sterile Spring”. Le azioni di Monsanto subirono un crollo del 35% nelle quotazioni azionarie.

L’acquisto da parte di Du Pont della Pioneer Hi-Bred, la più importante azienda sementiera al mondo, fu un duro colpo per Monsanto. Tale acquisizione consolidò il settore agro-industriale nelle mani di quattro multinazionali -Monsanto, Du Pont, Dow e Syngenta- attive contemporaneamente, insieme a poche altre, anche nel settore farmaceutico e nel settore chimico. Secondo Juan Enriquez , fondatore del Life Sciences Project alla Harvard Business School, le megafusioni avvenute durante gli anni Novanta hanno seguito il flusso crescente di brevetti sulle biotecnologie, le sequenze geniche e gli OGM, ed hanno perseguito una strategia di blocco dei brevetti e delle loro licenze di utilizzazione. Per Enriquez, la tecnologica del DNA ricombinante e la brevettabilità della vita hanno quindi innescato un processo di trasformazione dell’economia globale, creando, un nuovo settore economico a cavallo tra il settore dell’agricoltura industriale, quello farmaceutico e quello chimico, il settore delle “Life Sciences”, successivamente chiamato “bioeconomy”. L’uso di questo termine ultimamente si sta diffondendo enormemente nelle agende politiche internazionali. In italiano si traduce con “bioeconomia” e purtroppo in molti stanno confondendo questa “bioeconomy” con la “bioeconomics” dell’economista rumeno Georgescu Roegen, che ovviamente non c’entra nulla ((Si veda a questo riguardo “Bioeconomia La chimica verde e la rinascita di un’eccellenza italiana” (2015) diBeppe Croce,Ciafani Stefano,Luca Lazzeri, prefazione di Pauli Gunter, e”Inside the World Bioeconomy” (2014) diMario Bonaccorso.)). Il principale ostacolo al completo sviluppo della bioeconomy, intesa come bio(tech)onomy, per Enriquez, sarebbe la mancata comprensione pubblica della rivoluzione molecolare e l’ostilità di gran parte della popolazione (europea soprattutto) agli alimenti OGM.

Dopo l’enorme visibilità nel periodo a cavallo del nuovo Millennio, nel corso del primo decennio del Duemila il dibattito sugli OGM ha perso progressivamente di rilevanza per i cittadini: negli USA poco consapevoli e non informati dato il non obbligo di etichettatura -basato sul principio di sostanziale equivalenza- della loro diffusione nelle filiere agro-industriali; in Europa rassicurati dalle stringenti regolamentazioni comunitarie e nazionali su coltivazioni, etichettatura e tracciabilità -basate sul principio di precauzione- susseguenti alla mobilitazioni dell’opinione pubblica. Tra gli interventi normativi nazionali è da ricordare il provvedimento del 2001 del Ministero delle Politiche Agricole , con Pecoraro Scanio come ministro, di bloccare anche tutte le sperimentazioni in campo, fatto questo che suscitò le proteste di una gran parte degli scienziati italiani e che è ancora oggi fonte di grandi frustrazioni.

Dato il parziale disinteresse per la questione da parte dell’opinione pubblica, nel decennio 2002-2012 il dibattito sulla sicurezza delle coltivazioni GM è continuato prevalentemente a livello scientifico. In questo periodo sono state pubblicati centinaia di lavori di ricerca riguardanti la sicurezza per la salute e l’ambiente delle piante GM autorizzate. Generalmente i risultati di queste ricerche non hanno evidenziato rischi maggiori di quelli connessi all’uso di piante provenienti dai metodi di miglioramento tradizionali (incrocio e selezione) e dai metodi basate sulle mutazioni indotte (irraggiamento, trattamento con sostanze chimiche). In merito alla sicurezza del consumo di piante GM, si sono espresse anche importanti istituzioni come l’American Medical Association, la National Academies of Science e la Royal Society of Medicine affermando che non sono mai stati riscontrati effetti negativi – tossici e allergenici- correlati al consumo di questi alimenti. La comunità scientifica si è mostrata più preoccupata dei rischi ambientali delle coltivazioni GM, quali gli effetti sulla biodiversità delle specie, il trasferimento genetico tra piante GM e piante non GM, le relazioni tra le piante GM e i batteri del suolo, lo sviluppo di insetti resistenti e parassiti secondari . A riguardo di queste ricerche va ricordato che fino al 2010 l’indagine sperimentale pubblica e indipendente relativa agli effetti sull’ambiente delle coltivazione GM, è stata fortemente limitata dall’esistenza di restrizioni legali imposte dalle multinazionali agli acquirenti di sementi, che hanno limitato fortemente il loro uso per la ricerca scientifica. Soltanto nel 2010, si è raggiunto un accordo tra l’American Seed Trade Association e gli scienziati operanti nelle università pubbliche e nelle stazioni sperimentali agrarie statunitensi per permettere una maggiore libertà di studio sugli effetti ambientali e sull’effettivo rendimento di queste coltivazioni. L’accordo è volontario e non è vincolante per le aziende che ne possono modificare a loro piacimento i termini in negoziazioni specifiche con le singole istituzioni di ricerca pubbliche. I segreti industriali continuano a limitare gli studi nelle varie fasi della ricerca privata, prima dell’approvazione alla commercializzazione. I limiti dei finanziamenti pubblici alla ricerca agronomica continuano inoltre ad obbligare le istituzioni universitarie ad accettare contributi dalle aziende private, rendendo di fatto molti progetti di ricerca dipendenti da queste((http://seedmagazine.com/content/article/wanted_gm_seeds_for_study)).

A distanza di tre decenni dalla commercializzazione delle prime sementi GM è possibile constatare come queste coltivazioni si siamo diffuse principalmente in una manciata di nazioni (USA, Brasile, Argentina, Canada e India), su quattro principali colture (soia, mais, cotone e colza) e riguardano principalmente due caratteri (la resistenza agli erbicidi e la produzione della tossina Bt). Nel 2012 la superficie agricola coltivata con sementi modificate copriva circa 18 milioni di ettari, pari a circa il 12% della superficie agricola del pianeta. Negli Stati Uniti la soia e il cotone modificati coprono più o meno il 90% delle superficie dedicate a queste colture. Il valore di mercato annuo delle sementi biotech è di circa 15 miliardi di dollari a livello globale. In Europa le coltivazioni geneticamente manipolate sono ammesse per alcuni tipi di sementi ma la maggior parte delle nazioni europee, come l’Italia, non le permette. Tale questione è tuttora fonte di grandi controversie interne alla UE. La strutturale mancanza di integratori proteici per la mangimistica animale, acuita dal divieto di utilizzo di farine di origine animale a seguito di mucca pazza, ha reso però necessario l’importazione di mais, soia e colza GM che quindi sono entrati nelle filiere zootecniche senza alcun obbligo di etichettatura sul prodotto finale (carne, latte e derivati, uova, ecc..).

Dal 2012 in poi il dibattito sugli OGM ha riacquisito progressivamente importanza a diversi livelli, fino a riesplodere nei tempi più recenti su tutti i fronti: scientifico, economico, politico, etico, sociale. Qui sotto alcuni momenti secondo me degni di nota per cercare di interpretare il maremoto che si appresta all’orizzonte.

Nel settembre del 2012 la rivista Food and Chemical Toxicology pubblica i risultati di una ricerca diretta dal biologo molecolare francese Gilles-Eric Séralini che evidenzia l’aumento dell’incidenza di tumori nei ratti nutriti per due anni con mais GM e erbicida Round Up. Séralini presenta i risultati ai giornalisti -diffondendo le ormai famose foto dei ratti con grosse masse tumorali- poche settimane prima del referendum sull’etichettatura degli alimenti OGM organizzato in California, in un momento quindi dove si era riaccesa la controversia i tra movimenti dei consumatori e le multinazionali come Monsanto. Lo studio di Séralini e le sue modalità di pubblicizzazione vengono fortemente criticate da diverse autorità pubbliche e dalla gran parte della comunità scientifica che evidenzia varie debolezze soprattutto di carattere metodologico. A causa di queste critiche, Food and Chemical Toxicology deciderà l’anno successivo di ritirare l’articolo, nonostante l’opposizione di Séralini, ormai etichettato come “bad scientist. Nel novembre del 2012, per meno di 3 punti percentuali i contrari alla etichettatura degli alimenti OGM hanno la meglio nella Proposition 37, il referendum californiano, ma il movimento per l’etichettatura degli OGM si diffonde in altri stati e acquisisce identità e rilevanza nazionale con il nome di March Against Monsanto, un movimento dal basso che il 25 maggio 2013 ha portato nelle strade di circa 400 città -soprattutto statunitensi- centinaia di migliaia di persone con messaggi quali “Label GMOs, It’s Our Right to Know” e “Real Food 4 Real People”.

Nel maggio del 2014 il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) pubblica un importante studio dell’Economic Research Service sui trend nell’uso dei pesticidi nel paese dal 1960 al 2008((http://www.ers.usda.gov/publications/eib-economic-information-bulletin/eib124.aspx)). Si tratta dell’analisi più solida e approfondita che mette in evidenza gli effetti dell’introduzione di sementi GM sull’uso di erbicidi, insetticidi, fungicidi. In generale nel periodo preso in considerazione l’uso dei pesticidi è complessivamente aumentato variando però la sua composizione, essendo diminuite dal 58% al 6% le superfici agricole trattate con gli insetticidi, ed essendo aumentate dal 5-10% al 99% quelle trattate con erbicidi. Il mais ha trainato il trend essendo aumentata le superficie agricola ad esso dedicata, a causa della domanda in forte crescita di etanolo, oltre che di ingredienti per l’agro-industria e di mangimi animali.

Un fatto appurato dallo studio governativo statunitense è l’aumento dell’uso di glifosato dal 1996 ad oggi sui terreni coltivati con sementi GM resistenti all’erbicida. Diversi sostenitori delle coltivazioni GM hanno messo in evidenza che il glifosato è una sostanza meno tossica per l’uomo e più facilmente biodegradabile rispetto agli altri erbicidi che ha sostituito. La “probabile cancerogeneità” del glifosato, dichiarata in un recente studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ((http://monographs.iarc.fr/ENG/Monographs/vol112/mono112-09.pdf)), ha però destato parecchie preoccupazioni, preoccupazioni che le dichiarazioni in senso inverso dell’EFSA (( http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/151112)), l’Autorità per la Sicurezza Alimentare Europea, non sembrano avere sopito.

I dati forniti dall’USDA mettono anche in evidenza la considerevole diminuzione dell’uso di insetticidi a seguito della diffusione di mais, soia e cotone Bt. Gli ingredienti attivi insetticidi utilizzati sono diminuiti di cinque volte per il mais e di tre volte per il cotone. E’ sulla base di dati di questo tipo che si fonda l’argomentazione di quanti in Italia propongono l’introduzione generalizzata delle coltivazione di mais Bt. Il MON810 sarebbe quindi una soluzione “amica dell’ambiente” a cui gli esponenti del movimento ecologista, come Vandana Shiva, si opporrebbero solo per oscurantismo scientifico e pregiudizio ideologico. Al riguardo due considerazioni. La prima è che la ricerca statunitense considera solo i trattamenti “in superficie” e esplicitamente dichiara di non avere preso in considerazione gli insetticidi utilizzati a basso dosaggio nel trattamento dei semi come i piretroidi sintetici e i neonicotinoidi. L’utilizzo di questi nuovi insetticidi, in continuo aumento dalla fine degli anni Duemila, si sta dimostrando dannoso per le api e altre specie di invertebrati con effetti negativi a cascata per i vertebrati terresti, primi tra tutti gli uccelli, e la fauna acquatica. Il seme, quindi, è diventato non solo la merce- veicolo dell’informazione genetica brevettata dalle multinazionali agroindustriali, ma anche la merce-veicolo di sostanze chimiche biocide prodotte dalle stesse aziende, aggiunte fisicamente ad esso, che non risultano in statistiche ufficiali come quelle discussa.

Sempre in merito alle coltivazioni GM attualmente in uso rimangono poi aperte le questioni legate allo sviluppo di piante infestanti resistenti al glifosato e di insetti patogeni resistenti al Bt. Quest’ultimo fenomeno è stato recentemente analizzato da un gruppo di entomologi in una cosiddetta “peer-review” pubblicata su Nature Biotechnology nel 2013 intitolata “Insect reistence to Bt crops: lessons from the first billion acres” ((http://www.nature.com/nbt/journal/v31/n6/full/nbt.2597.html)). L’analisi, risultato del confronto tra 77 studi realizzati in tutto il pianeta, mostra come 5 delle 13 specie di insetti parassiti sono oggi resistenti al Bt, rispetto a una sola specie resistente individuata nel 2005. La rapidità, non attesa, con cui gli insetti stanno diventando resistenti al Bt, metterà in difficoltà proprio gli agricoltori biologici che per primi hanno utilizzato questa tossina selettiva e innocua per l’uomo, e a cui, a differenza degli agricoltori convenzionali, non potranno trovare con facilità un sostituto.

Nel momento in cui sta diventando evidente la realtà delle sementi GM in uso, molto diversa dalle promesse delle multinazionali, e molto simile alle previsioni degli scienziati e dei movimenti ecologisti((http://www.theecologist.org/blogs_and_comments/commentators/2986815/how_gmo_lobbyists_taught_me_were_winning.html)), sorprende l’ondata di eccitazione scientifica, commerciale , politica e mediatica verso le cosiddette nuove biotecnologie “sostenibili” basate sulla “cisgenesi” e il “genome editing”.

Il primo termine -cisgenesi- fa parte di un progetto di diversificazione concettuale delle piante GM, nato in Europa subito dopo il periodo estremamente critico a cavallo del Duemila, con l’obiettivo di “permettere una più precisa comunicazione” e “finalmente condurre ad una maggiore accettazione pubblica” degli OGM((http://www.nature.com/nbt/journal/v21/n3/full/nbt0303-227.html)). In base alla nuova terminologia, le piante cisgeniche sono diverse dalle piante transgeniche in quanto sono modificate apportando geni provenienti da piante della stessa specie. Sollecitata da una richiesta della Commissione Europea, nel 2012 l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare ha espresso la sua opinione sul rischio per la salute e per l’ambiente di queste piante giudicandolo equivalente a quello delle piante proveniente dai metodi di miglioramento più o meno tradizionali (incroci e mutazioni indotte). L’EFSA, nell’introduzione al documento((http://www.efsa.europa.eu/sites/default/files/scientific_output/files/main_documents/2561.pdf)), specifica che cisgenesi è usato anche per definire le piante modificate utilizzando l’Agrobacterium Tumefaciens -attualmente la maggioranza-, che lascia nel genoma della pianta del materiale genetico di origine batterica. Queste piante vengono definite dall’EFSA ottenute da “cisgenesis with T-DNA borders”.

Il secondo termine -genome editing- si riferisce ad un tipo di ingegneria genetica basato sull’uso di nuove “forbici molecolari” che tagliano il DNA in modo estremamente preciso e di nuove “colle” composte da enzimi che permettono di legare due frammenti di DNA. Nel 2012 è stato ideato da un équipe di ricercatori statunitensi e europei, guidata dalla biochimica Jennifer Doudna dell’Università della California e dalla ricercatrice francese Emanuelle Charpentier, un nuovo metodo di genome editing basato su un meccanismo di difesa messo in atto da alcuni batteri contro gli attacchi virali. Questo metodo si sta imponendo all’attenzione di tutta la comunità scientifica in quanto estremamente veloce, semplice ed economico. Si chiama CRISPR -acronimo di “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats”- ma alcuni giornalisti l’hanno già definito il “Modello T dell’ingegneria genetica”(( http://www.newyorker.com/magazine/2015/11/16/the-gene-hackers)), capace di modificare molto velocemente e con bassi costi il genoma di batteri, piante, animali, uomini. Agli occhi di molti significa la fine dell’era della tecnologia del DNA ricombinante e degli OGM di prima generazione e l’inizio della nuova era del genome editing e degli OGM di seconda generazione.

Nel 2015 alcuni scienziati cinesi hanno pubblicato un articolo sulla rivista Protein & Cell riportando i risultati del loro tentativo di modificare con il CRISPR degli embrioni umani (non destinati a sopravvivere) per correggere una mutazione che causa l’anemia mediterranea. A causa della semplicità ed economicità d’uso della tecnica, e a seguito di queste prime sperimentazioni sul genoma umano, è riemerso recentissimamente il dibattito etico all’interno della comunità scientifica e medica in quanto sarebbe oggi possibile alterare il DNA non solo di un singolo individuo ma anche il genoma delle generazioni future . Il 19 marzo del 2015 Science ha pubblicato un articolo firmato da un gruppo di scienziati capeggiati da Jennifer Doudna, tra i quali spicca il nome di Paul Berg, il promotore della prima conferenza di Asilomar sul DNA ricombiante. Nell’articolo -intitolato “A prudent path forward for genomic engineering and germline gene modification” ((http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4394183/))- il gruppo di scienziati propone una moratoria sugli esperimenti di modifica del genoma umano e chiede l’apertura di una discussione pubblica sui nuovi rischi e le nuove opportunità del genome editing. A seguito di questo articolo, l’Accademia Nazionale delle Scienze, l’Accademia Nazionale di Medicina, l’Accademia delle Scienze Cinese e la Royal Society, hanno organizzato l'”International Summit on Human Gene Editing”, che si è tenuto a Washington dall’1 al 3 dicembre del 2015, coinvolgendo oltre 500 persone nella discussione sulle problematiche scientifiche, etiche, legali, sociali e regolamentari associate all’editing del genoma umano. “Potremmo essere all’inizio di una nuova era per l’umanità”, “oggi, sentiamo che siamo vicini ad essere capaci di alterare l’ereditarietà umana”, sono alcune delle affermazioni che sono risuonate all’incontro. Nonostante l’eccitazione per il CRISPR, gli scienziati ammettono le sue deficienze: potrebbe modificare il DNA in punti diversi da quelli obiettivo -“off targets”-, potrebbe inattivare geni essenziali, potrebbe attivare geni che causano il cancro, potrebbe causare riarrangiamenti cromosomici e alterare solo alcune cellule ma non tutte -“mosaicism”-. C’è fiducia nel miglioramento della precisione della tecnologia e nella potenzialità delle sue applicazioni, ma molto del funzionamento dei geni rimane fondamentalmente sconosciuto. Le questioni di carattere etico e sociale sono state largamente dibattute ed è riapparso lo spettro dell’ eugenetica. Per John Harris, professore di bioetica presso l’Università di Manchester, l’editing del genoma umano fornirebbe un sistema di evoluzione “attraverso un processo più razionale e più veloce dell’evoluzione darwiniana” ed è chiaro che “dovremo ad un certo punto fuggire dal nostro fragile pianeta e dalla nostra fragile natura”. In contrasto, per Hillie Haker della Layola University di Chicago è necessaria una moratoria sulla ricerca riguardante le manipolazioni delle cellule per finalità riproduttive, almeno fino all’implementazione di una rigida regolamentazione internazionale. E’ quindi stato dibattuto il problema della governance internazionale dell’editing del genoma umano. Il documento finale del summit firmato dai dodici membri del comitato organizzatore si conclude con l’auspicio di nuovi forum internazionali volti a regolare queste nuove tecnologie ((http://www.nap.edu/catalog/21913/international-summit-on-human-gene-editing-a-global-discussion)).

E’ da notare l’assenza totale delle preoccupazioni che avevano caratterizzato la conferenza di Asilomar, ovvero i pericoli biologici connessi alla manipolazione e proliferazione di virus e batteri patogeni. Nessun accenno anche ai rischi connessi alle modificazioni di piante e di animali, verso le quali si rileva in generale solo un grandissimo ottimismo. Sulla questione del brevetto del CRISPR si è recentemente aperta una controversia legale tra Università della California e il MIT, a seguito della concessione di un brevetto molto ampio sul CRISPR al Broad Institute del MIT con un suo membro, Zhang Feng, come inventore((https://www.technologyreview.com/s/536736/crispr-patent-fight-now-a-winner-take-all-match/)). La controversia sul brevetto del CRISPR non ha comunque impedito la creazione di start up in tutto il mondo create appositamente per sfruttare questa nuova tecnologia. Queste nuove aziende biotecnologiche stanno stringendo accordi commerciali con le varie multinazionali. Alcuni scienziati dell’Università della California, tra cui Jennifer Doudna, hanno creato ad esempio la Caribou Science, azienda nata per guidare le applicazioni del CRISPR, la quale a fine del 2015 ha annunciato una alleanza strategica con Du Pont((http://cariboubio.com/in-the-news/press-releases/caribou-biosciences-and-dupont-announce-strategic-alliance)). A parte le preoccupazioni sull’editing del genoma umano -Jennifer Doudna ha riferito di avere come sogno ricorrente l’incontro con un Hitler dalla faccia da maiale (( http://www.newyorker.com/magazine/2015/11/16/the-gene-hackers))- l’ottimismo e l’eccitazione di scienziati ed uomini di affari è quindi alle stelle. Il CRISPR “ora è più che una scienza, è anche un grande affare” ((http://www.scientificamerican.com/article/money-from-genes-crispr-goes-commercial/)).

Particolarmente attraente è la prospettiva di utilizzare il genome editing sulle piante di interesse agrario. Si fa fatica a seguire il flusso delle pubblicazioni di ricerche effettuate in laboratori di tutto il mondo. Alcune ricerche molto recenti si stanno specificatamente indirizzando all’elaborazione di metodologie basate sul CRISPR che permettono di modificare il genoma delle piante senza usare l‘Agrobacterium tumefaciens, introducendo soltanto delle piccolissime inserzioni a livello di DNA che “sono indistinguibili dalle variazioni genetiche che occorrono naturalmente nelle piante”. L’interesse verso queste sperimentazioni è rivolto soprattutto alla possibilità che le piante così modificate possano non essere considerate come OGM ai fini della regolamentazione europea e di altre nazioni ((http://www.nature.com/nbt/journal/v33/n11/full/nbt.3389.html)). In realtà, piccoli frammenti molecolari di origine virale, batterica o sintetica rimarrebbero nel genoma modificato ma sarebbero allo stato attuale non rintracciabili. Una bella sfida per la merceologia, se ancora esistesse.

I politici europei non sono rimasti insensibili di fronte a questa rivoluzione tecnologica. La Commissione Europea sta infatti considerando una lista di sette nuove tecnologie di miglioramento genetico -tra cui la cisgenesi e alcune tecniche di genome editing- ai fini della loro regolamentazione come OGM o come non OGM, con esiti completamente differenti ai fini della loro etichettatura e rintracciabilità dei prodotti. Molti scienziati e organizzazioni espressioni del movimento ecologico e dell’agricoltura biologica, come Greenpeace e IFOAM ((http://www.ifoam-eu.org/sites/default/files/ifoameu_policy_npbts_position_final_20151210.pdf)), credono che queste piante siano di fatto degli OGM, ma le multinazionali -attraverso le loro lobby- sostengono che non si tratta di OGM, come definiti dalla normativa corrente, e dovrebbero perciò essere esentati dalla regolamentazione((http://ec.europa.eu/food/plant/gmo/legislation/plant_breeding/index_en.htm)) ((http://beyond-gm.org/gmo-or-gm-no-how-will-the-eu-regulate-new-plant-breeding-technologies/)).

Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, in anticipo quindi sulla decisione della Commissione, a gennaio di quest’anno ha reso noto di avere stanziato 21 milioni di euro per un importante progetto di ricerca pubblica triennale rivolto al miglioramento genetico delle colture tipiche del paese (vite, olivo, pesco, albicocco, agrumi, frumento, melanzana , melo, ciliegio, pioppo) basato sulle “biotecnologie sostenibili”, ovvero la cisgenesi e il genome editing, sostenendo che queste tecniche sono equivalenti all’incrocio e la selezione tradizionali ((https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/9613)). Per il momento si tratterebbe solo di sperimentazione di laboratorio ma sono fortissime le pressioni delle comunità scientifica per togliere il divieto delle sperimentazioni in campo, necessarie ai fini della corretta valutazione agronomica delle piante.

Il piano di ricerca è stato annunciato in concomitanza della registrazione -nel registro nazionale delle varietà- di dieci nuovi vitigni sviluppati dall’Università di Udine. Questi vitigni sono caratterizzati da una elevata resistenza alle crittogame, ottenuta grazie ad un piano di incroci e selezione iniziato nel 1998. Secondo il Ministro “con pratiche come il genome editing e la cisgnesi […] risultati come quelli presentati oggi si potranno ottenere anche in tempi meno lunghi e tutelando la nostra biodiversità con ancora più strumenti”. ((https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/9627))

La strategia di miglioramento basata sulla cisgenesi e il genome editing è in sostanza quella di attingere dal pool genetico degli ecotipi, conservati ex situ in qualche banca del germoplasma, per inserire rapidamente i caratteri di resistenza, propri degli ecotipi e dei loro progenitori selvatici, alle colture élite, ovvero le sementi certificate e commercializzate. Questa strategia, secondo il Ministro, tutelerebbe il nostro patrimonio di biodiversità, oggi minacciato da virus, funghi e insetti che obbligano all’uso, come nella viticultura, di grandi quantità di sostanze chimiche nocive.

La validità di questa strategia è messa in discussione proprio da alcuni genetisti dell’Università di Udine che hanno lavorato al piano di ricerca che ha portato alla creazione delle nuove varietà di viti. Il Professor Raffaele Testolin, docente di Frutticoltura e Risorse Genetiche in agricoltura, in un video pubblicato in rete dal titolo “Le altre vie del miglioramento varietale-perché no agli ogm” ((https://www.youtube.com/watch?v=ruQg5KbNRe4)), sostiene infatti che l’approccio cisgenico non risolverebbe il problema fondamentale della biodiversità in agricoltura, che consiste nel limitato numero delle varietà coltivate. Questo problema emerse storicamente nel 1970 proprio nella “Corn Belt, il cuore dell’agricoltura industriale statunitense, quando , dopo gli effetti devastanti dell’epidemia di una varietà mutata di ruggine del mais – la “southern corn blight– “ci si rese conto che il problema era scaturito dall’impressionante omogeneità genetica delle piante coltivate che provenivano da un numero limitato -solo 6- di varietà selezionate. Nello specifico le piante che si erano dimostrate suscettibili alla ruggine condividevano un solo carattere, quello della sterilità maschile, che proveniva da una linea pura selezionata in Texas e che, permettendo di risparmiare lavoro nella produzione di ibridi, si era diffuso nella maggior parte delle sementi commercializzate. Come mette bene in evidenza il Prof. Testolin il problema è la ristrettezza della base genetica delle piante coltivate, derivante dalle esigenze di standardizzazione del sistema agro-alimentare industriale. Nel mondo ad esempio ci sono 10.000 varietà di mele descritte ma ci sono 6 varietà di mele che rappresentano il 60% della produzione mondiale e che tra l’altro condividono tra loro diverse linee parentali. La mela Golden, ad esempio, ha già nel suo genoma il gene di resistenza alla ticchiolatura, il problema è che l’enorme diffusione della varietà ha causato variazioni nel patogeno, le cui nuove forme hanno vinto queste resistenze genetiche. La strategia della cisgenesi, invece che andare nel senso dell’aumento della biodiversità delle varietà coltivate, va nel senso del mantenimento in campo di una ristrettissima base genetica, che -anche se temporaneamente difesa da un gene di resistenza piuttosto che un altro- inevitabilmente porterà all’emergere di problemi legati all’insorgenza di nuove malattie. Per il Prof . Testolin, invece di insistere con la cisgenesi al trasferimento di uno o due geni di resistenza efficaci contro le razze di patogeni attualmente esistenti, è meglio di cercare di combinare continuamente più geni insieme in modo da avere resistenze più durature e una maggiore e rinnovata diversità genetica. E questo è quello che fa la tecnica di miglioramento vegetale tradizionale basata su incroci e selezione, che oggi può fare affidamento su nuove tecnologie genetiche non invasive quali la selezione assistita da marcatori (MAS).

Gli interessi in gioco sono enormi, la nuova rivoluzione biotecnologica inarrestabile, il pericolo di manipolazione dell’informazione e dei termini -per fare passare interessi privati come interessi pubblici- secondo me è molto presente. C’è addirittura chi prospetta un matrimonio tra biotecnologie e agricoltura biologica((http://news.nationalgeographic.com/2015/05/150502-nginnovators-rice-genetic-engineering-gm-organic-farming-pamela-ronald/)), che annullerebbe una importante divisione emersa storicamente dal dibattito, derivante da visioni del mondo completamente differenti: quella delle biotecnologie agrarie rivolta alla manipolazione del vivente, quella dell’agricoltura biologica rivolta ad un dialogo con la natura.

Dopo avere ripercorso alcuni dei momenti storici del dibattito sugli OGM, e avere preso atto della sua ri-emergente attualità, posso solo sperare nel rafforzamento dell’informazione e della trasparenza verso i cittadini, in un momento in cui il susseguirsi degli eventi sembra travolgere ogni cosa. La deregolamentazione di cisgenesi e genome editing, che eviterebbe l’etichettatura e la rintracciabilità di questi prodotti OGM (perché di OGM scientificamente si tratta) rappresenterebbe una grave mancanza di responsabilità verso i cittadini europei. Nell’attesa di sapere quale sarà l’orientamento della UE -non soltanto della Commissione Europea- e nell’assenza di un vero dibattito pubblico sulle nuove biotecnologie, la scelta del governo italiano di finanziare un progetto di miglioramento che riguarda le nostre colture tipiche basato su cisgenesi e genome editing mi pare quanto meno affrettata , e più in generale basata su una argomentazione -quella delle biotecnologie “sostenibili” per la tutela della nostra biodiversità agraria- scientificamente debole. A parte questo, la decisione di investire risorse pubbliche nei piani di miglioramento delle piante coltivate va secondo me nel senso giusto. Vanno solo ridefinite metodologie e obiettivi, ma forse anche visioni del mondo.