Ordine di demolizione
In questo mese di giugno 1964 avremmo dovuto assistere, qui a Roma, a un fatto di grande importanza per dir così etico-urbanistica, tale da rallegrare tutti coloro che, pochi o tanti, si son sempre battuti in difesa del patrimonio storico e ambientale di questa miserabilissima città. Avremmo cioè dovuto assistere alla demolizione, secondo quanto ordinato dal sindaco il 16 maggio
scorso, della villa abusiva costruita dall’architetto Luigi Moretti per la marchesa Poli Liliana vedova Gerini in mezzo ai ruderi del medievale castello Caetani presso la tomba di Cecilia Metella, sulla via Appia Antica: uno degli scempi più straordinari e impudenti compiuti a Roma in questi ultimi anni, con la complicità della Soprintendenza ai monumenti e l’acquiescenza, fino al fatto compiuto, dell’amministrazione comunale.
Com’era da aspettarsi la demolizione (che avrebbe risarcito la giustizia offesa, riparato all’illegalità commessa, umiliato la prepotenza dei padroni di Roma) non c’è stata, e sarebbe azzardato sperare che possa mai essere effettuata nei mesi o anni prossimi. Non resta dunque che spiegare in che consista l’abuso, cosa rappresenti sul piano culturale e urbanistico, e come mai la civica amministrazione abbia potuto tollerarlo, per poi doversene amaramente pentire, a cose fatte.
In che consista e cosa rappresenti, lo abbiamo già scritto dopo che, passeggiando nella campagna dell’Appia Antica, avevamo avuto la ventura di scoprire che, al posto di un torrione della cinta fortificata che fiancheggia la tomba di Cecilia Metella, era stata costruita una villa pacchiana e superpanoramica, a due piani, con veranda, tettarelle in tegole usate e tutto il resto. Siamo nel cuore della campagna romana, nella sua zona più illustre, cantata, dipinta, disegnata, descritta nei secoli da poeti, artisti e viaggiatori di tutto il mondo: la nuova costruzione, scrivevamo, dimostra in pieno in che conto la nostra società tiene l’eredità del passato e smentisce tutte le regole elementari alle quali da decenni dovrebbe ispirarsi il nostro comportamento di uomini civili. Un rudere stupendo è stato distrutto e ricostruito in falso, in barba ai più semplici criteri della conservazione e del restauro; una nuova costruzione viene incastrata in un ambiente reso intoccabile dall’ammirazione universale; una zona che dovrebbe essere da tempo e per sempre pubblica e accessibile a tutti i cittadini, risulta privatizzata a vantaggio di pochi, primo passo verso il completo rovesciamento di destinazione della superstite campagna alle porte di Roma, da parco archeologico-naturale a sudicia periferia residenziale.
Tutto questo, mentre la stampa, Italia Nostra, e alcuni consiglieri comunali denunciavano il fattaccio, parve affatto normale a quelli della direzione generale delle Antichità e Belle Arti i quali, con l’improntitudine che li distingue, in un comunicato memorabile del 10 febbraio, dichiararono che non c’era nulla da scandalizzarsi, in quanto si trattava di “restauro”: con il che davano un’ennesima prova della loro incapacità a difendere anche i monumenti più famosi e consacrati, e della loro propensione a considerare restauro tutto quanto rinnega i principi-base della scienza del restauro.
Il telegramma di protesta di Italia Nostra è del febbraio, l’ordine di demolizione è del 16 maggio successivo, la domanda di licenza da parte degli interessati risale nientemeno al 1960: cerchiamo di capire come mai ci siano voluti quasi quattro anni, alla civica amministrazione, per rendersi conto di quanto veniva perpetrato presso la tomba di Cecilia Metella. È una cronaca istruttiva che illustra assai bene il livello della burocrazia capitolina, i sistemi normalmente adottati nell’amministrazione urbanistica di Roma.
Il 22 luglio 1960 la marchesa Poli vedova Gerini (della catena Gerini-Torlonia-Immobiliare, proprietari di mezza campagna romana) chiede una “piccola licenza per lavori di adattamento e restauro da eseguire in una casetta in via Appia Antica”. Attenzione alle parole: “piccola licenza” pare sia un termine usato per indicare opere che comportano modesti lavori, e infatti essa è sommessamente richiesta per “adattamento e restauro” di una “casetta”. La realtà è naturalmente tutta diversa. Si tratta di un magnifico rudere di torrione medievale diroccato, ricoperto da bellissima vegetazione; la “casetta” è un piccolo locale ricavato, nel tempo dei tempi, in una parte della sua struttura, come è dato vedere in tanti monumenti della campagna romana e adibiti a magazzino per attrezzi, ricovero di pecorari, eccetera. Possibile che una marchesa si accontenti di un cosi modesto abituro, anche se il progetto di “adattamento e restauro” è dell’architetto Luigi Moretti, accademico di San Luca, premio Gronchi per l’architettura, eccetera? Possibile che nessuno si accorga delle vere intenzioni degli interessati, di trasformare da cima a fondo il rudere antico in villa a due piani? Pare di si, tanto più che il progetto presentato indica astutamente come uniche opere nuove, lo spostamento di qualche tramezzo interno della “casetta”.
La Soprintendenza ai monumenti del Lazio ha già dato il suo benestare da un mese all’”adattamento della casetta incorporata nel rudere”: il fatto che un modesto locale accanto a un rudere antico si trasformi in abitazione di lusso, nel cuore monumentale della via Appia Antica, non le dice niente: la deferenza verso il grande architetto toglie ogni dubbio. Accompagnato dall’alto parere della Soprintendenza, il progetto viene esaminato dal Comune: qui si fa notare che esso ricade nella zona più vincolata del piano territoriale paesistico (decreto del febbraio 1960), e in zona destinata a parco pubblico dal piano regolatore generale (giugno 1959).E come alla Soprintendenza è apparso perfettamente compatibile col piano paesistico (il che basterebbe a dimostrare che razza di piano fosse quest’ultimo, che sanzionava l’invasione edilizia, quindi la privatizzazione di tutta la campagna ai lati dell’Appia Antica), cosi il Comune trova del tutto normale lasciar costruire una villa privata in una zona che perfino il nefasto piano regolatore Cioccetti (allora in vigore) destina a parco pubblico: e alla commissione edilizia non pare vero, il 1 dicembre 1960, di dare parere favorevole all’opera. La licenza viene concessa il 2 marzo 1961. I lavori, a quanto si sa, vengono iniziati un anno dopo, il 28 febbraio 1962. Che è che non è, l’ispettorato edilizio fa una scoperta: si accorge che i lavori sono assai diversi da quelli normali di una “piccola licenza”, e che di ben altro si tratta che dello spostamento di tramezzi previsto dal progetto approvato. Ma i lavori non vengono fermati, gli interessati vengono urbanamente invitati a precisare i loro elaborati, affinché il Comune finalmente capisca quali sono le loro reali intenzioni. Nuova ammirevole machiavellica di proprietari e progettisti: lasciano passare otto mesi, e il 14 novembre 1962 presentano in Comune il progetto definitivo, o meglio, tanto per confondere le carte (e dimostrare che davvero solo di tramezzi si trattava nel progetto originario), una “variante”. Il fatto che anche il nuovo piano regolatore adottato nel frattempo (dicembre 1962), preveda parco pubblico in quella zona (oltre ad aver abolito le indicazioni del piano paesistico) non induce il Comune a intervenire: gli uffici, anzi, lasciano passare altri sei mesi, fino a che qualcuno, nel maggio del 1963, va a verificare in loco lo stato dei lavori.
Nuove sorprese: 1) i lavori sono sempre più difformi dal progetto originario (l’unico approvato), cioè si demolisce e ricostruisce, si fanno finestre e porte e coperture, si sopraeleva, eccetera; 2) c’è un gabinetto privo di luce diretta e una cucina di altezza insufficiente (mica male, per un architetto accademico di San Luca!); 3) i lavori, cioè la trasformazione abusiva di un rudere in villa a due piani, sono presso che ultimati, in fase di rifinitura. Ora che tutto è compiuto, gli uffici mostrano di allarmarsi: proprietari e progettisti vengono invitati a presentare la documentazione fotografica (supponiamo, dello stato delle cose preesistente ai lavori: quindici mesi dopo l’inizio dei medesimi!); quelli se ne guardano bene, il progetto di “variante” (ormai realizzata) va alla commissione edilizia in giugno, la quale sospende il giudizio, per lasci passare altri sette mesi, fino alla riunione del 4 febbraio 1964, dove il giudizio viene sospeso un’altra volta, “in attesa di ulteriore
istruttoria”. Non fosse scoppiato lo scandalo, il 6-7 febbraio, ad opera del “Mondo”, di Italia Nostra e di “Paese Sera”, la commissione edilizia starebbe ancora baloccandosi tra attese e rinvii. Finalmente, costretta dagli eventi, nella seduta del 24 febbraio, essa esprime parere favorevole all’annullamento della licenza del 1961, in quanto che essa era stata rilasciata “in base ad esibizione di tipi non rispondenti al vero” (cioè in base a un progetto truccato, nel quale figurava come “adottamento e restauro” quello che invece era demolizione, ricostruzione, completamento eccetera).L’ordinanza del sindaco è del 16 maggio 1964; in essa, oltre all’annullamento della licenza, si ordina “l’immediata sospensione dei lavori” (che peraltro sono finiti da un pezzo), si dispone per il “piantonamento fisso del cantiere”, e infine si diffida la marchesa a provvedere, “entro il termine di giorni venti al ripristino dello stato dei luoghi”.
Ora, che proprietari e speculatori tirino a imbrogliare le carte, questo è quasi normale: quello che è davvero incredibile (e qui sta il succo di tutta la triste storia) è che il progetto sia stato approvato dalla Soprintendenza, dagli uffici comunali, dalla commissione edilizia, senza che mai nessuno, per tre anni almeno, si sia accorto che esso, in apparenza proposto come “adattamento e restauro”, in realtà era inteso a tutt’altro, cioè alla radicale trasformazione dell’antica rovina in casa d’abitazione a due piani. Abbiamo dunque proprietari e progettisti che presentano progetti truccati, una Soprintendenza che viene meno ai principi elementari della conservazione e del restauro, una direzione generale al Ministero della Pubblica Istruzione che, a cose fatte (e mentre il Comune si accorge della bestialità commessa), si rallegra stolidamente del fatto compiuto, un Comune che per anni non capisce niente, che lascia costruire una villa privata in zona destinata a parco pubblico, e quando comincia ad accorgersi d’essere stato preso per il bavero, lascia passare mesi e anni prima di pronunciarsi, quasi volesse dar modo all’intraprendente marchesa di compiere tranquillamente l’abuso. Il tutto, quando è in giuoco la zona più delicata e veneranda di Roma, la zona monumentale più illustre dell’Appia Antica, come se si trattasse di una sopraelevazione ai Paridi, senza che siano mai stati interpellati, non diciamo gli enti tecnici e culturali qualificati, ma nemmeno le altre branche dell’amministrazione statale e comunale, che pur dovrebbero dire la loro in questioni del genere: la Soprintendenza alle antichità e la letargica Ripartizione comunale alle antichità e belle arti.
Ora ci sarà da ridere: l’ordinanza del sindaco impone il “ripristino dei luoghi”. Ecco una bella occasione offerta alle vigilanti autorità. Mentre la trasformazione del rudere in villa poteva considerarsi, alla stregua di concetti superati da decenni, un fantasioso restauro di completamento, l’operazione inversa che oggi si presenta può chiamarsi restauro di liberazione: per quanto i nostri bravi amministratori siano esperti in entrambe le cose (hanno lasciato trasformare in villa il pollaio sopra Casal Rotondo, in dimora patrizia la “casa del custode” sull’Oppio eccetera), hanno sempre mostrato una spiccata propensione per lo smontaggio dei monumenti alla ricerca del nocciolo più antico, alla ricerca del “prisco aspetto”, in nome della romanità: i ruderi falsi di via del Mare e via dell’Impero, il dente cariato, ossia l’Augusteo, sono i loro principali trionfi. Sotto dunque con il rudere-cottage di Cecilia Metella: quello che questa volta dovranno smontare non è eredità del passato, ma frutto della loro insipienza. Non perdano, dunque, la rarissima occasione di mostrarsi in regola con la cultura, la legge, l’interesse pubblico.
L’articolo è stato pubblicato dal settimanale II Mondo del 7 luglio 1964.