OPAL all’ONU – Cronaca da New York
La “spedizione” a New York di OPAL è occasione unica e fortunata, e ci consente una salutare uscita dal clima italiano (e bresciano) e uno sguardo su temi e pratiche che non ci sono consuete ma forse potrebbero (dovrebbero?) diventarlo.
L’occasione è la partecipazione alla «3a Conferenza delle Nazioni Unite per la Revisione del Programma d’Azione per prevenire, combattere e sradicare il commercio illecito delle armi leggere e di piccolo calibro in tutti i suoi aspetti e il suo Strumento internazionale per il tracciamento». Già comprendere il titolo – che ho tradotto grossolanamente dall’inglese – è faccenda complessa e richiede una ricostruzione storica e anche lessicale. Il Programma d’Azione è un piano d’intervento in un particolare settore, per risolvere un particolare problema, ed è una formula entrata nell’uso comune nel mondo anglosassone – e quindi nel mondo – semplicemente con l’abbreviazione PoA. L’oggetto della conferenza è il commercio illecito, e questo è importante perché è definizione ben diversa da commercio illegale o anche traffico, cioè comporta una considerazione più ampia rispetto a ciò che semplicemente è fuorilegge e include una sottolineatura degli effetti “non leciti”, non tollerabili, di un “commercio”, cioè di un’attività che è fondamento stesso della nostra vita quotidiana. L’oggetto di questo “commercio illecito” si esprime meglio meglio con la formula inglese small arms and light weapons (SALW), definizione che comprende tutte le armi da fuoco portatili e trasportabili da una sola persona, anche i lanciagranate anticarro e i cosiddetti MANPADS (sistemi antiaerei portatili, tipo i russi Igla e gli Stinger americani).
Quella del giugno 2018 è la terza revisione di un PoA adottato nel 2001, prevedendo aggiornamenti e correzioni ogni sei anni in base ai risultati ottenuti nella lotta al commercio illecito di SALW, aggiornamenti che a loro volta vengono preparati da riunioni biennali tra una revisione e l’altra. Dal 2005 è stato abbinata all’adozione dell’ITI, International Tracing Instrument, che richiede che gli stati si assicurino che tutte le armi siano sottoposte a marcatura e che ne sia tenuta la registrazione, in un quadro di cooperazione internazionale sul tema del tracciamento. Da allora PoA e ITI procedono associati nei meeting e nei rapporti annuali pubblicati dall’Ufficio ONU per il Disarmo (i rapporti dell’Italia – un paese che produce 800.000-1.000.000 di SALW ogni anno e che è considerato tra i primi cinque produttori al mondo – sono vergognosamente carenti, così come la partecipazione italiana ai programmi di cooperazione internazionale sul disarmo).
Le organizzazioni non governative partecipano a tutto questo processo come “osservatori”, cioè non hanno nessun ruolo decisionale ma possono costituire gruppi regionali e tematici, presentare dichiarazioni scritte sul contenuto dei lavori ai delegati attraverso la presidenza, organizzare in proprio side events, cioè riunioni e presentazioni durante le pause dei lavori principali e naturalmente fare pressioni sulle delegazioni governative perché si tengano in conto le esigenze avanzate in nome della società civile.
Certamente, per OPAL è stato un importante riconoscimento quello di essere una delle 67 ong accreditate per seguire i lavori di questa conferenza. Tuttavia, non bisogna farsi illusioni, la partecipazione delle ong a un evento internazionale in sede ONU accresce la legittimità del percorso attraverso cui si raggiunge una decisione ovvero – come in questo caso – si valutano i risultati di una precedente decisione in vista di una riformulazione, ma rimane una scommessa quella di poter influire sulle delegazioni nazionali per rendere più incisivo il controllo sulle armi leggere e la loro diffusione. Per le ong, l’occasione è comunque da cogliere, sia perché l’ONU è una “vetrina” prestigiosa dove si esibiscono i risultati della propria attività quotidiana – come puntualmente hanno fatto le grandi ong che vantano copiosi finanziamenti –, sia per ottenere il sostegno delle più impegnate delegazioni nazionali a qualche più serio emendamento.
È lo stesso meccanismo di consenso all’interno delle procedure delle Nazioni Unite a rappresentare un elemento di debolezza di tutta la complicata impalcatura legislativa ed organizzativa che caratterizza anche il tema del commercio illecito delle SALW. Questa Conferenza di revisione si è svolta sotto l’imperativo di una precedente raccomandazione dell’Assemblea Generale affinché il consenso sul documento finale sia unanime, come del resto è stato fin dalla prima adozione del PoA. Ciò significa che ogni rafforzamento della legislazione contro il commercio illecito di armi leggere passerà soltanto su un testo che tutti gli stati membri potranno sottoscrivere.
È evidente che un siffatto meccanismo di voto mette ogni maggioranza, anche quella vicina al 100% dei delegati, alla mercé della più piccola minoranza, al limite anche di un solo delegato contrario, ma questa è l’unica via sicura per costruire una legislazione internazionale che entri subito in vigore e vincoli tutti i 193 stati membri dell’ONU a rispettarla. La via alternativa sarebbe quella dell’approvazione a maggioranza di un vero e proprio trattato internazionale multilaterale, che richiederebbe di conseguenza la firma e la ratifica da parte di ciascuno stato e che diverrebbe efficace solo dopo un congruo lasso di tempo e solo quando fosse stato ratificato da un significativo numero di paesi. È stata la via con cui si è varato nell’aprile 2013 il Trattato sul commercio delle armi convenzionali, il cosiddetto ATT, poi firmato da 130 paesi ma ratificato solo da 95, e diventato effettivo nel dicembre 2014, alla ratifica del cinquantesimo paese. Non lo hanno firmato paesi del calibro di Cina, India, Russia, Pakistan, Afghanistan, Bielorussia, Siria, Iran, Arabia Saudita; altri come Stati Uniti, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Israele l’hanno firmato ma non ratificato. Negli Stati Uniti, alcuni ambienti neo-conservatori stanno consigliando a Trump non solo di non procedere alla ratifica ma addirittura di recedere dalla firma già apposta dall’amministrazione Obama.
In pratica, la Conferenza ha cercato la costruzione dell’unanimità su un testo via via emendato, cercando le parole – the language – che potessero tener conto delle obiezioni senza troppe concessioni di contenuto, ovvero procedendo a espungere le proposizioni più controverse su cui vi sono state le opposizioni di più delegati. Una procedura “al ribasso”, se si vuole, ma che ha cercato di evitare l’adozione a maggioranza, magari anche su un più incisivo testo, però esposto di fatto a larghe disapplicazioni proprio da parte dei maggiori produttori ed esportatori di armamenti, che non avendo votato o ratificato il trattato certo non si adeguerebbero alla volontà regolativa della maggioranza dei paesi del consesso internazionale.
Se questi sono i maggiori limiti di metodo della cornice multilaterale, ci sono poi le gravi carenze conoscitive nel merito della questione.
Com’è anche esperienza diretta di OPAL, tutto ciò che gira attorno alle armi leggere ha basi conoscitive solo parziali, le fonti sono incerte anche nei paesi di più consolidata tradizione statistica, se poi si parla di armi illecite o commerciate illecitamente si entra in un campo surreale, studiato molto e tuttavia assai poco conosciuto.
I soli dati globali su cui oggi si può basare ogni considerazione e ogni politica contro le armi illecite sono forniti da Small Arms Survey di Ginevra, un centro di ricerca indipendente ma in realtà molto “governativo”, dal momento che è direttamente finanziato dal Ministero degli affari esteri della Confederazione svizzera.((Inoltre SAS riceve sostegno economico dai governi di Canada, Finlandia, Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Gran Bretagna.)) Per sua stessa ammissione metodologica, i dati che SAS fornisce sono solo in parte ricavati da fonti ufficiali e per il resto sono largamente stimati.
Quante sono le SALW in circolazione nel mondo?
Small Arms Survey dà questi numeri: 857 milioni sono le armi leggere nelle mani dei civili, 133 milioni delle forze armate, 23 milioni delle polizie, in totale un miliardo e 13 milioni.((I dati sono stati resi noti proprio in concomitanza con la Conferenza di revisione newyorkese, mediante tre briefing papers firmati dal “consulente senior” di SAS, Aaron Karp.))
Sono cifre da prendere con le molle. Consideriamo le armi nelle mani dei civili: su 230 paesi analizzati, più della metà adottano qualche registrazione delle armi civili, ma per ben cento paesi SAS ha dovuto ricorrere unicamente alle “stime degli esperti” o alla comparazione con altri paesi, cioè a qualcosa che non ha nulla a che fare con la statistica; e per altri 94 paesi il dato semplicemente non è disponibile.
Non adottano registrazione gli Stati Uniti, il paese più armato del mondo. In Canada la registrazione è stata addirittura abolita nel 2012. Com’è abbastanza prevedibile, non si sa nulla delle armi in possesso privato in Libano, Giordania, Afghanistan, Congo RDC, Venezuela, Yemen, se non che sono tante. Però per tutti questi paesi SAS indica una cifra, e così pure per paesi di cui si sa che le leggi sul possesso di armi sono ampiamente aggirate, ad esempio Pakistan, Turchia, Messico, Kenya. SAS afferma che in Cina circolano 50 milioni di armi non registrate, ma con ben scarse prove in mano.
Per l’Italia, come sappiamo, è obbligatoria non la registrazione dell’arma ma la licenza personale di possesso (il “porto d’arma”), e con la stessa licenza si possono detenere 3 armi comuni, 6 sportive, 8 armi storiche, un numero illimitato di armi da caccia.((Poche settimane dopo la Conferenza, precisamente con decreto datato 10 agosto 2018, il governo italiano ha modificato le norme che regolano il possesso di armi e i relativi permessi per “recepire” una direttiva europea del 2017. Nel far questo, tuttavia, ha esteso il numero di armi detenibili con una stessa autorizzazione: 12 armi sportive, 10 armi lunghe, 20 armi corte, con caricatori con un maggior numero di colpi.)) SAS attribuisce all’Italia 2 milioni di armi registrate, cioè di più delle “probabili” licenze (si dice siano oltre 1.100.000: come OPAL ha denunciato molte volte, il dato esiste ma non viene reso pubblico dal Ministero dell’interno per strumentale disorganizzazione), ma meno del massimo teorico (che sarebbe illimitato…). Inoltre, a questa cifra di fantasia Small Ams Survey aggiunge 6.609.000 armi “non registrate”, stima di esperti in libertà.
Se possibile, la situazione è ancora più opaca e ambigua per gli arsenali militari. Solo una trentina di paesi fornisce dati accurati sui propri inventari, si sa pochissimo circa la disponibilità delle armi obsolete, e non sempre – anzi quasi mai – i programmi statali di sostituzione hanno comportato la distruzione fisica delle armi. Da noi, in Italia, ha fatto testo il caso delle 45.000 pistole Beretta dismesse dalla polizia italiana e in parte finite nel 2005 in mano ai ribelli iracheni. Inoltre una notevole quantità di armi e munizioni è entrata nel mercato con il crollo di alcuni regimi statali e la conseguente dispersione degli stock – si pensi solo all’Albania nel 1997, all’Iraq dopo il 2003, alla Libia nel 2011…
Com’è possibile, in questo quadro di grave carenza di dati, affrontare la questione del commercio illecito a scala globale? Il principale problema non è proprio quello delle armi legalmente esportate dal Nord del mondo – che produce l’85% di tutte le SALW – verso il Sud, con la doppia finalità di fare affari e di tenere viva un’industria così rilevante per salvaguardare gli interessi dei ceti dominanti e controllare i ceti dominati, a casa propria e ovunque sembri utile? Non sono quelle le armi “legali” ma illecite, per ciò che comportano di sofferenze e di sangue innocente versato laddove vengono vendute o consegnate?
È in questa lampante contraddizione che si sono svolte le due settimane di conferenza a New York, a partire da una bozza di documento di 23 pagine in cinque sezioni redatta dal presidente, l’ambasciatore francese Jean-Claude Brunet, ed emendata articolo per articolo, parola per parola, dai delegati nazionali.
In questo lavoro di limatura si è materializzato – sempre attraverso le felpate ritualità della diplomazia ONU – lo scontro tra tre schieramenti.
Da una parte, molte delegazioni soprattutto africane e latino-americane hanno in molte occasioni vibratamente ricordato le conseguenze del commercio illecito di armi, che nei loro paesi sono drammaticamente evidenti: denuncia in cui si sono distinti soprattutto i delegati di Ghana, Liberia, Messico, del Caricom (la comunità degli stati caraibici, cui ha dato parola la delegata di Antigua e Barbuda). Poi si è notato l’attivismo e il pragmatismo di un gruppo di paesi non solo europei (Svizzera, Irlanda, Germania, Svezia, nonché il delegato dell’Unione Europea, ma anche Australia, Argentina, Brasile), che ha cercato di mantenere dentro il documento tutti gli elementi di rafforzamento dello sforzo internazionale contro la diffusione illegittima delle armi leggere. Infine, una sparuta pattuglia di rough countries ha praticato una feroce tattica per espungere dal testo tutti i punti qualificanti, proprio quelli che avrebbero fatto compiere un salto di qualità nella lotta contro la proliferazione delle armi leggere.
L’elenco di questi strenui oppositori è presto fatto: Iran, Siria, Israele, Stati Uniti, in seconda fila Egitto, Cuba, Russia. Si sono palesati sin dai primi giorni della conferenza, quando sono intervenuti molto duramente su tutta una serie di temi – che analizzeremo tra poco – e hanno mostrato una chiara volontà di non inserire nessuna novità di merito in una “lotta”, quella contro le armi illecite, che in verità fa acqua da tutte le parti. Poi, nella seconda settimana, il “lavoro sporco” se lo è assunto quasi del tutto il delegato iraniano, che ha preteso e imposto la modifica di gran parte degli articoli, rendendo superflua agli altri “oppositori” la necessità di venire allo scoperto. L’obiezione avanzata più di frequente è stata quella di aver inserito nella Revisione argomenti e relativa terminologia che non erano presenti nel PoA: si tratta di obiezioni formali, certo, ma come sappiamo la forma è sostanza sempre, e tanto più se si incide in un quadro normativo internazionale.
Quali sono state le questioni che hanno sollevato le maggiori opposizioni?
Sono stati messi in discussione i principi generalissimi contenuti nel preambolo, come la legittima auto-difesa degli stati – principio del resto affermato nella stessa Carta delle Nazioni Unite – ma anche i dettagli del lessico, come ad esempio le espressioni unauthorized end-users, non-state actors e illegal armed groups, introdotte nelle prime bozze e alle quali poi è stata preferita la formula più generica unauthorized recipients, talvolta con la specificazione di “criminali” e “terroristi”. In questo caso la scelta delle parole ha posto l’accento sui destinatari illegali piuttosto che enfatizzare la devastante diffusione delle armi nelle periferie urbane del mondo in sottosviluppo, quantitativamente ben maggiore.
Altra obiezione è venuta da una delle maggiori novità inserite nei lavori preparatori, proprio quella dell’individuazione del sottosviluppo come uno degli effetti della patologica violenza diffusa dalle armi nel Sud del mondo, e cioè il collegamento organico del PoA con i Substainable Development Goals decisi nel 2015 e da realizzare entro il 2030 (la cosiddetta Agenda 2030), e in particolare con l’Obiettivo numero 16 (“Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, fornire l’accesso alla giustizia per tutti e creare istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli”) e ancor più in dettaglio il target 16.4 (“Entro il 2030, ridurre in modo significativo i flussi finanziari illeciti e di armi, rafforzare il ritorno dei beni rubati e combattere ogni forma di criminalità organizzata”).
Ora, proprio questa novità è stata sentita da alcuni paesi come estranea al PoA, e quindi da eliminare, o troppo ambiziosa, come hanno detto i delegati di Siria e Cuba. Il delegato della Cina ha chiesto invece di cancellare le parole sottolineate dalla frase to promote a culture of peace and non-violence through education and the rule of law at the national, subregional, regional, and international levels, in line with the 2030 Agenda for Sustainable Development, in combating the illicit trade in small arms and light weapons in all its aspect: a conferma, se ce ne fosse stato bisogno, di ciò che si pensa a Pechino della cultura di pace e della nonviolenza.
Durante la discussione della terza sezione, dedicata all’ITI cioè al tracciamento delle armi, il delegato degli Stati Uniti ha chiesto di sostituire la parola strict (riferita alla struttura di regolazione nazionale) con effective, unauthorized (fabbricazione di armi) con illegal, arms transfer con import/export, nonché di cancellare la parola control perché l’ITI prevede solo il tracciamento, non il controllo. C’è da stupire, se si pensa al ruolo di gendarme internazionale, soprattutto nelle questioni del traffico d’armi, che il governo americano ha sempre rivendicato per sé. Qui a New York, in queste due settimane di lavoro e trattative al massimo livello internazionale, il delegato USA ha infaticabilmente lavorato per ridurre lo spettro di competenza degli strumenti regolativi e i vincoli imposti agli stati e ai governi, rivelando che la principale preoccupazione a Washington è quella di non finire dall’altra parte della sbarra, cioè tra i paesi che il traffico lo gestiscono, lo alimentano e lo favoriscono e che possono incorrere nelle sanzioni dei tribunali di tutto il mondo. Qui, quando è stato necessario, le grandi potenze si sono mescolate agli “stati canaglia” per resistere alla forte pressione della stragrande maggioranza dei paesi del mondo e di tutti i rappresentanti della società civile presenti, dicendo di sé molto più di quanto normalmente vogliano ammettere.
Solo così si può spiegare l’implacabile richiesta di cancellare dal documento finale la menzione a ogni altra decisione dell’ONU in materia di controllo delle armi leggere, in particolare il Trattato sul commercio delle armi convenzionali del 2013 – con la motivazione che non è stato approvato all’unanimità e quindi non firmato o ratificato da alcuni paesi – e la Convenzione ONU contro il crimine organizzato transnazionale del 2001, contenente il Protocollo sulle armi da fuoco, anch’essa non firmata tra gli altri da Stati Uniti, Russia, Israele, Pakistan, e non ratificata da Regno Unito, Giappone, Germania, Cina, Canada, Australia.
Altra importante novità, anch’essa contrastata variamente ma soprattutto da Stati Uniti, Cuba, Iran, Egitto, è stata quella di sottolineare la più decisa volontà di combattere la violenza basata sul genere e la violenza domestica. In considerazione del fatto che su 132 paesi, solo 7 hanno fornito dati disaggregati per genere sulle vittime della violenza armata, l’azione di lobbying della società civile ha cercato – senza riuscirci – di mantenere la parola strengthen (rafforzare) invece della più debole encourage (incoraggiare) in riferimento alla raccolta di dati disaggregati per genere nei rapporti nazionali sull’impatto del commercio illecito di SALW.
Nello stesso senso andava la richiesta di inserire “assicurare” (invece di “incoraggiare”)
in relazione alla piena partecipazione e rappresentanza delle donne, anche in ruoli di leadership, e in qualità di agenti del cambiamento nell’attuazione degli obiettivi del PoA: richiesta respinta dalla Conferenza, che invece ha accolto un’aggiunta importante (“raccolta e distruzione di armi”) tra i programmi in cui le donne dovrebbero essere coinvolte.
Anche l’inserimento dei concetti delle situazioni di post-conflict e non-conflict in cui rendere sicuri i depositi di forze armate e polizie ed estendere le misure preventive del PoA è stato bersaglio di molte opposizioni da parte dei soliti pochi delegati. Per certi governi, si tratta evidentemente di ridurre o quantomeno non estendere la propria responsabilità al di fuori delle aree e dei momenti di guerra, non-conflict avrebbe riportato dentro il documento non solo la violenza diffusa in conseguenza dei conflitti armati ma anche quella endemica nelle periferie sia del Sud che del Nord del mondo.
La specificazione “in all its aspects”, che compare del resto nello stesso titolo della Conferenza di revisione, è stata oggetto di una dura battaglia attraverso un po’ tutto il testo perché – è chiaro – allarga ogni oggetto al quale si riferisce. Il delegato dell’Iran è giunto a sostenere, con una certa arguzia, che l’espressione “in tutti gli aspetti” non andava riferita né alle SALW né tantomeno al commercio illecito, bensì ai verbi che precedono (“prevenire, combattere, sradicare”).
Questo punto ha comportato alcune deviazioni di minor rilievo (inserire o no tra le armi leggere i MANPADS? Ovvero le armi fabbricate con le tecniche di stampa in 3D?) e invece il prepotente ritorno di attualità della rilevantissima questione delle munizioni, che non è mai stata inserita nelle principali decisioni sul controllo delle armi, né nel PoA e neppure nell’ATT, nonostante sia evidente anche a un osservatore neutrale l’ipocrisia di escludere le munizioni da qualsiasi controllo e restrizione a livello internazionale.
La questione del controllo del commercio delle munizioni si trascina da lustri. Di chi sia stata e sia la responsabilità principale possiamo dirlo con le stesse parole pronunciate dal delegato degli Stati Uniti in una delle prime giornate della Conferenza, quando si è cominciato ad affrontare il capitolo munizioni: «Sono vent’anni che teniamo le munizioni al di fuori di ogni trattato internazionale, non sarà ora che finiremo per introdurle». Parole di una certa arroganza, visto che sono state pronunciate di fronte ai delegati di quasi duecento paesi, tutti membri paritetici – almeno formalmente – delle Nazioni Unite, ma che però hanno il pregio di chiarirci con quale atteggiamento il governo di Washington abbia affrontato il tema delle munizioni, in questa Conferenza come in ogni trattativa internazionale precedente: vi si scorge il peso della lobby delle armi e della National Rifle Association((Si legga qui per conoscere la linea della NRA sulle munizioni.)) e la consapevolezza che, al di là dell’ossessione della propria sicurezza, il possente apparato governativo statunitense non è in grado di controllare il fiume di armi e munizioni che contribuisce ogni giorno a distribuire sul pianeta.
Una piccola nota a margine. I delegati presenti alla conferenza erano, in grande maggioranza, funzionari diplomatici incaricati del dossier “armi leggere” dalle proprie rappresentanze nazionali permanenti accreditate all’ONU, spesso assistiti da esperti delle questioni sul tavolo. Le generazioni mescolate, diplomatici di lungo corso o giovani consiglieri, hanno messo in campo un grande impegno tattico, e anche una buona resistenza fisica, ma è stato evidente che i delegati avevano un margine ristretto di manovra, e che hanno dovuto sempre ottenere l’accordo dei propri governi quando messi di fronte ad accettabili controproposte. Il delegato USA si rivolgeva costantemente al suo assistente – un esperto officer del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, notoriamente la più trascurata agenzia federale americana e “bestia nera” della NRA – per ricevere consiglio sui punti controversi, e questi a sua volta interrogava via smartphone i consulenti giuridici che, fuori del Palazzo di Vetro, seguivano la conferenza dal loro ufficio. I delegati cinese, siriano, iraniano hanno in qualche occasione chiesto tempo per consultarsi col proprio governo.
Tuttavia, questa volta la compattezza dei “blocchi” più determinati – i paesi africani, i paesi dell’Unione Europea, i paesi latino-americani – ha messo gli Stati Uniti di fronte alla responsabilità di far fallire la Conferenza sul punto delle munizioni, sul quale gli altri “oppositori” li hanno lasciati sfacciatamente isolati, forse convinti che l’opposizione USA alla fine si sarebbe dimostrata granitica.
Nel giorno finale della Conferenza, a poche ora da una chiusura dei lavori, quando gli Stati Uniti hanno giocato l’ultima carta dichiarando che, certo a malincuore, ma non avrebbero acconsentito all’inclusione delle munizioni, a turno i delegati di numerosi paesi sono intervenuti con decisione e toni fino ad allora non usati per ribadire che, invece, per loro non era sottoscrivibile nessun documento che avesse escluso le munizioni. Si sono distinti per la forza del proprio intervento il delegato dell’Ecuador e quello del Ghana, che solo due giorni prima aveva raccolto insieme alla Germania le firme di 75 paesi in calce a un documento dove era scritto in chiaro che lo scopo della Conferenza non era mantenere lo status quo ma correggere i difetti e le carenze che causano un enorme numero di morti ogni anno.
Anche l’Italia ha sottoscritto questo documento, disciplinatamente allineata al “blocco europeo” che si è mosso sempre in compattezza, in coerenza con le indicazioni dei documenti preparatori adottati dal Consiglio d’Europa e dal Parlamento europeo. Ma per il resto, la delegazione italiana non è mai intervenuta nella discussione, non ha mai preso la parola neppure per difendere gli interessi dei produttori italiani di small arms e di munizioni, che sono tra i principali del mondo, con marchi prestigiosi e noti a tutti, in particolare Beretta e Fiocchi Munizioni, soci di primo piano e molto attivi all’interno della National Rifle Association. Sarebbe stata una posizione coerente, almeno in sintonia con il ruolo di promozione commerciale dell’industria nazionale della difesa che sinora hanno svolto il Ministero degli esteri italiano e le nostre rappresentanze diplomatiche. Questo silenzio è sembrato, invece, la scelta di defilarsi da una questione scottante per il ruolo di primo piano dell’Italia, lasciando il compito ai nostri “alleati”.
Ci sono parse più coerenti altre posizioni europee, come quelle di Germania e Svizzera, paesi anch’essi grandi esportatori di armi ma che sembrano intenzionati a occupare responsabilmente la propria fascia di mercato. In un loro side event congiunto presentato ai margini della Conferenza, hanno fatto un bilancio della propria esperienza nel cosiddetto post-shipment verification, un insieme di procedure che cerca di evitare o almeno limitare le possibili diversions (“deviazioni”) sia dell’utilizzatore finale (armi vendute a un paese e poi utilizzate in paesi differenti, o vendute alle forze armate e poi finite nelle mani di gruppi armati) che delle modalità di utilizzo (per esempio contro la popolazione civile), in violazione alle assicurazioni fornite al momento della vendita e contenute nell’autorizzazione all’export concessa dai propri governi alle aziende produttrici.
Sono solo tre i paesi al mondo che hanno un programma di controllo post-shipment. Gli Stati Uniti hanno fatto da battistrada, varando nel 1990 il programma “Blue Lantern” per impedire il “commercio grigio” e verificare gli end-users nelle vendite commerciali di armi, e poi anche delle vendite governo-governo (Golden Sentry program, dal 2003). Tuttavia, il Dipartimento di stato – che possiede ormai un database storico di 160.000 controlli – non ne dà conto pubblicamente se non in modo sporadico, caso per caso. Sappiamo che verifica solo un piccolo campione (meno dell’1%) delle decine di migliaia di licenze di export concesse annualmente (nel 2013 918 checks per 93 paesi; nel 2014, 564 checks in 79 paesi su oltre 63.000 licenze; 570 checks su 44.100 licenze nel 2015), accertando una media del 20% di casi irregolari.
La Svizzera ha deciso analoghi controlli dopo essere stata coinvolta in alcuni “incidenti post-vendita” che hanno avuto come protagonista l’industria elvetica (di stato) RUAG.((Si tratta di tre “casi”: i 40 obici blindati M109 venduti agli EAU nel 2004 e rintracciati in Marocco nel 2005, i 2,3 milioni di $ di munizioni vendute nel 2009 al Qatar, poi trovate nelle mani dei ribelli libici nel 2011, e le bombe a mano vendute agli EAU nel 2003-4 e trovate in Siria nel 2012, dopo essere state rivendute alla Giordania.)) Dal 2006 ha deciso di inserire nelle licenze una clausola di non re-export, trasformata poi nel 2012 in emendamento dell’ordinanza federale sull’export di armi.
La Germania ne ha seguito l’esempio con un programma-pilota dal 2015, soprattutto per ciò che riguarda i meccanismi di valutazione del rischio (a seconda del tipo di materiale, dell’area geografica di esportazione e dei risultati delle verifiche precedenti) e spingendo le controparti straniere a sottoporsi a controlli post-vendita su base volontaria. Fatto importante, i resoconti dei controlli vengono allegati alla relazione annuale sull’export al Parlamento tedesco.
Di fronte allo sforzo svizzero-tedesco di trasparenza, che si è accompagnato alla posizione progressiva dei due paesi sulla questione delle munizioni, il side event presentato dalla Missione permanente italiana in collaborazione con il Global Firearms Programme dell’UNODC ha rivelato un atteggiamento governativo che definire opaco è forse riduttivo. Mentre la Missione si è sforzata di enfatizzare i risultati investigativi delle forze dell’ordine italiane nel contrasto al traffico di armi internazionale, l’intervento dell’Ufficio Droga e Crimine dell’ONU ha messo l’accento su un prezioso indicatore statistico, quello delle armi sequestrate per tutti i paesi che hanno aderito all’inchiesta pubblicata nel 2015,((UN ODC, Study on Firearms 2015. A study on the transnational nature of and routes and modus operandi used in trafficking in firearms, Vienna, 2015.)) l’unico che può dare una dimensione realistica al fenomeno del commercio illecito. Ebbene, l’Italia – che pure ha messo a disposizione dell’ODC il contributo degli esperti dell’ANPAM, l’Associazione dei fabbricanti di armi e munizioni – non ha partecipato all’inchiesta, e non è sicuro che parteciperà all’edizione 2018 appena lanciata.
Ma torniamo, in conclusione, ai lavori della Conferenza, la cui ultima seduta si è chiusa fuori tempo massimo alle 3:45 di sabato 30 giugno, dopo un duro braccio di ferro e con votazioni a maggioranza su due paragrafi nodali (munizioni e SDG). Alla fine il documento nella sua forma finale è stato approvato all’unanimità e quindi contiene sorprendentemente tutti i punti che gli “oppositori” avrebbero voluto escludere, quelli sulle munizioni e gli SDG ancora presenti nel paragrafo 13, sebbene molto limitati altrove. La menzione al Firearms Protocol è scomparsa ovunque ma sono ancora presenti i contenuti principali degli altri strumenti vincolanti. Il “genere” è rimasto tra i punti qualificanti, e persino il non-conflict è nel testo.
Ora il documento è al vaglio dei legali dell’ONU, sino ad oggi non ci sono state prese di posizione ufficiali neppure da parte di IANSA, l’organizzazione che ha coordinato la presenza della “società civile” e che ha permesso l’accreditamento di OPAL. Una suspence che potrebbe nascondere un risultato oltre le aspettative, per lo meno dal punto di vista diplomatico e del diritto internazionale. O anticipare la solita tattica, che noi conosciamo bene in Italia, di far cadere nel silenzio tutto ciò che potrebbe prefigurare cambiamenti poco graditi (di solito si impiega l’eufemismo “squilibri”) nella normativa internazionale, per di più risultanti dallo sforzo congiunto della stragrande maggioranza dei governi del mondo, per una volta concordi nel riconoscere i disastri sociali politici e persino economici causati dalla proliferazione delle armi leggere e delle loro munizioni.