Penicillina a S. Basilio: una storia della chimica italiana

Un rudere romano della modernità

Al decimo chilometro della Tiburtina, una delle più importanti vie consolari di Roma, sulla quale nell’antichità transitava incessante il travertino di Tivoli usato per erigere le magnificenze del Foro, al bivio di un popoloso quartiere periferico, S. Basilio, si erge, lungo un suo lato, un enorme e desolato rudere [fig.1]. Gli abitanti di S. Basilio sono abituati alla sua incombente presenza, ma molti non sanno, né possono sapere ? se non conoscono la storia del quartiere ? , che quella è stata più di sessant’anni fa la più grande fabbrica di penicillina d’Italia e per qualche tempo anche d’Europa, la Leo Penicillina [fig.2].

Nella sua storia si intrecciano, senza potersi districare, audaci e innovative intraprese industriali e improvvisazione, occasione di benessere per popolazioni povere e gravi problemi ambientali, protezioni politiche e abbandono amministrativo. È una storia nello stesso tempo singolare ed emblematica. Singolare perché in una città come Roma è eccezionale la presenza di un tale colosso industriale all’interno dell’area urbana (il raccordo anulare, mura di cinta della metropoli moderna, passa 2 km più oltre). Emblematica, a livello cittadino, perché il rudere della Leo Penicillina è il simbolo di una scommessa perduta alla fine degli anni Settanta: quella di fare della Tiburtina un’arteria industriale ad alta innovazione, la Silicon Valley Italiana. Ma emblematica anche perché nella sua ascesa e caduta la Leo ha toccato tutti i nervi scoperti della storia industriale italiana: il protezionismo politico, che affonda le sue origini nell’autarchia fascista e che tanta parte ebbe nell’aiuto a rinvigorire l’industria italiana stremata dalla guerra; l’audacia di singoli imprenditori, i quali agiscono però nell’ambito ristretto di un consolidato familismo che rende difficile la formazione di una più allargata classe imprenditoriale; il coraggioso tentativo di provare nuove strade con le spalle poco coperte da capitali e know-how, e la conseguente impossibilità di rinnovare rapidamente le tecnologie; l’intreccio, non necessariamente conflittuale, tra pubblico e privato; il dimensionamento insufficiente d’impresa, che ha messo fuori gioco tanta eccellenza industriale italiana.

Approfittare del caso: la scoperta della penicillina

A capo della vicenda della Leo c’è stata una delle scoperte cruciali del Novecento, quella della penicillina. Durante l’estate del 1928 Alexander Fleming, batteriologo inglese, aveva dimenticato di gettare via, al termine di alcuni esperimenti, una capsula petri con una coltura di Staphilococcus aureus. Dopo qualche giorno notò che in una zona della coltura, contaminata casualmente da una muffa, non si aveva proliferazione del batterio. Fleming, molto interessato – al contrario di tanti suoi colleghi ? alle sostanze antibatteriche naturali, colse immediatamente l’occasione fortuita ed estrasse dalla muffa del genere Penicillium [fig.3] il principio attivo antibatterico che chiamò penicillina, il primo antibiotico.

Fleming pubblicò gli esiti della sua ricerca nel 1929, ma i suoi tentativi di utilizzare in campo farmacologico e clinico la sua eccezionale scoperta fallirono anche perché non fu mai in grado di purificare il principio attivo; così, negli anni Trenta, lo scienziato inglese interruppe le sue ricerche sull’antibiotico.

Tuttavia, alla fine di quel decennio, due scienziati di Oxford, il patologo australiano Howard Florey e il biochimico di origine russa Ernst Boris Chain, ripresero gli studi sulla penicillina di Fleming arrivando a un prodotto più concentrato che permise studi farmacologici e tossicologici in vivo. Florey e Chain scoprirono così che opportuni dosaggi di penicillina erano letali per i batteri ma non dannosi per l’organismo ospite e poterono così iniziare gli studi clinici.

La guerra aguzza gli ingegni

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale diede un nuovo impulso alla scoperta di Fleming e agli studi di Chain e Florey sulla penicillina. Fu subito chiaro che il nuovo farmaco sarebbe stato strategico per proteggere i soldati al fronte dalle conseguenze infettive delle ferite riportate. Nel 1943 in Inghilterra, gli studi coordinati dei laboratori di Oxford, dell’Imperial College di Londra e di alcune industrie chimiche, portarono alla individuazione della formula di struttura della penicillina, confermata e delucidata dall’analisi cristallografica ai raggi X successivamente compiuta (1946) dalla chimica inglese Dorothy Hodgkin-Crowfoot.

Nel frattempo Chain e Florey erano riusciti a ottenere il prodotto puro tramite estrazione con solvente del prodotto acidificato e successiva purificazione per cromatografia, tecnica inventata solo pochi anni prima. La purificazione si rivelò fondamentale per l’utilizzo della penicillina perché più il prodotto era puro meno effetti indesiderati provocava, come mostravano le prime sperimentazioni sulla truppa al fronte.

Contemporaneamente, grandi investimenti e numerose ricerche furono avviate negli Stati Uniti per la produzione dell’antibiotico, in uno sforzo congiunto di grandi risorse intellettuali che ricorda da vicino la storia delle ricerche sulla bomba atomica. Inghilterra e Stati Uniti, alleati nel conflitto, unirono gli sforzi scientifici avanzando nella conoscenza di nuovi ceppi di Penicillium più ricchi di principio attivo e nella progettazione e realizzazione di fermentatori per la produzione industriale.

Dall’inizio alla fine della guerra [fig.4] si passò da un prodotto grezzo, preparato in palloni da pochi litri((In Inghilterra i primi fermentatori erano delle semplici bottiglie del latte!)) , alla produzione di un principio puro in fermentatori da 40mila L e da poche unità di penicillina a ca. 4 milioni di dosi di prodotto sterile al mese. Contemporaneamente si ebbe un abbattimento dei costi che diminuirono più di 300 volte dal 1943 al 1945. Alla fine della guerra il prodotto, prima solo distribuito negli ospedali militari, iniziò a comparire sugli scaffali delle farmacie americane.

Nel tempo si scoprirono diversi tipi di penicillina, ma solo uno di questi risultava farmacologicamente attivo. Tutte le penicilline naturali hanno una struttura molecolare formata da un identico nucleo centrale, mentre differiscono per il gruppo costituente la catena laterale. Questa scoperta aprì la strada alla sintesi delle penicilline semisintetiche, ottenute partendo da un precursore comune (l’acido 6-ammino penicillinico, detto 6-APA) e inserendo un opportuno gruppo laterale [fig.5].

Un bene scarso: la penicillina in Italia nel primo dopoguerra

Nell’Italia del dopoguerra la popolazione, indebolita dagli stenti e dalla fame, era falcidiata da malattie infettive come polmonite, meningite, setticemia.

L’arrivo della penicillina, a seguito delle truppe alleate nel 1944-45, rappresentò quindi una svolta epocale. Un farmaco che nel giro di 2-3 giorni risolveva le infezioni più complicate non poteva che essere visto come una sostanza dagli effetti miracolosi. Arrivarono anche i primi ceppi di Penicillium notatum,donati da Londra all’Istituto Superiore di sanità, che poté iniziare i primi studi non clinici sul farmaco.

Tuttavia la penicillina, alla fine della guerra, rimaneva un bene rarissimo e prezioso. A Roma veniva venduta al mercato nero alla Galleria Colonna ((Situazione non solo romana: nel celebre film Il terzo uomo interpretato da Orson Welles e tratto dal romanzo di Graham Greene, nella Vienna piegata dalla guerra, il protagonista viene a sapere che il suo più caro amico è in realtà uno speculatore che vive di contrabbando di penicillina.)) . Solo alcune aziende lo commercializzavano, in modeste quantità, importandolo dagli Stati Uniti. Tra questi vi erano i Laboratori Palma (concessionari italiani della Squibb), che avevano aperto uno stabilimento a Via Salaria a Roma. Ma le quantità importate rimanevano molto al di sotto del fabbisogno nazionale. Né erano sufficienti le dosi che l’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration ),nell’ambito degli aiuti internazionali per la ricostruzione postbellica, importava dagli Stati Uniti per gli Stati europei più colpiti dalla guerra.

Una penicillina tutta italiana

In questo contesto di ‘fame’ di farmaci antinfettivi, il 21 ottobre del 1950, alla presenza di Fleming [fig.6], insignito del premio Nobel per la medicina nel 1945, venne inaugurato nell’estrema periferia est di Roma, a S. Basilio, lo stabilimento della Leo Penicillina, la prima fabbrica privata italiana di produzione di penicillina ((In effetti, come riportato da L. Cosmacini, nel suo Storia della medicina e sanità in Italia, già nel 1947 un’azienda italiana, la Società Prodotti Atibiotici (SPA) di Milano, produceva penicillina ‘nazionale’, con i nomi commerciali di Supercillin e di Prontocillin, ma probabilmente importava la materia prima non disponendo di adeguate linee di fermentazione.))e ? come recitavano le cronache del tempo ? una delle più grandi se non la più grande in Europa [fig. 7]. In realtà la fabbrica produceva penicillina da qualche mese ma la visita di Fleming consacrò l’importanza dell’impresa((Fleming così scrisse sul libro degli ospiti della Leo il giorno della sua inaugurazione «Ho appena visitato la Leo Penicillina con grande piacere. Negli ultimi anni ho visto numerose fabbriche di penicillina in diversi paesi ma nessuna più interessante della fabbrica di penicillina Leo. La penicillina è stato il primo antibiotico ad avere avuto successo ma ora ve ne sono altri e spero di visitare la Leo di nuovo in avvenire e di vedervi prodotti tutti gli antibiotici. La terapia antibiotica non è una fase effimera della medicina. È destinata a rimanere.»)) .

Un conte a capo della Leo

Fondatore della Leo era Giovanni Armenise, un imprenditore pugliese nato nel 1897, che aveva fondato le sue fortune sull’importazione di medicinali nel primo dopoguerra. Armenise aveva investito abilmente i guadagni con l’acquisizione di terreni vicino Roma e nell’intrapresa di diverse altre attività produttive, soprattutto agricole, immobiliari e minerarie. Per i suoi interessi agricoli, negli anni Trenta, si era legato strettamente alla corporazione fascista degli agricoltori di cui aveva ricoperto importanti cariche direttive. Per questo ruolo fu nominato nel 1937 Amministratore delegato della Banca Nazionale dell’Agricoltura dalla Confederazione fascista degli agricoltori, che aveva ricevuto da Mussolini l’incarico di dirigere la banca al culmine di una sua profonda crisi. Armenise riuscì a ridare prestigio nazionale alla BNA, che ricapitalizzò 2 volte nel 1938. Fu così che le vicende dell’imprenditore pugliese, e poi della Leo, si intrecciarono sempre a quelle della BNA.

Armenise aveva notevoli capacità imprenditoriali: puntava più sugli investimenti capitalistici in campi innovativi che sulla rendita di capitale, come invece era per molti industriali italiani dell’epoca. Inoltre seppe, sin dall’inizio della sua carriera, utilizzare al meglio le opportunità protezionistiche derivanti dall’autarchia fascista, soprattutto in campo agricolo. Acquisì anche il controllo, nel 1939, delle miniere di mercurio del Siele (Monte Amiata), dopo che i precedenti proprietari, la famiglia Rosselli((Due membri della famiglia, i fratelli Carlo e Nello, erano già stati costretti all’esilio in Francia, dove vennero poi uccisi da sicari fascisti.)) e la famiglia Nathan((Prestigioso esponente della famiglia era stato Ernesto Nathan, indimenticato sindaco di Roma dal 1907 al 1913.)) erano stati costretti a cederla in virtù delle famigerate leggi razziali del 1938. Armenise fu attivo anche nel campo editoriale: acquistò Il Giornale d’Italia e la Tribuna (di cui faceva parte Il travaso). La sua attività imprenditoriale e la sua fedeltà al regime furono premiate con la nomina di conte dell’Artemisio (un monte dei Colli Albani laziali) conferitagli da Vittorio Emanuele III.

Nel dopoguerra Armenise fu perseguito per la sua adesione al regime fascista ma, come molti altri industriali mallevati dalle necessità della ricostruzione, ne uscì rapidamente indenne, anche se dovette dare le dimissioni da AD della BNA, pur conservando un ruolo preminente all’interno dell’Istituto.

I primi passi della Leo

Con alle spalle l’esperienza maturata nel ventennio fascista ,e facendo leva su un misto di spregiudicatezza, lungimiranza industriale e ricerca di protezioni politiche, Armenise riprese la sua attività imprenditoriale. Nel 1947 comprò da Anacleto Gianni, proprietario pressoché unico del territorio tiburtino-prenestino, un vasto appezzamento di terreno al 10° km della Tiburtina, con l’intenzione di approntare una grande fabbrica farmaceutica per la produzione della penicillina. Con l’aiuto di Giovanni Sforza, suo lontano parente e allora Ministro degli Esteri del III governo de Gasperi, comprò il brevetto per la produzione di penicillina – prelevandolo dalla Cisitalia, che non l’aveva mai utilizzato – dalla danese Løvens kemiske fabrik, nome ufficiale della Leo Pharma, unica azienda allora in Europa, oltre la Gran Bretagna, che produceva penicillina (dal 1945) su propria licenza [fig. 8]. Armenise pagò il brevetto l’equivalente di ca. 100mila $ e l’accordo prevedeva royalties del 10% sulla vendita del prodotto e la possibilità di commercializzarlo in nazioni europee ed extraeuropee (Svizzera, Austria, Paesi balcanici, Grecia, Iran, Irak, Turchia) estranee agli interessi commerciali della casa madre (e delle aziende statunitensi).

La penicillina in Italia, oltre che essere bene scarso, era allora anche bene strategico perché, nei primi anni che seguirono la guerra, il miglioramento delle condizioni di vita e di salute della popolazione era condizione prioritaria per la rinascita del Paese. Armenise ebbe l’abilità e la capacità di inserirsi nel modo e nel momento giusto nella fase di ricostruzione del dopoguerra e la sua impresa ebbe un successo immediato((L’azienda , costituita con capitale di 1. 200.000 L. – in azioni da 1.000 L. – ebbe una rapida ricapitalizzazione: prima con l’assemblea del 23 sett. 1947, che portò il capitale a 99.996.000 L., e poi con quella del 2 luglio 1949 (350mln L.), e quella del 29 ott. 1949 (500mln L.).)) [fig. 9].

Armenise sfruttò una contingenza favorevole: il regime protezionistico che allora gravava sull’importazione di medicinali. La penicillina americana era stata penalizzata da pesanti dazi: il prodotto era meno caro di quello fabbricato dalla Leo – appesantito a sua volta dalle royalties riconosciute al produttore danese e dalla produzione su piccola scala – ma per la legge italiana il dazio sul farmaco doveva essere calcolato sul prezzo del prodotto italiano cosicché il prezzo della penicillina americana cresceva notevolmente (del 75%). Inoltre, nei primi anni della sua produzione, la Leo potette contare anche sul fatto che il CIR (Comitato Italiano per la Ricostruzione) aveva vietato nel 1950 l’importazione dagli USA della materia prima, ossia della penicillina cristallizzata, proibizione poi estesa nell’anno successivo ad altri Paesi, al netto di quantitativi contingentati. All’inizio degli anni Cinquanta, la Confindustria sostenne il sistema di dazi con attività lobbistica presso i governi centristi e Armenise fu parte attiva di questa azione.

Infine, un’ultima contingenza favorevole sorse proprio nel 1950, anno di inaugurazione della Leo, con lo scoppio della guerra di Corea, in seguito alla quale parte non piccola della produzione USA fu dirottata verso il fronte di combattimento.

Il concorrente pubblico: la penicillina dell’Istituto Superiore di Sanità

In contemporanea alla nascita della Leo , presso l’Istituto Superiore di Sanità aveva preso avvio un impianto pilota per la produzione della penicillina. L’impianto era stato offerto nel 1946 dall’UNRRA a Domenico Marotta, allora presidente dell’ISS, ma l’accordo conteneva clausole stringenti ? miranti a proteggere la produzione statunitense ? che limitavano fortemente la commercializzazione e l’esportazione del prodotto. Così Marotta dovette rinunciare all’idea di costruire una fabbrica nel Nord Italia e si dovette accontentare di un impianto più piccolo nella sede stessa dell’ISS. L’impianto fu inaugurato nel febbraio 1948 alla presenza di Alcide De Gasperi, capo del governo che aveva contribuito all’impresa con 350mln L., e di Ernst Chain, insignito anch’egli con Fleming a Florey del premio Nobel per la medicina, che Marotta aveva chiamato come consulente del progetto [fig. 10]. Così i due premi Nobel si trovarono di fronte: l’uno a sostegno dell’iniziativa privata, l’altro di quella pubblica.

Anche se la penicillina ISS non poteva essere prodotta per fini commerciali, era evidente la possibilità di un conflitto tra le due intraprese. La questione nodale era se alla penicillina dovesse essere riconosciuta una priorità per la salute pubblica, cosa che avrebbe reso di fatto il farmaco un bene pubblico essenziale. Tuttavia le cose andarono diversamente, tanto che lo stesso Marotta, in una lettera, assicurò Armenise che le due produzioni non sarebbero state concorrenziali. Del resto, le due realtà rimasero fortemente connesse, sia perché l’ISS doveva certificare la qualità della penicillina Leo sia perché molti tecnici e scienziati dell’ISS divennero consulenti della Leo. Inoltre, l’impianto ISS avvierà la produzione molto lentamente: quando nel 1952 l’ISS fu finalmente in grado di produrre grossi quantitativi di penicillina, il mercato si era nel frattempo saturato e l’Istituto non riuscì mai a entrare in concorrenza nella produzione del farmaco.

Dai primi 400 g alla produzione industriale

La Leo Penicillina iniziò quindi a produrre l’antibiotico in condizione di monopolio protetto, che si protrasse fino al 1952. Nel marzo del 1950 la Leo produsse i primi 400 g di penicillina, dopo che i primi tentativi di produzione erano falliti. Il primo quantitativo, all’uscita della fabbrica, fu trasportato in cassaforte e scortato dalle guardie armate dell’azienda!

Sin dall’inizio, le condizioni infrastrutturali limitarono la produzione: la corrente elettrica era poca ed era erogata in modo discontinuo. Poiché la produzione della penicillina è a ciclo continuo, la fabbrica si dovette dotare di rumorosissimi gruppi elettrogeni a gasolio (uno da 1.000 e un altro da 1.400 Kw) che provenivano da navi militari che, come patto di guerra, dovevano essere smantellate. La linea di fermentazione, costruita con l’assistenza dei tecnici danesi della Leo Pharma, che avevano progettato l’impianto, era considerevole, in quanto dotata di fermentatori in ferro da 50 a 120mila L [fig. 11], associati a motori da 220 a 400 Kw. I cicli di lavorazione erano però sostanzialmente manuali (come altrove a quell’epoca) e tali rimasero fino alla fine degli anni Sessanta. Così, malgrado che la produzione potenziale della Leo fosse di 1.000mld U.I./anno, a fronte di un bisogno stimato tra i 500 e i 900 miliardi di U.I.((U.I. = Unità Internazionali. È l’unità di misura correntemente usata per le penicilline e corrisponde a 6×10 -4 mg di sale sodico di penicillina.)) , il livello produttivo non fu mai tale da soddisfare l’intero fabbisogno nazionale a causa dei problemi infrastrutturali e della tipologia di produzione [fig. 12]. Nel 1984, poco prima che la fabbricazione di penicillina cessasse definitivamente, la produzione giornaliera era arrivata a 700 kg di prodotto cristallizzato.

La grande fabbrica della periferia romana

La Leo sorgeva nei pressi del quartiere (allora borgata)di S. Basilio. La facciata principale si sviluppava sul lato opposto di via Tiburtina rispetto agli insediamenti che rimanevano sullo sfondo della campagna romana, mentre il retro della fabbrica ? che si estese nel tempo fino a occupare un area di ca. 4,4 ha ? si inoltrava fin quasi a un’ansa del fiume Aniene.

S. Basilio, ai margini di Roma

Il quartiere di S. Basilio era sorto alla fine degli anni Venti del secolo scorso, a seguito del processo di espulsione dal centro storico della popolazione operato dal regime fascista. Venne strutturato come borgata semirurale, formata da piccole case spesso prive di servizi, con indice abitativo altissimo((4,47 abitanti per vano secondo un censimento dell’Istituto fascista delle case popolari di quegli anni.)) . Tuttavia l’afflusso dei servizi essenziali (luce, acqua, mezzi di trasporto) rese quella zona, come molte altri simili della lontana periferia romana, estremamente appetibile per future speculazioni.

Alla fine della guerra, l’UNRRA predispose un organismo apposito, il Comitato Amministrativo Soccorso Ai Senzatetto (CASAS), allo scopo di assistere il settore edilizio per la ricostruzione postbellica. A S. Basilio l’UNRRA-CASAS avviò nel 1951 la costruzione di 180 alloggi ai margini della borgata che conservavano la tipologia di abitazioni individuali, ma in un contesto urbanistico suburbano molto più avanzato del precedente; ivi vennero fatti affluire profughi dalmati e delle ex-colonie fasciste e gli sfollati dal bombardamento di San Lorenzo del 1944. Nel 1954 il fatiscente quartiere di epoca fascista venne abbattuto e l’Istituto Case Popolari lo sostituì con palazzine più alte. Nel tempo affluì l’edilizia privata che contribuì notevolmente a gonfiare la popolazione residente: al nucleo di immigrazione ‘interna’ cittadina, si aggiunsero famiglie provenienti da altre regioni, in particolare Marche, Abruzzo, Calabria.

La fabbrica, le maestranze, il quartiere

Come era logico, le maestranze della Leo, soprattutto quelle a più basso profilo professionale, furono assunte inizialmente dalle zone limitrofe la fabbrica, ossia da S. Basilio e da Pietralata. Secondo testimonianze dirette, emissari della fabbrica si rivolsero alle parrocchie per avere i nominativi degli operai da assumere, e quindi quest’ultime divennero veri e propri centri per il lavoro. Parte attiva nelle assunzioni (o per meglio dire, nel loro controllo) ebbe anche la locale stazione dei carabinieri di S. Basilio; i nuovi assunti passavano al vaglio del maresciallo della stazione, che era di casa alla Leo (anche perché la moglie era stata assunta come impiegata), dove girava tra i reparti per raccogliere informazioni utili (all’azienda) su di loro. Quando la fabbrica si ampliò, per arrivare nei primi anni Sessanta a più di 1.360 lavoratori (tra operai, tecnici e impiegati), il raggio di assunzione si allargò, con l’arrivo di manodopera dalla provincia e oltre.

La mano d’opera specializzata e i quadri dirigenti provenivano inizialmente in gran parte dalla Marina militare. Armenise aveva chiamato come primo direttore tecnico dell’azienda un ex-ufficiale del genio della Marina, il quale a sua volta aveva reclutato molto personale tecnico militare (come capofabbrica, capo caldaia, capo centrale elettrica, capo gruppi elettrogeni, ecc. ), in esubero dopo la fine della guerra. Il personale scientifico, sia dipendente che consulente, proveniva in parte dall’Università di Roma e in parte dall’ISS: in larga parte era digiuno delle problematiche della fermentazione industriale e si fece le ossa nell’azienda.

La fabbrica diventò rapidamente – e rimase per almeno 15 anni – un importante polo di attrazione per i quartieri che stavano crescendo intorno alla via Tiburtina. Il lavoro alla Leo Penicillina era molto ben considerato((Erano note e popolari le Befane organizzate in fabbrica da Armenise, durante le quali venivano distribuiti ai dipendenti panettoni, agnelli e capponi.)) . Il salario di base non era alto (il salario iniziale di un operaio della fabbrica era, nel 1964, di ca. 50mila lire mensili) ma, poiché la fabbrica non poteva fermarsi mai, si avevano ulteriori guadagni con gli straordinari e con i turni di notte.

La morte di Armenise e le prime difficoltà

A partire dal 1952, il regime di monopolio in cui aveva operato la Leo iniziò a venir meno perché il divieto d’importazione della materia prima si era nel tempo affievolito: così altre industrie italiane (Farmitalia) o multinazionali con capitale italiano (Lepetit, Squibb) iniziarono a commercializzare la penicillina di importazione, limitandosi al confezionamento senza produzione di materia prima come la Leo. La Palma-Squibb, per es., all’inizio degli anni Cinquanta, aveva una capacità produttiva di 480mld di UI/anno.

Nel 1953 Giovanni Armenise morì improvvisamente, a seguito di una banale operazione d’ernia, proprio nel momento in cui l’azienda stava vivendo un momento di trapasso difficile da un regime di sostanziale monopolio a uno di concorrenza, che necessitava di sviluppo e ammodernamento dei processi produttivi. Il poco tempo trascorso dalla fondazione della fabbrica, e il tipo di conduzione fortemente accentrato, non avevano favorito la formazione di un management in grado di sostituire il fondatore , così che a Giovanni, che non aveva figli, subentrò il nipote, figlio di una sorella: il giovanissimo (era nato nel 1931) Giovanni Auletta Armenise. Il nuovo proprietario non aveva alcuna esperienza nel campo: fino a quel momento era stato soltanto occasionalmente vicino allo zio e alla sua azienda. In realtà Auletta iniziò a occuparsi della Leo soltanto a partire dal 1959, dopo la laurea in scienze economiche.

Audaci (e improvvidi) investimenti

Alla fine degli anni Cinquanta, l’azienda inizia a ingrandirsi. Tra i nuovi investimenti decisi da Auletta Armenise spicca l’amideria, pensata per produrre in proprio il corn steep liquor, ossia il residuo dell’estrazione dell’amido di frumento o di mais utilizzato per il brodo di cultura per Penicillium chrysogenum, la muffa da cui si ricava la penicillina(( Il ceppo con cui lavorava la Leo era quello portato originariamente da Fleming, che veniva rinfrescato e selezionato in un apposito reparto della fabbrica.)). L’amideria fu costruita nell’ala Nord della fabbrica ed era costituita da tini in legno di rovere da 4mila L. Sulla carta l’investimento avrebbe rafforzato l’impegno della Leo nella produzione di materie prime, in controtendenza con il resto della farmaceutica italiana che già allora puntava più sulla formulazione dei medicinali; inoltre, la quantità di corn steep liquor utilizzato nella fermentazione era ingente: ogni fermentatore doveva essere alimentato con 4-5mila kg di prodotto. Sfortunatamente l’amideria non entrò mai in funzione perché i costi di produzione erano superiori a quelli di mercato e nel 1971 fu demolita e sostituita con un reparto di sintesi.

A metà degli anni Cinquanta il mondo degli antibiotici aveva compiuto decisivi passi avanti e non solo nel campo dei derivati semisintetici della penicillina. Nel 1956 La Leo aveva fatto un ingente investimento per produrre la streptomicina, ma nel frattempo il suo prezzo sul mercato internazionale era calato notevolmente così che l’impianto rimase sempre fermo. Fu avviata anche un’altra linea di fermentazione per la produzione di tetracicline (scoperte qualche anno prima), senza però arrivare a una qualità di prodotto paragonabile a quello della penicillina.

L’aumento della produzione, a fronte di una tecnologia produttiva che stava diventando obsoleta, iniziò a creare problemi nella gestione dell’azienda, soprattutto per lo smaltimento degli scarti. Il micelio della penicillina, una volta estratto il principio attivo, non serviva più: era separato tramite grandi filtri a tamburo ma, per la sua leggerezza, diffondeva un po’ in tutta la fabbrica ((Nel 1971, ancora studente di chimica, mi recai in visita alla fabbrica e vidi operai che spalavano il micelio tra nuvole delle sue polveri.)) . Veniva quindi messo in grandi sacchi e rivenduto come mangime per maiali o gettato direttamente nel retrostante Aniene [fig. 13]!

Nel frattempo, nel 1957, alla scadenza del contratto con la Leo Pharma, l’azienda dovette cambiare nome in ICAR (Industria Chimica Antibiotici Roma).

L’occupazione della fabbrica

All’inizio degli anni Sessanta gli impianti della ICAR erano ormai obsolescenti (tutte le fasi di lavorazione erano ancora a controllo manuale) cosicché i costi di produzione risultavano molto elevati; nel frattempo il mercato si era completamente liberalizzato e con l’arrivo di altri antibiotici (cloramfenicolo, tetracicline, ecc.) la penicillina aveva perso lo statuto di bene primario. Inoltre, gli errori di management avevano indebolito molto le finanze della ICAR, anche se l’azienda poteva ancora contare sul robusto aiuto della BNA, da sempre molto vicina alla famiglia Armenise((Giovanni Auletta, sulle orme dello zio, fu prima (1958) segretario de CdA della BNA, per poi , quando aveva già venduto la ICAR, diventare vicepresidente (1975) e infine (1981) Presidente fino al 1995.)) .

Fu così che nel 1964 l’azienda ebbe la sua prima grave crisi produttiva e finanziaria. Del resto la crisi riguardò l’intero comparto industriale romano: in quel periodo licenziavano aziende storiche come Voxson, Cartiere Tiburtine, Visiola, Fiorentini, Contraves, mentre a livello nazionale si erano rotte le trattative per il rinnovo dei contratti nazionali dei chimici e dei tessili.

La direzione della fabbrica decise il licenziamento di ca. 350 lavoratori. La risposta operaia fu immediata e il 20 aprile la fabbrica venne occupata [fig. 14] : si trattò della prima occupazione delle fabbriche a Roma alla vigilia del periodo di lotte operaie che caratterizzarono la fine degli anni Sessanta((Nell’immediato dopoguerra erano avvenute altre occupazioni di fabbrica nell’area cittadina. Nel comparto chimico una delle più lunghe era stata quella della CISA-Viscosa, sita in via Prenestina, nel 1949, durata 35 giorni.)). L’occupazione fu in qualche modo pilotata dai lavoratori in accordo con i tecnici dell’azienda (e forse con qualche dirigente) per impedire il blocco del ciclo di produzione continuo dell’antibiotico, che avrebbe significato la perdita della materia prima. I cicli (che duravano complessivamente ca. 200 h) furono portati fino al termine a occupazione iniziata. In questo modo i fermentatori furono fermati senza che i lavoratori potessero essere accusati di boicottaggio industriale.

L’occupazione si protrasse per 36 giorni e la lotta si acutizzò il 13 maggio dopo la rottura delle trattative. Intorno alla fabbrica si creò una forte solidarietà popolare sostenuta non solo da sindacati e partiti di sinistra, ma anche dalla giunta capitolina (di centro sinistra) presieduta dal sindaco Amerigo Petrucci – che chiese addirittura la requisizione della fabbrica – , e dalle parrocchie della zona. Tra le richieste degli operai, oltre al reintegro dei lavoratori, ci fu anche la nazionalizzazione dell’azienda, secondo un indirizzo politico ben presente nei primi anni del centrosinistra.

L’occupazione terminò il 26 maggio, alla vigilia di uno sciopero generale di 4 ore sulla vertenza indetto unitariamente dai sindacati. Finì con una parziale vittoria dei lavoratori, ottenuta al tavolo delle trattative con la mediazione del Ministro del lavoro Giacinto Bosco: reintegro dei licenziati, agevolazione per dimissioni volontarie che riguardarono ca. 270 lavoratori (con concessione di una extraliquidazione di 6 mesi di salario).

Venduta per 1 lira

Malgrado il supporto della BNA e le nuove linee di produzione di antibiotici, l’indebitamento dell’azienda proseguì per tutti gli anni Sessanta. La situazione produttiva continuava a essere critica: il ciclo di produzione a controllo manuale, i fermentatori di vecchio tipo in ferro con dimensioni inferiori a quelli utilizzati nelle aziende americane (che arrivavano quasi a 200mila L) , una produzione a ciclo continuo che non poteva essere arrestata e che le precarie condizioni operative rendevano variabile. Per questi motivi, il numero di addetti era rimasto molto elevato, per una farmaceutica di medie dimensioni. La fabbrica, con costi di produzione così elevati, non era più competitiva su un mercato in piena evoluzione. La concentrazione di penicillina si attestava sulle 12-14mla UI/cm3, un valore non trascurabile ma poco più della metà di quello ottenuto dalle fabbriche USA.

All’inizio degli anni Settanta, Giovanni Auletta, in difficoltà economica, non poteva più contare sull’apporto della BNA, che in quel momento stava quasi per essere ceduta a Michele Sindona((La cessione fu bloccata all’ultimo momento dal Governatore della Banca d’Italia Guido Carli.)) . Del resto Auletta, a differenza del fondatore della fabbrica, si era sempre mostrato più interessato alla finanza che non all’industria, come dimostrerà il seguito delle sue vicende personali.

Auletta vendette l’azienda per 1 lira ad Ambrogio Secondi((Ambrogio (detto Gino) Secondi, nato nel 1923, fu un ‘capitano’ di industria del ceppo di Giovanni Armenise, anche se di una generazione successiva. Abile e repentino nelle decisioni, capace di progetti di ampio respiro che si mostrarono spesso avventurosi per la mancanza di un solido capitale di base. Presidente della Farmindustria per breve tempo dal 1994, fu coinvolto nello scandalo Poggiolini- Di Lorenzo e si dimise l’anno dopo, ritirandosi a vita privata. Morì nel 2009.)) , proprietario dell’Italseber (che diventò subito dopo ISF, acronimo di ItalSeber Farmaceutici), azienda farmaceutica milanese che allora produceva noti farmaci, tra cui l’Acutil. Il prezzo simbolico naturalmente nascondeva il fatto che la Italseber si accollava tutti gli ingenti debiti della ICAR. L’Italseber produceva iniettabili, ma con l’acquisto della ICAR intendeva espandersi nella produzione delle materie prime e, nel panorama farmaceutico nazionale, la ICAR era tra le poche fabbriche a essere impegnata su quel versante. Il tramite tra Auletta e Secondi fu sempre l’onnipresente BNA, perché il padre di Secondi era stato vicepresidente della Banca che Auletta stava scalando. L’azienda prese nome di Industrie Chimiche Laziali (ICL) per la parte fermentativa e di ISF per quella farmaceutica. A capo dell’impianto fu chiamato un dirigente tecnico della ISF, Domenico Chiaramonti.

La gestione ISF

Secondi investì molto nello stabilimento acquisito. La produzione delle tetracicline venne interrotta e costruita, nella vecchia amideria, una linea di produzione per le cefalosporine, la cui commercializzazione era iniziata da pochi anni (1964). La fabbrica non commercializzò più direttamente la penicillina, ma si dedicò alla produzione del 6-APA, che ricavava dalla penicillina naturale e che vendeva come materia prima alle altre aziende farmaceutiche. Furono impiantati fermentatori di acciaio vetrificato, più efficienti di quelli in ferro utilizzati per la penicillina. Una parte di territorio della fabbrica, non ancora utilizzata, fu destinata alla produzione dei liofilizzati. In tal modo l’azienda si estese per tutto il territorio a sua disposizione (ca. 4,4 ha).

Uno dei primi problemi che la nuova gestione dovette affrontare fu quello dello smaltimento dei reflui, fino ad allora praticamente inesistente. Fu creata una vasca di depurazione che risolse in parte l’eliminazione del micelio esausto, ma nei magazzini si accumularono nel tempo vari reagenti della produzione: il dimetildiclorosilano, usato per la preparazione dell’acido 6-amminopenicillanico, precursore delle penicilline semisintetiche; l’acetato di amile, solvente per l’estrazione della penicillina; la potassa, per la preparazione del sale potassico del farmaco; la dimetilanilina, usata in notevoli quantità nelle sintesi; il pentacloruro di fosforo, agente clorurante.

Il contesto urbano in cui ora operava la fabbrica era nel frattempo molto mutato. Da quartiere semirurale della fine della guerra, S. Basilio si era trasformato in una periferia romana ad alta intensità abitativa: le case ormai incombevano su via Tiburtina, sul lato opposto alla fabbrica. Il numero di addetti provenienti dal quartiere era nel frattempo scemato, sia per la riduzione del personale sia per l’assunzione di personale proveniente da altre zone di Roma e provincia. Il rapporto stretto, fiduciario, con la fabbrica era così venuto meno mentre erano sempre più evidenti i problemi ambientali provocati dalla produzione di penicillina: il fracasso dei motori, l’inquinamento provocato dallo sfiatamento periodico dei fermentatori e delle altre linee produttive, avevano sollevato più di una protesta e anche contenziosi giudiziari, finiti però nel nulla perché, secondo la tipica regola degli insediamenti periferici della Roma del dopoguerra, le case costruite non avevano ancora l’abitabilità.

Arrivano i dollari?

I miglioramenti produttivi decisi da Secondi avevano reso più competitiva la fabbrica. Ma la ISF entrò egualmente in crisi, a metà degli anni Ottanta, in parte per le difficoltà finanziarie del suo partner nel versante alimentare, la Besana. Come spesso accade alle aziende italiane, le medie dimensioni si rivelarono fatali: troppo grandi per autolimitare la produzione e troppo piccole per fare investimenti significativi in un momento di instabilità della produzione farmaceutica italiana. La possibilità di agevolare e indirizzare politicamente a livello nazionale gli eventi produttivi, che aveva caratterizzato la vita della ICAR (e di tante altre fabbriche) fino a qualche anno prima, apparteneva a un’era che si stava chiudendo di fronte ai colossali processi di internazionalizzazione , soprattutto a livello farmaceutico. Sono gli anni in cui la Montedison di Mario Schimberni fallisce il suo tentativo di diventare punto di riferimento europeo nella produzione del farmaco, gli anni della crisi dell’industria chimica italiana (sorella di quella farmaceutica), gli anni dell’intreccio perverso con la politica, di cui fece le spese qualche anno dopo lo stesso Secondi, coinvolto nello scandalo Poggiolini.

Nel 1985 Secondi cedette l’azienda all’americana Smith-Kline & French (SKF), allora consorziata con la Zambelletti per la produzione di antibiotici. In quella data, lo stabilimento romano dava lavoro a 8-900 addetti ed era ancora tra i più importanti del Lazio come capacità produttiva. Gli americani erano inizialmente intenzionati a investire nell’industria per allestire una linea di iniettabili, ma le cose andarono diversamente.

Ultimi fuochi

Alla fine del secolo scorso si assistette a un intenso periodo di fusioni delle case farmaceutiche, con forte polarizzazione della produzione in poche aziende. In questo contesto, La SKF si fuse nel 1989 con la britannica Beecham (con la sigla SKB): il nuovo management era poco interessato alla fabbrica di Roma e i previsti investimenti vennero meno. La fabbrica rischiò la chiusura che venne evitata all’ultimo momento, ma la storica linea di produzione della penicillina e delle cefalosporine fu chiusa, anche perché gravata da alti costi dovuti all’obsolescenza di impianti non automatizzati. La ex-Leo, dopo 35 anni non più italiana, diventò una farmaceutica come altre: non più produttrice di materia prima, ma azienda di confezionamento di medicinali. Tra indennità di uscita e scivoli pensionistici (l’età media delle maestranze era abbastanza alta) la fabbrica si ridusse a poco più di 200 addetti.

Nel 1996, alla vigilia di una nuova fusione con la Glaxola SKB si liberò della fabbrica rivendendola per una cifra modesta a Chiaramonti, che in tutti quegli anni era rimasto come direttore tecnico dell’azienda, e a Giovanni Peciola, un costruttore in realtà più interessato all’edilizia che alla produzione farmaceutica. L’azienda ridiventò per qualche tempo italiana, assumendo di nuovo la denominazione ISF. La produzione si concentrò negli edifici retrostanti della linea farmaceutica mentre quelli della facciata storica vennero abbandonati.

Nel 2003 Chiaramonti lasciò l’azienda: cedette le sue azioni al socio, che in breve tempo chiuse la produzione farmaceutica restituendo a licenza. Nel 2006 ci fu infine un ultima vampata produttiva: la società Patheon, una multinazionale terzista della produzione del farmaco, aveva stipulato un accordo con la società Johnson & Johnson (J.-J.) per la liofilizzazione sterile di una cefalosporina ancora in fase sperimentale. In un primo momento la linea di liofilizzazione doveva essere allestita negli USA, in un sito che nel frattempo era stato venduto alla società Pfizer, che però non risultò interessata a dar luogo alla produzione. La ricerca di una soluzione immediata per rendere operativo l’accordo tr la J.-J- e la Patheon, portò quest’ultima ad individuare((Alla Patheon lavorava il figlio di Domenico Chiaromonti, l’ultimo direttore della fabbrica.)) nella vecchia linea di produzione delle cefalosporine della ex-Leo Penicillina una possibile soluzione al problema. Così,in seguito all’accordo nel settembre 2005 tra Patheon e Giovanni Peciola, unico titolare dell’impresa ancora targata ISF, la licenza a produrre fu nuovamente ottenuta nel marzo 2006 dall’AIFA (Agenzia Italiano del Farmaco) e fu impiantata, dopo accurata bonifica di un luogo roso dal segno dei tempi, la linea di liofilizzazione in condizione di sterilità della cefalosporina sperimentale.

Così, all’interno del corpo ormai decrepito del’antica fabbrica, si accese un’ultima fiamma produttiva, per paradosso molto avanzata dal punto di vista farmacologico, a dimostrazione che i destini di un’impresa, come quelli umani, non sono mai lineari e unilaterali. La produzione durò solo alcuni mesi, quelli utili per produrre i lotti necessari (ca. 40 kg di prodotto). Dopo di che la zona di produzione fu nuovamente smantellata dalla Patheon.

Da quel momento nessuna antibiotico è più uscito dalla fabbrica. Negli anni successivi Peciola tentò di avviare una speculazione edilizia con la costruzione di un albergo. Questa venne in effetti avviata ma poi interrotta per un contenzioso con la ditta costruttrice. Si aprì una causa che si concluse con il pignoramento di una vasta area del fabbricato ((Secondo visure catastali recenti, seppur parziali, il terreno risulta ancora intestato alla ISF, con sede a Perugia e di proprietà di Giovanni Peciola.)).

Da grande stabilimento farmaceutico a rifugio per i senza tetto((Questo paragrafo è stato aggiunto nell’ottobre 2018, in seguito a una visita condotta dall’autore alla ex-fabbrica.))

In abbandono da più di 10 anni , l’edificio, svuotato in gran parte delle sue attrezzature e del suo parco reagenti che furono venduti alla chiusura delle attività, è andato lentamente in rovina. Grandi occhi vuoti di cemento ? laddove campeggiavano un tempo gli imponenti fermentatori ? si affacciano su una via consolare in perenne rifacimento [fig. 15]; uno sbilenco torrino dell’acqua svetta dietro l’ex-amideria, ormai ridotta a un guscio vuoto [fig. 16]. All’interno, in un caos di sporcizia, carte, armadi con antiche bolle di consegna, bidoni di fiale, autoclavi rose dalla ruggine, tubi afflosciati su un pavimento coperto dai residui di eternit dei soppalchi, confezioni ancora intatte [fig. 18] di antibiotici ((Ho visto personalmente un letto di un migrante che vive lì da molti anni, costituito interamente da scatole di antibiotico liofilizzato.)) . Sui muri sorprendenti graffiti [fig. 17], segno che una metropoli non tollera il vuoto demografico: un ‘ripopolamento’ di senza-casa, sbandati alla ricerca di un tetto che hanno colonizzato nel tempo la parte degli uffici, quella meno devastata; addirittura spiccava, fino a qualche tempo fa, un incredibile ‘studio medico’, con tanto di orario di ricevimento!

Nel corso dell’ultimo decennio vi è stato un afflusso sempre più consistente di senza casa, che hanno trovato precario riparo tra i muri dell’ex fabbrica, in condizioni di vita sempre più degradate. Gli ultimi arrivati si sono assiepati nelle zone più fatiscenti della fabbrica, nelle quali è ampiamente diffuso amianto in disgregazione [fig. 19], con grave pericolo sanitario per loro stessi e per tutto l’ambiente circostante.

Un malinconico relitto industriale

Questo infelice mausoleo della farmaceutica, ormai incapsulato in una periferia sempre meno periferica (il capolinea della metropolitana B è a poche centinaia di metri), non trova da anni una credibile ricollocazione. Il problema che rappresenta è nei fatti notevole: la tipologia degli ambienti, adatti a ospitare i grandi fermentatori e le altre linee di produzione, è poco adatta a riconversioni civili; ma, soprattutto, esiste un rilevante problema di bonifica ambientale per la presenza diffusa di amianto usato per la coibentazione delle tubature e per le rimanenze di reattivi chimici, un tempo usati nella produzione [fig. 20].

Malgrado queste difficoltà, sono stati avanzati progetti anche stimolanti((Un interessante e ben fatto progetto è presente nelle tesi di laurea magistrale in Progettazione per la riqualificazione architettonica dal titolo Riqualificazione ex-industria farmaceutica LEO, Roma, della dott.ssa Giorgia Tullo, discussa nell’aa. 2015-2016.)) che mostrano una generosa ansia civile di recuperare il passato rendendo bello il presente. È evidente che un’impresa del genere può essere affrontata solo con investimenti mirati e intelligenti, in grado di unire interesse della cittadinanza, amministrazione cittadina e iniziativa privata, ma la richiesta e la disponibilità mostrata a più riprese dalla cittadinanza non andrebbe ignorata. Così, in un futuro che si spera non lontano, all’interno delle aree aperte alla cittadinanza, si può immaginare un piccolo museo dedicato alla storia della penicillina in Italia, per ricordare le fatiche, gli ingegni, le speranze dei tanti che ci hanno preceduto.

Ringraziamenti

Questo lavoro non sarebbe neppure iniziato senza il fondamentale aiuto e incoraggiamento di Giorgio Nebbia, con il quale ho discusso più volte del progetto. Potendo contare sulla sua preziosa amicizia, ho potuto utilizzare anche i suoi preziosi consigli: sua tra l’altro, la segnalazione del contrabbando di penicillina nel film Il terzo uomo. Molte informazioni, opportunamente incrociate, le ho ricavate da tre lunghe interviste ad altrettante persone che hanno avuto a che fare a lungo con la Leo Penicillina : Carmela Passalacqua, prima operaia e poi impiegata della Leo, dal 1950 al 1973; Silvano Iozzelli, tecnico alla produzione e caporeparto dell’azienda dal 1950 al 1984; Domenico Chiaramonti, direttore tecnico della ISF e poi vicepresidente della stessa. Le notizie relative all’ultimissima fase di produzione di antibiotici mi sono state gentilmente fornite da Vittorio Latini, dirigente della Patheon. Il paragrafo Da grande stabilimento industriale a rifugio per i senza tetto è stato scritto con il contributo fondamentale del fotografo Marco Passaro, che ha concesso gentilmente l’uso delle relative immagini. Le interviste sono state realizzate nell’ambito del progetto Sportello delle memorie che si propone di raccogliere e archiviare le testimonianze storiche dei quartieri di Pietralata-Tiburtino. Ringrazio perciò Valeria Trupiano, coordinatrice del progetto, che mi ha aiutato nel riversamento del materiale. Il lavoro sulla Leo ha trovato un primo momento di confronto in un incontro realizzato nel maggio 2016 presso la Biblioteca Comunale Aldo Fabrizi di S. Basilio dall’associazione TiPiattIVi, con il patrocinio del IV Municipio di Roma, in occasione dei festeggiamenti per i novant’anni di Giorgio Nebbia. L’incontro ha visto la partecipazione di studiosi di storia della scienza e dell’industria: Mauro Capocci, Nicoletta Nicolini e Walter Tocci, che ringrazio sentitamente insieme a Lucia Vitaletti, direttrice del centro, a Massimo Bonini, suo collaboratore, e ai consiglieri municipali Carla Corciulo e Annarita Leobruni. Ringrazio infine Paolo Saracino, per la sua attenta e competente lettura del manoscritto, Stefano Petrella, coordinatore del Centro di cultura ecologica, per avermi fornito le visure catastali dell’area, e Giorgia Tullo per avermi gentilmente messo a disposizione la sua tesi di laurea sulla riqualificazione architettonica della Leo.

Bibliografia e sitografia utilizzate

  • Capocci M., «A Chain is gonna come». Building a penicillin production plant in post-war Italy , Dynamis, 31 (2), pp. 343-362, 2011
  • Capocci M., La guerra fredda della penicillina, Le Scienze, 548, aprile 2014
  • Capocci M., L’industria farmaceutica, in Il contributo italiano alla storia del pensiero: tecnica, IEI, Roma, 2013
  • Causone P. La penicillina, in Minerva, Storia, epistemologia e didattica della chimica: http://www.minerva.unito.it/
  • Cosmacini G., Storia della medicina e della sanità in Italia, Laterza, Bari-Roma, 2010
  • Centro documentazione territoriale Maria Baccante: archivio storico Viscosa, La fabbrica, in http://www.archivioviscosa.org/
  • Di Biagi P., a c. di, La grande ricostruzione: il piano INA-Casa e l’Italia degli anni ’50. , Donzelli ed., Roma, 2001
  • ISF, Brochure di presentazione, Roma, s.d.
  • Istituto Luigi Sturzo, a c. di, Fanfani e la casa, Rubettino, Catanzaro, 2002
  • Farinelli E., Facciamo un po’ di storia: S. Basilio dalle origini a oggi , in Dammi il 5!: Una bacheca per il territorio del V municipio di Roma e non solo, http://dammil5.blogspot.it/2010/05/facciamo-un-po-di-storia-san-basilio.html
  • Leo Faramaceutica, in Lostitaly, 2, 2016: http://www.lostitaly.it/
  • Luzzi S., Storia della sanità nell’Italia repubblicana, Donzelli ed., Roma, 2004
  • Massaglia M., Alexander Fleming, in Minerva, Storia, epistemologia e didattica della chimica: http://www.minerva.unito.it/
  • Quinn R.,Rethinking Antibiotic Research and Development: World War II and the Penicillin Collaborative , Am. J. Public Health, 103 (3), marzo 2013
  • Senato della Repubblica Italiana, resoconto della seduta del 26 marzo 1952, in http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487702.pdf
  • Società Prodotti Antibiotici, Storia, in http://www.spaspa.it/it/home


Fig.1 La facciata del rudere della Leo Penicillina, al decimo chilometro della via Tiburtina.


Fig.2 La Leo Penicillina nel pieno della sua attività, in una immagine degli anni Sessanta (fonte: Istituto Luce).


Fig. 3 (fonte: http://botit.botany.wisc.edu/toms_fungi/nov2003.html)


Fig. 4 Un manifestino che propaganda l’uso delle penicillina nell’esercito(fonte: National Centre for Biotechnology: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22698031).

Fig. 5 In alto, l’acido 6-APA, che contiene la struttura comune a tutte le penicilline, naturali e sintetiche. Dalla acilazione del gruppo amminico si ottengono le diverse penicilline, che differiscono per i sostituenti legati a tale gruppo. A destra, la struttura della penicillina G, o benzilpenicillina, la sola penicillina naturale a essere farmacologicamente attiva, con il gruppo sostituente benzilico in evidenza.

Fig. 6 L’inaugurazione della Leo Penicillina nell’ottobre 1950: al centro Giovanni Armenise, sulla sinistra, e Alexander Fleming, sulla destra (fonte: Lostitaly).

Fig. 7 Articolo de L’Unità del 14 ottobre 1950 sull’inaugurazione della Leo Penicillina; sulla sinistra, la foto dell’autografo lasciato da Fleming (v. nota 4) sul libro degli ospiti dell’azienda (fonte: Archivio de L’Unità).

Fig. 8 Logo della Leo Pharma, disegnato dalla figlia del primo proprietario dell’azienda e ispirato a un bassorilievo assiro (fonte: LeoPharma).

Fig. 9 Inaugurazione della fondazione, nel febbraio del 1948, dello stabilimento per la produzione di penicillina ISS. Da sinistra: il direttore dell’Istituto, Domenico Marotta, l’ambasciatore americano James Clement Dunn, il premier Alcide De Gasperi, il premio Nobel per la medicina Ernst Boris Chain e il commissario per la ricostruzione Benedetto Perotti (fonte: ISS).

Fig. 10 Una linea di fermentazione della fabbrica (fonte: Lostitaly).

Fig. 11 (Fonte: https://focusonpast.files.wordpress.com/2015/04/confezioni.jpg).

Fig. 12 Immagine aerea della fabbrica (nel riquadro rosso) con il fiume Aniene nelle immediate vicinanze.

Fig. 13 L’occupazione della fabbrica (fonte L’Unità).

Fig. 14 Uno scorcio del rudere.

Fig. 15 Versante est del rudere con al centro l’ex-amideria (fonte: effeunoequattro: http://www.effeunoequattro.net/htdocs/modules/newbb/viewtopic.php?topic_id=11717).

Fig. 16 Un bellissimo murales di Carlos Atoche campeggia nella desolazione della fabbrica abbandonata, coerentemente alle scelte degli artisti della street art (fonte: Urbs Picta: https://romagraffiti.com/street-art-in-fabbrica-abbandonata-3/).

Fig. 18.

Fig. 17 Linea del tempo della Leo Penicillina.

Fig. 19.

Fig. 20.