“Padania Classics”, un’apologia critica

Padania Classics ((Cfr. www.padaniaclassics.com Il concept del progetto è di Filippo Minelli, artista, cfr. http://www.filippominelli.com .)) è un progetto culturale molto importante, per almeno due ragioni e nonostante due limiti.

Padania Classics è importante, anzitutto, in quanto documentazione fotografica di una delle aree più industrializzate, abitate, coltivate, allevate, sversate, rifiutate e svincolate d’Europa, ribattezzata Padania nel Risiko nostrano. Si tratta di foto che non intendono essere belle e forse per questo riescono a essere giuste, nel senso di completamente impregnate della tonalità anemotiva dell’oggetto. All’indifferenza di cemento e insegne pubblicitarie nei confronti dei vecchi valori estetici si risponde con un ulteriore giro di indifferenza, adottando un atteggiamento di sfida impartecipe precluso ai più – generalmente il militante attacca (o glorifica), il sociologo descrive o cerca di farlo, e così via, insomma la tendenza è quella di piegare l’oggetto allo specifico interesse di un soggetto, mentre qui l’interesse del soggetto pare consistere soprattutto nel far spazio all’oggetto, mostrandolo in tutta la sua variegata datità. Sono panoramiche sobriamente referenziali, sintesi visive sottratte all’alternativa tra monumentalizzazione barocca del brutto (es. Cinico TV) ed espressione di denuncia, scandalo etc. La classicità evocata nel titolo viene legittimata seguendo in tutta la sua ampiezza lo stato sconclusionato delle cose, quello che ne esce è un reportage ossessivo su una realtà che, al netto di tutti i perché e i per come, indubitabilmente e senza che si possa aggiungere tanto altro, è. La volontà di costruire una mappa a misura di territorio smisurato fa quindi della quantità, della serialità pura uno dei tratti che più distinguono questo lavoro da altre imprese, più o meno affini((La documentazione fotografica è talmente estesa e “orientata” che i termini di paragone vanno cercati, a mio avviso, non nel pantheon della fotografia italiana ma in volumi che si sono occupati, con altri mezzi ma con spirito appunto affine, del medesimo oggetto. Ne ricordo due: il volume Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, F. Vallerani, M. Varotto (a cura di), Nuova Dimensione, 2005, contenente anche un piccolo ma incisivo dossier fotografico; la sezione Padania & No del sito curato da Fabrizio Bottini, soprattutto le note di viaggio su varie aree della pianura cfr. http://mall.lampnet.org/article/archive/334/)).

Le foto hanno girato parecchio in rete, il progetto infatti non è libro-centrico: oltre al volume, cioè l’Atlante dei Classici Padani (( Atlante dei Classici Padani , di Filippo Minelli ed Emanuele Galesi, Krisis Publishing, Brescia, 2015, testi in italiano e inglese. Al volume hanno collaborato Alberto Antoniazzi (infographics), Marta Comini (illustrazioni), Anna Carruthers (traduzioni); introduzione di Carlo Sala.)), Padania Classics comprende sito e pagina Facebook (aggiornati e partecipati), ma anche performance quali banchetti di promozione turistica con brochure low cost “Visit Padania” in occasione dell’Expo. Questo modo di approcciare l’evento degli eventi esprime benissimo il rapporto con l’oggetto sopra indicato: non c’è espressione di disgusto, nemmeno semplice ironia, ma una sorta di parodia ventriloqua, un riprendere distorcendo le parole d’ordine della realtà espressa non facendo un passo indietro, ma un passo dentro. Questa sorta di “becoming Padania” è forse la strategia più caratteristica dell’intero progetto ed è un tratto forse ancora più sensibile nei testi dei post, la seconda grande ragione per cui Padania Classics è un must assoluto per chi voglia parlare di cultura italiana contemporanea.

Le foto hanno una caratteristica: non mostrano anima viva. Quello che viene immortalato è una seconda natura morta: edifici, strade, terreni, terrapieni, molte palme ma mai persone. Non c’è alcun volto, ma in compenso c’è una voce, una voce off che parla una neo-lingua vagamente in stile Arancia Meccanica (il libro) – un gergo sovraeccitato, filotecnico, da yuppies di autogrill, che trascina in un continuum spinto a tavoletta capitelli, galletti al forno e sexy shop. In generale ovviamente non è una cosa nuova, segnalerei anche per vicinanza geografica il Balestrini parlato dagli ultras de “I furiosi”, ma rispetto a opere con pretese di letterarietà o verità linguistico-sociologica, qua il punto è che il post è tirato via con la stessa noncuranza con cui si beve un caffé. Vero? Giusto? Sbagliato? Intanto che rispondete, è scritto e letto. Un po’ come costruire e decorare una rotonda finché i comitati questionano.

Nel libro, e passiamo alla prima delle due critiche, questa energia parodica si diluisce in testi non solo più lunghi, ma a volte anche attraversati da un incerto respiro saggistico. Il tempo si rallenta e l’andamento si fa qua e là quasi goffo, soprattutto nel capitolo dedicato alla Lega. L’idea di dedicare uno spazio particolare alla forza politica che ha portato in auge l’etichetta “Padania”, facendosi per di più paladina di quell’Italia industriosa e sempre sul pezzo qui mostrata e detta, è giusta. Trovo invece riduttivo per le potenzialità del progetto limitare l’esplorazione fotografica all’area della “macro-regione”, trovata bislacca figlia di contingenze elettorali oggi già preistoriche. Se anche la contemporanea ascesa di tre governatori leghisti in Piemonte, Lombarda e Veneto ha fatto nascere la formula (“macro-regione”) e con essa l’idea del progetto, questa origine piccolo-politica va superata proprio per l’enormità di quanto prodotto fotografando e scrivendo. Nello specifico, la narrazione della nascita e dell’espansione delle leghe e del leghismo è un racconto con dettagli interessanti ma effetto d’insieme fuorviante. Contro quanto suggerito in questo excursus, posto significativamente all’inizio del libro, vale ribadire che non c’è rapporto esclusivo, e forse nemmeno particolarmente privilegiato, tra ascesa del leghismo politico e dilagare di quanto documentato dal progetto. La realtà, infatti, è ben peggiore. La realtà padana è stata finora retta da un pensiero unico onni-partisan che ha trovato nella Lega, al massimo, un suo braccio armato particolarmente operativo. Tra l’altro, l’Agreste e il Rustico fanno parte integrante dell’utopia leghista, e se nella maggior parte si tratta di surrogati senza effetti reali (ma in altre parti del quadrante politico non ci sono manco i surrogati, tutto quanto è appiattito sui numeri del PIL più spruzzate di Valori), va ricordato che, come ricorda Fabrizio Bottini, le posizioni della Lega e dei suoi elettori, a volte, sono sensibili agli appelli di chi si oppone a speculazioni e ulteriore consumo di suolo((Cfr. F. Bottini, “Radici padane cercansi”, 23-08.2008; cfr.http://mall.lampnet.org/index.php/article/articleview/11730/0/334/ , consultato il 26.08.2016.)). Questo non tanto a difesa della Lega, ma in attacco del Resto. La riprova è offerta dal vero cuore, letterario e simbolico, della Padania, e cioè l’Emilia. L’Emilia è stata fino a pochissimi anni fa molto “diversa”, dal punto di vista elettorale, rispetto al resto dell’Italia del Nord. Eppure, l’Emilia rossa è Padania profonda: le periferie di Modena o Reggio possono benissimo gareggiare in classicità padana con quelle di Brescia o Vicenza (come riconosciuto nella pagina fb di Padania Classics, che di recente ha dedicato un’apposita esplorazione della Padania più meridionale, superando quindi i limiti geografici che caratterizzano il materiale raccolto nell’Atlante nel periodo 2010-2015).

L’arbitrarietà del limite geografico intra-padano introduce il secondo limite, quello della mancanza di prospettiva extra-padana. Che qua una catastrofe sia avvenuta, è ormai chiaro quasi a tutti. Ma anche le catastrofi hanno dei gradi, un po’ come i terremoti. Nel libro vi sono molti numeri su consumo di suolo, quantità di mezzi a motore pro-capite e simili, ma le cifre in sé non aiutano a mettere in prospettiva il disastro. Anche il sito offre poco, in questa direzione. Eppure una comparazione, pur parziale, mi pare necessaria, se l’obiettivo è di rendere meno difficile una rapida messa tra parentesi di quanto mostrato e detto. Davanti al classico rigetto strapaesano (del tipo: “Vi fa così schifo qua? Andate nei quartieri non finiti sotto Zapatero, nei dintorni di Sliven – 130.000 abitanti, di cui 30.000 rom – o in una qualche banlieue, poi ne riparliamo”), è possibile mostrare che in Europa esistono pochissime aree paragonabili alla Padania per estensione e profondità della pressione demografica, industriale e infrastrutturale.

Ma con ciò siamo giunti a toccare i tratti costitutivi del progetto e dell’Atlante, che non sono e non vogliono essere un saggio, con tesi e relative argomentazioni a supporto. Si tratta di interventi retti semmai da una logica vicina all’installazione artistica, e tesi tra le altre cose a distaccarsi dalle forme più usuali (articolo, appello, libro etc.) di analisi o critica dell’esistente.

Vale però la pena di continuare a ragionare sui moltissimi spunti offerti dal progetto, muovendosi su linee e in forme che in parte divergono dal modo in cui il progetto è stato pensato e realizzato. Partiamo da una questione propriamente estetica. Castoriadis parlava, a proposito dell’arte di regime sovietica, di “bruttezza positiva”, esito, nelle parole di Pier Paolo Poggio, “dell’incontro tra produzione artistica e fruizione popolare, il tutto sotto la regia del partito”((Cfr. P.P. Poggio, “Il difficile rapporto tra intellettuali e popolo nel lungo Novecento”, in À galma. Rivista di studi estetici e culturali, n.15; cfr. http://www.agalmaweb.org/articoli.php?rivistaID=15)).

Esiste una bruttezza padana? E in cosa consiste?

(1 – continua)