Patologie del lavoro femminile

Il libro di Tania Toffanin, Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio (Ed. Ombre corte, Verona 2016), appare come una delle più riuscite ed efficaci mediazioni tra critica femminista e critica marxiana dell’economia politica. Questo testo è infatti una testimonianza, assai ben argomentata e meditata, di come si possa dar vita e sviluppo ad una ricerca e a una cultura sulle donne e delle donne, senza necessità di finire col contrapporre “spiritualismo” di Genere e “materialismo” di Classe.

Non perché la cultura femminista, nel corso degli ultimi decenni, non abbia acquisito meriti di grande rilievo nel disegnare i valori di un’antropologia dell’individuazione di contro alla classica valorizzazione, consumata ed usurata nella tradizione politica della sinistra, di un collettivo troppo omogeneo e compatto. Ma perché spesso è accaduto di assistere, da parte femminista, ad una troppo facile e sterile contrapposizione tra cultura liberatrice delle donne e critica marxiana della società del Capitale: quasi che antropologia troppo univocamente collettivistico-patriarcale e teoria marxiana di critica dell’economia politica fossero, indistintamente, la medesima cosa.

Inoltre, va aggiunto, che la forte esposizione che, in particolare nell’ultimo ventennio larga parte delle filosofie delle donne ha avuto riguardo al pensiero seducente ed istrionico di Jacques Lacan non ha certo giovato alla ricomposizione della frattura tra femminismo e marxismo, che ormai è tempo che merita invece di essere ripensata, condotta ad estenuazione e superata. La contrapposizione tra desiderio e bisogno che J. Lacan – muovendo dalla metafisica dualistica del riconoscimento, e stalinistico-heideggeriana, di A. Kojéve – ha dato in prestito ad una rifondazione postmarxista dei movimenti di emancipazione, ha infatti, io credo, fortemente contribuito ad esasperare il conflitto tra una cultura presuntivamente raffinata di individualità signorili, volte all’infinità e immaterialità del desiderio, e una bisognosità, invece, volgare e di massa, perché sedotta insieme dal consumismo capitalista e dalle necessità materiali del corpo. Ma ormai anche del lacanismo cominciano ben ad emergere le radici teologico-spirituali, alimentate da una ineffabile e trascendente Alterità, ed è dunque tempo di voltare risolutamente pagina.

In tale direzione il libro di Tania Toffanin offre un contributo prezioso. L’autrice, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in Scienze del lavoro presso l’Università di Milano, ha insegnato Genere e lavoro, Sociologia del lavoro e Sociologia delle professioni all’Università di Padova e il suo testo consiste infatti di una ricerca sociologica condotta sul lavoro femminile a domicilio.

Già solo la scelta del campo di ricerca esprime un interesse verso un tema, qual è quello volto all’analisi dei processi di produzione, che nell’ambito della contemporanea sociologia del lavoro s’è venuta sempre più restringendo, fin quasi a isterilirsi. Ma il pregio peculiare del libro è soprattutto nella metodologia della ricerca e dell’argomentazione espositiva: perché la Toffanin mostra di sapere stringere assai bene empiria e filosofia, se così si può dire, ossia di saper unificare indagine analitica e concreta da un lato e definizione di strutture e princìpi dall’altro.

Infatti ciò che emerge da Fabbriche invisibili è una teoria del lavoro femminile a domicilio che giunge ad allargare, addirittura si potrebbe dire, la teoria del Capitale di Marx. Attraverso una dilatazione del concetto di lavoro, che, dato lo sguardo sul femminile della Toffanin, non può non includere, oltre il lavoro di produzione, anche il lavoro di riproduzione. E che interpreta, appunto, il lavoro manifatturiero femminile (a domicilio) come uno dei luoghi d’incontro per eccellenza tra queste due sfere essenziali della società: la seconda delle quali, quella della riproduzione della vita e del lavoro di cura, è stata generalmente pressoché non considerata dalla teoria marxista della produzione.

Del resto già con la sua biografia personale lo stesso Marx avrebbe mostrato di non includere nella sua teoria del valore-lavoro la quota fondamentale del lavoro domestico, visto che, durante un viaggio in Olanda della moglie Jenny alla ricerca di denari presso parenti olandesi, il Moro avrebbe verosimilmente generato, secondo quanto riportano diverse testimonianze (ma, va detto, contestate da altre fonti), un figlio illegittimo con Helene Demuth (Lenchen), la governante inviata dalla Germania dalla contessa di Westphalen per aiutare la figlia nella travagliata vita domestica. Quel tale Henry Frederick Demuth, che, nato nel 1851, fu poi dato in adozione ad una famiglia operaia di nome Lewis nella zona dell’est londinese e che visse, come operaio tornitore e animatore del Labour Party locale, fino al 1929.Ma ciò che qui soprattutto interessare riportare, al di là di tali divagazioni pure non attinenti alla sola biografia personale, è la tesi, fortemente sottolineata, dalla Toffanin, che il lavoro femminile domestico non sia un’esperienza sociale accidentale ed episodica, bensì sia qualcosa di strutturale e permanente, malgrado il suo variare quantitativo nel tempo.

Il lavoro manifatturiero a domicilio non è un fenomeno ma una forma di produzione. Nelle abitazioni si lavorano e si producono merci destinate al mercato ma ugualmente si curano persone e si alimentano affetti. La continuità che caratterizza questa forma di produzione a livello mondiale, nei paesi più industrializzati e in quelli di più recente industrializzazione, prova che essa non ha mai avuto carattere episodico o contingente. Secondariamente, la domesticità che contrassegna questa forma di produzione impone, necessariamente, una sovrapposizione con il lavoro domestico e di cura. I due ambiti, quello meramente destinato alla produzione per il mercato e quello riproduttivo, si confondono in questa forma di produzione, a tutto detrimento del riconoscimento di entrambi. Lontano dall’aver emancipato le donne, in realtà, il lavoro a domicilio ha amplificato la subalternità delle stesse ai bisogni altrui. (p. 19)
Il lavoro a domicilio, prosegue l’autrice, non è da confondere con il lavoro autonomo, o di quarta generazione, come altri avrebbero detto, né con il lavoro familiare per l’autoconsumo. Esso è lavoro che si scambia direttamente con il capitale, «lavoro salariato, retribuito a cottimo, che può essere svolto in termini regolari, parzialmente irregolari o del tutto irregolari» (p. 19). È dunque lavoro salariato, curvato e riscritto nella cornice della domesticità e, attraverso il senso sovrapposto e duplice di questo orizzonte, lavoro in grado di subire un tasso di intensità e di sfruttamento anche maggiore di quello della classe operaia impiegata nell’industria manifatturiera.

Solo apparentemente, nota l’autrice, la collocazione in uno spazio privato sembra garantire un grado elevato di personalizzazione e di decisione autonoma, e con ciò di riduzione dei tempi di lavoro o almeno di una loro più armonica e distesa distribuzione con la cura della famiglia e delle occupazioni domestiche. Quasi che il tempo dell’affetto, che si dice essere tempo di un donazione senza scambio di denaro, si riversasse con la sua gratuità sul tempo della produzione, legato allo scambio mediato dal denaro, e nobilitasse con la leggerezza della sua gratuità il tempo del lavoro e della prestazione obbligata.

Ma appunto, denuncia la Toffanin, questo è il volto solo apparente del lavoro a domicilio, che come tale viene percepito e valutato solo a muovere dalle identità di una coscienza femminile ancora subalterna al paternalismo maschile e all’ideologia mortificante e conservatrice della Chiesa. Dato che solo il maschilismo paternalista e la retorica cattolica del sacrificio e dell’amore possono voler definire il lavoro femminile di riproduzione della vita, di allevamento della prole, di cura degli anziani, di alimentazione e cucina, di pulizia e manutenzione della casa, come una pratica affettiva, generata dalla naturalità biologica e materna del femminile, che non, invece, una relazione interpersonale asimmetrica, conseguente a una divisione/contrapposizione sociale di ruoli e di potere tra maschile e femminile.

Invece la scenografia e l’ideologia della domesticità occultano e dissimulano la crudezza della realtà effettiva, fatta, nella sostanza, da un lato di un allungamento della giornata lavorativa – visto che un lavoro a cottimo sottopagato, come quello a domicilio delle donne, sollecita a lavorare durante l’arco della giornata quanto più possibile – e dall’altro di un lavoro di cura che diventa sempre più accelerato ed affannato nella porosità dei tempi che si sottraggono alla produzione manifatturiera.

Così l’apparenza di una maggiore libertà e autonomia nella gestione di un tempo di lavoro consumato nelle mura della propria casa si rovescia nella sua negazione in quanto il lavoro a cottimo, pagato non secondo un contratto nazionale o di categoria, ma secondo la quantità dei pezzi prodotti, sollecita a una maggiore intensità produttiva, diminuendo in termini marxiani, il costo del lavoro per le imprese, e generando nello stesso tempo una falsa coscienza femminile, connessa all’idea di esser grata all’impresa o all’appaltatore esterno per potersi identificare con una donna che crea insieme reddito monetario e ricchezza affettiva. «In questa direzione, il lavoro a domicilio riassume una doppia negazione: il mancato riconoscimento sia del lavoro di produzione per il mercato sia del lavoro di (ri)produzione della forza-lavoro» (p. 47).

2. De te fabula narratur

Lo studio della Toffanin non manca di fare riferimento a una letteratura e a una casistica anche internazionale ma il focus della ricerca è concentrato sulla realtà degli ultimi decenni del lavoro femminile a domicilio in Italia, con particolare riferimento a regioni come Veneto, Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, Marche e Campania dove il fenomeno è stato più rilevante che altrove e, infine, con una specifica attenzione all’area calzaturiera della Riviera del Brenta. Ne viene fuori una storia, soprattutto per il settore calzaturiero, per la produzione di articoli in pelle e cuoio, per il settore del vestiario e della moda, per settori insomma significativi del made in Italy, di intesa e diffusa utilizzazione del lavoro a domicilio: con un grado molto elevato di elasticità di questa frazione importante del mercato del lavoro, pronto ad allargarsi o a restringersi a seconda delle diverse esigenze di concentrazione o di decentramento, di aumento o diminuzione della quantità del prodotto, di articolazione e differenziazione della tipologia produttiva, delle imprese dei diversi settori. Con condizioni lavorative, va aggiunto, peggiori rispetto a quelle dei processi produttivi in fabbrica, con norme igieniche e di sicurezza a un livello assai basso, con la diffusione di patologie e malattie del lavoro, con la spesa personale per l’acquisto in proprio di macchine e strumenti di produzione, con una inadeguatezza profondissima della difesa e della copertura sindacale.

Solo che in genere, in termini di riflessione pubblica, si noti anche nelle istituzioni della sinistra politica e sindacale, si è acquisita scarsissima consapevolezza del ruolo assai importante svolto dalla manodopera femminile domestica, particolarmente tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso per lo sviluppo di alcuni settori produttivi. Soprattutto per l’affermazione della moda italiana a livello mondiale, nota la Toffanin, il silenzio su questa segregazione delle donne nel lavoro manifatturiero domestico è stato quanto mai rilevante.

Se ininterrottamente dagli anni Sessanta a oggi il valore complessivo delle vendite dei capi dell’industria della moda è aumentato in misura esponenziale è principalmente grazie all’opera silenziosa di tante donne territorialmente disperse nelle loro abitazioni che attraverso la loro attività hanno contribuito alla tenuta di molte aree manifatturiere […]. Senza il loro lavoro, sarebbe stato inimmaginabile per l’intero sistema-moda conseguire i risultati internazionali ottenuti nella gamma alta della produzione. (p. 213)

Del resto anche nella sinistra extraparlamentare di quegli anni, con l’eccezione della discussione all’interno del movimento femminista, si è sovente reiterata la rimozione originaria di Marx sulla possibile interpretazione del ruolo riproduttivo come vero e proprio «lavoro» e, più specificamente, la scarsissima attenzione verso il lavoro ad alto tasso di dispersione e a basso grado di contrattualizzazione, di contro all’importanza che «è stata attribuita al lavoro nella grande impresa e alla forza-lavoro contrattualizzata, occupata a tempo pieno e indeterminato, di genere maschile e autoctona» (p. 211).

Oggi la trasformazione strutturale della produzione industriale, con le innovazioni della tecnologia informatica, la delocalizzazione e il progressivo venir meno del carattere artigianale di molti processi lavorativi, ha ridotto notevolmente l’estensione del lavoro femminile a domicilio, particolarmente in Italia, anche se a livello globale continua a diffondersi secondo le esigenze differenziate dello sviluppo capitalistico nelle varie zone del pianeta: a conferma della sua appartenenza, come si diceva, strutturale al modo di produzione capitalistico. Ma non si può non considerare, secondo le conclusioni dell’autrice, è che il lavoro femminile domestico – oltre ad essere stato, soprattutto in Italia, l’esito di un’alleanza di interessi tra capitale, Stato (quanto a mancanza di servizi sociali per la donna), Chiesa (quanto a ideologia della domesticità e dell’amore) e patriarcato (quanto a vertice maschilista della cultura di sinistra) – ha rappresentato e rappresenta, nella misura in cui continua ad esistere, un segmento fondamentale e anticipato di quella flessibilizzazione del lavoro che è divenuto il tema centrale, economico, sociale e culturale, della società postindustriale.

Esso è, di fondo, l’antesignano e l’emblema di quella perniciosissima indistinzione tra pubblico e privato, tra tempo e luogo del lavoro e tempo e luogo del non-lavoro, che oggi sta invadendo la vita soprattutto dei nuovi lavoratori, cosiddetti mentali e cognitivi. Come nella lavorazione a domicilio il tempo di lavoro ha invaso e colonizzato sempre più il tempo della vita, così oggi, con l’era della tecnologia digitale, assistiamo a una dilatazione del tempo di lavoro, ovvero a un allungamento della giornata lavorativa e, insieme, a una riduzione dello spazio autonomo e personale di vita.

Quello che voglio dire è che insomma la ricerca di Tania Toffanin, con la sua storia di donne, attraversate ed estenuate da una giornata lavorativa sostanzialmente senza fine, con il suo metterci sotto gli occhi la storia e la realtà del lavoro a domicilio nel capitalismo avanzato, ci anticipa e ci premonisce delle caratteristiche più rilevanti che connotano oggi il farsi globale della società capitalistica. Ossia da un lato la capacità egemonica del capitale di usare e riscrivere secondo la sua logica accumulativa tempi e modalità di produzione apparentemente eterogenee o pregresse, dalla industria digitale più avanzata a forme di lavoro quasi schiavistiche-servili, e dall’altro il darsi, quasi un ritorno all’800, di un significativo ritorno all’allungamento della giornata lavorativa, caratterizzato, nei paesi a capitalismo più avanzato, da una perpetua messa in rete della nostra mente, collegata giorno e notte, al lavoro e fuori lavoro, con un sistema di informazioni programmate che le impediscono ogni comunicazione reale con sé medesima.