Ogni cosa è connessa. Uno sfaccettato dialogo tra ambiente e prospettiva di genere alla Scuola estiva della SIS
Come molti e molte di noi, dopo l’ultimo anno non credevo di poter affrontare altre attività online. Quando però mi trovai sotto mano il programma della Scuola estiva SIS, decisi che in questo caso uno sforzo andava fatto, e devo dire che è stata tutta energia ben investita. Non solo perché sono stati quattro giorni di lavori con al centro l’ambiente, ma soprattutto perché tale tema è stato declinato attraverso tantissime lenti e prospettive, alcune delle quali conoscevo molto poco.
La prospettiva centrale è stata ovviamente quella di genere: come sottolineato dalla Presidentessa Raffaella Sarti all’apertura della Scuola, ci si è chiesti prima di tutto quali siano gli aspetti innovativi che la prospettiva di genere può dare alla lettura della trasformazione storica dell’ambiente, all’analisi dei conflitti sulla distribuzione e sfruttamento delle risorse ambientali e all’indagine sui movimenti sociali e politici che, soprattutto dal ventesimo secolo, hanno declinato in vari modi il pensiero ecologico intrecciando ambiente e diritti. Questi quesiti sono fondamentali soprattutto se si pensa ai discorsi pubblici prodotti sulla questione ambientali. È emerso più volte durante le giornate di lavori come sia in ambito politico che accademico non sia scontato affrontare il tema ambientale attraverso la prospettiva di genere, poiché ancora prevale la narrazione dell’Antropocene, che, lungi dall’essere un discorso neutrale (come mostrato dall’intervento di Stefania Barca), tende a enfatizzare alcuni soggetti e a silenziarne altri. E spesso a essere silenziatǝ sono proprio quelle forze di riproduzione che si sono in diversi modi opposte ad un certo modello di sviluppo e che hanno proposto narrazioni alternative. Gli interventi di Elisabetta Vezzosi, Bruna Bianchi e Laura Guidi hanno fatto emergere molte di queste esperienze, mostrando come mettere al centro l’agency delle donne ci permetta sia di rivedere certi eventi in modo nuovo rispetto a come sono stati proposti fino ad ora dalla storiografia, sia di comprendere l’importanza dell’ascolto e dell’empatia verso soggetti non umani, ma non per questo privi di agency. “La catastrofe ecologica è anche deficienza di empatia” è stato forse uno dei commenti che più mi ha colpita. Per questo dare voce a chi è escluso dal potere, riportare alla luce soggetti invisibilizzati e quindi far emergere la loro forza è necessario per cambiare la narrazione, narrazione che ha dato e continua a dare potere ad un assetto economico, politico e culturale che è la causa, e non la cura, della crisi che stiamo vivendo.
Il concetto di cura è stato ovviamente un filo rosso che ha attraversato molte riflessioni, sia nel suo aspetto più “privato” del lavoro di cura domestico, quotidiano e spesso invisibile ma fondamentale per il nostro benessere, sia attraverso le riflessioni sul concetto di cura del mondo e di democrazia della cura, questioni che molto devono al lavoro di Elena Pulcini, ricordata da Anna Loretoni nella sessione di apertura. Tale lezione-ricordo ha reso a mio parere evidente come il personale e il pubblico, sia esso il politico o l’accademia, siano sfere davvero interconnesse e in grado di alimentarsi positivamente a vicenda.
Anche della situazione della ricerca si è parlato molto, soprattutto del bisogno di maggiore ricettività che l’accademia italiana deve ancora sviluppare verso questi temi e prospettive. Come evidenziato dall’intervento di Enrica Asquer, anche a livello accademico infatti la storia ambientale è spesso storia al maschile, che spesso parla di genere umano attraverso un “noi” indistinto, che rischia di essere un maschile universale. Invece tener conto di una prospettiva come quella proposta dall’ecofemminismo risulta importante per via della sua caratura profondamente intersezionale e della sua vocazione a connettere piani che normalmente teniamo sconnessi, in modo da superare così quei dualismi che paiono ancora dicotomie insanabili: noi/ambiente, umano/non umano, maschile/femminile, produzione/riproduzione cultura/natura, ecc. La prospettiva ecofemminista ha invece l’ambizione di tenere uniti questi piani, ciò che viene strumentalmente tenuto separato, e spesso viene criticata proprio a causa di tale approccio olistico.
Il bisogno di un approccio maggiormente olistico è emerso anche durante la terza mattinata, grazie agli interventi di Giacomo Bonan e Federico Paolini, che hanno evidenziato come porre certi temi in prospettiva storica sia necessario per far emergere la loro complessità, soprattutto se si considerano questioni come i beni comuni e la sostenibilità, spesso affrontati in modo riduttivo. Numerose sono infatti le narrazioni che si intrecciano e i conflitti che ne possono scaturire, ed è quindi necessario un approccio interdisciplinare per tenere insieme gli aspetti sociali, politici, culturali ed economici che stanno dentro alla questione ambientale. L’ambiente non è difatti un qualcosa a sé stante, studiarlo non dovrebbe significare limitarsi ad analizzare l’evoluzione di un paesaggio o la conservazione di un’area naturale, ma prima di tutto dovrebbe portarci a chiedere: dove sta il potere? La storia ambientale, con l’aiuto di altre discipline (una tra tutte: la storia dei consumi), deve interrogarsi sul processo che ha portato all’accettazione di un certo modo di produzione e di stile di vita (in diverse zone del mondo) e su come, da un certo momento in poi, si sia sviluppata una sensibilità ambientale. Consumerismo, politica ecologica, questione sociale sono tutti elementi che vanno tenuti il più possibile insieme, anche per andare oltre l’apparente neutralità di concetti come “sostenibilità”. Come è stato chiesto in sede di discussione: sostenibilità per chi? Chi la definisce?
Un aspetto che ho trovato significativo è stata la partecipazione di studiosǝ con prospettive diverse, in un’ottica di dialogo ed integrazione. La disciplina storica non è stata infatti l’unica protagonista di questa Scuola. Nei laboratori cominciati il pomeriggio della seconda giornata, noi partecipanti avevamo la possibilità di scegliere tre diversi percorsi: “Colonialità e ambiente. La Libia fascista” curato da Roberta Biasillo, “Ecofemminismi: un percorso attraverso i testi” a cura di Chiara Corazza e “Raccontare l’Antropocene. Letteratura e ambiente” curato da Diego Salvadori. Questi laboratori hanno affrontato le varie tematiche della Scuola attraverso diverse prospettive disciplinari, dando vita a luoghi di confronto molto libero. Dal mio punto di vista è stato molto difficile scegliere a quale laboratorio partecipare, in quanto erano tutti ugualmente stimolanti. Ho deciso quindi di optare per quello curato da Diego Salvadori, dal momento che l’ambito letterario e il filone dell’ecocritica mi erano quasi totalmente sconosciuti. Il confronto libero e partecipato su testi di matrice molto diversa hanno fatto venire a galla innumerevoli questioni, dal nostro rapporto con il mondo animale, l’importanza dell’aspetto pedagogico e dell’attenzione ai messaggi che veicoliamo attraverso strumenti come i cartoni animati, fino ad arrivare all’apparentemente insanabile gara di priorità tra il profitto economico e il benessere nostro e dell’ecosistema (un filo rosso che collega esperienze come quella di Seveso a Chernobyl, Fukushima e alla pandemia attuale). Tutto ciò ha reso evidente a noi partecipanti quanto, per usare le parole di Diego, anche i testi stessi siano fonti rinnovabili, soprattutto se ci rapportiamo a essi con una prospettiva reticolare, rizomatica e interdisciplinare. La letteratura può salvarci dalla catastrofe? Sicuramente il dialogo tra discipline, così come tra le persone, può darci gli strumenti per resistere.
La Scuola si è infine chiusa con due momenti molto importanti. L’intervento del collettivo Chicoco, in collegamento dalla Nigeria, che ha connesso tra loro gli effetti della globalizzazione sul piano locale, le pratiche di cura come prassi politica e i loro nessi con la giustizia sociale e la continuità delle strutture di potere coloniali ne presente. L’attività di questo collettivo, attraverso il progetto della radio e della mappatura, ha dato modo a molte persone (soprattutto donne) di avere una voce e protestare senza rischiare la loro incolumità fisica. Grazie al progetto di mappatura Chicoco sta inoltre raccogliendo tante storie che raccontano esperienze particolari di persone della comunità e aiutandoli anche a recuperare dati concreti per comprendere i bisogni della comunità, che deve autogestirsi da tutti i punti di vista, anche in ambito educativo e sanitario. Anche grazie al potere unificante della musica, le persone usano la piattaforma e partecipano: “We are practicing democracy here in Chicoco, for and with the people!”.
Il momento finale della Scuola, la tavola rotonda intitolata “Ripensando a futuro, giustizia, disuguaglianze, dopo la pandemia”, è stato un momento di riflessione che, a seguito dell’analisi storica delle giornate precedenti, ha aperto uno sguardo sul presente e sul futuro, con l’obiettivo di stimolare un pensiero in grado di farci capire cosa viviamo ma anche di guardare oltre la nostra realtà e la narrazione che la domina, dandoci così gli anticorpi per cambiarla.
Ambiente. Storie, conflitti, movimenti in una prospettiva di genere
Il manifesto della Scuola estiva 2021 della Società Italiana delle Storiche (25 agosto-28 agosto 2021)
Come si combina la storia dell’ambiente con la storia di genere? Quali sono gli aspetti innovativi che la prospettiva di genere può dare alla lettura della trasformazione storica dell’ambiente, all’analisi dei conflitti sulla distribuzione e lo sfruttamento delle risorse ambientali (il suolo, le acque, la vegetazione, gli esseri viventi animali e umani, l’atmosfera), all’indagine sui movimenti sociali e politici che, specie nel XX secolo, hanno declinato variamente il pensiero ecologico, intrecciando ambiente e diritti (alla salute, alla cura, al lavoro, alla giustizia)?
L’edizione 2021 della Scuola Estiva della Società Italiana delle Storiche tenterà di dare risposta a queste domande, attraverso il consueto tentativo di incrociare tradizioni e prospettive storiografiche e disciplinari diverse, dalla storia delle donne e di genere alla filosofia politica, dalla sociologia alla storia della letteratura e del pensiero politico. A condurre le lezioni saranno docenti esperte/i e giovani ricercatrici e ricercatori che combineranno riflessioni di sintesi con gli approfondimenti più originali che provengono dalle ricerche in corso.
Particolare attenzione sarà data all’esperienza storica dell’ecofemminismo, di cui sarà ricostruita la traiettoria lungo tutto l’arco del Novecento, anche attraverso un’analisi puntuale di alcune figure centrali, quali Carolyn Merchant, Vandana Shiva, Greta Gaard. Una sezione del corso sarà dedicata ai conflitti ambientali che si sono sviluppati in età contemporanea principalmente per effetto dei processi di state-building e di affermazione del capitalismo industriale. Tali conflitti hanno visto il contrapporsi di diversi soggetti, tra cui lo Stato-nazione, l’impresa privata, i lavoratori, le lavoratrici, le famiglie. Nel corso del Novecento, inoltre, l’espansione del mercato dei consumi ha offerto, anche da un punto di vista di genere, delle opportunità di emancipazione dalla miseria materiale e dalla durezza delle condizioni di lavoro, generando, al contempo, un impatto ambientale molto critico e destinato a pesare nel tempo. L’emergere di una coscienza critica ecologica ha segnato in modo evidente la seconda metà del XX secolo e particolarmente gli anni Settanta e Ottanta, quando gli effetti di un modello economico centrato sull’industria pesante, sullo sfruttamento intensivo dei suoli, anche in connessione con forti processi di urbanizzazione, sull’espansione dei consumi individuali e la produzione di immani quantitativi di rifiuti, ha rivelato la radicale importanza delle questioni in gioco. In tale contesto, i movimenti femministi e quelli ambientalisti si sono intrecciati a più riprese, proponendo nuove gerarchie di valori e nuovi modelli di sviluppo centrati sul riequilibrio della relazione tra ambiente e umanità e, in fondo, su una concettualizzazione del tutto diversa del rapporto umano-non umano.
In tale contesto, la categoria di genere è stata e si rivela tuttora uno strumento cruciale per mettere a critica l’Antropocene, superando la distinzione ideologica tra natura e cultura, pubblico e privato, produzione e riproduzione, benessere individuale e cura del mondo. Ad un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus, tali riflessioni ci appaiono in tutta la loro stringente attualità e spingono con forza l’intera comunità scientifica a promuovere con rapidità un sapere diffuso più sostenibile.