Indice
Introduzione
Il libro di Pierre Madelin sugli ecofascismi e quello dello Zetkin Collective sul capitalismo fossile illustrati nelle precedenti puntate esaminano due aspetti centrali nel rapporto tra destre estreme e ambiente. Il primo è l’esistenza di frange, all’interno di queste destre, che ‘prendono sul serio’ la crisi ambientale e la pongono al centro della propria visione e delle proprie strategie; il secondo è il rapporto, organico sin dalle origini ma cogli anni sempre più stretto e dichiarato, tra il grande capitale impegnato nella produzione e nell’utilizzo di materie prime fossili e le forze politiche di estrema destra oggi in rapida ascesa a livello mondiale.
Le analisi di Madelin e dello Zetkin Collective aiutano a comprendere, sia a livello locale che globale, elementi e processi molto importanti di questa fase culturale e politica ma sono programmaticamente non esaustivi, contengono consapevolmente molte zone d’ombra.
Come abbiamo visto, anzitutto, anche le migliori trattazioni degli ecofascismi devono fare i conti col fatto che finora si è sempre trattato di fenomeni politicamente marginali e scarsamente influenti. Tanto negli anni Trenta della Germania nazista quanto nell’attuale scenario di ascesa parlamentare o governativa di formazioni politiche e di personalità neo o para-fasciste le proposte delle correnti “ecologiste” non sono riuscite a influenzare significativamente gli indirizzi maggioritari delle destre estreme se non nell’ambito della comunicazione, delle parole d’ordine, spesso del semplice greenwashing. Il recente caso francese, esposto sia da Madelin che dallo Zetkin Collettive è in tal senso esemplare.
Per quanto riguarda invece il “fascismo fossile” studiato dallo Zetkin Collective la limitazione principale è costituita dalla scelta di concentrare l’attenzione sul rapporto tra destre estreme e crisi climatica, che è senz’altro l’aspetto più drammatico e visibile della crisi ambientale odierna ma non è certo l’unico.
Il problema è dunque che il rapporto tra destre estreme e questione ambientale non si esaurisce affatto con gli ecofascismi e va ben al di là della crisi climatica. Partendo sal presupposto che l’argomento è estremamente sfaccettato sembra quindi opportuno concludere questa rapida ricognizione allargando contemporaneamente lo sguardo in due direzioni. Da un lato è necessario mettere al centro dell’analisi le destre estreme mainstream, vale a dire le formazioni politiche con largo seguito elettorale o addirittura al governo, mentre da un altro lato va ampliato lo spettro delle tematiche ambientali considerate: Madelin è programmaticamente carente nella prima direzione, lo Zetkin Collective nella seconda.
Questa ricognizione tenterà di abbozzare una schematica risposta a una domanda che era al centro di Fascisme fossile dopo averla opportunamente riformulata. Se quella domanda era “cosa accade quando le destre estreme in ascesa e la crisi climatica si incontrano?”, la domanda cui si cercherà di rispondere è “cosa accade quando le destre estreme in ascesa e la questione ambientale si incontrano, e perché?”. In questa terza parte il tema diventa insomma quello del rapporto tra destre estreme mainstream e questione ambientale, in tutti i suoi vari aspetti.
La “questione ambientale”
La scelta dell’espressione “questione ambientale” non è casuale. Con essa intendo i modi in cui nei vari ambiti si combinano via via tre elementi: a) una visione della crisi ambientale nelle sue varie manifestazioni e alle sue varie scale spaziali; b) una visione del nesso tra società, tecnica e ambiente naturale; c) una visione delle culture ambientaliste e le politiche ambientali. Sono ai miei occhi i modi in cui le destre mainstream si pongono rispetto a questi tre elementi a determinare le loro concrete scelte programmatiche, comunicative e di governo, e sono questi modi che bisogna indagare.
Destre estreme e questione ambientale. Riflessioni preliminari
Per fare questo propongo di accettare come punto di partenza che – a differenza delle frange ecofasciste – nelle attuali destre estreme mainstream prevalgano visioni, sentimenti e posizioni anti-ambientaliste e ostili all’adozione di incisive misure di tutela dell’ambiente. Lo scenario internazionale ricostruito dallo Zetkin Collective, drammaticamente confermato dagli eventi successivi alla pubblicazione del libro e in particolare dai provvedimenti presi dalla seconda amministrazione Trump, illustrava già in modo molto chiaro l’orientamento anti-ambientalista e anti-ambientale delle tante formazioni politiche europee e americane analizzate, ma è senz’altro possibile andare oltre.
Sempre per fare questo propongo inoltre di indicare sei elementi fondativi dell’anti-ambientalismo delle destre estreme. Alcuni di questi elementi sono stati ampiamente trattati da Madelin e dallo Zetkin Collective (il legame costitutivo con il capitale, il culto della potenza nazionale), ad altri è stato fatto cenno (la fobia antiprogressista), altri sono stati poco considerati o persino ignorati (il neoliberismo, lo sviluppismo, il maschilismo), mentre di converso io ho delle riserve ad accettare come elemento realmente fondativo il razzismo, su cui invece hanno entrambi molto insistito. Osservo infatti, in via del tutto provvisoria, come la questione del razzismo in senso lato (razzismo, xenofobia, identitarismi vari) che lo Zetkin Collective pone come principale elemento fondativo della propria analisi del rapporto tra destre estreme e crisi climatica non è in realtà fondativo se non in un caso: quando i negazionisti bianchi sostengono che la crisi climatica è una montatura orchestrata da etnie, razze o nazioni non bianche ai danni dei loro paesi o dell’Occidente. Negli altri casi il razzismo mi pare che sia invece solo un elemento fondativo delle fantasiose spiegazioni della crisi climatica (non negazioniste) in un’ottica ecofascista o di nazionalismo verde
Primo: “attacca l’asino dove dice il padrone”. Destre estreme come casematte e guardie del corpo del capitale
Carattere sovversivo dell’ambientalismo rispetto a culture, interessi e meccanismi dell’economia di mercato
Giorgio Nebbia non si è mai stancato di ripetere che l’ecologia è una scienza sovversiva1 e non è in effetti difficile vedere come storicamente gran parte delle indicazioni e delle proposte provenienti dal mondo dell’ambientalismo sono state dissonanti rispetto alla cultura imprenditoriale e destabilizzanti per gli interessi delle imprese capitaliste. Questo per tre motivi: perché la loro adozione minaccia di indebolire la capacità competitiva delle imprese, perché minaccia di ridimensionare la loro capacità di accumulare profitti e rendite e infine perché richiede necessariamente un maggior intervento da parte di autorità pubbliche e l’introduzione di limitazioni e vincoli per l’attività dei privati. Ci sono stati sempre e ci sono costantemente casi in cui strategie e misure di tutela ambientale si sposano efficacemente con specifiche attività e interessi imprenditoriali, ma la logica del profitto e della rendita non tollera tendenzialmente vincoli né limiti di sorta all’espansione dell’attività imprenditoriale, all’accumulazione di capitale e tantomeno alla necessità di rimanere sui mercati in posizione competitiva.
Carattere storicamente organico del rapporto tra destre estreme e imprenditoria
Sin dalla loro comparsa, negli anni Dieci e Venti del Novecento, le destre estreme hanno intrattenuto – al pari del resto delle destre liberali – un rapporto organico e fondativo con il mondo dell’imprenditoria e della finanza. Per quanto dotati di visioni e obiettivi non perfettamente sovrapponibili a quelli della borghesia industriale e finanziaria, fascismo e nazismo sono stati dapprima salutati con favore e presto pienamente adottati da frazioni ampie e in seguito maggioritarie dei capitalismi italiano e tedesco, sono venuti incontro ai loro interessi e hanno costruito con essi alleanze organiche e durature. Nella temperie successiva alla Rivoluzione russa fascismo e nazismo si sono proposti e sono stati anche utilizzati in funzione anti-comunista e anti-rivoluzionaria, capaci quindi di risolvere con la violenza una situazione che rischiava di condurre ad esiti letali per il capitale.
Casematte e pretoriani
Il rapporto tra destre estreme e capitale si realizza concretamente in diversi modi. Molto di rado il capitale si confonde totalmente con la politica, promuove cioè direttamente i propri partiti. Suoi esponenti o suoi rappresentanti possono però entrare in politica o candidandosi direttamente, o sostenendo alla luce del sole (finanziando, appoggiando, schierando i propri organi di stampa) partiti o propri candidati. I partiti di estrema destra divengono, in questi casi, delle casematte del capitale, dei luoghi che il capitale frequenta e utilizza direttamente, in prima persona. Ancor più spesso, tuttavia, sono i partiti stessi e i loro leader che si offrono – volontariamente e/o in cambio di qualcosa – come aggressivi e coerenti difensori degli interessi di questa o quella frazione del capitale o del capitale nella sua interezza, i loro pretoriani. Georges Monbiot esprime in modo lapidario questa realtà: “Non è un mistero perché avviene questo: le destre estreme sono il muro difensivo eretto dagli oligarchi per proteggere i loro interessi economici”.
Quale capitale?
Va da sé che il termine “capitale” è un termine troppo astratto e che va specificato in quanto l’universo dell’imprenditoria e della finanza è estremamente diversificato per funzioni, dimensioni, radicamento geografico, obiettivi, esigenze. In esso convivono il mega-fondo di investimento BlackRock e il concessionario di una licenza di taxi, il magnate del petrolio statunitense o arabo e l’agricoltore proprietario di un paio di ettari, dalla multinazionale che domina l’agroalimentare mondiale al piccolo investitore in borsa. Il terreno di azione delle destre estreme si situa, con strategie diverse e a volte anche contraddittorie, tra questi estremi e il loro anti-ambientalismo si configura via via sulla base delle esigenze di questi diversi soggetti.
Secondo: “padroni a casa propria”. Egemonia culturale neoliberista e culto del particulare
Ma se le aspettative e i concreti interessi di Jeff Bezos, quelli del magnate russo del petrolio e quelli del fornaio all’angolo sono diversi e persino potenzialmente conflittuali tra loro, il trionfo del neoliberismo a partire dalla metà degli anni Settanta ha creato, com’è noto2, un humus culturale condiviso grazie al quale la stragrande maggioranza della popolazione ha finito con l’abbracciare una visione imprenditoriale del sé e della società. Tale trionfo ha finito anche – necessariamente, a questo punto – col plasmare sin dagli anni Novanta l’immaginario e le convinzioni profonde della quasi totalità dell’arco politico, compresa la maggioranza degli ex comunisti italiani, dei socialisti europei, dei laburisti britannici, dei democratici americani. A maggior ragione ciò è avvenuto per gran parte delle destre estreme salvo quelle di nicchia che rimangono ancorate a fantasie organiche o antimoderne. Ciò che può apparire a prima vista paradossale è che l’ascesa elettorale di queste destre estreme, soprattutto negli ultimi dieci-quindici anni, è stata dovuta in massima parte alle conseguenze negative delle politiche neoliberiste (diseguaglianze, insicurezza economica) e come risentita e aggressiva risposta ad esse. Nonostante questo il successo delle formazioni di destra estrema è stato costruito mobilitando ampie fasce di popolazione impoverita e frustrata attorno a temi e obiettivi come la lotta all’immigrazione, il razzismo, l’omofobia, il nazionalismo, la repressione della piccola criminalità, la richiesta di governi forti che nulla avevano a che vedere con le politiche neoliberiste, anzi ne nascondevano accuratamente la natura e le conseguenze negative, mentre la visione della società alla base di tali strategie rimaneva e rimane quella neoliberista dell’individuo proprietario atomizzato e minacciato da una selva di nemici. Le destre estreme istituzionali di oggi sono quindi perfettamente e ovunque allineate alle parole d’ordine, alle linee programmatiche e ai desiderata del neoliberismo, al di là di flebili dichiarazioni di dissenso su questo o quell’aspetto.
L’amena pubblicità elettorale col faccione di Matteo Salvini che si erge “a difesa delle case e delle auto degli italiani” rimanda – ma in salsa italiana – a questa dimensione profonda, antropologica, dei “padroni in casa propria”, per cui nessuno deve venirmi a dire cosa debbo fare, a tassare, a impormi limiti di sorta sulla proprietà, anche se si tratta della solo della scatola dei cachi o dei dischi di Little Tony cantati un tempo da Enzo Jannacci. Qui le raffinate e potenti strategie del neoliberismo globale si sposano insomma col particulare guicciardiniano, con la molla emotiva che nel 1963 permise di decapitare per sempre la legge urbanistica italiana facendo leva sulla minaccia – peraltro del tutto inventata – che lo stato si sarebbe preso la casa dei poveri risparmiatori.

La conversione – quando per convinzione, quando per convenienza – delle destre estreme al neoliberismo sta dando peraltro un formidabile slancio alle culture e alle politiche anti-ambientaliste e anti-ambientali. La tutela e il ristabilimento di equilibri ecologici hanno sempre richiesto – e col degrado progressivo degli ambienti richiedono sempre di più – un intervento pubblico robusto e articolato: normative, vincoli, progetti, campagne di educazione, istituzioni ad hoc. Insomma regolamentazioni e iniziative numerose e incisive da parte dei governi, da quelli locali a quelli globali. Il neoliberismo si è affermato invece sin dagli anni Settanta – sia nella teoria che nella pratica – come un indirizzo che spinge fortemente alla deregolamentazione e al ritiro progressivo dell’intervento pubblico da settori come la sanità, la previdenza sociale, l’ambiente, l’istruzione, i diritti del lavoro e sindacali. Il fatto di poter contare sull’ascesa di forze politiche autoritarie, che mirano a destrutturare apertamente il tradizionale bilanciamento dei poteri e a indebolire democrazia rappresentativa e istituzioni pubbliche consente invece oggi alle imprese di sperimentare misure neoliberiste estreme impensabili anche solo pochi anni fa. Anche in questo caso, la seconda presidenza Trump è un laboratorio esemplare.
Terzo: “crescete e moltiplicatevi”. Uno sviluppismo inox
Mentre il neoliberismo ha colonizzato le culture, i linguaggi e i programmi dei partiti politici e dei governi di tutto il mondo suscitando tuttavia aree più o meno vaste di dissenso, l’egemonia psicologica e culturale della coppia crescita/sviluppo è rimasta molto più vasta e solida. Qui siamo di fronte a un vero e proprio tabù: l’ipotesi di una limitazione della crescita e ancor più quella della decrescita non sono neppure nominabili, i loro adepti rimangono confinati in circoli iniziatici e le idee su uno sviluppo che non sia soltanto crescita quantitativa restano per lo più al livello di generosi esercizi di immaginazione o, se le cose vanno male, di ambigue pratiche di orangewashing.
Dal canto suo quello ambientalista è tuttavia, da sempre e in assoluta prevalenza pur nelle sue diverse versioni, un pensiero del limite e dei limiti. Per esso la potenza dell’uomo è costitutivamente non illimitata, ciò che l’uomo può moralmente fare non è illimitato e soprattutto ciò che l’uomo può fare senza danneggiare gli equilibri della vita non è illimitato. Le proposte, le indicazioni che ne conseguono confliggono frontalmente con quelle basate sulla convinzione che la crescita possa essere illimitata, che non possa in ogni caso essere trascurata e meno che mai abbandonata. Quando Nicholas Georgescu-Roegen ha confutato radicalmente questa convinzione è apparso evidente da un lato quanto il pensiero ambientalista possa essere eterodosso e sovversivo e da un altro lato quanto l’ortodossia economica sia in grado di mettere ai margini della disciplina studiosi di prima grandezza che si permettano di sfidare il dogma della crescita.
Ma se le forze politiche moderate o moderatamente progressiste si sono abituate ad attenersi a un sobrio silenzio riguardo alla possibilità di raffreddare o fermare la crescita o hanno talvolta tiepidamente abbracciato parole d’ordine di circostanza utilizzate per lo più a fini di greenwashing, le destre estreme sono state e restano senz’altro paladine esplicite di una crescita quantitativa accelerata, meglio ancora se di forte impatto visivo (bello l’acciaio del mio grattacielo nuovo o il cemento sul nuovo megaparcheggio, belle le mie strade piene di suv, bella la mia crociera sulla più grande nave esistente, bello il mio ponte sullo Stretto), e severe castigatrici di qualsiasi ipotesi di sua limitazione, ipotesi vista spesso come complotto contro la nazione, il popolo, i livelli di vita della propria patria, eccetera.
Quarto: “über alles”. La necessaria potenza della nazione
Il punto precedente è strutturalmente collegato a questo.
Le destre estreme si sono sempre caratterizzate e si caratterizzano sempre per un fondamento identitario nazionale. L’umanità è rigorosamente divisa tra “noi” e gli “altri” e ciò che permette di identificarsi in un “noi” è il fatto di appartenere a una nazione, a una patria corrispondente anzitutto a dei confini spaziali, a un territorio. Il “noi” che ci identifica è costruito anche attraverso altri elementi, ad esempio una lingua condivisa, una razza, una storia, dei simboli, ma questi altri elementi convergono per lo più verso un territorio specifico: la nazione, superiore per definizione alle altre e quindi da difendere e potenziare con dedizione indefessa.
Questa superiorità non deve essere ovviamente intesa soltanto in senso soggettivo, sentimentale (perché è la “mia” nazione, sono le “mie” radici) ma anche e soprattutto in senso oggettivo. La mia, la nostra nazione è superiore alle altre – o deve esserlo – per una batteria di precisi motivi culturali, morali, storici ed economici e per conservare o per conquistare questa superiorità essa deve necessariamente combattere sia metaforicamente che concretamente, cioè sia con le armi dell’economia che con quelle della guerra. I nazionalismi sono bellicisti. La superiorità militare si conquista necessariamente aumentando la propria potenza, che è anzitutto tecnologica, demografica, di disponibilità di risorse, di disponibilità di mezzi. Come osserva Pierre Madelin, qualsiasi ipotesi di blocco, di rallentamento della crescita – per non dire di decrescita – mette in pericolo mortale il necessario aumento permanente della potenza tecnologico/industriale finalizzata alla conservazione della competitività economica e della superiorità militare.
In questa logica qualsiasi richiamo alla necessità di riconoscere l’importanza dei limiti e a immaginare politiche di riequilibrio tra la crescente potenza tecnologica dell’uomo e la crescente fragilità degli equilibri ambientali della Terra non può che essere considerato come espressione di patetico e imbelle sentimentalismo o, peggio, come un’insidiosa forma di boicottaggio dell’impresa nazionale.
Quinto: “riempite la terra e soggiogatela”. Sentimenti e culture del maschilismo
Questo elemento è quello più difficilmente circoscrivibile, anche se è sicuramente di grande importanza perché opera a partire nella sfera delle psicologie e delle sedimentazioni culturali. Un elemento “antropologico”, insomma, radicato in profondità e difficilmente scardinabile.
Sia pure in modi diversi tutte le destre estreme condividono una visione dell’uomo in cui la virilità e la violenza hanno un posto centrale3. Questa visione tende a ribadire e a rafforzare la tradizionale dominazione maschile tanto verso le donne quanto verso la natura considerata come femminile.
Per quanto, come vedremo, in Occidente e in tempi recenti ci siamo abituati a considerarli un retaggio del passato da combattere, il maschilismo e la dominazione maschile sono elementi che appartengono a quasi tutte le culture conosciute: in questo senso le destre estreme non hanno inventato nulla. La storica statunitense Carolyn Merchant sin dai primi anni Ottantaha mostrato invece come il rapporto dell’Occidente con la natura – identificata in ogni caso come una realtà femminile – si sia profondamente modificato tra Cinquecento e Settecento, scivolando da un apprezzamento positivo della natura-femmina come un grande organismo vivente e da rispettare a una visione in cui essa diventa un oggetto inanimato e segmentabile, che è obbligo dell’uomo inteso come maschio conquistare e assoggettare4. In questa visione, che si afferma grazie alla rivoluzione scientifica e a quella industrale, si afferma infatti l’idea di un maschio naturalmente vocato a possedere e a plasmare una natura così intesa, allo stesso modo in cui possiede e plasma la donna.
Questo dominio maschile sulla natura-femmina si afferma a causa e grazie alla nascita della scienza e delle tecnologie moderne che divengono così strumento ed emblema della potenza maschile. Non casualmente le tecnologie simbolicamente più potenti, cioè quelle che danno la morte, fanno dei militari e dei cacciatori una sorta di concentrato e il massimo esempio di mascolinità e la guerra e la caccia divengono i luoghi di massima espressione simbolica della virilità.
In gran parte dei paesi industrializzati la cultura del dominio maschile si è – lentamente e molto parzialmente – affievolita negli ultimi 150-200 anni conservando tuttavia delle casematte estese e particolarmente robuste nei gruppi sociali meno esposti ai processi di modernizzazione: quelli scarsamente urbanizzati (campagne) oppure quelli scarsamente scolarizzati (working class, aree urbane marginali). Non casualmente in questi ambiti anche l’esigenza di una postura meno aggressiva e meno “proprietaria” verso la natura e le sue varie manifestazioni ha fatto poca o nessuna presa.
Un gran numero di studi conferma inoltre una stretta correlazione tra genere maschile e visioni riduzioniste della natura e delle problematiche ambientali da un lato, da un altro lato il rifiuto di pratiche ambientalmente sostenibili considerate come femminili, degradanti per un maschio.
Su questo fondo culturale maschilista antico e diffuso si è innestata di recente una violenta reazione che ha individuato – non a caso – tra i suoi obiettivi principali proprio il femminismo e l’ambientalismo. Così la descrive Christopher Sebastian Parker:
A differenza del conservatorismo tradizionale che tollera il cambiamento come mezzo per mantenere la stabilità sociale, politica ed economica, il conservatorismo reazionario ambisce a minare quella stabilità nel tentativo di conservare il prestigio sociale associato all’identità del proprio strato sociale (maschio, di classe media, relativamente vecchio, eterosessuale, nativo originario). Ogni qual volta la dominanza di questo strato viene messa in discussione – come avviene quando è minacciata da cambiamenti sociali rapidi e di grande dimensione – questo provoca una ‘reazione’ da parte del gruppo dominante che contempla senza meno la violazione della legalità. Tale ‘reazione’ individua inoltre quasi sempre uno o più capri espiatori che il gruppo sotto assedio accusa di ordire un complotto. La principale spiegazione che il gruppo dà della propria perdita di status è infatti quella dell’esistenza di una campagna ostile da parte di un gruppo esterno5.
La vena anti-ambientale e anti-ambientalista delle destre estreme trae insomma linfa anche dal loro comune sottofondo culturale maschilista e dalla recente mobilitazione di fasce sociali che reagiscono alla propria marginalizzazione – effettiva o solo percepita – adottando visioni, atteggiamenti e comportamenti virilistici, semplificatori e violenti.
Sesto: “gli ambientalisti sono come i cocomeri, verdi fuori e rossi dentro”. La fobia antiprogressista
Le contrapposizioni politiche sono per lo più fondate su “pacchetti” di visioni, di aspettative e di proposte, dotati di maggiore o minore coerenza interna. Questi pacchetti sono fondamentali nel definire chi è nemico e chi è amico.
Nell’immaginario delle destre estreme, caratterizzate da una forte carica ideologica e identitaria, l’ambientalismo finisce col fare in genere parte del “blocco rosso” da eliminare, cioè della galassia di sinistra, progressista, radicale o come vogliamo chiamarla, che comprende le culture e le organizzazioni antiautoritarie, antigerarchiche, antimilitariste, antibelliciste, socialiste, femministe, pacifiste, Lgbt e via elencando. Tutto questo fa da un lato parte della normale dialettica tra pacchetti indicata più sopra; da un altro lato fa parte – nel caso specifico delle destre estreme – della fobia per chi minaccia la purezza e l’integrità della nazione e del popolo con il solo fatto di esistere e con le sue attività, una fobia accentuata negli anni più recenti – come abbiamo appena visto – dal senso di insicurezza e di risentimento nutriti da ampie fasce sociali che si sentono “dimenticate” dalla modernizzazione.
In conseguenza di queste dialettiche gli ambientalisti e – ancor più le ambientaliste – si trasformano da un lato in oggetto di derisione e di disprezzo a causa della loro intrinseca debolezza e del loro idealismo irrealistico ma da un altro lato divengono figure inquietanti e minacciose per il loro mettere in discussione uno sviluppo economico muscolare e per il loro far parte di settori sociali che contaminano e espongono al degrado la nazione6.
Settimo: “asini che volano”. Destre estreme e devastazione ambientale al tempo della post-verità
C’è un ultimo elemento che non riguarda solo l’anti-ambientalismo ma che credo debba essere considerato adeguatamente e collegato agli altri. Anche questo non è agevole da cogliere e da descrivere, nonostante una letteratura ormai ampia, ed è l’affermarsi della cosiddetta post-verità7. Le destre estreme sono infatti le forze politiche che più hanno utilizzato e più si sono avvantaggiate delle profonde trasformazioni della comunicazione politica avvenute negli ultimi dieci-venti anni.
Semplificando all’osso il ragionamento si può dire quanto segue.
L’affermazione di tecnologie di comunicazione diffuse come le televisioni locali, la comunicazione sul World wide web e in seguito i social, la disgregazione indotta nel corpo sociale dal trionfo del neoliberismo e la crisi economica e sociale degli ultimi quindici-vent’anni sono tre fenomeni che si sono progressivamente saldati determinando una crisi di autorevolezza e quindi di legittimazione dei tradizionali canali di elaborazione, di discussione e di diffusione delle “verità condivise”: la scuola, l’università, la ricerca scientifica e i mezzi di comunicazione di massa mainstream, a partire dalla carta stampata.
Si sono così moltiplicate, soprattutto grazie al Web, e più di recente ai social, delle modalità di informazione sottratte a qualsiasi forma di controllo, di regolazione e di verifica riguardo al nesso tra messaggio e realtà. Queste modalità di informazione sono sorte spesso spontameamente – basti pensare alle credenze che circolavano nel Movimento Cinque Stelle delle origini – ma in seguito sono state sempre più esplicitamente finalizzate a formare e a espandere dei pubblici “chiusi”, completamente intrappolati nelle loro bolle cognitive, e fortemente fideistici.
Sono così comparsi degli specialisti della comunicazione, ricercati sempre avidamente da imprese e da alcune forze politiche, il cui fine non è più l’educazione, un’informazione corretta oppure la costruzione di argomenti anche di parte ma razionali ma al contrario la diffusione di messaggi capaci di di captare rapidamente l’attenzione in un universo comunicativo iper-affollato e soprattutto di far leva efficacemente sulle emozioni.
Sappiamo da anni che in una situazione di questo genere la comunicazione politica può sganciarsi totalmente (e lo fa sempre più spesso) da ogni forma di rapporto ma anche di verisimiglianza col reale e da qualsiasi procedimento di verificazione collettiva. Oggi sta accadendo che in molti paesi i promotori e diffusori di post-verità partono già da una forte base di utenza e sono in grado di mettere in campo finanziamenti e strumenti tecnologici di straordinaria potenza così da determinare successi elettorali e successivamente linee di azioni statali capaci di saltare pie’ pari non solo qualsiasi dialettica democratica ma anche qualsiasi relazione con il mondo della scienza e della ricerca.
Se ciò è vero in generale, nel campo ambientale la post-verità rappresenta un problema più grave che in altri campi in quanto la descrizione della crisi ecologica e le indicazioni di gran parte dell’ambientalismo trovano il loro fondamento anzitutto nella ricerca scientifica, cioè in un metodo basato sulla verifica empirica delle ipotesi e delle affermazioni riguardanti la realtà e su una discussione regolata e consensuale dei risultati di questa verifica. Peraltro, come ricordava opportunamente a suo tempo Marco Revelli illustrando il concetto di “società del rischio”
Ulrich Beck insiste sulla non immediata percepibilità dei rischi più tipici delle società avanzate (radioattività, morbo della «mucca pazza», biotecnologie, eccetera) e sulla necessità di una mediazione linguistica (discorsiva) e tecnica (strumentale) da parte della scienza o comunque da figure di esperti che regolano la percezione sociale del rischio. I rischi tipici della tarda modernità – scrive infatti – «inducono sistematicamente danni irreversibili, rimangono generalmente invisibili, si basano su interpretazioni causali, e così si producono solo e soltanto in termini di sapere (scientifico o antiscientifico che sia). Nel sapere possono essere cambiati, ridotti o ingranditi, drammatizzati o minimizzati e sono in questo senso particolarmente aperti a processi sociali di definizione. In tal modo i mass media e le professionalità deputate alla definizione dei rischi assumono una posizione chiave in termini sociali e politici»8
mentre è proprio questa posizione chiave è radicalmente rimessa in discussione nel regime di post-verità.
Le analisi e le proposte operative dell’ambientalismo sono infatti completamente determinate ma anche legittimate pubblicamente dal fatto che la comunità scientifica condivide la convinzione che la biodiversità si sta riducendo, che le microplastiche aumentano e che il clima cambia per mano dell’uomo e che tutti questi fenomeni hanno conseguenze di un certo tipo. Quando una parte egemone della comunicazione politica non solo può tranquillamente negare queste conclusioni, non solo ne può inventare altre di sana pianta ma può accusare gli scienziati di ordire complotti ai danni del popolo, siamo in una situazione in cui le politiche ambientali possono completamente sparire dal dibattito ed essere smantellate. E lo spazio per una proposta ambientalista si riduce a poco o niente. Ancora una volta, le lezioni di questi primi mesi della seconda amministrazione Trump non fanno che confermare drammaticamente queste previsioni.
Insomma
L’ascesa delle destre estreme in un gran numero di paesi del mondo, e in molti dei più importanti, sta producendo effetti devastanti su assetti istituzionali, relazioni sociali, rapporti economici, equilibri culturali che erano stati dominanti e apparentemente inscalfibili per decenni e in alcuni casi per secoli (solo nei romanzi distopici si sarebbe potuto immaginare, fino a una dozzina di anni fa, la possibilità di un regime fascista negli Stati Uniti).
Tra le molte cause che contribuiscono a questa ascesa ci sono le due principali crisi degli ultimi decenni: quella legata alla crescita delle disuguaglianze economiche e quella ambientale. Entrambe queste crisi sono in larga parte conseguenze delle politiche neoliberiste affermatesi a partire dalla fine degli anni Settanta, politiche che le destre estreme mainstream abbracciano tuttavia senza riserve e per lo più anzi estremizzano.
La crisi ambientale globale, già acceleratasi sensibilmente a partire dagli anni Ottanta, sta dentro questo gorgo politico e dentro questo gorgo si sta ridefinendo e deve essere ripensata.
Il nesso tra destre estreme mainstream, ambiente, ambientalismo e politiche ambientali è un nesso gravido di catastrofi ed è perciò cruciale sforzarsi di volgere su di esso uno sguardo aggiornato e lucido.
1 Tra i tanti esempi possibili si veda Giorgio Nebbia, “Breve storia della contestazione ecologica”, in Id., Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo 1970-2013, a cura di Luigi Piccioni, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2014 (“Quaderni di Altronovecento”, n. 4), p. 188 (originariamente in “Quaderni di Storia Ecologica”, n. 4, giugno 1994, pp. 19-70).
2 Una classica lettura introduttiva, non esaustiva né aggiornata ma che ha il pregio di tentare un affresco ampio e di lunga durata, resta la Breve storia del neoliberismo di David Harvey, pubblicata a Milano da Il Saggiatore nel 2007 (l’edizione originale anglosassone è di due anni prima).
3 Nella vasta letteratura sull’argomento si può vedere ad esempio l’analisi fatta da Pierre Bourdieu in Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998 (l’edizione originale francese è dello stesso anno), in particolare nel capitolo della prima parte dedicato a virilità e violenza.
4 Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e Rivoluzione scientifica. Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina, Milano, Garzanti, 1988 (edizione originale statunitense 1980).
5 Christopher Sebastian Parker, “The radical right in the United States of America”, in The Oxford Handbook of the Radical Right, a cura di Jens Rydgren, New York, Oxford University Press, 2018, pp. 892-893. Un campionario esemplare dei luoghi comuni delle destre estreme sulla donna e il femminismo e sull’ambiente e l’ambientalismo è nel pamphlet del generale Vannacci Il mondo al contrario, autoprodotto nel 2023 e agevolmente rintracciabile in rete.
6 Va osservato tuttavia che la recente ondata globale di legislazioni repressive contro la libertà di manifestare anche in forme non violente, legislazioni volte spesso a colpire in modo esplicito l’ambientalismo, non è un’esclusiva dei governi di estrema destra e mostra una difficoltà crescente a tollerare il dissenso anche da parte di governi moderati e persino socialdemocratici.
7 Alla questione del rapporto tra post-verità e questione ambientale è dedicato ad esempio il recente libro di Bram Büscher, The Truth about Nature. Environmentalism in the Era of Post-truth Politics and Platform Capitalism, Oakland, University of California Press, 2020.
8 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2001, p. 158, n. 128, con riferimento a Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000.

