Numeri, mercato e prestazioni delle nuove forme di lavoro
- Sul significato dei numeri.
Qual’è il peso, l’importanza, l’incidenza del lavoro autonomo, di quello precario, non-standard? Ho indagato sui numeri di un mercato di lavoro nazionale – quello austriaco – che sembra ancora segnato da forme di lavoro „di norma“. A prima vista, la percentuale dei lavoratori indipendenti in Austria non è altissima. Costituiscono l’8,8% del totale della forza lavoro, se si escludono i lavoratori del settore agricolo. Negli ultimi dieci anni, però, questa percentuale è cresciuta del 2,4%. Siamo di fronte, quindi, ad una crescita costante. Negli ultimi anni, questa crescita permette ai politici – insieme all’aumento di altre forme di lavoro non-standard – di vantarsi di una crescita occupazionale continua. Tale crescita ha una funzione ben precisa all’interno del mercato del lavoro: colmare la stagnazione all’interno del mondo della grande impresa. Se, infatti, mettiamo da parte il piano delle cifre „aggregate“, quelle che ci dicono quali sono le dimensioni della forza lavoro in totale, scopriamo che c’è una dinamica qualitativa, una trasformazione profonda della forma in cui si presenta il mercato del lavoro. Anche in Austria, il lavoro a tempo indeterminato, il posto nella media o grande impresa, così come l’impiego nel settore pubblico, contribuiscono molto di meno alla crescita occupazionale rispetto a qualche anno fa.
Bisogna, pertanto, prendere in esame non solo le statistiche che separano i lavoratori dipendenti da quelli indipendenti, ma fare anche un altro tipo di conteggio. Ultimamente, la Camera di commercio, ovvero l’organizzazione che rappresenta ufficialmente tutti i datori di lavoro, ha commissionato delle ricerche sul profilo dei suoi membri. Ne è uscito fuori un dato particolare: circa la metà dei membri di questa organizzazione, alla quale, fino a dieci anni fa, dovevano aderire obbligatoriamente tutte le persone che si mettevano in proprio con le loro attività commerciali, non è affatto un „datore di lavoro“. Per definire questa categoria di attore economico, è stata coniata l’espressione „Ein-Personen-Unternehmen“, ovvero, impresa composta da una persona (in Germania, hanno trovato un altro nome per questa entità economica: Ich-AG, s.p.a.: Io, in quanto società per azioni). In altre parole, si tratta di persone che rientrano in un doppio conteggio: fanno parte, da un lato, della forza lavoro secondo il concetto usato da tutti i paesi europei (Labour-Force-Concept), dall’altro , arricchiscono le statistiche sul numero delle imprese. In Austria sono circa 180 000 le persone così enumerate, alle quali si aggiungono circa 40 000 lavoratori indipendenti che, in base alla legge del 1997 sui nuovi lavori, non hanno l’obbligo di aderire alla Camera di commercio (tra di essi, molti che lavorano nell’ambito delle professioni sorte con la New Economy o nel settore culturale).
Non è finita qui. Seguendo il concetto creato da Sergio Bologna, ovvero quello di „lavoro autonomo con un minimo grado di organizzazione“, dobbiamo prendere in considerazione un’altra fetta della statistica sul numero delle imprese: Si tratta delle cosiddette microimprese, ovvero le imprese con un numero da 1 a 9 dipendenti. Secondo i dati riguardanti il 2006, ci sono oltre 90 000 ditte con un solo dipendente, 37 000 con due dipendenti e 24 000 ditte con tre dipendenti. Quei lavoratori autonomi che in maniera saltuaria o non continua si servono delle prestazioni di altri autonomi oppure di co.co.co. che, fondamentalmente, lavorano per altri datori di lavoro, non compaiono affatto nelle statistiche.
Se si fa un conteggio complessivo , seguendo un ragionamento che non considera queste persone come delle „imprese“, ma forza lavoro, risulta che il 24 % della forza lavoro attribuibile al settore privato svolge la sua attività 1) o come „ditta individuale“, 2) o come dirigente di una microimpresa con in media tre dipendenti, oppure come 3) lavoratore dipendente in una simile mini-ditta.
- Sul significato del mercato:
Questo tipo di ragionamento ci invita a rivedere anche la concezione che abbiamo del mercato di lavoro. In breve, è difficile ormai stabilire che cosa sia un rapporto di lavoro, un contratto di norma, e questo vale per tutti i paesi dell’UE, si veda, ad es., la relazione coordinata da Alain Supiot sulle trasformazioni delle varie forme di lavoro negli ultimi decenni.((Alain Supiot: Beyond employment. Changes in Work and the Future of Labour Law in Europe. Oxford: Oxford University Press 2000.)) Per mettere in evidenza – per l’ennesima volta – che il concetto di „normalità“ nasconde un dislivello ancora molto accentuato tra la forza lavoro maschile e quella femminile, basta consultare le statistiche sugli orari di lavoro. Lungi dal raggiungere livelli occupazionali per le donne come nei paesi scandinavi, l’Austria assegna loro ancora in larga misura il lavoro part time, sintomo che dimostra, chiaramente, quanto il mercato di lavoro si stia sgretolando. La forza lavoro totale è cresciuta dell’8,35% tra il 1996 e il 2006, pari a circa 300 000 posti di lavoro. Se si fa una divisione in base al sesso, si scopre che, in questi dieci anni, la creazione di 220 000 nuovi posti di lavoro ha portato all’assunzione di persone di sesso femminile, mentre il numero dei posti di lavoro assegnati a persone di sesso maschile, in calo per molti anni, solo nel 2005 è tornato a crescere. Ci si potrebbe complimentare con il mondo dell’impresa austriaco, per il suo quasi voler preferire di gran lunga le donne agli uomini. In realtà, le donne accettano posti di lavoro mal pagati o part time, per il semplice motivo che devono far fronte alla mole di lavoro non pagato all’interno del nucleo familiare. La rilevazione dell’Ente nazionale per la Statistica sulla forza lavoro, ha scoperto, attraverso un’ inchiesta rivolta alle cause della disoccupazione e della non-partecipazione al mercato del lavoro, che 140 000 donne in Austria non cercano lavoro perché devono badare ad un bambino o ad un familiare anziano, disabile o malato cronico. Considero anche questo un aspetto del lavoro autonomo: il lavoro non-salariato, reso invisibile dalle statistiche. Solo attraverso la domanda: „Perché non cerchi un lavoro?“, la ricerca riesce a farsi testimone di una realtà lavorativa di dimensioni considerevoli.
La crescita occupazionale, a differenza di quella realizzatasi in paesi come Svezia, Danimarca e Olanda, non ha comportato un miglioramento della condizione femminile: non sono le donne a decidere, infatti, gli orari di lavoro (come per esempio succede in Olanda), in base alla garanzia di poter tornare al posto di lavoro dopo il periodo della maternità. Come si è evinto da uno studio approfondito sul comportamento della domanda di forza lavoro, le donne si trovano davanti ad una scelta difficile, in fondo inaccettabile: se scelgono di diventare madri e si trovano nella situazione di svolgere un lavoro qualificato, sarà difficile per loro rimanere al passo con lo sviluppo della propria professione. Spesso, non riuscendo ad operare gli aggiornamenti necessari, tornano al mercato di lavoro ricoprendo una posizione svantaggiata. Ci sono delle testimonianze di donne che, proprio per questo motivo, hanno deciso di diventare lavoratrici autonome, creandosi il lavoro non disponibile sul mercato, trovandosi nella situazione di dover conciliare la loro intenzione di svolgere un’attività qualificata con una certa flessibilità rispetto agli orari di lavoro.
Il mercato del lavoro si sta sgretolando, in parte, rispetto agli orari di lavoro, visto che molti dei nuovi posti non corrispondono al modello delle 40 ore settimanali ed, in maniera molto più grave, sintomo questo di una crisi economica e sociale palpabile, anche rispetto alla retribuzione. Sempre di più si creano occupazioni che non permettono ai lavoratori di sopravvivere. In Germania, ad esempio, dove la politica esulta per la fortissima diminuzione del numero dei disoccupati, è venuto recentemente allo scoperto che, ben oltre un milione di persone deve chiedere un sussidio allo stato, pur lavorando regolarmente, dato che il salario non basta per arrivare a fine mese. Da molti mesi, si sta portando avanti un dibattito acceso sulla possibilità di introdurre per legge un salario minimo obbligatorio per tutti i settori. Il sistema della Tarifautonomie, ovvero, il principio secondo il quale i datori di lavoro e i sindacati stabiliscono autonomamente i salari attraverso delle trattative, svolte singolarmente per settore, è entrato in crisi. Lo sgretolamento del mercato del lavoro si articola anche su questo piano, traducendosi nella ridotta capacità delle parti sociali di rappresentare e risolvere i conflitti d’ interesse, nonché di rappresentare determinati strati della popolazione (in Germania, si è creato un nuovo termine per i „ceti bassi“: abgehängtes Prekariat, il precariato definitivamente staccato dal progresso sociale, culturale ed economico).
Il mercato di lavoro sta subendo però anche un’altra trasformazione: si sta polarizzando. La dinamica della creazione e della distruzione dei posti di lavoro, lo sviluppo sempre più imprevedibile della domanda, privilegiano certi strati ed escludono altri. Attraverso uno studio dettagliato sulle dinamiche del mercato del lavoro viennese, i ricercatori hanno potuto constatare che ci sono dei settori con una fortissima dinamica occupazionale, che non va assolutamente a discapito dei lavoratori, soprattutto nell’ambito delle nuove tecnologie, mentre ci sono dei gruppi come i disoccupati di una certa età, migranti e giovani senza qualificazioni professioniali che, nei loro rispettivi settori, subiscono gli effetti negativi della flessibilizzazione della domanda: escono più facilmente dal mercato e fanno fatica a rientrarci. Più si ammassano certe categorie di lavoratori negli uffici di collocamento, più si fanno avanti la pressione su di loro e l’obbligo di accettare qualsiasi posto di lavoro, pena la perdita del sussidio statale. Il lavoro autonomo, nel complesso, contribuisce molto alla dinamica del mercato del lavoro, nel cercare d’ integrarsi nelle filiere produttive, nelle reti della creazione del valore, assumendosi spesso tutti i rischi ed avendo a disposizione pochi meccanismi di tutela, ma fa fatica a stabilire un certo livello di sostenibilità . La funzione del lavoro autonomo non è da sottovalutare anche per quanto riguarda la sua capacità nell’inserire certi gruppi nel mondo del lavoro come le donne, i migranti, i giovani. Come ho già accennato, spesso, sul mercato non vengono offerti posti di lavoro che si confacciano alle individuali competenze, ragion per cui è necessario crearli. Il problema è che questi gruppi avrebbero bisogno di un certo livello di organizzazione sociale, se si vuole evitare la diffusione di orari di lavoro massacranti, la diminuzione del reddito per mancanza di strumenti di tutela o di difesa, lo sviluppo di comportamenti sleali nei singoli ambiti professionali, così come lo sfruttamento da parte dei committenti e la dipendenza dal proprio nucleo sociale, dal quale non si riesce più ad uscire ecc.
- Sulla logica della prestazione:
Non si tratta, quindi, soltanto di leggere, con occhio critico, le statistiche che ci forniscono dati sul peso delle nuove forme di lavoro e sulla trasformazione del mercato del lavoro in atto, si tratta anche di mettere in discussione i concetti fondamentali che stanno alla base del discorso politico e accademico sul tema del lavoro. Le nuove forme di lavoro, quello autonomo, quello precario, il lavoro a progetto, ma anche le nuove dinamiche all’interno del lavoro salariato nella grande azienda, contribuiscono, a loro volta, ad un cambiamento di significato dei concetti fondamentali. In un certo senso, la funzione discorsiva del lavoro autonomo all’interno del dibattito intorno alla trasformazione postfordista è quella di esprimere un’antinomia. Ho cercato di rendere esplicita quest’antinomia, stabilendo i due enunciati opposti che trovano un certo fondamento nella verità statistica. Si può affermare senz’altro che il numero dei lavoratori autonomi è più vasto di quanto non appaia consultando le statistiche; si può, con la stessa certezza, affermare che il numero dei lavoratori autonomi è più basso di quanto non appaia nelle statistiche. Queste due posizioni si possono trovare nei diversi discorsi sul fenomeno del lavoro autonomo di seconda generazione.
Per uscire da questa dialettica, da questa logica dell’apparenza, bisogna cercare di stabilire un livello del discorso che ci permetta di ri-fondare la logica degli enunciati, ovvero di trovare un piano conoscitivo e discorsivo in grado di riconciliare le due istanze diametralmente opposte. Cerchiamo di trovare una ragione a questa prima affermazione: il numero dei lavoratori autonomi è più vasto di quanto non appaia nelle statistiche. Bisogna spostare l’argomentazione dal piano statistico-giuridico a quello organizzativo per capire che questa affermazione si riferisce ad una relazione del più e del meno che non è da intendersi in senso quantitativo; occorre, quindi, afferrare il fenomeno del lavoro autonomo da un punto di vista qualitativo. Come sostengono Pongratz e Voß, due sociologi tedeschi che hanno condotto una ricerca su quello che loro chiamano l’Arbeitskraftunternehmer (l’imprenditore della propria forza lavoro), il lavoratore autonomo è, e sarà sempre di più, una figura idealtipica, una costruzione ideale che serve per formulare obiettivi che sorgono all’interno del mondo lavorativo (Leitbild), e che ci aiuta a comprendere le trasformazioni nell’organizzazione del lavoro dentro e fuori l’azienda.((Hans J. Pongratz / G. Günter Voß: Arbeitskraftunternehmer. Erwerbsorientierungen in entgrenzten Arbeitsformen. Berlin: Edition Sigma 2003.)) Il soggetto del lavoro postfordista, pertanto, è l’espressione di un ordine simbolico che considera la forza lavoro nella sua totalità forza lavoro autonoma. Questa affermazione non vuol dire che tutti i lavori svolti nel modo di produrre postfordista siano lavori ad alto livello di qualificazione e vengano svolti nella più vasta indipendenza da strutture gerarchiche ecc. Chi sostiene questo, non ha nemmeno capito bene il fulcro del modo di produzione precedente, quello fordista. Anche nella logica del management taylorista si trattava, come analizza bene Philippe Zarifian,((Philippe Zarifian: „Travail, langage et civilté“. In: http://multitudes.samizdat.net/spip.php?article425)) di indurre alla produttività attraverso una deviazione della produzione, deviazione, che, nel caso del fordismo, produce una sfera simbolica fatta di piani operativi, di metodi di misura, di statistiche, di tabelle ecc., ovvero, di un linguaggio che mette al centro della sua attenzione la sostituzione progressiva della forza lavoro non coordinata con una totale sottomissione alla logica della tecnica, in quanto linguaggio d’azione (e non rappresentativo), mentre nel caso del postfordismo tale deviazione segue il percorso della produzione di un linguaggio d’azione che sia in grado di trasformare qualsiasi evento imprevisto in organizzazione comunicativa. Nell’attuare questo tipo di organizzazione della produzione, si mira ad una dinamizzazione pressoché totale dei rapporti interpersonali, ma anche tra i vari enti della filiera produttiva.
Questa dinamizzazione, che ha reso possibile la creazione di una sfera di passaggi produttivi, nicchie, servizi innovativi, attività di mediazione, consulenza e di molti nuovi mestieri, non ha comportato automaticamente un nuovo ordine simbolico-giuridico atto a regolare la molteplicità dei nuovi rapporti di produzione. In questo senso, si può affermare che il numero dei lavoratori autonomi è di gran lunga inferiore rispetto alla sua dimensione statistica. Mancano ancora le condizioni sociali e politiche per garantire sicurezza, sostenibilità e solidarietà, esiste ancora una forte dipendenza dai committenti, dalle grandi ditte. Bisogna farsi carico di tutti i rischi senza che ci siano ammortizzatori appropriati. Ci sono molti contratti di parasubordinazione, che non hanno niente a che fare con un lavoro autonomo nel senso di una certa indipendenza rispetto agli orari, alla gestione del lavoro e così via.
L’originalità del lavoro autonomo si basa sulla logica della prestazione. Il termine tedesco lo esprime meglio di quello italiano: Leistung (prestazione, ma anche servizio) proviene da una parola indoeuropea che ha a che fare con „seguire una traccia, assumersi una responsabilità“. In un certo senso (e non sempre), la logica della prestazione è contraria alla logica della posizione, secondo la quale funziona il mercato di lavoro. Infatti, bisognerebbe pensare il problema da questo punto di vista: organizzare il mondo del lavoro non-standard in poli di servizi, che servano da infrastruttura per la gestione del lavoro, da spazio per lo sviluppo della creatività, ma anche da piattaforma per la formulazione e la realizzazione di un progetto politico-culturale. Non si tratterebbe di un’infrastruttura soltanto economica e organizzativa, ma, appunto, di luoghi pieni di interessi storico-culturali, dove sarebbe possibile veramente seguire delle tracce ed assumersi delle responsabilità.