Per una società solare

Gli articoli che seguono sono stati scelti da Cesare Silvi, come spiegato nel testo che precede questa antologia.

1. Alla ricerca di una società neotecnica

Nota introduttiva

Nei primi anni settanta del Novecento, in quella primavera dell’ecologia, c’è stato un vivace dibattito sulle strade con cui sarebbe stato possibile superare la crisi dei beni collettivi, l’inquinamento e il degrado ambientale del pianeta.

Alcuni attribuivano “alla tecnica” la fonte di questa violenza, altri ritenevano che la fonte della violenza ambientale fosse “la” tecnica usata della società capitalistica per assicurare ad alcuni privati il massimo profitto.

Perfino il Papa Paolo VI, nell’enciclica Populorum progressio — sul “progresso”, differente dalla ”crescita” o dallo stesso “sviluppo”, dei popoli — nel 1967 aveva scritto che “non basta promuovere la tecnica perché la terra diventi più umana da abitare. …  Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo ch’esse devono servire”.

In Italia nell’ambito di Italia Nostra, allora la principale associazione attenta ai problemi ambientali, presieduta da Giorgio Bassani, ci fu un vivace dibattito per immaginare una società progredita capace di soddisfare le crescenti necessità umane con un uso razionale della tecnica e delle risorse naturali.

Fu l’occasione per “rileggere” Lewis Mumford, l’autore che negli anni trenta del Novecento aveva analizzato i grandi problemi della città, del territorio, della natura.

Nel libro “Tecnica e cultura”, del 1934, pubblicato in italiano nel 1961, Mumford auspicava l’avvento di una “società neotecnica” basata su una tecnica meno violenta e inquinante, su differenti materie prime, su una diversa organizzazione del territorio, su un riequilibrio fra città e campagna, sull’agricoltura come fonte di alimenti e di materie “rinnovabili”.

Sulla possibile realizzazione di una società neotecnica l’associazione organizzò vari seminari i cui resoconti sono contenuti in vari fascicoli del Bollettino di Italia Nostra, vol. 18, (136/137), 15-22 (1976); vol. 19, (157), 3-8 (dicembre 1977); vol. 20, (167/168), 11-12 (settembre-ottobre 1978). Ad uno di questi incontri partecipò anche Giovanni Berlinguer che dedicò al problema l’articolo: “La neo-tecnica” apparso in Rinascita, n. 5, 4 febbraio 1977, p. 33.

L’articolo che segue, pubblicato originariamente nel 1976 e poi riprodotto in varie riviste, è una testimonianza di tale dibattito e forse può offrire alcuni spunti anche per pensare al futuro in questi tormentati primi decenni del XXI secolo.

Nel leggerlo bisogna tenere conto delle condizioni e delle conoscenze di oltre 40 anni fa; ci sono alcune ingenuità e valutazioni errate, alla luce di quanto si sa oggi, e la sua riproduzione rappresenta più che altro un contributo alla conoscenza di una pagina dimenticata del dibattito novecentesco sull’”ecologia”. Ottobre 2017

Articolo pubblicato originariamente in Sapere79, (794), 42-45 (settembre 1976)

Alle soglie del ventunesimo secolo

La crisi che ha investito il mondo occidentale nell’ultimo quarto del ventesimo secolo impone con urgenza delle scelte che influenzeranno la maniera di essere e di vivere, la sicurezza politica e psicologica degli uomini che vivranno nell’ormai vicino ventunesimo secolo. Il ventesimo secolo è stato un periodo di fantastiche contraddizioni, di grandi dolori e di grandi speranze; la scienza e la tecnica hanno fatto fare agli uomini degli incredibili balzi avanti nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, delle merci, dell’energia, ma hanno anche aperto trappole e baratri sulla cui soglia ci troviamo oggi e che determinano un senso di insicurezza del futuro, di violenza, di ingiustizia, di ricerca appassionata di diversi rapporti individuali e collettivi.

Queste tensioni sociali hanno la loro origine nella congestione e nell’affollamento delle grandi città, nella consapevolezza che le risorse naturali sono scarse, nell’inquinamento, nell’incubo della guerra totale, nella presa di conoscenza e di coscienza delle disparità; fra l’altro si è andato diffondendo un sentimento di ribellione alla scienza e alla tecnica a cui viene attribuito il cattivo uso che ne è stato fatto da organizzazioni e da singoli individui.

Tale reazione non è nuova ed è irrazionale; una volta mangiato il frutto dell’albero della tecnica non si può tornare ad un ipotetico e discutibile paradiso precedente; la nostra è, e continuerà ad essere, una società tecnologica e noi possiamo solo fare in modo che gli immensi mezzi disponibili per l’uomo siano posti al suo servizio e non siano usati per perpetuare ingiustizie ed oppressione.

La ricerca di una nuova maniera di usare la tecnica fu descritta in modo incisivo da Patrick Geddes che nel 1915 preconizzò l’evoluzione della società disordinata, sporca ed inquinata della rivoluzione industriale vittoriana – una società che egli definì paleotecnica – e l’avvento di una società neotecnica basata su nuove fonti di energia pulite, in particolare sull’energia elettrica, su città pianificate e ordinate. I concetti di Geddes ebbero il più rilevante portavoce in Lewis Mumford che nel 1933, col libro Tecnica e cultura, riconobbe ancora nel suo tempo – sono gli anni della grande crisi americana e dell’avvento al potere del nazismo – i chiari segni della società paleotecnica, l’«impero del disordine», e cercò i segni, che gli sembravano vicini, della società neotecnica.

Se le nostre città industriali usano meno carbone e sono (forse) meno fumose di quelle della rivoluzione industriale, non sono però meno inquinate, congestionate, disordinate, violente; ancora una volta siamo spinti, in un momento di crisi simile a quella del tempo in cui Mumford scrisse il suo libro, a cercare di inventare e creare una società neotecnica che non può non essere tecnologica e industriale, ma che può essere più razionale e meno inquinata di quella attuale.

L’industrializzazione diffusa

Proviamo insieme, alla luce della situazione italiana contemporanea, ad immaginare come si potrebbe sviluppare una tale società neotecnica nel nostro paese, partendo da alcuni degli squilibri più vistosi e, in particolare, dal rapporto, violentemente mutato e abnorme, fra città e mondo rurale. Vari autori hanno immaginato un quadro di insediamenti umani diversamente distribuiti nel territorio. «Solo una società che faccia ingranare armoniosamente le une nelle altre le sue forze produttive secondo un solo grande piano, può permettere all’industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e conservazione, e rispettivamente all’utilizzazione degli altri elementi della produzione. Solo con la fusione fra città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie». «Noi dobbiamo creare un gran numero di industrie nelle regioni rurali affinché i contadini si trasformino in operai, sul posto. Il tenore di vita nelle campagne non deve essere inferiore a quello che si trova nelle città; deve essere vicino a quello che si trova nelle città o anche più alto. Ogni comunità deve possedere i propri istituti di insegnamento superiore per poter formare i propri intellettuali».

Un riequilibrio dei rapporti fra città e campagna, quindi, non significa un ritorno, ormai impensabile, alla «sana» vita dei campi, che voleva poi dire la schiavitù ad una terra ingrata, la condanna a scuole e ospedali scadenti, a pregiudizi e arretratezze, ma significa il trasferimento nel territorio in forma diffusa di imprese industriali basate su materie e su fonti di energia alternative alle attuali.

Adriano Olivetti, negli anni Cinquanta, aveva progettato di insediare, nei paesi montani del Canavese, poveri e con un’agricoltura insufficiente per le necessità della popolazione, delle piccole imprese industriali che costruivano accessori per la Olivetti di Ivrea o altri prodotti. La popolazione locale agricola passava così ad un modo moderno, che è industriale e tecnologico, di produzione, ma, nello stesso tempo, poteva continuare nelle attività agricole tradizionali; l’orario delle fabbriche era adattato in modo che gli operai interrompevano il lavoro nelle ore centrali della giornata per poter tagliare il fieno e badare alle stalle, utilizzavano le proprie case, conservavano i propri amici e condizioni di vita non alienate. Nel breve periodo di questa originale avventura, i pochi paesi che l’hanno ospitata hanno sperimentato un nuovo benessere.

Cerchiamo di immaginare come questa integrazione fra produzione industriale e territorio rurale possa essere estesa adesso in larghe parti d’Italia, soprattutto in quelle che soffrono di pesanti emigrazioni; vi sono delle attività industriali per le quali non è necessario né essere vicini ai grandi centri urbani, né esistono problemi di trasporto di materie prime o di fonti di energia o di macchinari. I moderni mezzi di comunicazione potrebbero consentire il collegamento di queste attività diffuse nel territorio con i centri degli affari.

La diffusione delle attività industriali e produttive nel territorio consentirebbe di ridare vita a paesi e città minori, salvando un patrimonio di centri storici, edifici, chiese, tradizioni irripetibili, specialmente nell’Italia centrale e nel Mezzogiorno. Si tratta delle zone più gravemente colpite dall’esodo, i cui abitanti sono calati nelle grandi città alla ricerca di lavoro e di condizioni più decenti di vita; tale esodo ha provocato da una parte la degradazione dei paesi e dei territori abbandonati, la disgregazione di un mondo provinciale e periferico, arretrato sotto certi aspetti, ma ancora ricco di valori; dall’altra la congestione delle grandi città, con relativi costi sociali di servizi, di traffico, di violenza, di inquinamento, di speculazione.

In un momento come questo, in cui ritornano amareggiati, nei paesi di origine, coloro che ne sono emigrati negli anni del boom economico, l’Italia povera viene ad avere disponibile un patrimonio di mano d’opera, di intellettuali, di conoscenze che troverebbe impiego e rappresenterebbe un elemento propulsore nelle attività produttive se queste fossero localizzate nei rispettivi paesi.

Produrre che cosa per chi?

Ci si deve chiedere a questo punto che cosa potranno produrre queste industrie sparse nel territorio. Lo sviluppo degli ultimi venticinque anni è stato diretto alla produzione di merci partendo da poche materie prime, soprattutto minerali metallici e prodotti petroliferi per i quali dipendiamo pesantemente dalle importazioni.

In particolare l’industria petrolchimica ha permesso di ottenere una serie di merci sintetiche – materie plastiche, fibre tessili sintetiche, gomma sintetica, eccetera – che hanno fatto concorrenza e in qualche caso hanno soppiantato prodotti o materie prime naturali, anche in campi nei quali il nostro paese era all’avanguardia.

La produzione di fibre tessili sintetiche, per esempio, ha provocato la distruzione della coltivazione e della produzione della canapa, una fibra tessile naturale nella quale il nostro paese aveva raggiunto un livello molto avanzato sia come volume di produzione sia come qualità.

Le materie sintetiche di origine petrolchimica hanno più o meno la stessa qualità – lo stesso valore d’uso – di quelle naturali a cui fanno concorrenza, ma richiedono una materia prima scarsa e non rinnovabile, il petrolio, che una volta consumato non c’è più, e sono fonti di maggiore inquinamento rispetto a quelle naturali; queste dipendono da risorse naturali rinnovabili, i prodotti agricoli, fabbricati ogni anno dal sole attraverso i processi di fotosintesi e i grandi cicli geologici e geochimici naturali.

Io immagino che in una parte del nostro territorio, oggi abbandonato ed esposto all’erosione, possano diffondersi colture arboree per la produzione di cellulosa e altre piante, come la ginestra, in grado di dare sia cellulosa, sia direttamente fibre tessili naturali. L’opera di rimboschimento e di diffusione di piante da cellulosa e da fibra contribuirebbe a ricostituire un manto di sostanza organica in grado di proteggere il suolo contro l’erosione, con la prospettiva di dare una soluzione a questo assillante problema e di porre un freno alle frane e alle alluvioni.Le risorse naturali rinnovabili, come le materie prime cellulosiche, potrebbero essere trasformate in merci – carta, fibre tessili, prodotti chimici industriali, sostanze proteiche, eccetera – in quelle fabbriche diffuse nel territorio di cui parlavo all’inizio, con effetti rilevanti anche sui nostri scambi internazionali. Come è ben noto, infatti, l’Italia dipende pesantemente, fra l’altro, dalle importazioni di materie prime cellulosiche, soprattutto per la fabbricazione di carta e cartoni.

Nuove materie prime industriali

Attualmente negli Stati Uniti vi è una crescente attenzione per l’uso della cellulosa come materia di base per molte nuove lavorazioni e merci: dalla cellulosa, per esempio, è possibile ottenere zuccheri che possono essere usati, a loro volta, come materie prime per l’industria delle fermentazioni: molte difficoltà tecniche sono state di recente superate in questo campo attraverso nuove ricerche di chimica della cellulosa e dei prodotti naturali.

Dagli zuccheri di origine cellulosica o provenienti da altri prodotti e sottoprodotti agricoli – come la paglia, frutta di scarto, eccetera – è possibile ottenere, per esempio, microrganismi o lieviti ricchi di proteine adatti direttamente all’alimentazione umana; si pensi che la recente follia di costruire delle grandi fabbriche per ottenere questi microrganismi partendo da idrocarburi del petrolio – le cosiddette «bistecche dal petrolio» – fornisce dei materiali proteici non idonei, per motivi igienico-sanitari, all’alimentazione umana e ancora discutibili per l’alimentazione del bestiame, mentre enormi quantità di prodotti e sottoprodotti agricoli zuccherini, amidacei e cellulosici vanno distrutti o bruciati, o sono fonti di inquinamento, e comunque restano inutilizzati.

L’industria delle fermentazioni di materie vegetali rinnovabili fornisce la soluzione tecnologicamente avanzata di molti altri problemi merceologici. Sempre per fermentazione è possibile produrre alcool etilico, materia suscettibile di numerosissime applicazioni: di recente in alcuni stati agricoli degli Stati Uniti l’alcool viene addizionato alla benzina col vantaggio che si consuma meno benzina, che si ottengono miscele ad alto numero di ottano senza bisogno di addizionare il velenoso piombo tetraetile alle benzine, che l’inquinamento è molto minore. L’alcool etilico può anche essere usato come materia prima per la produzione di gomma sintetica, di materie plastiche e di numerosi altri prodotti chimici industriali attualmente ottenuti da risorse non rinnovabili come il petrolio e i suoi derivati o il gas naturale.

Le industrie chimiche basate sui prodotti naturali rinnovabili e diffuse nel territorio consentirebbero, fra l’altro, l’impiego di quei diplomati e laureati in discipline scientifiche, tecniche e naturalistiche che oggi sono spesso occupati male o sottoccupati.

A proposito di prodotti chimici industriali, va ricordato che, soprattutto nelle zone aride del paese, è possibile coltivare piante della gomma come il guayule, un arbusto che, in California, in certi anni ha fornito fino a 800 kg di gomma naturale per ettaro: è abbastanza curioso ricordare che alla fine degli anni Trenta una compagnia americana aveva iniziato tale coltura anche in Puglia. Attualmente quasi tutta la gomma usata nel nostro paese è gomma sintetica ottenuta per via petrolchimica o è gomma naturale d’importazione.

Tutta l’esperienza della «chemiurgia» – la scienza nata negli anni Trenta negli Stati Uniti per l’utilizzazione di materie prime e la produzione di merci dal mondo agricolo e naturale – può essere riesplorata nel quadro dell’invenzione della società neotecnica. Gli investimenti per la ricerca scientifica e tecnologica, attualmente finalizzati in pochi settori legati ad industrie che richiedono alti investimenti di capitale, potrebbero essere diretti alla razionale utilizzazione di risorse rinnovabili naturali, allo sviluppo di industrie decentrate non inquinanti, caratterizzate da alto impiego di mano d’opera.

Finora ho fermato l’attenzione sugli aspetti agricoli della società neotecnica, ma non va dimenticato che esistono, nel nostro paese, risorse minerarie minori finora trascurate: una di queste è la leucite, un minerale presente in grande quantità nelle zone vulcaniche dell’Italia centrale, da cui è possibile ricavare alluminio e sali potassici, questi ultimi richiesti come fertilizzanti. Attualmente l’Italia importa bauxite, il principale minerale di alluminio, dall’Australia a 20.000 chilometri di distanza, e fertilizzanti potassici da vari paesi, trascurando un minerale locale la cui utilizzazione avrebbe effetti positivi sull’occupazione.Va notato che le «fantasticherie» finora esposte sono basate su conoscenze già sperimentate e collaudate nel nostro e in altri paesi industriali avanzati.

Acqua e energia

Ho immaginato finora la creazione di industrie diffuse nel territorio e basate sulla trasformazione di prodotti naturali, per lo più risorse rinnovabili. Ma tali industrie hanno bisogno di energia e io penso che il rimboschimento e la difesa del suolo contro l’erosione e le alluvioni possano essere affiancati dall’aumento delle risorse idriche e idroelettriche, con una revisione dell’intera politica energetica nazionale.

L’Italia non è un paese povero di acqua; anche nelle zone meridionali, aride, del paese, le precipitazioni sono spesso rilevanti e in qualche caso anche abbondanti; l’acqua, che spesso penetra e si disperde nel sottosuolo o viene perduta per evaporazione, potrebbe essere raccolta in un grande sistema di invasi o laghi artificiali al duplice scopo di aumentare le risorse idriche – per le città, le industrie, l’agricoltura – e di produrre energia idroelettrica. L’efficacia degli invasi artificiali finora realizzati è stata spesso ridotta dal fatto che i bacini artificiali, se a monte non esiste una protezione del suolo contro l’erosione, diventano dei collettori di fango, dei detriti dell’erosione, oltre che di acqua. Proteggendo il suolo con le opere prima immaginate, sarebbe possibile rivedere tutta la politica e la geografia dei bacini anche nelle zone meno favorite, per esempio nell’Appennino centrale e meridionale.

Si usa dire, accogliendo il punto di vista delle grandi imprese elettriche private che hanno preceduto l’ENEL, che tutte le risorse idroelettriche del paese sono già state «sfruttate» e che la produzione attuale di energia idroelettrica, circa il 27% della produzione di energia elettrica (il resto è quasi esclusivamente energia termoelettrica ottenuta da combustibili fossili), è vicina al limite massimo ottenibile nelle nostre condizioni geografiche.

L’energia idroelettrica è l’unica forma di energia veramente non inquinante, ottenibile con minime perdite di trasformazione: è stato calcolato che in Italia, con adatte opere di regolazione delle valli, sarebbe possibile recuperare almeno il doppio dell’energia idroelettrica che si produce attualmente, che cioè una notevole percentuale della produzione di energia elettrica nazionale potrebbe essere coperta con nuove opere idroelettriche. Ciò consentirebbe di ridurre il consumo di combustibili fossili per la produzione di energia termoelettrica e permetterebbe di riesaminare e contenere i discutibilissimi programmi di espansione dell’energia nucleare; le nuove centrali idroelettriche, diffuse nel paese, consentirebbero di produrre l’energia necessaria per alimentare, con minimi costi e perdite di trasporto, i nuovi insediamenti industriali prima ipotizzati.

Certamente, per nuove opere idroelettriche occorrono pubblici investimenti, ma anche per l’avventura nucleare, in cui l’Italia si è imbarcata, occorrono spese e investimenti, aggravati dalla prospettiva di dover dipendere dall’estero per decenni e da problemi di inquinamento ed ecologici di vastissima portata. Gli investimenti per le opere di rimboschimento, di regolazione del corso dei fiumi, di costruzioni di dighe e centrali sono ad alto impiego di mano d’opera; può essere interessante ricordare che una delle opere pubbliche volute da Roosevelt per uscire dalla crisi americana del 1929-1933 fu la regolazione del corso del fiume Tennessee attraverso una serie di grandi dighe e centrali elettriche; le opere della Tennessee Valley Authority assorbirono parte dei lavoratori disoccupati e contribuirono a combattere l’erosione del suolo, ad aumentare le risorse idriche per l’irrigazione e ad aumentare, di conseguenza, la produzione agricola, contribuirono alla creazione di industrie, per esempio per produrre fertilizzanti con l’energia elettrica disponibile sul posto.

Non a caso Mumford pensava che, a differenza della società paleotecnica, basata sul carbone e sul petrolio, sporca e inquinante, la società neotecnica sarebbe stata basata principalmente sull’uso dell’energia elettrica pulita, ed egli pensava all’energia idroelettrica ricavabile attraverso grandi opere di risistemazione del territorio, nonché all’energia ricavabile dal sole e dal vento, altre due fonti di energia rinnovabili che potrebbero avere un ruolo decisivo nella società neotecnica diffusa che stiamo cercando di immaginare.

Una nuova maniera di fare i conti                                                                                             

A tale progetto di società neotecnica si usa obiettare che le merci e le soluzioni prospettate sono «più costose» di quelle attuali e tradizionali. È probabile che, sulla base di valutazioni puramente microaziendalistiche, l’alcool etilico sia un carburante più costoso della benzina, l’alluminio e i sali potassici ottenuti dalla leucite siano più costosi di quelli ottenuti da minerali di importazione.

Va però notato, intanto, che i prezzi delle materie prime e delle merci tradizionali stanno mutando e aumentando rapidamente e che, in generale, i prezzi delle risorse naturali non rinnovabili aumentano più rapidamente di quelli delle risorse naturali rinnovabili; tali mutamenti, quindi, possono rendere competitive quelle materie prime che finora erano considerate «antieconomiche».

Inoltre le analisi dei costi tradizionali non tengono conto dei costi che i privati e le aziende non pagano, ma che ricadono sulla collettività, cioè i costi dell’inquinamento conseguente la produzione e l’uso delle attuali merci, i costi dovuti alla congestione e alla violenza urbana, alla degradazione dei centri storici, alle emigrazioni, alla perdita di fertilità del terreno, alle frane e alle alluvioni; tutti costi in termini di vite umane, di patrimonio storico e naturale, oltre che di denaro privato e pubblico.

Le soluzioni neotecniche presentano dei benefici associati alla possibilità di ridurre le importazioni, di aumentare l’occupazione, di creare nuovi spazi per le attività ricreative, in seguito al ricupero della collina e della montagna, di rivitalizzare i centri minori, eccetera. Nel momento in cui impareremo a fare i conti diversamente, ci accorgeremo che molte operazioni, processi e scelte, materie prime e fonti di energia, considerati antieconomici dalla ragioneria paleotecnica, si rivelano economici in un quadro più generale di valori.

Naturalmente il progetto di industrializzazione neotecnica decentrata richiede anche una nuova maniera di distribuire nel territorio i servizi – ospedali, scuole, università – di cui sono stati finora privilegiati molto di più i grandi centri urbani e industriali, rispetto al resto del territorio. L’esodo dal mondo rurale è dovuto anche al fatto che all’Italia minore sono stati sempre riservati i servizi peggiori.

Un futuro da pianificare

L’invenzione di una società neotecnica è una grossa sfida, specialmente in questo momento grave per il nostro paese, di crisi e disoccupazione e di contraddizioni, per cui in certe parti del territorio vi sono paesi e campi abbandonati e nelle grandi città la gente è senza casa e senza lavoro. I bisogni fondamentali di cibo, di abitazioni, di istruzione, di servizi sanitari, di sicurezza nel futuro, sono soddisfatti in maniera molto diversa nelle varie parti del paese e nelle varie classi sociali: si passa dallo spreco offensivo, all’analfabetismo e alla povertà.

Ho proposto questo modello di società neotecnica come una provocazione alla pigrizia, come invito a rifare i conti, pubblici e privati, ad inventare una politica di rinnovamento della qualità della vita; tale politica presuppone l’identificazione di precisi obiettivi di natura merceologica ed ecologica e una pianificazione dei mezzi per raggiungerli, ma anche questo non basta; una società neotecnica richiede fantasia, coraggio e forza morale per criticare e rivedere strutture politiche, di potere e sociali ormai consolidate; saremo capaci di attuare tale rivoluzione?

Saggio pubblicato originariamente in: Italia Nostra, Bollettino18, (136/137), 15-22 (1976); Sapere79, (794), 42-45 (settembre 1976); Città e regione, n. 1, gennaio 1979

Alle soglie del ventunesimo secolo

2. Abolire la parola “sostenibile”

Propongo di abolire dal vocabolario la parola sostenibilità e tutti i suoi aggettivi. Dal momento che una società o uno sviluppo sostenibili, secondo la definizione “ufficiale”, è qualcosa che dovrebbe soddisfare i bisogni umani della nostra generazione assicurando uguali opportunità e condizioni materiali ed ecologiche alle generazioni future, di certo nessuno dei casi a cui viene attaccato l’aggettivo sostenibile è davvero sostenibile. 

La parola sostenibile negli anni novanta del Novecento è diventata quello che era, negli anni settanta, la parola “ecologia”; quando si è visto che l’ecologia aveva un contenuto sovversivo, invitava a modificare il comportamento degli esseri umani nei confronti del mondo circostante, chiedeva ai governi e ad alle imprese di modificare le loro politiche, le loro merci e i loro affari, allora i potenziali soggetti “disturbati” dalla nuova maniera di vedere il mondo, se ne sono appropriati. Sono così nati i governi ecologici, i detersivi ecologici, le automobili ecologiche, le plastiche ecologiche, eccetera, col loro carico di violenza all’ambiente, di inquinamento, di attentati alla salute umana. 

Negli anni ottanta la stessa sorte è toccata all’aggettivo “verde”; quando si è visto che i movimenti e partiti verdi raccoglievano consensi su programmi, altrettanto sovversivi, di modificazioni economiche e di innovazioni tecniche, allora governi e imprese si sono fatti “verdi”; e così sono nati la benzina verde (col suo bravo veleno di benzene e di idrocarburi cancerogeni), i governi verdi, che si oppongono strenuamente all’abolizione delle armi nucleari, le imprese verdi che continuano a scaricare i loro rifiuti tossici dove capita. 

Infine è saltata fuori la sostenibilità, ancora più sovversiva, con la sua richiesta di una società che avrebbe dovuto far cessare le azioni che danneggiano l’ambiente e la natura, in relazione alle condizioni di vita non solo dei nostri coinquilini del pianeta terra di oggi, ma anche di quelli che sarebbero venuti sullo stesso pianeta, nella stessa casa, decine e decine di anni dopo di noi, nel futuro. 

Nel nome del rispetto delle generazioni future, dell’impegno di assicurare la sostenibilità delle loro condizioni vitali, avrebbero dovuto essere vietati la distruzione delle foreste, l’inquinamento dell’atmosfera e dei mari, l’impoverimento delle riserve agricole e minerari, cioè tutte le azioni  che avrebbero potuto lasciare meno acqua, meno cibo, meno fonti energetiche alle persone che vivranno nel 2025, o nel 2050, eccetera. 

L’idea della sostenibilità introduceva una nuova categoria di doveri, non solo verso il prossimo che è vicino a noi, non solo verso il prossimo che è presente da qualche altra parte anche lontana, del pianeta, ma anche nei confronti  delle persone e degli esseri viventi che verranno dopo di noi,  del “prossimo del futuro”. 

Una attenta osservazione mostra che chi promette qualcosa di sostenibile, secondo .la definizione di questa parola, inganna i suoi ascoltatori. Tutto quello che si può fare, nei confronti delle generazioni future, del tempo che verrà, è impegnarsi in azioni meno insostenibili. Mangiare la torta, e poi averla ancora tale e quale, come vorrebbe la definizione di sostenibilità, è un obiettivo fisicamente irraggiungibile: lo spiega bene l’economista Nicholas Georgescu-Roegen — di cui raccomando la lettera del libro “Energia e miti economici”, apparso nel 1998 in una nuova edizione pubblicata dall’editore Bollati Boringhieri — sulla base di considerazioni puramente fisiche, termodinamiche, quindi incontestabili. 

Ogni volta che tocchiamo i corpi della natura — l’aria, le acque, le riserve di minerali e di fossili, il suolo agricolo, le foreste — per ricavarne le merci che tengono in moto l’economia, così come la si intende oggi, ci lasciamo alle spalle energia e materia che non possono più essere utilizzati ai fini originari e quindi peggiori condizioni per chi verrà in futuro. 

Quando spostiamo l’energia da un corpo all’altro, alla fine la quantità di energia è la stessa, ma, per il secondo principio della termodinamica, con l’energia usata non è possibile più scaldare i corpi o muovere le macchine come abbiamo fatto la prima volta; durante l’uso peggiora la qualità, diminuisce la utilizzabilità, dell’energia, un fenomeno che i fisici descrivono affermando che aumenta l’entropia del sistema considerato. 

Ma lo stesso avviene con la materia: ogni volta che estraiamo minerali dal sottosuolo, ogni volta che coltiviamo un campo, lasciamo dei corpi naturali impoveriti; mai più avremo gli stessi minerali o combustibili usati e finiti sotto forma di acciaio o di alluminio o di materia plastica, mai più otterremo lo stesso raccolto dallo stesso campo se non reintegriamo i sali nutritivi che il raccolto precedente ha sottratto. 

L’operare secondo leggi economiche e merceologiche lascia, inesorabilmente, ai tempi futuri riserve energetiche e materiali più povere, per cui chi verrà in futuro non solo avrà meno opportunità, rispetto a noi, ma dovrà fare più fatica ad avere altro ferro, altro petrolio, altra gomma, altro grano, a trovare spazi o fiumi in cui scaricare i propri rifiuti. 

Qualsiasi azione politica, produttiva, commerciale, non può, quindi, lasciare alle generazioni future condizioni uguali a quelle di cui aveva goduto, ma al massimo potrà fare in modo che quanto viene lasciato al futuro sia un po’ meno degradato e impoverito. Ma tutta la nostra società, la nostra economia, ci impone il dovere morale di estrarre più minerali, più grano, più petrolio dalle riserve della natura, con la conseguenza di sporcare sempre più, col nostro gran daffare, le acque e l’aria; tutto il nostro daffare, insomma, rendemeno accettabili, umane, sostenibili, le condizioni di chi vivrà in futuro. 

Allora: quando vedete che i governi promettono una società sostenibile e nello stesso tempo vi invitano ad aumentare i consumi di merci prodotte impoverendo le risorse della natura e sporcando l’aria e l’acqua, che, per definizione, dovrebbero essere lasciate inalterate alle generazioni future, siate certi che vi prendono in giro. Quando sentite i sindaci che promettono la città sostenibile o il turismo sostenibile e fanno aumentare le automobili in circolazione o i motoscafi o le seggiovie, che distruggono i boschi e sporcano l’aria e il mare, beni che le generazioni future dovrebbero trovare tali e quali come li abbiamo trovati noi, siate certi che vi prendono in giro. 

Non escludo che i governi possano trovare giusto, per i loro principi e per favorire gli affari delle imprese, far aumentare il numero delle automobili, la superficie delle strade, la massa delle merci e dei rifiuti, il numero delle bombe nucleari — ma abbiano almeno il pudore di non venirci a dire che questo non danneggia le generazioni future, che il loro comportamento è sostenibile !

Villaggio Globale, 2, (5), 44-45 (marzo 1999)

Avvenire, 5 marzo 1999

3. Anidride carbonica

 L’anidride carbonica, la cui formula chimica è ci-o-due, CO2, è una strana sostanza dai tanti volti: è una “merce” quando le piante la “acquistano” (sia pure senza pagare niente) dall’atmosfera per produrre gli zuccheri, l’amido, la cellulosa dei loro tronchi, foglie, radici, mediante la fotosintesi clorofilliana. È un rifiuto, uno scarto, quando gli animali, e fra questi gli animali umani, la eliminano con la respirazione in seguito alla “combustione” degli alimenti. È una merce quando la si produce industrialmente per addizionarla alle bevande gassate – le bollicine dell’acqua “in bottiglia” e delle bevande analcoliche sono costituite da anidride carbonica molto pura immessa sotto pressione nelle bottiglie; è un rifiuto quando si forma in seguito alla combustione della benzina, del gasolio, del gas naturale, del carbone, in seguito alla scomposizione dei calcari durante la fabbricazione del cemento, e, allo stato gassoso, viene immessa nell’atmosfera. Invisibile, è un gas incolore e privo di sapore e di odore, ci avvolge, in questa gran circolazione dall’aria ai boschi, ai campi coltivati, agli animali, alle industrie e poi di nuovo nell’aria, con un movimento di alcune centinaia di miliardi di tonnellate all’anno; la sola combustione dei combustibili fossili ne immette nel mondo, ogni anno, nell’atmosfera, circa 30 miliardi di tonnellate che fanno aumentare in maniera lenta, continua, inarrestabile, la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera, con conseguenti modificazioni climatiche per “effetto serra”. Non sarebbe possibile cercare di impedire il flusso dell’anidride carbonica nell’atmosfera ricavandone qualcosa di utile ? Davanti alle enormi quantità di gas con cui si ha a che fare, in molti paesi industriali vengono studiati nuovi processi o metodi. Il Dipartimento americano dell’energia ha mobilitato i migliori studiosi del problema che hanno suggerito varie soluzioni. Nelle vicinanze delle grandi centrali termoelettriche (pensate a Civitavecchia, Montalto di Castro, Piombino, La Spezia, Brindisi, eccetera) ciascuna delle quali immette ogni anno nell’atmosfera da 10 a 30 milioni di tonnellate di anidride carbonica, i gas dei camini potrebbero essere iniettati nel mare in cui l’anidride carbonica si scioglie; a parte le difficoltà tecniche e i costi, il processo non evita che, col passare del tempo, l’anidride carbonica ritorni poi dal mare all’atmosfera. Se però si inietta l’anidride carbonica a una profondità superiore a 300 metri, difficili da trovare nei mari vicini all’Italia, l’anidride carbonica si stratifica sul fondo del mare e addirittura forma dei composti solidi che potrebbero restare lì a lungo, forse per sempre, segregati dall’atmosfera. Ma l’anidride carbonica potrebbe anche essere usata come materia prima. La società Solvay, nello stabilimento di Rosignano, scompone il calcare (carbonato di calcio) per produrre l’anidride carbonica che serve a fabbricare ilo carbonato sodico (la “soda”) materia prima per molti processi e prodotti industriali. In questo modo, però, non si toglie dalla circolazione l’anidride carbonica, ma la si trasferisce dal calcare alla soda, dalla quale, prima o poi torna nell’ambiente. 2 L’anidride carbonica è costituita da un atomo di carbonio C unito con due atomi di ossigeno, più o meno così: O===C===O; Se portassimo via gli atomi di ossigeno, l’atomo di carbonio potrebbe essere utilizzato per fabbricare degli idrocarburi: il metano CH4, prima di tutto, ma anche molti altri. Purtroppo “portare via” ossigeno è difficile e richiede energia. Tuttavia la strada della chimica basata su un solo atomo di carbonio è battuta da molti studiosi in tutto il mondo.

Altronovecento quaderno n. 4

anno 2000

4. Energia dall’acqua corrente

Chi gira per i torrenti delle Alpi e degli Appennini, anche del nostro Mezzogiorno, ogni tanto si imbatte nei ruderi di edifici che ospitavano mulini azionati da acqua corrente, utilizzati per alimentare dei veri e propri mulini da cereali, ma anche segherie di legname e officine metallurgiche e meccaniche. Può sembrare ridicolo parlare di queste antiche tecniche oggi, nell’era dell’energia nucleare e delle grandi centrali, ma a ben guardare la cosa merita qualche interesse proprio oggi. Intanto il moto dell’acqua nei fiumi e nei torrenti è una delle forme in cui si manifesta l’energia solare; il calore del Sole trasforma in vapore l’acqua della superficie dei mari e dei continenti e trascina il vapore acqueo verso le zone fredde dell’atmosfera; qui il vapore acqueo si condensa di nuovo in forma liquida o solida e cade sui continenti, oltre che di nuovo sui mari. Sulle terre emerse l’acqua scorre scendendo dalle parti più elevate verso il fondo delle valli per tornare nel mare; l’acqua, ogni volta che supera un dislivello, restituisce, col suo moto, sotto forma di energia meccanica, una parte dell’energia “incorporata” e fornita dal Sole come calore, nel momento dell’evaporazione. Il “contenuto energetico” di tutte le acque che scorrono sulle terre emerse in un anno è cinque volte superiore all’energia elettrica prodotta nello stesso anno nel mondo, usando fonti energetiche esauribili e inquinanti; l’energia del moto delle acque, invece, ritorna disponibile ogni anno nella stessa quantità, è, insomma, una fonte di energia rinnovabile. Eppure la produzione di energia idroelettrica nel mondo è appena il 3 per cento di quella che il Sole renderebbe disponibile con i suoi cicli di evaporazione e di condensazione dell’acqua. L’utilizzazione del moto dell’acqua come fonte di energia meccanica risale a tempi antichissimi e se ne trovano testimonianze in tutti i paesi: si tratta di far arrivare l’acqua sulle pale di una ruota, per lo più di legno, con l’asse perpendicolare al fiume o al torrente; l’asse assume così un moto rotatorio che viene trasferito, mediante ingranaggi, ad altre ruote che possono azionare una macina o una sega o un maglio. Fortunatamente, prima della scomparsa delle ultime tracce dei mulini, è nata l’attenzione per la storia di questi dispositivi e per l’archeologia industriale; è stato così possibile salvare molti mulini e studiare i loro meccanismi, talvolta sofisticati. Nell’ambito dell’archeologia industriale esiste anzi una società internazionale di molinologia, con sede a Watford, in Inghilterra; sono stati creati archivi e musei anche in Italia, a Trento e a Reggio Emilia, due zone in cui la tradizione dei molini ad acqua è ancora molto attiva. Il più importante archivio italiano è quello del Museo degli usi e costumi della Gente Trentina, voluto e organizzato da Giuseppe Sebesta (1919-2004) che già nel 1974 aveva scritto un celebre libro: “La via dei Mulini”, ristampato di recente. Anche nel Mezzogiorno si stanno moltiplicando le iniziative per l’identificazione della presenza di antichi mulini ad acqua e per l’analisi della loro storia e delle prospettive energetiche; mulini ad acqua esistevano a Faeto (Foggia), nella valle del Celone (ne ha parlato Vittorio Stagnani su “La Gazzetta del Mezzogiorno”), sul fiume Frido nel Pollino (Potenza), ad Atripalda (Avellino) sul Calore e nella zona di Solofra, ad Amalfi (Salerno) e poi in Calabria e in molti altri posti. “Le vie dei mulini” è il titolo di un libro di Carmine Gambardella pubblicato a Napoli nel 2003, e sempre a Napoli si è tenuto, nel maggio 2005, un seminario di archeologia idraulica. Per inciso l’industria elettrica italiana è nata nell’Ottocento quando alcuni imprenditori hanno trasformato i vecchi mulini introducendo ruote metalliche (al posto delle pale di legno originali) e abbinando il moto delle ruote a generatori elettrici; nei primi anni del Novecento decine di piccole società elettriche, per lo più private e locali, fornivano elettricità ai comuni e ai paesi e alle industrie del luogo; a poco a poco queste società sono state assorbite dalle grandi compagnie elettriche che hanno chiuso le piccole centrali e costruito centrali elettriche di sempre maggiore potenza, e dighe e laghi artificiali per far aumentare il salto dell’acqua e produrre più elettricità, dighe che talvolta hanno provocato catastrofi come quella del Gleno (1923) e quella del Vajont (1963). La produzione di energia idroelettrica oggi in Italia è di circa 40 miliardi di chilowattora all’anno, ma il moto delle acqua dei nostri fiumi potrebbe fornirne quattro volte tanta: una energia che è ancora lì, che potrebbe essere utilizzata, dove esistevano antichi mulini, con moderni impianti idraulici ad acqua corrente che non alterano il territorio e l’ambiente e forniscono elettricità rinnovabile, generata indirettamente dal Sole. Rispetto ai generatori elettrici a vento o solari, che forniscono elettricità in media per 1000-1500 ore all’anno, gli impianti ad acqua corrente producono elettricità per tutto l’anno; anche in questo caso l’elettricità può essere usata subito, o accumulata, o, come nel caso degli altri generatori di elettricità basati su fonti rinnovabili, può essere “venduta” alle grandi reti elettriche nazionali. La resurrezione della produzione di elettricità idraulica, rinnovabile, con piccoli impianti diffusi nel territorio, ha importanza non solo per il decentramento di attività produttive e di occupazione in Italia, ma anche per i paesi del Sud del mondo.

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 6 dicembre 2005

5. Energia dai deserti

Sono passati quarant’anni da quando Aurelio Peccei (1908-1984), intellettuale e dirigente industriale, decise di riunire i migliori ingegni disponibili nel campo dell’economia, della sociologia e dell’ingegneria per interrogarli su come affrontare i grandi problemi (la “problematique”, come la chiamava Peccei) che si stavano presentando: aumento della popolazione mondiale, aumento della produzione di merci e del conseguente inquinamento, impoverimento della fertilità dei suoli e delle riserve di energia — a dire il vero, tutti problemi aperti ancora oggi. Fu così creato il Club di Roma che finanziò, presso il Massachusetts Institute of Technology, il prestigioso politecnico americano dove si trovavano i più potenti (allora) calcolatori elettronici, una ricerca sulle possibili tendenza future di tali fenomeni e sulle relative conseguenze sociali e ambientali. I risultati furono condensati in un libro intitolato “I limiti alla crescita” (ma il titolo fu erroneamente tradotto in italiano come: “I limiti dello sviluppo”, che significava tutt’altra cosa), di cui furono vendute nel mondo alcuni milioni di copie. Il libro sosteneva che le crisi ambientali, l’impoverimento delle riserve delle risorse naturali e i conflitti per la loro conquista avrebbero potuto essere alleviate ponendo dei limiti alla crescita, appunto, della popolazione mondiale, della produzione e dei consumi. Il libro fu oggetto di spietate critiche — come si può parlare di limiti alla crescita quando la crescita economica è la misura della felicità e del benessere ? — poi Peccei morì pochi anni dopo, la popolazione mondiale, la produzione di merci e l’inquinamento hanno continuato a crescere, e per molti anni il Club di Roma ha vissuto in tono minore. Riappare adesso con una proposta che merita attenzione, in questo periodo in cui si parla tanto di energia solare; un chilometro quadrato di superficie terrestre, nelle zone temperate e tropicali, riceve dal Sole in un anno, ogni anno, tanta energia quanta ne potrebbe produrre la combustione di circa un milione di tonnellate di petrolio; anche se nelle macchine solari solo circa il 10-20 % della radiazione solare si trasforma in energia commerciale (elettricità o calore), per ricavare dal Sole tutta l’energia consumata in un anno nel mondo, corrispondente a quella che sarebbe ottenibile bruciando 11.000 milioni di tonnellate di petrolio, “basterebbe” coprire con macchine solari una superficie da un quinto alla metà di quella della Libia, in gran parte deserta. Il Club di Roma propone infatti di installare nei deserti dell’Africa e dell’Arabia collettori solari capaci di generare elettricità, dell’ordine di 300-1000 miliardi di chilowattore all’anno (la produzione totale mondiale di elettricità è, nel 2007, di 15.000 miliardi di chilowattore all’anno) che potrebbe poi essere in parte utilizzata in Africa e nel Medio Oriente, come strumento di sviluppo e di pace, e in parte potrebbe essere esportata in Europa con cavi sottomarini, come corrente continua ad alta tensione, attraverso il Mediterraneo. Non so che fine farà questa proposta; in passato tanti hanno pensato di produrre energia nei deserti, dove è molto elevata l’intensità della radiazione solare. Il grande chimico bolognese Giacomo Ciamician (1857-1922), nei primi anni del secolo scorso, aveva scritto che, con l’energia solare, un giorno la civiltà sarebbe tornata in Africa, da dove era partita tanti millenni fa. Nel 1912 l’inventore americano Frank Shuman (1862-1918) aveva installato in Egitto dei motori solari a specchi per azionare pompe per l’irrigazione. Nel corso del Novecento sono state pubblicate molto altre proposte di impianti solari da costruire nei deserti africani per poi trasportare l’elettricità in Europa. Per realizzare le nuove opere di ingegneria planetaria proposte dal Club di Roma sarebbe necessario coprire centinaia di chilometri 2 quadrati di deserto con specchi che, per concentrazione dell’energia solare, generano del vapore acqueo ad alta temperatura da avviare alle turbine delle centrali elettriche. Il calore solare può essere concentrato con specchi piani su una caldaia posta in cima ad una torre, un sistema che era stato utilizzato in Sicilia, ad Adrano, per una centrale solare che peraltro è stata chiusa dopo pochi anni di funzionamento. La più recente tendenza consiste nell’usare grandi lunghi specchi parabolici che concentrano il calore su una tubazione in cui circola l’acqua e il vapore; è questa la proposta ripresa negli anni scorsi dal premio Nobel italiano Rubbia. Il principale inconveniente degli impianti solari a concentrazione sta nel fatto che gli specchi devono “seguire” continuamente il Sole nel suo moto apparente nel cielo. Ciò può essere fatto con sistemi elettronici o meccanici; uno studioso sovietico, il prof. Valentin Baum, anni fa aveva proposto di collocare gli specchi su vagoni ferroviari che si muovevano su rotaie, tenendo gli specchi sempre orientati verso il Sole. Un altro inconveniente sta nel fatto che i concentratori solari funzionano soltanto quando il cielo è limpido, privo di nuvole, e che il flusso del calore solare sulle caldaie o tubazioni varia nelle varie ore del giorno e nei vari mesi dell’anno. E’ pertanto necessario immagazzinare tale calore in speciali fluidi o materiali da cui il calore deve essere estratto anche di notte, per assicurare il funzionamento continuo delle centrali elettriche. I progettisti dei nuovi grandi impianti termoelettrici solari prevedono che il calore di rifiuto, a bassa temperatura, estratto dalle turbine, possa alimentare dei distillatori di acqua marina; si otterrebbero così, insieme, elettricità e acqua dolce e potrebbero nascere industrie e lavoro nei deserti che potrebbero tornare a fiorire, come sognavano i profeti di Israele. Va peraltro detto che le ricchezze energetiche del Sole sono grandissime e gratuite, ma, proprio per il loro carattere di diluizione nello spazio e di variazione nel tempo, si adattano male ad alimentare macchine e centrali progettate per funzionare con il petrolio o il carbone. Faremmo meglio a cambiare noi, inventando nuove macchine e dispositivi adatti alle forme in cui il Sole arriva a noi.

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 11 dicembre 2007

6. Giovanni Francia: un breve ricordo

Ho molto apprezzato l’iniziativa della Fondazione Micheletti e del prof. Poggio di acquisire il fondo Giovanni Francia, nell’ambito della raccolta di documenti e testimonianze relative alla storia della società contemporanea, alla storia dell’ambiente, dell’energia e dell’energia solare.

I miei primi contatti indiretti col prof. Giovanni Francia risalgono alla metà del 1961; in quell’estate si tenne a Roma la Conferenza delle Nazioni Unite sulle “nuove” fonti di energia: solare, eolico e geotermico. Per quanto ricordo fu un evento molto importante, con una esposizione di piccoli impianti solari, fra cui quello del professore israeliano Harry Tabor, ben descritto nel volume: “Selected reprints of papers by Harry Zvi Tabor, solar energy pioneer”, Rehovot, Balaban Publishers, 1999. Ci fu una visita a Larderello agli impianti geotermici.

Il prof. Francia presentò, in quella occasione il suo studio: “A new collector of solar radiant energy. Theory and experimental verification”, “U.N. Conference on New Sources of Energy, Rome, 1961, Paper E/Conf/35/5/71”; presso la Fondazione Micheletti si trova l’intera collezione degli atti di tale conferenza, in 17 volumi rilegati. Una edizione a stampa: “New Sources Of Energy : Proceedings Of The United Nations Conference On New Sources Of Energy; Solar Energy, Wind Power, Geothermal Energy, Rome 21 To 31 August, 1961” è stata pubblicata nel 1964. Un testo datato 3 May 1961 (potrebbe essere il testo inviato in anticipo alla conferenza), si trova nel faldone “Francia” del Fondo Giorgio e Gabriella Nebbia (d’ora in poi G&G) www.musil.bs.it — Sezioni — Archivio.

La scoperta esposta da Francia nel 1961 era di grande interesse: quando un corpo (collettore) è esposto al Sole la sua superficie si riscalda, ma una parte del calore ricevuto va perduto per conduzione, convezione e irraggiamento dalla parte sottostante e soprattutto dalla superficie esposta al Sole; per poter ottenere calore ad una temperatura utile (per scaldare acqua, o aria) il fondo del collettore deve essere isolato. Le perdite per conduzione, convezione e irraggiamento della superficie esposta al Sole possono essere ridotte con vari accorgimenti: coprendola con una superficie (vetro, plastica) trasparente alla radiazione solare totale ma opaca alla radiazione rossa vicina e infrarossa. Quando peraltro la superficie del collettore supera i circa 100-150°C la superficie del collettore irraggia calore verso la superficie trasparente e questa si scalda e perde calore verso l’esterno per conduzione, convezione e irraggiamento.

Francia, che era un buon fisico, si ricordò delle proprietà dei “corpi neri” che assorbono calore raggiungendo (in via di principio) la stessa temperatura della sorgente di calore (nel nostro caso il Sole) senza perdere calore. Francia si ricordò che un comportamento da “corpo nero” si ottiene con un tubo lungo e sottile col fondo annerito, puntato verso la fonte di calore.

La difficoltà di tenere un tale corpo nero puntato verso il Sole fu superata da Francia con un fascio di tubi di vetro, una struttura “a nido d’ape”, per cui, con relativamente modeste perdite di calore per assorbimento, la radiazione solare poteva raggiungere il fondo della struttura a nido d’ape anche quando la struttura non era perfettamente “puntata” verso il Sole, fino a quando le pareti non “facevano ombra” al fondo del nido d’ape. Con considerazioni fisiche e geometriche Francia calcolò che in una struttura a nido d’ape efficiente come collettore solare, senza bisogno di un vetro sovrastante e senza bisogno di concentrazione, ciascun elemento avrebbe dovuto avere una lunghezza superiore a circa 10 volte il diametro; tale struttura a nido d’ape evitava così le perdite di calore dal “fondo nero” (anche quando il fondo era ad elevata temperatura) sia per irraggiamento, sia per convezione, era cioè antiirraggiante e anticonvettiva.

Ricordo che in un incontro successivi (mi pare a Milano nell’Istituto del prof. Gino Bozza, forse nel settembre 1962) Francia si portò dietro una specie di scatola, mi pare una specie di cubo di circa 30-40 cm di spigolo, pieno di tubi di vetro, lunghi e sottili che venivano a costituire una struttura a nido d’ape. Il dispositivo aveva quattro pareti isolate: il fondo della struttura a nido d’ape era ”nero” e isolato termicamente. La parte aperta era puntata verso il Sole. Se il corpo nero sul fondo era di carta, in  pochi minuti la carta si incendiava, il che voleva dire che raggiungeva una temperatura superiore a circa a 200°C. Ricordo di essere stato molto impressionato.

Nel frattempo, dopo la conferenza di Roma del 1961, alcuni di noi furono invitati ad un seminario sull’energia solare a Sounion in Grecia; particolarmente attivo era il prof. Marcel Perrot, profugo (dopo i movimenti di indipendenza dell’Algeria; le sue lettere datate Algeri finiscono nel 1961, dopo si é trasferito a Marsiglia) dall’Università di Algeri dove aveva condotto ricerche sull’energia solare, con due o tre suoi collaboratori, fra cui ricordo il fedele Touchais.

In quella occasione fu costituito un gruppo di collaborazione chiamato “Cooperation Mediterraneenne pour l’energie solaire” (Comples); i membri fondatori furono Perrot per la Francia, Pedro Blanco per la Spagna (morì qualche anno dopo e ne ho perso le tracce), un greco, un portoghese di cui non ricordo il nome e io per l’Italia. Per quel poco che ricordo, a tanti anni di distanza, mi sembra che l’iniziativa, in cui non c’era nessuno studioso di lingua inglese, fosse una specie di rivalsa francofona contro l’invadenza anglofona nel campo dell’energia solare. Se ben ricordo il prof. Perrot parlava soltanto francese. Gli atti di questa conferenza di Sounion sono pubblicati nel volume: “Solar and Aeolian energy”, A. Spanides e A.Hatzikakidis (editors), New York, Plenum Press, 1961. Una copia di questo raro volume è presso la Fondazione Micheletti. Questa pagina poco nota della storia dell’energia solare è ricordata nell’intervista rilasciata all’ing. Silvi dal prof. Perrot poco prima della sua morte http://www.gses.it/pub/perrot.php.

Cito qui la cosa perché ben presto Francia entrò in contatto col prof. Perrot e ne divenne amico e collega. E così, frequentando il Comples, ebbi per alcuni anni frequenti rapporti col prof. Francia.

Non ricordo quando tali contatti cominciarono. Il faldone Francia del Fondo G&G contiene molte lettere scambiate con Francia e estratti di suoi articoli; la lettera più vecchia mi pare sia del novembre 1962. Sta di fatto che la relazione di Francia sulle cellule antiirraggianti presentata a Roma nel 1961 ebbe una grande risonanza; Tabor, nel suo libro citato (p. 134), ricorda di avere condotto lui stesso esperimenti sulle cellule anti irraggianti e anticonvettive nel 1962 e cita esperimenti sovietici, risalenti agli anni trenta del Novecento, senza peraltro che ci siano state apparenti applicazioni pratiche.

Perrot era preso da una grande frenesia organizzativa che coinvolse anche Francia. Il Comples tenne varie riunioni, ad alcune delle quali ho partecipato. Per quanto ricordo Francia era sempre presente e attivo. Il Comples pubblicava anche un bollettino la cui collezione, almeno per molti anni, si trova alla Fondazione Micheletti.

Più o meno ricordo i seguenti incontri.

Milano, presso il Politecnico, 5-7 settembre 1962

Madrid: 8-10 aprile 1963

Lisbona: 1-4 aprile 1964

Istanbul: 9-16 aprile 1965

Marsiglia: maggio 1966

Madrid: 8-11 maggio 1967

Genova: 21-25 maggio 1968

Atene: 8-13 settembre 1969

San Remo – Nizza: 5-9 ottobre 1970

Devo dire che agli ultimi incontri non partecipai; ormai ero preso da altri interessi, anche se ho seguito, anche attraverso la corrispondenza e i bollettini, le attività del Comples e quindi di Francia.

Da quello che ricordo, dopo che è stato riconosciuto il successo ed è aumentato il prestigio di Francia con la sua proposta delle cellule a nido d’ape, Francia si è impegnato per l’utilizzazione di tali strutture per ottenere calore ad alta temperatura mediante concentratori.

Ha così costruito vicino a Genova, a Sant’Ilario, il primo dei campi di specchi; lo visitai in qualche periodo degli anni sessanta. Francia costruì poi a Sant’Ilario un campo di specchi più grande e poi il lavoro è continuato a Marsiglia. Una specie di autobiografia fu presentata da Francia ad una giornata di studi sull’energia solare alla FAST a Milano il 3 luglio 1974.

Io ero piuttosto freddo verso l’utilizzazione dell’energia solare ad alta temperatura; avevo scritto un articoletto, pubblicato nel Bulletin du Comples, dicembre 1967, in cui suggerivo che a mano a mano che aumenta la temperatura di un collettore solare, aumenta il “valore energetico” (esergia) del calore raccolto, e ne diminuisce, quindi, il costo monetario per unità di esergia, ma al di là di una soglia di temperatura, che ponevo, mi pare intorno a 120°C, si può aumentare la temperatura del collettore soltanto con sistemi di concentrazione e cattura della radiazione solare, tanto più delicati e costosi quanto maggiore è la temperatura del calore concentrato sul collettore, e di conseguenza un aumento del valore dell’energia raccolta comporta un aumento del costo delle apparecchiature per cui ne diminuisce il costo per unità di esergia.

Tuttavia ho apprezzato alcune soluzioni meccaniche realizzate da Francia per tenere in movimento continuamente gli specchi in modo da “seguire” il Sole nel suo moto apparente nel cielo; si trattava di ingegnosi automatismi, uno dei quali è stato donato al Museo della Fondazione Micheletti.

Non ho seguito più il lavoro di Francia che, mi pare di ricordare, convinse l’Ansaldo e l’Enel ad applicare le sue cellule antiirraggianti nel fuoco di un campo specchi costruito ad Adrano; la centrale dovrebbe essere stata in funzione dal 1981 al 1987. Il prof. Francia, morto nell’aprile 1980, non ha avuto il bene di vedere realizzato il più ambizioso dei suoi progetti. Non so quali risultati tale centrale abbia ottenuto; ormai però era finita la crisi petrolifera e la passione per l’energia solare era diminuita.

Mi pare comunque di avere visto un documento Ansaldo in cui veniva riconosciuto il contributo di Giovanni Francia alle centrali a specchi.

Per il resto, come appare dall’inventario pubblicato dalla Fondazione Micheletti, Francia ha tenuto conferenze e ha scritto articoli sulle prospettive dell’energia solare, sulle “città solari”, su distillatori solari (che non ricordo di avere però visto), ed è autore di altre invenzioni e studi.

A mio modesto parere il suo migliore contributo originale riguarda l’idea di strutture a nido d’ape convettive e anti irraggianti insieme. In edilizia vengono usate delle strutture a nido d’ape, di plastica trasparente, come componenti isolanti; in genere il rapporto diametro/lunghezza di tali celle del nido d’ape è di uno a due o tre. Soltanto, come ho ricordato, quando tale rapporto diventa di uno a oltre dieci (un centimetro di diametro a dieci e oltre centimetri di profondità), la struttura a nido d’ape si comporta come “corpo nero”.

Ricordo che Francia suggeriva di usare strutture a nido d’ape di policarbonato, abbastanza resistente alle alte temperature, abbastanza trasparente. La cosa mi aveva colpito e mi sono sempre ripromesso di provarle.

C/Docum/Energiasolare — File “2008-01-18 Francia un ricordo”

7. Rudolph Diesel (1858-1913) e il motore a olio di arachide

“L’uso degli oli vegetali come carburanti per i motori può sembrare insignificante oggi, ma tali oli nel corso del tempo possono diventare altrettanto importanti quanto il petrolio e il carbone; la forza motrice potrà essere ottenuta col calore del Sole anche quando le riserve dei combustibili liquidi e solidi saranno esaurite”. Queste parole non vengono da qualche esponente ecologista fautore dei biocarburanti, ma sono state pronunciate nel 1912 da “un certo” Rudolf Diesel. Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento l’energia per tutte le società industriali era fornita dal carbone, di cui esistevano grandi giacimenti in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Russia (che allora includeva la Polonia), negli Stati Uniti. Col carbone si otteneva calore e venivano alimentate le centrali elettriche; dalla distillazione del carbone si ottenevano le materie prime per l’industria chimica, il gas illuminante e dei liquidi adatti come carburanti. La quantità del carbone estratto dalle miniere aumentava così rapidamente che un economista inglese, Stanley Jevons (1835-1882), aveva scritto un libro intitolato “Il problema del carbone”, in cui prevedeva che un giorno le miniere di carbone avrebbero potuto esaurirsi. Davanti allo spettro di una possibile scarsità di energia, inventori e scienziati si diedero da fare per vedere come utilizzare l’enorme energia che il Sole rende disponibile ogni anno, dovunque, sempre nella stessa quantità, una fonte di energia, come si dice oggi, rinnovabile e inesauribile. La storia dell’energia mostra che l’attenzione e i progressi nel campo dell’energia solare sono figli dei periodi di scarsità; un secolo fa, alla fine dell’Ottocento, appunto, davanti al rischio dell’esaurimento del carbone, e in questo inizio del Duemila davanti agli alti costi del petrolio e al pericolo del suo esaurimento. Negli anni 1880-1910, in quella che si può chiamare l’ “età dell’oro” dell’energia solare c’è stato un fermento incredibile di ricerche; l’italiano Antonio Pacinotti (1841-1912) ha descritto la possibilità di ottenere elettricità per effetto fotovoltaico (usando la radiazione luminosa del Sole) e per effetto termoelettrico (sfruttando il calore solare). L’ingegnere cileno Carlos Wilson dissetò per oltre trenta anni i minatori che lavoravano nell’assolato e arido altopiano del Cile, trasformando, per distillazione col calore solare, l’acqua salmastra disponibile sul posto in acqua dolce; i distillatori solari di oggi sono ispirati a quell’impianto che produceva 22.000 litri di acqua potabile al giorno. Grandi fisici e chimici come il tedesco Friedrich Kohlrausch (1840-1910) e l’inglese J.J. Thomson (1856-1940), scrissero dei trattati indicando come le società del futuro avrebbero potuto essere alimentate per sempre dall’inesauribile forza del Sole. Il francese August Mouchot, lo svedese Jihn Ericsson e gli americani Aubrey Eneas e Frank Shuman costruirono macchine e pompe per sollevare l’acqua, azionate dal vapore prodotto concentrando con specchi l’energia solare su adatte caldaie. Nel primo decennio del Novecento il grande chimico italiano Giacomo Ciamician (1857-1922), professore nell’Università di Bologna, descrisse gli esperimenti di fotochimica mostrando che la radiazione solare che sta alla base della fotosintesi clorofilliana, e quindi della produzione di tutti i vegetali, avrebbe consentito di installare grandi fabbriche chimiche nei deserti assolati. Tutta questa multinazionale della scienza e della tecnica pensava che il Sole, disponibile in uguale maniera a tutti i popoli della Terra, avrebbe potuto diffondere benessere e sviluppo con una migliore distribuzione della ricchezza e una maggiore giustizia internazionale. Il tedesco August Bebel (1840-1913) scrisse che l’energia solare avrebbe consentito la realizzazione di una società socialista e la liberazione delle donne e degli uomini dalla fatica del lavoro. Gli anni di cui stiamo parlando, fra il 1890 e il 1910, videro, oltre a molte altre invenzioni, anche la nascita di veicoli capaci di muoversi da soli, “auto-mobili”, appunto, le cui ruote potevano essere tenute in movimento dal motore a scoppio che era stato inventato dai toscani Eugenio Barsanti (1821-1864) e Felice Matteucci (1808-1887); per alimentare il loro motore a combustione interna Barsanti utilizzò il gas illuminante che veniva introdotto in un cilindro, insieme all’aria; la miscela era poi compressa con un pistone, bruciata mediante una scintilla elettrica e la massa di gas caldi che si formava spingeva in basso il pistone e faceva girare le ruote. I progressi nella raffinazione del petrolio misero a disposizione la benzina con cui era possibile migliorare il rendimento dei motori a scoppio che comunque avevano dimensioni e potenza limitate. Arriva a questo punto il giovane chimico e ingegnere franco-tedesco Rudolph Diesel (1858-1913), che pensò di costruire dei motori a scoppio che non avessero bisogno di accensione con una scintilla, che potessero essere di maggiori dimensioni e potenza e che non avessero bisogno di benzina; i suoi primi motori — che sarebbero stati conosciuti col nome “diesel”, quello dell’inventore, e che così si chiamano ancora oggi — furono presentati con successo all’esposizione universale di Parigi del 1900 e attrassero molta attenzione, anche perché funzionavano con olio di arachide, con un carburante ottenuto dall’agricoltura. Diesel, che guardava al futuro, come dimostra la frase citata all’inizio, era di idee progressiste e pacifiste e pensava che i suoi motori avrebbero potuto generare forza motrice per far viaggiare grandi treni e navi, capaci di trasportare merci e persone facendo progredire i commerci e l’umanità. L’uso di carburanti di origine vegetale avrebbe contribuito, inoltre, allo sviluppo dell’agricoltura, soprattutto nei paesi in cui si coltivano piante oleaginose. Adesso, dopo un secolo, si riscopre la “ricetta” di Diesel e viene incentivata la produzione di carburanti a base di oli vegetali e animali e di loro derivati, quelli che si chiamano “biodiesel”, e che addirittura possono essere prodotti con gli oli residui di frittura. Rudolph Diesel fu un personaggio straordinario, un teorico nel campo della termodinamica e un inventore geniale, fu un attento imprenditore e diventò ricchissimo, girò il mondo diffondendo nei congressi e fra gli industriali la conoscenza e i vantaggi del suo motore, ma poi perse tutti i propri averi e scomparve cadendo da una nave nel mare durante un viaggio verso l’Inghilterra. I motori diesel muovono oggi centinaia di milioni di automobili, treni e navi nel mondo e giustamente i paesi attenti al valore della scienza e della tecnica celebrano il 150° anniversario della nascita del loro inventore.

La Gazzetta del Mezzogiorno, domenica 6 aprile 2008

8. L’agenzia IRENA e l’età del Sole

Forse senza accorgercene stiamo vivendo una rivoluzione tecnico-scientifica e merceologica che va al di la della crisi economica, Forse questi primi anni del XXI secolo saranno ricordati come l’inizio di quell’era neotecnica di cui aveva parlato il sociologo americano Lewis Mumford nel suo libro “Tecnica e cultura”, già nel 1933.

Al di là delle bizzarrie del prezzo del petrolio, delle prospettive di impoverimento delle riserve di combustibili fossili e dei mutamenti climatici dovuti all’inquinamento atmosferico, ci sono molti segni di tale transizione. Già il presidente degli Stati Uniti Obama, nel suo discorso di insediamento, pochi giorni fa, ha detto: “Impiegheremo il Sole e i venti e le ricchezze del suolo per far camminare le nostre automobili e far funzionare le nostre fabbriche”.

Negli stessi giorni le Nazioni Unite hanno lanciato il 2009 come anno mondiale delle fibre tessili naturali, fonte di ricchezza e di lavoro per molti paesi poveri, rilanciate dopo anni di stasi dovuti alla concorrenza delle fibre tessili sintetiche derivate dal petrolio; i pur contestati carburanti per autoveicoli derivati dalla biomassa vegetale si stanno affermando e stimolano ricerche e innovazioni per renderli compatibili con il rispetto ambientale. Proprio nei giorni scorsi, il 26 gennaio, è stata inaugurata a Bonn una nuova Agenzia per le energie rinnovabili (Irena, International Renewable Energy Agency) che si propone di stimolare tutti i governi del mondo perché potenzino l’uso delle energie rinnovabili e incoraggino le ricerche e le applicazioni di tali fonti di energia. La sfida dell’Irena è molto realistica e appare chiara dai conti esposti nelle sue prime pubblicazioni, disponibili in Internet.

Nel 2008, con una popolazione mondiale di 6700 milioni di persone, i consumi mondiali di energia sotto forma di carbone, petrolio, gas naturale, energia idroelettrica e nucleare sono stati di circa 480 esajoule (l’esajoule è una unità di misura dell’energia). L’energia solare che raggiunge in un anno le terre emerse è 1800 volte di più, circa 900.000 esajoule. Quello che conta è che tale energia è disponibile sempre uguale ogni anno, mentre i combustibili fossili, una volta estratti dai pozzi e dalle miniere e bruciati, non ci sono più. L’energia del Sole mette in moto i venti, la cui energia ammonta a oltre 40.000 esajoule all’anno, produce la biomassa vegetale in ragione di circa 100 milioni di tonnellate di materia organica che si forma ogni anno sulle terre emerse e che ha un valore energetico di circa 4.000 esajoule. Il vento provoca il moto ondoso che ha una energia di circa 1000 esajoule all’anno.

Inoltre il Sole alimenta il ciclo dell’acqua che continuamente cade sui continenti e scorre verso il mare avendo “dentro di se” una quantità di energia di circa 500 esajolule all’anno, equivalente a circa 150.000 miliardi di chilowattora all’anno; di questa energia le centrali idroelettriche di tutto il mondo catturano soltanto una piccola frazione, circa tremila miliardi di chilowattora all’anno. Infine l’interno della Terra “contiene” una riserva potenziale di calore geotermico equivalente ad un flusso annuo di 5000 esajoule di energia. Come si vede, le energie rinnovabili assicurerebbero calore, elettricità, ed energia meccanica per molte generazioni future senza esaurirsi mai.

Qualcosa comincia a muoversi in vari paesi, anche in Italia; cominciano ad apparire sui tetti delle case i pannelli fotovoltaici che trasformano la radiazione solare in elettricità; compaiono dei motori eolici la cui elettricità può essere venduta alle grandi compagnie elettriche che così evitano di usare un po’ di petrolio e carbone; Sole e vento cominciano ad attirare anche perché chi li usa ottiene dei soldi dallo stato. Ma si può dire che siamo nell’infanzia dell’era neotecnica. Le fonti di energia rinnovabili possono essere utilizzate in molte altre maniere, alcune delle quali appena si intravedono; centinaia di ricercatori e inventori si dedicano alla scoperta di pannelli fotovoltaici meno costosi di quelli attuali basati sul silicio; è possibile inventare macchinari e mezzi di trasporto che utilizzano energie rinnovabili

Un lavoro enorme per studiosi nelle Università e nelle industrie; un lavoro anche per gli storici della tecnica perché nel passato sono state descritte molte invenzioni basate sull’utilizzazione delle fonti rinnovabili, proposte poi abbandonate davanti all’illusione dell’esistenza di grandissime riserve di petrolio a basso prezzo. Adesso che sta svanendo la speranza di un futuro basato sulle fonti energetiche fossili, che il nucleare mostra quanto le sue promesse siano fallaci, adesso che l’attenzione per i mutamenti climatici sta polarizzando l’attenzione dei governanti — quante frettolose conversioni ecologiste e solari si stanno osservando anche in questi giorni ! — la riscoperta e il perfezionamento di tante idee abbandonate è molto promettente.

Eppure in Italia esiste soltanto un archivio, a Brescia, della storia dell’energia solare e delle energie rinnovabili alle quali in passato molti scienziati anche italiani hanno pur dato importanti contributi. In secondo luogo bisogna rendersi conto che solare, vento e biocarburanti sono soltanto alcuni dei molti beni energetici, industriali e di consumo che possono liberarci dalla schiavitù del petrolio: materie plastiche, materiali da costruzione, tessuti, detersivi, tutti basati su materie prime rinnovabili, possono ridare vita ad attività economiche abbandonate, nel campo agricolo e forestale e creare nuovi posti di lavoro nelle industrie.

Ma soprattutto l’impegno per le energie e risorse rinnovabili offre il più grande contributo allo sviluppo umano e sociale dei paesi arretrati, è la più genuina assicurazione per sgominare le tensioni politiche alimentate dalla povertà dei poveri. Perché sono proprio i paesi oggi arretrati che possiedono su più larga scala le risorse energetiche legate al Sole, risorse che essi non sanno o non possono utilizzare per mancanza di soldi e di conoscenze tecniche. L’era neotecnica può mostrare un mondo futuro in cui energia e materie prime vengono prodotte nei paesi poveri assicurando lavoro e pace, e vengono scambiate con i paesi oggi industriali che possono fornire tecnologie e conoscenze. Se questo sarà davvero il ruolo della nuova agenzia Irena, in molti nel mondo gliene saranno riconoscenti.

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 3 febbraio 2009

9. Quarta rivoluzione industriale

Forse qualcosa comincia ad andare meglio con l’ambiente. Fino a dieci anni i discorsi sull’energia solare sembravano riferiti a futuri forse possibili, forse utopistici. Adesso, in questa primavera del 2009, ogni giorno c’è qualche manifestazione, fiera merceologica, congresso, anche in Puglia, sull’energia solare, si moltiplicano le riviste dedicate alle fonti energetiche rinnovabili, i fabbricanti e i venditori di pannelli fotovoltaici, di scaldacqua solari, di motori eolici, di bruciatori a legna, eccetera, si fanno pubblicità anche sulle pagine dei quotidiani promettendo una patente di virtù ecologica: se comprate le loro apparecchiature, da installare anche sulla terrazza o sul tetto, eviterete l’immissione di tanti chili all’anno della dannosissima anidride carbonica, la ci-o-due, che altera il clima, ma soprattutto risparmierete tanti soldi all’anno nella bolletta dell’elettricità o del gas, grazie a finanziamenti statali. E’ questa promessa, soprattutto, che sembra attirare i nuovi convertiti all’energia ecologica. Da una parte c’è forse un sincero interesse per la difesa dell’ambiente e una preoccupazione per i bizzarri prezzi del petrolio che, mentre scrivo, sembrano aumentare al di sopra della tranquilla soglia dei 40 dollari al barile, durata alcuni mesi. Le principali attrezzature “rinnovabili” si possono suddividere in cinque principali settori. Il primo è quello dei pannelli per il riscaldamento di acqua e di edifici basati su piastre e tubi neri pieni di acqua, coperti da una lastra di vetro che “intrappola” il calore solare; l’acqua così scaldata a 50-80 gradi viene poi fatta circolare negli scaldacqua o nei termosifoni. Il secondo settore è quello dei sistemi fotovoltaici, per la maggior parte costituiti da sottili strati (”celle”) di silicio trattato con speciali accorgimenti. La radiazione solare provoca in tali fotocelle un flusso di elettroni che determina una corrente continua di pochi volt che deve essere trasformata, con adatti convertitori (inverters), nella corrente alternata a 220 volt richiesta dai circuiti elettrici domestici. I pannelli fotovoltaici si vendono sulla base di una potenza nominale cosiddetta “di picco”; in condizioni favorevoli un pannello fotovoltaico della potenza di 1 chilowatt e della superficie di circa 10 metri quadrati produce in un anno circa 1500 chilowattore di elettricità; una famiglia consuma in media in un anno circa 3000 chilowattore che potrebbero essere prodotte da una ventina di metri quadrati di pannelli fotovoltaici. Se una famiglia produce elettricità in eccesso rispetto alle sue necessità può vendere l’eccedenza a chi gestisce la rete elettrica, scambiandola con l’elettricità necessaria quando la produzione solare è bassa. Le fotocelle al silicio sono ancora per adesso le uniche affidabili; esistono fotocelle diverse, si parla di “finestre” coperte con materiali fotovoltaici; centinaia di ricercatori e imprese nel mondo stanno studiando celle fotovoltaiche migliori di quelle al silicio, ma finora entrate solo lentamente nel mercato. Il terzo settore è quello dei motori eolici, che funzionano bene nelle località in cui soffiano venti frequenti e intensi. Anche i motori eolici si vendono sulla base di una potenza nominale e producono, nelle condizioni favorevoli, circa 2000 chilowattore all’anno per ogni chilowatt di potenza installata; anche qui il consumo medio annuo di una famiglia potrebbe essere soddisfatto da un piccolo motore a vento che potrebbe essere installato anche sul tetto di edifici urbani e, grazie agli incentivi statali, il proprietario di un motore a vento può vendere l’elettricità in eccesso alle società elettriche. L’unico freno alla diffusione dei motori eolici è costituito da problemi urbanistici e estetici. A parte i piccoli motori eolici domestici, produzioni rilevanti di elettricità richiedono grandi motori con pale molto lunghe, del diametro di circa 40 metri per un motore da 600 chilowatt, posti in cima a tralicci alti un centinaio di metri; secondo alcuni queste strutture sono brutte a vedersi sulla cresta delle colline. Alcuni propongono di installare i motori eolici in cima a palafitte o a galleggianti nel mare, ma anche qui ci sono problemi di stabilità delle strutture e di sicurezza della navigazione. Il quarto settore riguarda impianti che concentrano, mediante specchi, il calore solare su una caldaia nella quale l’acqua può essere trasformata, ad alta temperatura, in vapore che fa girare una turbina e genera elettricità, come avviene nelle normali centrali termoelettriche. La concentrazione può avvenire con un campo di specchi piani, studiati anche dall’italiano prof. Francia, tenuti continuamente orientati verso il Sole in modo da avviarne la radiazione verso una caldaia posta su una torre alta anche oltre cento metri. Il più grande impianto del genere è stato inaugurato di recente alla periferia di Siviglia, in Spagna; ha una potenza di 20.000 chilowatt e sarà capace di produrre ogni anno circa 50 milioni di chilowattora sufficienti a rifornire di elettricità 12.000 abitazioni. L’impianto è dotato di circa 1200 specchi, ciascuno della superficie di 120 metri quadrati. Un’altra soluzione, proposta dal premio Nobel Rubbia e allo studio in Italia, è basata su specchi parabolici lineari. Infine il quinto processo “solare” consiste nell’utilizzazione di vegetali, prodotti per fotosintesi dal Sole, da trasformare in carburanti che possono essere gassosi o liquidi; fra questi ultimi si possono citare l’alcol etilico carburante (chiamato bioetanolo), adatto per motori a scoppio al posto della benzina, o alcuni derivati dei grassi (chiamati biodiedel) utilizzabili come carburanti per motori diesel. Ciascuna delle soluzioni brevemente citate è suscettibile di perfezionamenti e deve essere esaminata criticamente per evitare insuccessi dovuti ad eccessiva fretta e improvvisazioni, Esistono inoltre molte altre forme di energia rinnovabile derivata dal Sole, pensiamo solo alla forza del moto ondoso, che aspettano nuove invenzioni. Siamo alle soglie di una quarta rivoluzione industriale, dopo quella del carbone, del petrolio e dell’elettronica, l’inizio di una strada verso un mondo meno inquinato, più sicuro, con tanti nuovi posti di lavoro.

Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 12 maggio 2009

10.Sognando la società solare

Le energie rinnovabili sono un’ottima alternativa: efficace e non inquinante, capace di rispondere alle esigenze e ai consumi del mondo d’oggi. Una strada tutta da esplorare.

Proviamo a guardare al 2050 anche se ci appare un anno lontanissimo. I bambini che nascono in questo 2009 avranno allora quarant’anni e i figli dei loro figli saranno bambini piccoli; la popolazione terrestre sarà aumentata dagli attuali 6700 a circa 9000 milioni di persone, la metà dei quali abiterà nelle città, un quarto avrà più di 60 anni. Nei decenni che ci separano da allora gli abitanti della Terra dovranno risolvere alcuni problemi fondamentali come l’aumento del prezzo e la scarsità del petrolio, la scelta o il rifiuto dell’energia nucleare, i mutamenti climatici con conseguenti frane e alluvioni, la scarsità di acqua, l’aumento di prezzo e la scarsità dei prodotti alimentari. Problemi non ambientali, ma strettamene economici dalla cui soluzione dipendono occupazione, tasse, consumi, bilanci degli Stati, lusso e povertà. Alcuni suggeriscono che entro tale data lontana molti di tali problemi potrebbero essere risolti, senza centrali nucleari, ricorrendo all’energia solare, edificando una “società solare”.

Sole, vento, acqua

La fonte di energia, il sole, non appartiene a nessuno, rimane sempre uguale, fornisce calore, produce il vento, il moto ondoso, la circolazione dell’acqua degli oceani, il moto delle acque che scendono nelle valli (l’energia idroelettrica, 3.000 miliardi di chilowattore all’anno oggi nel mondo, è l’unica fonte di energia “solare” usata su larga scala), e, soprattutto, “fabbrica” con la fotosintesi vegetali sia adatti come alimenti umani e per gli altri animali, sia utili come materiali da costruzione e come combustibili. Ogni anno sulle terre emerse arriva energia solare in quantità equivalente a quella “contenuta” in 25.000 miliardi di tonnellate di petrolio, 2.000 volte quella (circa 12 miliardi di t) che gli esseri umani usano oggi sotto forma di petrolio, carbone, gas, tutti tratti da pozzi e miniere con riserve limitate e che si impoveriscono ogni anno.

Dal punto di vista tecnico-scientifico con l’energia raggiante del Sole si può fare tutto. Bastano 4.000-5.000 chilometri quadrati di terreno coperti da celle fotovoltaiche per ottenere tutta l’elettricità “consumata” oggi ogni anno in Italia (circa 340 miliardi di chilowattore nel 2008); 200.000 chilometri quadrati per ottenere con lo stesso processo tutta l’elettricità (18.000 miliardi di chilowattore) consumata oggi ogni anno nel mondo. Un appartamento della superficie di cento metri quadrati riceve nel corso di un anno, alle nostre latitudini, tanta energia solare da assicurare, con adatti dispositivi, elettricità, calore, illuminazione e condizionamento dell’aria per tutto l’anno. I motori a vento, alcuni di dimensioni “domestiche”, adatti per un appartamento, possono fornire una frazione dell’elettricità consumata in un anno da una famiglia di 4 persone (in Italia circa 3000 chilowattore all’anno); gli impianti di grandi dimensioni, con pale di 40 metri di diametro, possono produrre da 1 a 1,5 milioni di chilowattore all’anno. 

La forza delle acque che scorrono, tenute in moto dal Sole, nei fiumi della Terra può essere imbrigliata per fornire elettricità. Un terzo circa dell’energia viene consumata nel mondo nei mezzi di trasporto, soprattutto sotto forma di benzina, gasolio, combustibili per aerei e navi (circa tre miliardi di tonnellate all’anno), oggi ottenuti dal petrolio. Tutti questi carburanti possono essere ottenuti, in alternativa, con processi chimici noti, dai prodotti vegetali non alimentari come derivati del legno, sottoprodotti agricoli e forestali. Ogni tonnellata di prodotti alimentari (grano, mais, girasole) è accompagnata (sotto forma di paglia, stocchi, tutoli, eccetera) da due tonnellate di materie ligno-cellulosiche che possono essere trasformate in carburanti con tecniche già note, senza toccare la disponibilità di alimenti umani. Un milione di ettari di foresta o di adatte piantagioni energetiche non alimentari ogni anno produce da uno a due milioni di tonnellate di carburanti per auto senza alterare gli equilibri ecologici, senza richiedere concimi e irrigazione: un “pozzo petrolifero” inesauribile.

Le obiezioni poste

Con l’elettricità solare è possibile produrre idrogeno da trasportare in condotte, come avviene oggi per il metano; è possibile far funzionare fabbriche e assicurare occupazione, e far muovere mezzi di trasporto. Con le varie forme di energia derivate dal sole è possibile aumentare le risorse di acqua sia potabile, sia industriale. Una società moderna ha, però, bisogno di molti altri prodotti: cemento che richiede pietre e calore, acciaio, alluminio, rame e molti altri metalli; per molti processi sarà necessario ricorrere ancora ai combustibili fossili, ma in quantità minore rispetto a oggi e quindi con un inquinamento atmosferico e alterazioni del clima molto minori.

La produzione dei metalli dai minerali può essere realizzata con idrogeno ottenuto per elettrolisi o direttamente usando l’elettricità ottenuta dal Sole. La stessa che consente di ottenere molti prodotti chimici industriali, come ammoniaca, acido nitrico, concimi. Una società ha bisogno di gomma, plastica e fibre tessili che oggi richiedono petrolio, ma si tratta di materiali e merci che sono stati (e in parte sono ancora) prodotti dal regno vegetale e animale con processi noti, abbandonati quando una tonnellata di petrolio costava pochi euro anziché duecento euro come oggi (gennaio 2009, ma seicento sei mesi prima) e si credeva che le riserve di idrocarburi fossero illimitate.

A questo quadro i nemici del solare fanno varie obiezioni; non c’è dubbio che la transizione al solare richiede enormi innovazioni ingegneristiche, nell’edilizia e nei mezzi di trasporto, nella struttura delle città, innovazioni peraltro che mettono in modo l’economia e l’occupazione. La seconda obiezione riguarda i costi del calore e dell’elettricità ottenuti dal sole, oggi superiori a quelli delle fonti fossili: ma tale critica non tiene conto dei vantaggi economici dell’occupazione che verrebbe richiesta dai nuovi processi e impianti e della possibilità di evitare i costi, destinati a crescere, dovuti all’inquinamento e alle alterazioni climatiche come alluvioni, frane, desertificazione, siccità, incendi. La terza obiezione viene spacciata come ecologica: i motori eolici alterano il paesaggio; i carburanti vegetali tolgono il pane di bocca ai paesi poveri (ma ho già detto che lo schema proposto si dovrebbe avvalere di materiali non alimentari); future centrali idroelettriche altererebbero molti equilibri naturali; le centrali che usano l’energia delle onde incidono sulle coste, una obiezione che non tiene conto dei guasti e inquinamenti provocati dalle attuali fonti di energia (e dall’attuale uso speculativo dissennato delle risorse territoriali).

La quarta obiezione è di natura geopolitica: l’intensità della radiazione solare è maggiore in paesi poco industrializzati, in molti casi arretrati, con bassa densità di popolazione, come l’Africa, le zone tropicali, dove si trovano anche deserti, o grandi foreste, o grandi fiumi. La società solare ha bisogno di grandi spazi e la sua attuazione porterebbe certamente uno spostamento verso tali paesi dei centri industriali ed economici, come del resto sta già avvenendo dall’Europa e dal Nord America verso la Cina e l’India. Gli attuali paesi industriali produrrebbero ed esporterebbero tecnologie, processi, innovazione, in cambio di elettricità e carburanti solari importati dai paesi oggi arretrati. Potrebbe non essere un male: alcune posizioni forti economiche e finanziarie ne verrebbero a soffrire, ma molti altri paesi si avvierebbero, col sole, verso uno sviluppo economico e umano.

Utopie? Forse neanche tanto. Una transizione verso l’energia solare è già in atto. Lo dimostrano il fatto che i cosiddetti “biocarburanti”, ottenuti da vegetali “fabbricati” dal Sole, sono ormai quotati nelle borse merci e scambiati a milioni di tonnellate all’anno, che la pubblicità di dispositivi solari appare sempre più di frequente: si moltiplicano i venditori di pannelli solari, di motori eolici anche domestici, di appartamenti “solarizzati” a basso consumo di energia, di automobili elettriche, addirittura di grattacieli con le pareti coperte di celle fotovoltaiche. Forse il futuro è già cominciato e non ce ne stiamo accorgendo.

MOSAICO DI PACE 2009

11. Introduzione a: “Guglielmo Righini e Giorgio Nebbia, ‘L’energia solare e le sue applicazioni’” (*)

Mia moglie Gabriella, instancabile e gioiosa compagna di lavoro e di vita per 54 anni, morta nell’agosto 2009, sarebbe stata contenta di questa nuova  edizione del libro che avevamo visto nascere insieme.

Guardando indietro

Che senso ha resuscitare un libro scritto mezzo secolo fa ? Ogni libro ha un contenuto e una storia e questo riguarda una pagina dimenticata della storia della tecnica e della società contemporanea. 

Alla fine della seconda guerra mondiale, nell’estate del 1945, il mondo era devastato dalle distruzioni, c’era voglia di ricostruire le case, di riprendere condizioni decenti di vita per un miliardo di persone nel mondo, nel Nord America, dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, di riallacciare rapporti umani, e per questo occorreva energia. Il carbone era la fonte di energia dominante, seguita dal petrolio che era costoso e ancora difficile da ottenere e raffinare. Si sapeva che era possibile trarre energia dall’atomo; ne aveva parlato Enrico Fermi al suo arrivo negli Stati Uniti nel 1939, quando ancora non si sapeva se una “pila atomica” avrebbe funzionato; lo aveva dimostrato la bomba atomica ma era difficile prevedere se l’atomo avrebbe fornito le grandi quantità di energia attese nel mondo; l’iniziativa “Atomi per la pace” del presidente americano Eisenhower sarebbe venuta soltanto alla fine del 1953. 

Era perciò naturale che negli anni quaranta molti nel mondo guardassero al Sole come fonte di energia, gratuita, disponibile dovunque in tutte le forme desiderabili, di calore ad alta e bassa temperatura, di elettricità, e si voltassero indietro per capire in che modo l’energia solare avrebbe potuto essere usata per azionare macchine e dispositivi commerciali su larga scala. 

Almeno dalla metà dell’Ottocento, negli Stati Uniti, in Francia, e in altri paesi erano stati costruiti e messi in commercio riscaldatori solari di acqua, piccole macchine alimentate con specchi solari o con collettori piani, distillatori per ottenere acqua potabile da quella marina col calore solare. Un ingegner Wilson nella seconda metà dell’Ottocento aveva costruito un grande distillatore solare nel Cile per fornire acqua potabile agli operai che estraevano salnitro nel deserto. Con lo stesso principio l’italiano La Parola aveva costruito dei distillatori solari di acqua marina in Libia. 

In Italia già nell’Ottocento il fisico Antonio Pacinotti aveva riconosciuto la possibilità di produrre elettricità con “pile” termoelettriche scaldate dal Sole. Agli inizi del Novecento Giacomo Ciamician, professore di chimica a Bologna e una autorità della fotochimica, aveva preconizzato che un giorno l’energia solare avrebbe liberato i popoli dei paesi più ricchi di Sole dalla miseria e le stesse previsioni erano state fatte da fisici illustri; August Bebel aveva scritto che l’uso su larga scala dell’energia solare avrebbe contribuito a realizzare una auspicata società socialista liberando i lavoratori dalla fatica. 

Si sapeva che il vento, mosso dal calore del Sole che scalda diversamente i continenti e i mari, poteva azionare macchine e pompe; l’americano Putnam negli anni trenta del Novecento, aveva costruito una grande macchina eolica da 1200 chilowatt e nelle zone agricole di tutto il mondo piccoli motori eolici sollevavano l’acqua dai pozzi. Gli uffici brevetti contenevano la descrizione di, letteralmente, centinaia di invenzioni di motori azionati dal moto ondoso, anche lui derivato dal vento e quindi dal Sole. 

Negli anni trenta il francese Claude aveva costruito una macchina funzionante con il piccolo salto di temperatura esistente fra gli strati superficiali e profondi dei mari, secondo un principio che sarebbe stato utilizzato, alla rovescia, negli “stagni solari”. 

In Italica nel periodo dell’autarchia studi sull’energia solare erano stati condotti nel Politecnico di Milano dai professori Dornig e Amerio e nell’Università di Napoli da D’Amelio, e sulla base di tali studi era stata costruita una pompa solare con un ciclo termico a bassa temperatura per sollevare l’acqua dai pozzi, quella che sarebbe stata commercializzata, dopo la guerra, dalla ditta Somor di Lecco. Vinaccia, un architetto di Milano, aveva scritto varie opere sull’uso dell’energia solare in edilizia. 

Negli stessi anni trenta del Novecento nell’Unione Sovietica c’erano stati molti studi sull’energia solare. I Veinberg, padre e figlio, avevano costruito frigoriferi solari e progettato collettori solari antiirraggianti, quelli che sarebbero stati riscoperti nel 1960, indipendentemente, dall’italiano Giovanni Francia; a Mosca l’Istituto di Energetica Krzhizhanovsky conduceva ricerche su caldaie solari che sarebbero continuate nel laboratorio di Tashkent, nell’attuale Uzbekistan. Il fisico Ioffe aveva creato un centro di ricerche a livello internazionale sull’applicazione a fini energetici dell’effetto termoelettrico. 

Maria Telkes, una chimica di origine ungherese, emigrata negli Stati Uniti, che si occupava di cellule termoelettriche e che aveva collaborato alla costruzione di varie “case solari”, aveva progettato, durante la guerra, un distillatore solare in dotazione ai naufraghi con cui era possibile ottenere, col calore solare, un po’ di acqua potabile dal mare (p. 153).

Felix Trombe in Francia aveva costruito sui Pirenei un grande forno solare a specchi per condurre ricerche sui materiali ad alta temperatura, un perfezionamento di quello che Lavoisier aveva fatto nel 1774. 

C’erano quindi le premesse per sperare nel Sole come fonte diretta e indiretta di energia e in vari paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, il paese più industrializzato, ricercatori e governi affrontarono il problema dell’utilizzazione “pratica” dell’energia solare. 

Nell’agosto 1950 si tenne a Cambridge, negli Stati Uniti, un simposio sul riscaldamento solare degli edifici. Nel 1951 il presidente americano Truman affidò ad una speciale commissione, guidata da William Paley, il famoso presidente della CBS, una indagine sulle “Risorse per il futuro”, di questo si occupavano allora i governi illuminati. Il capitolo sull’energia solare fu affidato a Putnam, già ricordato come una autorità nel campo dell’energia eolica, autore, poco dopo, nel 1953, del libro “Energy for the future”, contenente favorevoli prospettive per l’utilizzazione dell’energia solare. 

Nello stesso 1951 la American Academy of Arts and Sciences organizzò una Conferenza sul “Sole al servizio dell’Uomo”, con la “u” maiuscola. Il titolo sembrava il manifesto di una chiamata a raccolta di sforzi per trarre dalla forza del Sole i mezzi per soddisfare le necessità di energia, cibo, acqua per i paesi industrializzati e per quelli ancora coloniali, poveri, sottosviluppati. 

Negli anni successivi ci fu quasi una frenesia di convegni sull’energia solare. Uno sul tema: “The trapping of solar energy”, si svolse nell’aprile 1952, promosso dalla Ohio Academy of science a Columbus, Ohio. Un “Symposium on the utilization of solar energy” si svolse nel settembre 1953 a Madison, presso l’Università del Wisconsin, organizzato dal prof. Farrington Daniels, una delle autorità in questo campo. L’energia solare si affacciò alla conferenza mondiale dell’energia del 1954 di Rio de Janeiro, e nell’ottobre dello stesso anno l’Unesco organizzò a New Dehli, in India, una “Conference on Solar energy and Wind power”, sollecitando l’attenzione per tutte e due le fonti di energia “rinnovabili”.

Nel 1954 nell’assolata Arizona alcuni imprenditori aveva creato una associazione per lo studio dell’energia solare “applicata”, quella che sarebbe diventata, anni dopo, la Solar Energy Society, e incaricarono lo Stanford Institute della California di redigere un inventario di quello che si sapeva sull’energia solare e sui laboratori che se ne stavano occupando nel mondo, ne risultò il volume, apparso nel 1955: “A directory of world activity and bibliography of significant literature”. 

Sulla base dei documenti raccolti, la stessa associazione organizzò, nel novembre dello stesso 1955, a Phoenix e a Tempe, in Arizona, il “World symposium on Applied Solar energy” e una grande mostra campionaria delle apparecchiature note. Gli atti del simposio furono pubblicati nel 1956. 

Nel febbraio 1961 a Roma si tenne un convegno e una mostra sull’energia solare durante la quale furono esposti alcuni distillatori solari costruiti a Bari e fu presentata anche una automobile “solare”, una Ford T con le celle solari sul tetto. 

Nell’agosto 1961 le Nazioni Unite organizzarono a Roma una grande conferenza sul tema: “New Sources of Energy: Solar, Wind, Geothermal”, i cui atti in molti volumi sono ancora una fonte fondamentale di tutto quello che si sapeva sull’energia solare. Seguì, nel settembre dello stesso anno, un’altra conferenza sull’energia solare e eolica a Sounion in Grecia. 

Questi eventi permisero di fare un bilancio di quello che avrebbe potuto essere fatto con l’energia solare; il russo Valentin Baum propose una ingegnosa centrale solare a specchi che seguivano il noto apparente del Sole nel cielo, collocati su vagoni ferroviari in continuo movimento; in Israele, Harry Tabor un immigrato di origine inglese, aveva costruito motori alimentati da fluidi scaldati con semplici concentratori solari, collettori solari piani ad alta assorbimento e stagni solari. In Italia il Consiglio Nazionale delle Ricerche finanziò alcuni studi sperimentali nel campo solare. 

Radicalizzando un poco, si può dire che in dieci anni, dal 1950 al 1960, una specie di “età dell’oro dell’energia solare”, si sono rese disponibili tutte le conoscenze per la preparazione dell’avvento di una società capace di utilizzare appieno le risorse energetiche rinnovabili derivate dal Sole. Una volta scoperto che le proprietà di semiconduttore del silicio potevano essere utilizzate per trasformare la radiazione solare in elettricità, si trattava di passare da un rendimento (frazione di radiazione solare recuperata come elettricità) del 5 per cento (1955) a quello attuale del 10-15 %. Le proprietà di semiconduttori dei solfuro, seleniuro e tellururo di cadmio erano già note in quegli anni lontani.

Pochi ricordi 

In questi vivaci anni di scoperte e innovazioni nacque l’idea di questo libro: poche parole per spiegare sono stato coinvolto nella scrittura di una sua parte. Sono laureato in chimica e nei primi anni cinquanta ero assistente (così si chiamava allora chi cominciava la “carriera” universitaria) all’Istituto di Merceologia dell’Università di Bologna. Fino allora mi ero occupato di vari problemi, anche se nel corso di Merceologia tenuto agli studenti di Economia e Commercio un capitolo era dedicato alla merce-energia e anche all’energia solare. Ricordo bene che nel settembre 1953 trovai un articolo — ma sono sempre stato convinto che sia stato l’articolo a cercare me — in cui erano descritti gli esperimenti di Maria Telkes, che ho ricordato prima, sui distillatori solari. L’articolo mi fece grande impressione: sconfiggere col Sole la sete di chi era privo di acqua in tante parti del mondo !

Costruii così il mio primo distillatore solare con lastre di plexiglas e ricordo l’emozione di vedere che in capo ad alcune ore, un vaso si era riempito di acqua dolce. Costruii altri distillatori e pubblicai i primi risultati già nello stesso 1953, a cominciare da un congresso di Geofisica e Meteorologia a Genova alla fine del 1953. Nei due anni successivi insegnai nell’Università di Bari, in una regione in cui il Sole era abbondante e l’acqua scarsa, e qui costruii altri distillatori solari con legno, vetro e plastica, e alcuni furono esposti alla Fiera del Levante e attrassero qualche attenzione. Tornai poi a Bologna dove installai altri distillatori: uno nei Giardini Margherita, un grande parco pubblico davanti alla casa dove abitavo, e per oltre un anno andavo tutte le mattine a misurare la quantità di acqua distillata nel giorno precedente, tenendo per mano mio figlio di tre anni. 

Nel 1957 ottenni un contributo dal Consiglio Nazionale delle Ricerche per partecipare a Washington alla prima conferenza sulla dissalazione in cui presentai i risultati delle ricerche di Bari e Bologna. Infine nel 1959 fui chiamato definitivamente alla cattedra di Merceologia a Bari dove potei costruire alcuni altri distillatori solari. Alcuni distillatori portai nelle isole Tremiti, altri a Pantelleria. Mi sembrava e sono ancora convinto che proprio in queste isole, in cui l’acqua dolce era portata con navi cisterna, i distillatori solari potessero dare un utile contributo. Devo dire che neanche adesso in Italia la distillazione solare è presa sul serio, mentre nel mondo vengono costruiti e venduti distillatori solari e incoraggiata la costruzione di questi semplici dispositivi da parte delle popolazioni locali con materiali locali. 

Nel 1961 partecipai alla Conferenza delle Nazioni Unite sulle ‘nuove’ fonti di energia, tenuta a Roma nell’agosto e a quella di Sounion, già ricordata, nel settembre successivo. In questa occasione il francese Marcel Perrot, un professore che aveva condotto ricerche sull’energia solare in Algeria ed era venuto a Marsiglia dopo l’indipendenza del paese, propose la costituzione di una Cooperazione per lo studio dell’energia solare (Comples), prevalentemente “francofona”, in alternativa a quella, prevalentemente anglofona esistente negli Stati Uniti. Siccome ero l’unico italiano, fui incluso fra i fondatori di questa associazione che, dopo varie vicissitudini, praticamente scomparve negli anni ottanta. 

In questa atmosfera l’editore Feltrinelli propose la pubblicazione di un libro sull’energia solare; la dott. Libera Venturini dell’ufficio editoriale suggerì di integrare la parte sulla “utilizzazione”, l’unica di cui sapevo qualcosa, con una parte, più o meno della stessa lunghezza, sul Sole come corpo celeste e nessuno poteva scriverla meglio di Guglielmo Righini, professore di astrofisica nel prestigioso osservatorio solare di Arcetri e principale specialista italiano di studi sul Sole. Secondo i miei ricordi la preparazione del libro richiese circa due anni, penso dal 1963 al 1965, con frequenti incontri col prof. Righini a Firenze. Varie lettere scambiate durante la preparazione del libro si trovano nel Fondo “Giorgio e Gabriella Nebbia” donato alla Fondazione Micheletti di Brescia,http://www.musil.bs.it/allegati/Nebbia_Inventario_Solare.pdf 

Il libro apparve finalmente nel 1966; la parte relativa alle utilizzazioni dell’energia solare riflette quello che si sapeva — e quello che io conoscevo — su tale fonte di energia. Con il senno (si fa per dire) di poi avrei potuto parlare dell’energia del vento e dell’energia del moto ondoso, entrambi derivati dal Sole, dell’energia ricavabile dalle acque tenute in moto dall’energia del Sole, della biomassa “fabbricata” per fotosintesi e dei suoi usi energetici; allora si pensava piuttosto alla produzione di biomassa sotto forma di alghe, principalmente Chlorella, in vasche esposte al Sole. 

Le celle fotovoltaiche al silicio, realizzate nel 1952 e allora costose e utilizzate per fornire energia a bordo dei satelliti artificiali erano nella loro infanzia, ma già era stato suggerito di alimentare con pannelli solari in cima a un palo le “radio di villaggio” nei paesi poveri, in grado di fornire informazioni sulle pratiche agricole e sanitarie e sulle previsioni meteorologiche. Fra le furbizie dell’età “solare” di cui parla il libro vorrei ricordare l’idea di immagazzinare il calore solare sfruttando il calore latente di fusione di alcuni sali come il solfato sodico che diventano liquidi a circa 35 gradi assorbendo il calore solare e restituiscono la notte, tornando allo stato solido, il calore ad una stanza fredda. 

Il libro che avete fra le mani non ebbe, alla sua uscita, fortuna; negli anni fino al 1973 l’editore ne vendette soltanto 300 copie. La passione per l’energia solare era infatti nel frattempo sfumata, negli anni del petrolio abbondante e a basso prezzo e degli sperati successi dell’era nucleare. 

Una ”resurrezione” dell’interesse per l’energia solare si ebbe con la crisi petrolifera degli anni 1973-74 e successivi: improvvisamente il mondo si trovò davanti ad un aumento fino a dieci volte del prezzo del petrolio; le speranze dell’energia nucleare cominciavano ad appannarsi con i primi incidenti, e il mondo ricominciò a guardare all’energia solare come possibile fonte di energia per il futuro; diecine di libri furono scritti sull’argomento e anche il nostro si vendette fino all’esaurimento delle scorte. 

Comunque anche la passione solare degli anni settanta durò poco, fino a quando il prezzo del petrolio è tornato ai valori di prima della crisi: centinaia di scaldacqua solari rimasero ad arrugginire sui tetti. 

Una nuova resurrezione di macchine e dispositivi solari ed eolici, di imprese commerciali e di scritti, si è avuta in questo inizio del XXI secolo, grazie anche ad incentivi finanziari in tutto il mondo. Ma questa è storia di oggi.

Il passato è prologo

Se un lettore vuole sapere di più sull’energia solare trova in commercio ormai moltissimi testi e documenti, anche in Internet, ma se ha qualche curiosità per sapere come si è arrivati ai successi di oggi qualche idea troverà anche in questo vecchio libro. A tanti anni di distanza, continuo a credere nella virtù della semplicità delle soluzioni, pensando che l’uso del Sole deve essere “capibile” dalle società più povere che sono poi quelle di paesi in cui è più abbondante il Sole. 

Se la ristampa di questo vecchio libro stimolasse qualche giovane studioso ad andare a esplorare le informazioni sepolte e dimenticate, suscettibili di risolvere problemi umani mettendo il Sole al servizio dell’uomo, come si sperava un secolo fa, la fatica dell’editore non sarebbe stata sprecata. 

Per quanto mi riguarda quanto ho letto e conosciuto nel mezzo secolo trascorso da quando cominciai  mettere mano al libro che avete fra le mani, mi ha confermato nella stessa passione di allora, nella stessa convinzione che, ci piaccia o no, al Sole dovremo pur rivolgerci nel futuro per risolvere molti dei nostri problemi e più presto lo faremo, con tanto maggiore entusiasmo cercheremo di perfezionare le strade esistenti e note, di aprire nuovi modi per ottenere dalle forze del Sole l’energia per liberare tanti esseri umani dalla povertà, tanto meglio sarà.

Qualcosa va detto sui numeri 

Quando il libro è stato scritto la popolazione mondiale era di circa 3.000 milioni di persone e i consumi energetici erano di circa 30.000 miliardi di kWh/anno, pari a circa 100 EJ (p. 117). Nel 2010 la popolazione mondiale è arrivata a 6.800 milioni di persone e i consumi totali di energia sono saliti a circa 480 EJ, ma le differenze fra chi ha più energia e chi ne usa pochissima è ancora più rilevante; le persone con bassa o bassissima disponibilità di energia, che negli anni sessanta erano circa 2.000 milioni (p. 117) sono oggi oltre 3.500 milioni e la maggior parte abita in zone con elevata disponibilità di energia solare. 

Il fabbisogno mondiale di energia nel 2010 è pur sempre cinquemila volte inferiore all’intensità della radiazione solare, circa 1.000.000 EJ/anno, che raggiunge i circa 150 milioni di km2 di terre emerse, corrispondenti ad una media di 18 MJ/m2.giorno, circa 4.000 kcal/m2.giorno, in quel campo di variazioni indicate nella tabella a p. 107. 

Inutile dire che i prezzi in lire degli anni sessanta indicati qua e là nel libro non hanno nessuna relazione sui costi delle apparecchiature e sul valore dell’energia ottenibile con le tecnologie disponibili oggi, a mezzo secolo di distanza. Dicono qualcosa soltanto delle speranze che già allora venivano riposte nelle fonti energetiche rinnovabili.

(*) nuova edizione a cura di Giorgio Nebbia, Zona Industriale Ancarano (TE), editrice Savine, 2010, p. 17-26

12. Quanta energia solare?

Il campo delle energie rinnovabili, tutte derivate dal Sole, sta vivendo un periodo turbolento. Da alcuni anni finalmente ci si sta rivolgendo al calore e alla radiazione solare e alla forza del vento per ottenere energia, soprattutto energia elettrica, in forma meno inquinante e utilizzando forze che ritornano disponibili continuamente, rinnovabili, legate ai grandi cicli della natura. Il loro successo è stato finora in gran parte possibile grazie a consistenti contributi pubblici che hanno coperto la differenza fra il costo di produzione dell’elettricità, maggiore nel caso del Sole e del vento, rispetto al costo di produzione nelle centrali termoelettriche alimentate con fonti fossili, e al “prezzo unitario nazionale” dell’elettricità che si aggira intorno a circa 6 centesimi di euro al chilowattora (anche se a casa nostra la paghiamo oltre il doppio). 

Il sistema degli incentivi ha fatto si che, usando fonti energetiche rinnovabili, non solo si compie una azione positiva ambientale (meno inquinamenti, meno emissioni di gas che alterano il clima, minori importazioni di fonti fossili), ma ci si guadagna anche a livello di famiglie, di comuni, di chi affitta lo spazio per installare pannelli fotovoltaici e torri eoliche, di chi vende pannelli e centrali eoliche, in tanti insomma. 

Una situazione fragile, tanto è vero che, alla notizia che forse gli incentivi pubblici diminuiranno o scompariranno, per motivi di economia nazionale, in molti sono terrorizzati davanti al rischio di veder sfumare tanti buoni affari; in alcuni casi, infatti, a quanto pare, i soldi pubblici sono serviti non solo a produrre energia pulita, ma anche a produrre soldi privati. In queste condizioni è il caso di riesaminare criticamente se e come è conveniente coprire i campi e i tetti di pannelli fotovoltaici, nel quadro di un’economia nazionale che sia seriamente interessata a liberarsi dalla schiavitù del petrolio e dai rischi di un possibile, anche se speriamo improbabile, nucleare. 

La radiazione solare e la forza del vento sono importanti ma scomode; mentre si sa esattamente quanti chilowattora di elettricità si produce per ogni chilo di carbone o petrolio o gas bruciato in una centrale termoelettrica, quando ci si alza la mattina non si sa esattamente quanta elettricità sarà prodotta da una pannello fotovoltaico o da un motore a vento. Nel caso dell’energia solare l’intensità della radiazione solare che raggiunge la superficie dei continenti alle nostre latitudini si aggira intorno a 1.000 chilowattore all’anno per metro quadrato, con una media di circa 3 chilowattore al giorno per metro quadrato. La radiazione elettromagnetica solare si presenta in un campo di lunghezze d’onda che vanno dalla parte ultravioletta (circa 10 % del totale), a quella visibile, dal blu al rosso (circa 70 %) alla parte infrarossa (circa 30 % del totale). 

Le celle fotovoltaiche attuali trasformano in elettricità principalmente la radiazione visibile la cui intensità per metro quadrato varia di ora in ora e di giorno in giorno, a seonda del grado di nuvolosità e dell’altezza del Sole rispetto all’orizzonte. La mattina e la sera, infatti, la radiazione arriva sulla superficie di un pannello dopo aver attraversato uno strato dell’atmosfera maggiore, rispetto a quando il Sole è verticale (o quasi) e il passaggio attraverso l’atmosfera assorbe una parte della radiazione in arrivo. La radiazione raccolta da un pannello dipende perciò dal suo orientamento rispetto al cammino “apparente” del Sole nel cielo, variabile di giorno in giorno; per questo alcuni pannelli sono dotati di un sistema di orientamento variabile che peraltro complica l’impianto. 

Dal punto di vista commerciale i pannelli fotovoltaici sono venduti sulla base della “potenza di picco”, in chilowatt, corrispondente alla quantità di chilowattora di elettricità che un pannello è in grado di fornire nell’ora centrale della giornata in giugno. Un pannello della potenza di picco di un chilowatt ha una superficie di circa 10 metri quadrati e fornisce, durante l’intero anno da 1000 a 1400 chilowattore di elettricità. Per sapere quanta elettricità sarà possibile ottenere effettivamente bisogna (bisognerebbe) misurare esattamente, nell’intero anno, l’intensità della radiazione solare nel luogo di installazione. 

Il più antico strumento di misura dell’energia solare fu inventato nel 1855 dall’inglese J.F. Campbell (1822-1885) ed era costituito da una sfera di vetro; già i fisici greci e arabi avevano scoperto che la radiazione solare che attraversa una sfera trasparente si concentra in un punto che si trova sotto la sfera ad una distanza di circa il 10 % del diametro e usavano queste “sfere ustorie” per accendere il fuoco; la distanza esatta del “fuoco” era stata calcolata dal matematico arabo Ibn al-Haytham intorno all’anno mille. Nell’eliofanografo di Campbell, perfezionato nel 1885 dal fisico George Stokes (1819-1903), al di sotto della sfera viene posta una striscia di carta che registra una bruciatura nelle varie ore del giorno quando splende il Sole; si ottiene così il numero di ore di insolazione in ciascun giorno di osservazione. 

Al posto di questa misura empirica si usano solarimetri e piroeliometri nei quali l’estremità di una lamina costituita dalla saldatura di due metalli è esposta orizzontalmente al Sole; per l’effetto termoelettrico si forma una corrente elettrica proporzionale all’intensità della radiazione solare, strumenti di questo tipo portano i nomi di inventori o di fabbricanti, come l’olandese W.J.H. Moll (1876-1947), il polacco L. Gorczynski, i laboratori americani Eppley; vengono usati anche strumenti nei quali l’intensità della radiazione solare è misurata, in modo accurato con celle fotovoltaiche. Una rassegna di tali strumenti di misura, comparati, è stata pubblicata nel numero di maggio 2010 della rivista mensile “Photon”. 

La conoscenza dell’effettiva intensità della radiazione solare non è un esercizio accademico, ma uno strumento che chi acquista dei pannelli solari farebbe bene a utilizzare prima di scegliere la localizzazione per evitare delusioni. I solarimetri sono di grande importanza anche in ecologia agraria per la misura della correlazione fra l’intensità della radiazione solare e i rendimenti delle coltivazioni.

La Gazzetta del Mezzogiorno (Bari), martedì 29 giugno 2010

13. Non c’è pace

Non c’è pace neanche fra le fonti energetiche rinnovabili. A prima vista ci dovrebbe essere un generale accordo per passare dall’attuale dipendenza dalle fonti energetiche costituite da combustibili fossili come petrolio, gas naturale, carbone, o rifiuti, tutte inquinanti e non rinnovabili, a fonti energetiche rinnovabili, dipendenti dal Sole: calore solare, elettricità solare, elettricità dal vento o dal moto delle acque, calore dalle biomasse agricole e forestali ricreate ogni anno attraverso la fotosintesi solare. E invece anche fra i sostenitori di tale transizione ci sono opinioni non solo differenti, ma spesso in vivace contrasto, quasi una volontà di distruggere quello che si sta faticosamente facendo, quasi una conferma di quello che diceva Pogo nel famoso fumetto: “Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi”.

I giornali da settimane sono pieni di notizie sullo “scandalo dell’eolico” che avrebbe portato ad illeciti arricchimenti nella costruzione di centrali eoliche. Nel caso dell’energia solare vengono venduti pannelli fotovoltaici, in grado di trasformare la radiazione solare in elettricità, con contratti che assicurano, oltre a elettricità meno inquinante, un guadagno a chi li compra o agli enti o aziende che li installano. A rigore un utente dovrebbe spendere soldi per ottenere la merce-energia, ma adesso molti di quelli che installano pale eoliche o pannelli fotovoltaici guadagnano dei soldi provenienti da vari incentivi finanziari che sono pagati da tutti i cittadini sia direttamente attraverso le tasse, sia con un sovrapprezzo nelle bollette dell’elettricità (la componente A3 del prezzo dell’elettricità). E’ giusto che soldi pubblici o anche dei singoli cittadini, siano spesi per diffondere l’uso delle energie rinnovabili non inquinanti, con vantaggio per l’economia nazionale e per la salute, ma mi sembra meno giusto che tali incentivi finiscano nelle tasche di singoli privati o di speculatori. Ci dev’essere qualcosa che non funziona.

I pannelli fotovoltaici sono venduti sulla base della “potenza di picco” (capacità di produrre energia) corrispondente a circa un chilowatt per pannelli di circa 10 metri quadrati. L’elettricità effettivamente prodotta da 10 metri quadrati di pannelli fotovoltaici nel corso di un anno ammonta a circa 1000-1200 chilowattore, circa un terzo del fabbisogno medio annuo di elettricità di una famiglia. Tale elettricità è però disponibile in maniera differente nelle varie ore del giorno e nei vari mesi dell’anno, per cui, se non si dispone di grandi batterie di accumulatori, scomodissime, l’elettricità solare, a mano a mano che viene prodotta, viene venduta alle reti elettriche “intelligenti” delle compagnie elettriche che si impegnano a fornire alla famiglia o all’utente l’elettricità corrispondente a mano a mano che ne hanno bisogno (quindi anche quando il Sole non splende nel cielo).

L’altra tecnologia solare è costituita dagli impianti a specchi che concentrano la radiazione solare su caldaie o tubi nei quali un fluido è scaldato ad alta temperatura e può, a sua volta, produrre vapore da avviare alle turbine, come avviene nelle normali centrali termoelettriche; in queste ultime il vapore è generato dalla combustione di combustibili (carbone, gas naturale, prodotti petroliferi, rifiuti) inquinanti, responsabili dell’immissione nell’atmosfera di gas, soprattutto anidride carbonica, che provocano mutamenti climatici. Ottenere lo stesso effetto, senza danni ambientali, con il calore di origine solare è il fine della tecnologia del “solare termodinamico”. Alcuni impianti usano specchi cilindro-parabolici, lunghe superfici riflettenti che si muovono continuamente per “seguire” il Sole nel suo moto apparente nel cielo; la radiazione solare viene concentrata su un tubo, posto nel “fuoco” della parabola, isolato con una copertura trasparente in modo che il calore così concentrato non venga disperso nell’aria circostante.

Le superfici riflettenti possono anche essere lunghi specchi piani che concentrano il calore solare su un solo tubo centrale sopraelevato, secondo una proposta fatta già mezzo secolo fa dell’italiano Giovanni Francia (1911-1980), come ricorda un articolo di Cesare Silvi pubblicato nella rivista “Energia Ambiente Innovazione”.

Il calore solare concentrato nel tubo ricevente dagli specchi scalda a centinaia di gradi un olio sintetico o una miscela di sali come nitrato di sodio e nitrato di potassio. In questo caso i sali fusi caldi vengono avviati ad un deposito in cui restano caldi anche di notte, quando il Sole non c’è. Giorno e notte il calore solare “immagazzinato” nei sali fusi viene gradualmente trasferito al vapore acqueo che aziona una turbina, in modo simile a quanto avviene nelle centrali a combustibili fossili. Le centrali termoelettriche solari a specchi sono macchine ingegnose ma delicate e complicate.

La citata rivista “Energia Ambiente Innovazione” fornisce i dettagli del più recente impianto solare a specchi costruito a Priolo, vicino Siracusa (simbolicamente chiamato “Archimede”), costituito da specchi cilindro-parabolici della superficie di 30.000 metri quadrati; la potenza è di 4.700 chilowatt elettrici e la produzione di elettricità è prevista in 9.200.000 chilowattore all’anno, corrispondenti a circa 300 chilowattore all’anno per metro quadrato di superficie di raccolta del Sole, un rendimento di meno di un terzo rispetto a quello dei pannelli fotovoltaici. Il principale limite del “solare termodinamico” è costituito dal fatto che è possibile utilizzare soltanto la radiazione solare “diretta”, quella che si ha quando il cielo è limpido; se il cielo è nuvoloso la radiazione solare non viene concentrata dagli specchi.

Il Sole è un’affascinante ma scomoda fonte di energia e può fornire energia agli esseri umani soltanto se gli si chiede di fare le cose che sa fare bene: produrre raccolti agricoli e alberi, scaldare corpi a bassa temperatura, dissalare l’acqua marina e produrre elettricità con i sistemi fotovoltaici o per effetto termoelettrico, per i quali sono possibili ancora grandi perfezionamenti.

La Gazzetta del Mezzogiorno (Bari), martedì 27 luglio 2010

14. Energia idrica: un breve racconto

Noi crediamo sempre di essere i primi a scoprire qualche cosa fino a quando non guardiamo la storia. Questo è particolarmente vero quando esaminiamo la diffusione e l’evoluzione delle fonti energetiche rinnovabili, tutte derivate dal Sole, come la possibilità di trarre dal Sole calore a bassa o alta temperatura, o elettricità, di usare il vento, generato dalla diversa distribuzione dell’energia solare sulle varie parti dei continenti e degli oceani, o il moto delle onde, anch’esse provocate dal vento, o l’uso della biomassa vegetale come combustibile, direttamente o indirettamente, o dell’energia ricavabile dal moto delle acque, o dal flusso delle acque calde e fredde degli oceani, assicurato dal ciclo di evaporazioni e condensazioni dell’acqua planetaria provocato dal Sole. Per non parlare della forza del Sole nelle operazioni di “chimica industriale” come la produzione del sale per evaporazione dell’acqua di mare nelle saline. Un esame delle basi storiche e culturali delle fonti energetiche rinnovabili offre interessanti occasioni anche per lo studio della circolazione delle idee e delle invenzioni da un continente all’altro, su scala globale anche quella, dal momento che la furbizia umana nell’osservare i fenomeni della natura e terne vantaggio non è legata ad una particolare società o civiltà. Lo si era già visto a proposito dell’energia del vento, in un fascicolo precedente (EnergieOggi2, (06), 18-21 (aprile 2010), in Inquinamento 52, (123) aprile 2010) e questo vale ancora di più per la possibilità di “estrarre” energia dal moto dell’acqua dei fiumi o dal moto delle maree. 

Il Sole fa evaporare ogni anno dai continenti e dagli oceani circa 500.000 miliardi di metri cubi di acqua che ricadono sotto forma di pioggia o di neve per circa 110.000 miliardi di m3 sulle terre emerse; la differenza fra tali precipitazioni e i 40.000 miliardi di m3/anno delle evaporazioni dai continenti rappresenta il flusso di acqua sulle terre emerse nei torrenti, fiumi, canali. Se si immagina che tale massa di acqua superi, in media, ogni anno un dislivello di 500 metri, si vede che l’energia potenziale del moto dell’acqua sui continenti equivale a circa 50.000 miliardi di chilowattora all’anno: di questi nel 2009 sono stati recuperati sotto forma di energia idroelettrica soltanto circa 3.200 miliardi di kWh. Ci sono, insomma, nel moto delle acque, risorse energetiche potenziali ancora molto grandi. La maggior parte di tali risorse si trova nei grandi fiumi tropicali e equatoriali e nelle terre polari, ma molta energia idrica rinnovabile, che ritorna disponibile ogni anno, potrebbe ancora essere utilizzata in tanti paesi. 

Fin dai tempi più antichi chi ha osservato la “forza” con cui il moto delle acque nei fiumi e nei torrenti è capace di spostare pietre e sabbia, ha certo pensato di utilizzare la stessa forza per lavori utili, soprattutto per muovere le ruote, in sostituzione della forza degli schiavi o degli animali. Le prime ruote mosse dall’acqua si sono forse ispirate alle ruote a tazze, antichissime, con cui veniva sollevata, col lavoro animale, l’acqua dai pozzi. La rotazione di tali ruote ad opera del moto delle acque correnti poteva essere utilizzato per muovere direttamente le macine di cereali, o, più tardi, per altre operazioni in precedenza ottenute col lavoro umano. 

Probabilmente la prima notizia dell’esistenza di una ruota ad acqua risale ad un testo greco di Filone di Bisanzio scritto in Asia Minore intorno al III secolo avanti Cristo; altre tracce di motori ad acqua si trovano in pitture nell’Egitto Tolemaico, ancora di cultura greca, nel II secolo avanti Cristo. L’esistenza di notizie di ruote mosse dalle acque di un fiume nel trattato sull’architettura di Vitruvio, scrittore romano del primo secolo e quasi contemporaneamente in testi indiani fa pensare ad una diffusione della tecnologie delle ruote ad acqua dall’Asia Minore verso l’Egitto e Roma, e dall’Asia Minore verso l’Asia centrale e l’India e ancora più a oriente se è vero che le ruote ad acqua sono citate in un testo cinese dello scrittore Du Shi dei primi decenni dopo Cristo. In questi stessi secoli subito prima e dopo Cristo dal mondo romano la tecnologia delle ruote idrauliche è certamente passato in tutta Europa centrale e orientale, come dimostrano testimonianze archeologiche anche in Romania. 

Nel mondo islamico, dal VII secolo in avanti, la conoscenza delle ruote ad acqua arriva attraverso l’osservazione di tali macchinari nelle terre occupate nello loro espansione in Africa e Asia e dalla traduzione di testi greci. Ruote ad acqua funzionavano a Baghdad, mosse dall’acqua del fiume Eufrate e a Bassora, alla foce dei fiumi Tigri e Eufrate, addirittura esistevano ruote azionate dal moto delle maree. Ma la vera esplosione della diffusione delle ruote ad acqua si ha dal Medioevo in avanti in tutti i paesi e poi anche nelle nuove terre americane; qualsiasi comunità nel cui territorio fosse disponibile un corso d’acqua o un torrente costruiva un proprio mulino principalmente per la macina dei cereali, ma anche per la follatura dei tessuti, per muovere i magli o le soffianti dell’aria per la fusione dei metalli, per le segherie di legno e pietre, e dovunque occorresse energia meccanica. Soltanto adesso, con il crescere dell’attenzione per la storia della tecnica e per l’archeologia industriale, si stanno scoprendo sempre nuove tracce e resti di ruote ad acqua, alcune ancora funzionanti e si comincia a distinguerne i vari caratteri. 

Alcune ruote mosse dalle acque erano orizzontali, con l’asse verticale; sono quelle meno diffuse, anche perché meno efficienti, spesso utilizzate in presa diretta sulle pesanti macine di pietra dei cereali. In genere le ruote ad acqua sono verticali, con asse orizzontale; il moto è trasmesso a macchinari rotanti o trasformato in moto lineare mediante pulegge o ingranaggi che consentono di aumentare la velocità di lavorazione. Delle ruote verticali esistono vari modelli. In alcuni l’acqua, derivata dal fiume o dal torrente mediante canalette, cade dall’alto sulle pale che girano in senso orario; talvolta al posto delle pale orizzontali venivano usate delle tazze. In altri casi dalla canaletta l’acqua scende al di sotto della ruota attraverso uno scivolo determinando una rotazione in senso antiorario.In altri casi, in genere nei fiumi in cui è abbondante una corrente di acqua veloce, la ruota è immersa in un fiume le cui acque spingono le pale facendole ruotare in senso antiorario. Lo studio della distribuzione nei vari paesi e nei vari territori delle varie forme di ruote di mulini fornisce interessanti notizie sulla diffusione di tale tecnologia. Le ruote erano in generale di legno (solo molto tardi é stato usato il ferro) così come erano di legno gli ingranaggi e le pulegge che trasformavano il moto rotatorio della ruota nel movimento richiesto dalle varie operazioni. Molti mulini erano, montati su barche; ad uno di questi è dedicata la trilogia di Riccardo Bacchelli (1891-1985), “Il mulino del Po” (1938-1940), che ha avuto anche una trasposizione cinematografica diretta da Lattuada (1949) ed una televisiva (1963). 

Lo studio dei vari tipi di mulini e ruote ad acqua forma l’oggetto di una speciale disciplina, la molinologia, che ha addirittura una associazione internazionale, www.timsmills.info. In Italia la diffusione della molinologia si deve principalmente al Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, di San Michele all’Adige www.museosanmichele.it, soprattutto per merito dello scrittore Giuseppe Šebesta (1919-2005) al quale si deve, fra l’altro, una monografia “La via dei Mulini”, 1992. Così come è intesa, la molinologia si occupa non solo dei mulini ad acqua, ma anche di quelli a vento e delle tecniche di macinazione. 

L’avventura culturale dei motori ad acqua si è attenuata, dopo oltre duemila anni, con l’avvento della macchina a vapore, nella metà del 1700, con la quale è stato possibile ottenere un moto rotatorio sotto la pressione del vapore, anziché sotto la pressione dell’acqua in movimento. Con l’invenzione della dinamo nel 1866 e del motore elettrico si sono diffuse le centrali elettriche a vapore, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento. 

A questo punto si ha una specie di resurrezione dell’interesse per l’energia idrica; quelle ruote che azionavano i mulini e le segheria con il moto dell’acqua possono essere applicate ad azionare dinamo e a produrre energia idroelettrica. Dove esistevano fiumi con grandi portate d’acqua o torrenti, come nelle valli alpine e appenniniche italiane, avrebbero potuto essere costruite centrali idroelettriche col contributo di una industria meccanica capace di costruire turbine in grado di estrarre la massima quantità di energia dal moto delle acque dei fiumi, sia direttamente, sia incanalata in condotte, per superare una maggiore dislivello. Tre importanti figure di inventori e scienziati figurano nel perfezionamento delle turbine che portano i rispettivi nomi: l’americano Lester Pelton (1829-1908), l’inglese James B. Francis (1815-1892) e l’austriaco Viktor Kaplan (1876-1934) che nel 1913 ha inventato la turbina usata ancora oggi. 

A quanto pare la prima centrale idrica generatrice di elettricità fu costruita nel 1880 negli Stati Uniti, nel Michigan, ed era capace di accendere 16 lampade ad arco. In Italia probabilmente la prima centrale idroelettrica italiana è stata quella di San Martino, sul Sile, alle porte di Treviso, entrata in funzione nel 1886, dove nel 1200 sorgeva un mulino con 23 ruote. Dal 1895 in avanti sono sorte le centrali idroelettriche sull’Adda e da quel momento le centrali idroelettriche si sono moltiplicate, prima come piccole centrali private al servizio delle comunità locali, poi aggregate in società più grandi, con l’abbandono di alcune delle centrali più piccole, fino alla nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1963 quando praticamente tutte le centrali sono state incorporate nell’Enel. 

Per aumentare la portata dell’acqua alle turbine e le differenze di livello sono stati creati dei laghi artificiali attraverso lo sbarramento delle valli mediante dighe, sempre più grandi, usando tecniche note da molti millenni e utilizzate dalle società più antiche per regolare il moto dei fiumi e creare delle riserve di acqua. La prima diga costruita per alimentare una centrale idroelettrica fu costruita intorno al 1880 in Inghilterra; da allora le dighe ei i bacini per centrali idroelettriche si sono moltiplicate in tutto il mondo e anche in Italia, a partire dal 1899. Alcune centrali idroelettriche abbandonate sono state restaurate. La centrale di Cedegolo in Val Canonica, funzionante dal 1910 al 1962 è diventata un Museo e Laboratorio didattico dell’elettricità per iniziativa della Fondazione Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL di Brescia (www.musil.bs.it). La stessa Fondazione ha restaurato un maglio ad energia idraulica sul fiume Garza a San Bartolomeo (Brescia) http://www.musil.bs.it/web/leSedi/sanBartolomeo/

Il crollo della diga del Vajont nel 1963, la disponibilità di petrolio a basso prezzo e il dogma che ormai tutte le risorse idriche “economiche” italiane erano state utilizzate, hanno segnato praticamente la fine della crescita della diffusione dell’idroelettricità in Italia. La produzione di energia idroelettrica si è stabilizzata da anni intorno a circa 35-45 miliardi di kWh/anno, anche se il potenziale di energia idrica italiana è molto maggiore, stimata in grado di fornire almeno il doppio di elettricità. 

Una nuova resurrezione dell’energia idroelettrica è prevedibile adesso nel quadro della politica di incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili, fra le quali, al fianco dell’energia solare ed eolica, è indicata la generazione di elettricità con minicentrali capaci di utilizzare piccoli salti di acqua e piccole portate, proprio come facevano i vecchi mulini ad acqua, ma oggi con moderne turbine e dinamo. L’elettricità delle minicentrali idriche può essere immessa nelle reti di distribuzione come avviene per l’elettricità ottenuta dagli impianti fotovoltaici ed eolici. Il successo di queste iniziative, che godono di contributi statali, sarà tanto maggiore quanto migliore sarà la conoscenza di dove si trovavano le ruote ad acqua di mulini e segherie, esistenti a migliaia in tutte le valli italiane e i corsi d’acqua, spesso distrutte o abbandonate o dimenticate, tanto chen è auspicabile un inventario nazionale dei vecchi mulini e ruote ad acqua ancora esistenti o di cui si ha memoria. Ancora una volta la storia del passato può aprire le porte ad un futuro meno dipendente dalle fonti di energia fossili e inquinanti.

Energie Oggi2, (08), 20-23 (novembre 2010), in Inquinamento52, (127), (novembre-dicembre

2010)

15. Povero Sole

Le fonti energetiche rinnovabili sono o non sono amiche dell’ambiente ? Da una quindicina di anni c’è una rinascita dell’interesse per tali fonti di energia, capaci di liberare l’umanità dalla schiavitù del petrolio, del carbone, del gas e dei relativi inquinamenti, e dai pericoli di scarsità. Tutte le fonti rinnovabili derivano dal Sole, inesauribile, sotto forma di radiazione, di calore, di vento, di biomassa vegetale ricca di energia, della forza del moto delle acque. E’ così sembrato che fosse possibile realizzare una “società solare”, anche attraverso molte contraddizioni. Le grandi imprese che vendono combustibili fossili e centrali nucleari sono attive nello scoraggiare le nuove speranze con la scusa che col solare e col vento sarebbe possibile coprire soltanto una piccola frazione dei fabbisogni energetici. L’elettricità con pannelli fotovoltaici e quella ottenuta dal vento sono tuttavia riuscite ad affermarsi, anche se, più che per motivi ecologici o etici, grazie a contributi finanziari pubblici per cui chi ottiene elettricità dalle fonti rinnovabili ne usa una parte e vende il resto guadagnando dei soldi. Questa situazione ha sollevato una contestazione contro il solare fotovoltaico e l’energia del vento, aiutata da strani alleati. Una parte dell’opposizione viene dai difensori della bellezza del paesaggio che denunciano la “bruttura” degli impianti fotovoltaici che occupano grandi spazi, un ettaro di pannelli per produrre l’elettricità consumata da 200 famiglie ogni anno; il deturpamento delle creste delle colline, dei fianchi delle valli o delle rive del mare o del mare stesso, invasi da torri alte diecine di metri su cui svettano le pale eoliche. Molti agricoltori sono ben contenti di smettere di coltivare pomodori o carciofi e di installare pannelli fotovoltaici che fanno guadagnare, per ettaro, senza far niente, come reddito parassitario, tanto più di quanto ricaverebbero dalle faticose coltivazioni del suolo. Anche se alcuni vedono, in questa tendenza, un pericolo per la distruzione di una agricoltura che, pur maltrattata, potrebbe (dovrebbe) avere ancora un ruolo importante nei confronti dei fabbisogni alimentari italiani, per diminuire le importazioni e come fonte di occupazione. Ci sono poi gli interessi delle aziende che sostengono il cosiddetto “solare termico”, una miscela di attività che vanno dalle stufe domestiche che producono calore usando scarti agricoli, o legna, fino agli impianti che producono elettricità bruciando prodotti e sottoprodotti agricoli, alcuni di origine nazionale, altri di importazione, come l’olio di palma di provenienza tropicale; interessi che si intrecciano con quelli della gestione di forni inceneritori che traggono calore dalla combustione di altre strane materie spacciate per ”rinnovabili”, fra cui una parte dei rifiuti domestici. A questo solare termico si aggregano anche i venditori di pannelli solari per acqua calda, per il riscaldamento delle piscine, eccetera, tutti uniti nel chiedere anche loro finanziamenti pubblici. Ci sono poi le organizzazioni dei venditori di impianti che vanno dai pannelli fotovoltaici, ai motori eolici, alle stufe, alle centrali termiche, alcuni di produzione italiana, altri di importazione; anche questi, nel nome delle virtù (peraltro indubbie) delle fonti energetiche rinnovabili, premono perché il governo continui con gli incentivi ai loro clienti perché senza incentivi non vendono impianti, con conseguenze negative, dicono, per l’occupazione. Alcuni cercano finanziamenti per progetti per coprire i deserti con specchi solari in grado di produrre elettricità da esportare in Europa. Infine ci sono le proposte di usare sottoprodotti e residui agricoli e agro-industriali, biomassa anch’essa derivata dal Sole, 2 disponibili in Italia in milioni di tonnellate all’anno, per ricavarne carburanti come alcol etilico e biodiesel in grado di sostituire la benzina e i carburanti diesel di fonte petrolifera. Qui i nemici, che comprendono società petrolifere e anche automobilistiche, si affannano a dimostrare che tali carburanti sono inaccettabili dal punto di vista del bilancio energetico e anzi sono più inquinanti dei combustibili fossili. Povero Sole ! E dire che saresti capace, nelle innumerevoli forme in cui ti manifesti in natura, di fornire, di volta in volta, elettricità, calore, carburanti, alle case, alle fabbriche, ai mezzi di trasporto; la realizzazione di una società solare comporta il superamento di molte difficoltà tecniche, richiede macchine destinate a durare venti o trent’anni ed è possibile solo se ci si libera dalla schiavitù dei capricci a breve termine delle banche e dei governi, richiede corrette previsioni dei fabbisogni energetici a lungo termine e una mobilitazione della ricerca universitaria e di quella pubblica e privata. Si può riuscire, e il premio è rappresentato da nuova occupazione, duratura come lo sono le forze del Sole.

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 25 maggio 2011

16.  Il congresso solare mondiale del 1961

Solare, fotovoltaico, rinnovabili, eolico, sono parole oggi comuni, concetti che sdegnano la speranza di liberazione dalla schiavitù del petrolio, dai pericoli dei cambiamenti climatici che provocano un riscaldamento planetario, ma anche oggetto di grossi affari. Molte imprese industriali, ma anche banche, offrono, grazie a incentivi statali, lauti guadagni a chi installa pale eoliche nei propri campi e pannelli solari sul tetto delle case o sui terreni una volta coltivati a vigneti o grano. Ogni tanto ci sono dubbi su questo improvviso amore per tali fonti energetiche; le pale eoliche in certi luoghi imbruttiscono il paesaggio; il basso rendimento di energia, rispetto alla superficie occupata, e la discontinuità dell’elettricità ottenibile dal Sole e dal vento richiedono speciali reti di distribuzione. La passione solare riguarda soprattutto il Mezzogiorno dove, del resto, è più intensa la radiazione solare e spesso ci sono cieli limpidi e trasparenti e colline ventose. Continuamente si leggono notizie di mirabolanti invenzioni di nuove celle fotovoltaiche anche se attualmente la maggior parte è ancora ferma al silicio, le cui proprietà fotoelettriche sono state perfezionate nei primi anni cinquanta; i motori eolici sono espansioni, su torri alte un centinaio di metri e pale del diametro di diecine di metri, dei più modesti prototipi degli anni trenta. Dal punto di vista dell’innovazione siamo in un vicolo cieco ? Una importante svolta verso le fonti energetiche rinnovabili si è avuta nel 1953 quando un gruppo di imprenditori dell’Arizona, negli Stati Uniti, uno stato pieno di Sole, ha chiamato a raccolta fisici, ingegneri e chimici per fare il punto sulle conoscenze disponibili nel campo dell’energia solare. Il congresso che si tenne a Phoenix e Tucson nel 1955, diede vita ad un grande fermento di ricerche; l’energia nucleare non sembrava rispondere alle grandi speranze iniziali; carbone e petrolio erano le fonti dominanti; l’energia idroelettrica (l’unica fonte rinnovabile, legata al continuo moto delle acque) era prodotta, ma ancora si scala modesta, in molti paesi, fra cui l’Italia. Nella seconda metà degli anni cinquanta del Novecento si ebbero molte innovazioni dovute anche a studiosi italiani, fra cui un gruppo nell’Università di Bari impegnato per la produzione di acqua dolce dal mare con l’energia solare. Questo fermento indusse le Nazioni Unite a convocare a Roma, nell’agosto 1961, esattamente cinquant’anni fa, una grande “Conferenza sulle nuove fonti di energia”. Col termine “nuove” si intendevano l’energia solare, del vento e la geotermia, quelle che oggi, oltre all’energia idroelettrica, sono le vere fonti energetiche rinnovabili, tutte derivanti dall’inesauribile forza del Sole o, per la geotermia, dall’inesauribile calore del ventre della Terra. Alla conferenza di Roma portarono il loro contributo studiosi sovietici che da anni avevano dei laboratori solari e utilizzavano l’energia del vento soprattutto nelle zone agricole isolate, studiosi israeliani, indiani, africani, sud americani, e naturalmente europei. La conferenza durò due settimane e le relazioni sono contenute in sette grossi volumi (oggi difficili da trovare), e meriterebbero di essere rilette perché misero in evidenza speranze e contraddizioni che si sono trascinate fino ad oggi. Da una parte molti guardano alle fonti di energia rinnovabili come parziale sostituzione delle fonti fossili con macchine complicate e sofisticate, di delicata gestione e manutenzione, per ottenere soprattutto una parte di quella elettricità che oggi è fornita dalle centrali a carbone o a gas naturale. Così vengono proposte grandi centrali fotovoltaiche da installare nei deserti, centinaia di ettari di specchi esposti al vento e alla polvere, motori eolici grandi come 2 cattedrali da costruire in luoghi spessi impervi, magari nel mare, alla ricerca di venti abbastanza costanti. Gli studi presentati a Roma già mezzo secolo fa indicavano invece che il vero grande campo di utilizzazione, o, se volete, “mercato”, delle “nuove” energie è costituito dalla possibilità di risolvere i problemi fondamentali dei miliardi di abitanti dei paesi oggi arretrati, sparsi nelle zone isolate, in Africa e Asia, lungo le coste degli oceani, per il cui reale sviluppo umano, prima che economico, davvero le fonti rinnovabili possono dare un contributo essenziale. A questo fine occorre pensare alla progettazione di dispositivi semplici, comprensibili da chi li usa e li deve far funzionare, duraturi, facilmente riparabili, costruibili con i materiali disponibili sul posto. Per esempio dei semplici forni solari, con specchi realizzati con fogli di alluminio, possono essere utilizzati per la cottura degli alimenti in villaggi in cui l’unica fonte di energia è ancora oggi lo sterco essiccato. Semplici impianti solari possono assicurare l’essiccazione dei raccolti agricoli in luoghi in cui sono impossibili altri sistemi di conservazione degli alimenti; piccoli impianti fotovoltaici possono alimentare radio o telefoni o fornire l’elettricità per azionare frigoriferi in cui conservare medicinali; distillatori di acqua marina col calore solare possono fornire piccole ma essenziali quantità di acqua potabile. Quei pannelli solari che da noi vengono venduti per scaldare l’acqua delle piscine, nei paesi poveri potrebbero essere utilizzati per azionare delle semplici pompe per sollevare l’acqua dai pozzi. Da noi si parla di costruire centrali termoelettriche alimentate con “biomassa” costituita da olio di palma o oli vegetali importati dai paesi poveri, i quali così diventano più poveri e distruggono la loro agricoltura e l’ambiente per fornire ai paesi ricchi sostituti dei combustibili fossili. Invece la biomassa costituita da residui agricoli e forestali, disponibili in tanti villaggi, potrebbe essere utilizzata, in modo più efficiente e meno inquinante, con perfezionamenti delle stufe costruite negli stessi paesi arretrati utilizzando rottami metallici o vecchi fusti abbandonati. E’ il campo di lavoro delle “tecnologie intermedie” o “appropriate”, che propongono soluzioni “semplici” ma tecnicamente efficaci per risolvere i problemi locali dei singoli paesi. Fra le “nuove” fonti di energia le Nazioni Unite a Roma insistettero per inserire quella geotermica, con una visita a Larderello, in Toscana, che era all’avanguardia nella produzione di elettricità dal vapore geotermico. Dalle fonti energetiche rinnovabili dipenderà sempre più il futuro, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri; per un vero progresso in questo campo forse non sarà male anche andare a riscoprire vecchie invenzioni dimenticate e magari sepolte negli atti delle conferenze di mezzo secolo fa. Forse la salvezza può venire da ricerche di “storia dell’energia solare” e delle fonti rinnovabili, di cui ci ben pochi si occupano. Qualche informazione forse ancora utile si può trovare nella ristampa, con nuova introduzione, del libro: Guglielmo Righini e Giorgio Nebbia, “L’energia solare e le sue applicazioni”, Edizioni Savine, 64010 Zona Industriale Ancarano (TE), 2010 http://www.edizionisavine.it/generi-vari.html

La Gazzetta del Mezzogiorno, giovedì 18 agosto 2011

17. Breve storia dell’energia solare

Quando si parla di energia solare il pensiero corre subito alle distese di pannelli fotovoltaici che si stanno diffondendo in tanti paesi. In Italia, ma dicono che la Cina sia la più grande produttrice di elettricità dal Sole, e anche la più grande produttrice e esportatrice di pannelli solari e di macchinari che utilizzano fonti energetiche rinnovabili, fra cui motori eolici che producono elettricità utilizzando la forza del vento che deriva, anche lei, dal modo in cui il Sole scalda diversamente i vari continenti. E poi si pensa alle grandi centrali con specchi piani o parabolici che concentrano la radiazione solare in modo da ottenere vapore a temperatura sufficientemente alta in grado di alimentare turbine elettriche. Il calore solare, infine può essere utilizzato per riscaldamento a bassa temperatura di acqua per usi igienici e di edifici. Senza contare che l’energia idroelettrica, prodotta nel mondo in ragione di circa 3.500 miliardi di chilowattora all’anno rispetto ad una produzione mondiale annua di elettricità di circa 18.000 miliardi di chilowattore, deriva dal moto delle acque, anche lui derivato dal ciclo di evaporazione e condensazione dell’acqua planetaria, alimentato dal Sole. Ma ancora di più, guardando al futuro, il Sole rappresenta la grande speranza per liberare le società industriali dalla dipendenza dallo scarso petrolio e dall’inquinante carbone; col Sole è quindi possibile alleggerire anche l’immissione nell’atmosfera dei gas serra che alterano il clima. 

A dire la verità il Sole ha rappresentato sempre, anche prima dei pannelli fotovoltaici, la fonte di energia per l’umanità fino al Seicento. Innanzitutto il Sole è la fonte di energia che produce la biomassa vegetale che sta alla base dell’unica irrinunciabile “merce” costituita dagli alimenti umani e animali. Ancora oggi la biomassa vegetale da cui ricavare “merci economiche” come alimenti e legname assorbe ogni anno una quantità di energia corrispondente a quella “contenuta” in circa 5 miliardi di tonnellate di petrolio, una quantità superiore a quella di tutto il petrolio estratto ogni anno dai pozzi. 

Dalla biomassa vegetale solare le società del passato hanno tratto legname come combustibile e come materiale da costruzione, il calore solare è stato sfruttato sulle rive del mare per ottenere il prezioso sale, indispensabile per conservare la carne e le pelli, col vento sono state mosse le navi e, naturalmente, dalla biomassa solare sono stati tratti gli alimenti per gli esseri umani e per gli animali, il cui lavoro ha fornito lavoro meccanico prima dell’invenzione dei trattori a motore. Senza contare che dal Sole traggono la maggior parte dell’energia utile gli abitanti delle zone povere del pianeta. 

Del resto non c’è da meravigliarsi perché è grandissima la quantità di energia irraggiata dal Sole che raggiunge la Terra, messa a girare intorno al Sole ad una distanza “giusta” tale da ricevere dal Sole, tanta, ma non troppa, energia in modo da raggiungere, grazie all’atmosfera gassosa, una temperatura media un po’ superiore a quella che chiamiamo zero gradi Celsius, quella giusta per tenere l’acqua allo stato liquido. 

Oggi abbiamo motivo di comprendere lo straordinario ruolo del Sole anche se le antiche società umane hanno studiati attentamente il Sole, il suo moto apparente nel cielo e si sono interrogate come ricavarne qualcosa di utile per alleviare la fatica del lavoro umano. 

Le notizie sulla utilizzazione intenzionale del calore solare si perdono nelle leggende. Chi sa chi è stato il primo a scoprire che con certe pietre rotonde il calore solare poteva essere concentrato su un corpo scaldandolo fino alla temperatura di accensione del fuoco. Si dice che il fuoco delle Olimpiadi (siamo circa 2500 anni fa) veniva acceso con una “lente”che concentrava il calore solare e che qualche simile artifizio era usato per accendere i fuochi “sacri” di molti riti religiosi. Ne parla Plutarco nel I secolo dopo Cristo. 

Esiodo, nell’8° secolo a.C. nella “Teogonia” parla di “strumenti concavi” capaci di sfruttare il “fuoco inesauribile”; tre secoli dopo Aristofane nelle ”Nuvole” racconta di uno Stepsiade che, per sfuggire ai creditori, aveva utilizzato una pietra diafana per fondere col calore solare la cera delle tavolette in cui erano segnati i suoi debiti. Citazioni interpretabili come riferite all’uso di lenti o specchi ustori si trovano in Aristotile, in Teofrasto e nella “Catottrica” di Euclide il quale afferma che si può accendere un fuoco con specchi concavi orientati verso il Sole. 

Fino ad arrivare alla leggenda secondo cui Archimede, ma il racconto appare negli scrittori molti secoli dopo, con qualche artifizio solare, specchi piani o lenti, avrebbe incendiato a distanza le vele della flotta di Marcello che assediava Siracusa. Sta di fatto che si deve ai matematici greci che giravano dall’Asia Minore all’Europa meridionale l’osservazione delle proprietà di certe figure geometriche, come la parabola o la sfera, capaci di concentrare la luce in un ”fuoco”, e la stessa terminologia geometrica sta ad indicare che tale proprietà è stata riconosciuta proprio per il fatto che il calore solare si concentrava e la temperatura diventava così elevata da accendere appunto un fuoco. 

Plinio nella “Storia naturale” spiega che con un recipiente sferico pieno di acqua è possibile concentrare il calore solare in modo da accendere dei tessuti e parla di lenti di cristallo di rocca per accendere il fuoco. 

L’impiego militare del calore solare alla maniera attribuita ad Archimede deve avere sollecitato la fantasia di tanti perché se ne trovano tracce in moltissimi autori greci e bizantini fra cui Proclo, Antemio di Tralles, e altri. Ad Antemio di Tralles si attribuisce un trattato sugli specchi ustori, costruiti affiancando vari specchi piani secondo una struttura parabolica, proprio come si fa oggi nelle centrali solari a specchi. Una bella rassegna sugli specchi ustori si trova nel sito del Gruppo per la Storia dell’Energia Solare.

Purtroppo l’attendibilità delle notizie circolate in questo periodo è limitata perché spesso i testi greci ci sono, pervenuti attraverso traduzioni arabe. E’ stato infatti l’avvento dell’Islam a partire dal VII secolo dopo Cristo a diffondere, rielaborare e controllare le notizie sull’uso dell’energia solare provenienti dal mondo greco. In pochi decenni il mondo islamico si è esteso dall’Asia al Nord Africa all’Europa; i molti centri commerciali ed economici si sono ben presto trasformati in centri di cultura in cui sono state tradotte molte opere del mondo ellenistico. Ne è nata una scuola e tradizione di matematici, astronomi e meccanici che scrivevano in arabo e che hanno continuato gli studi del matematici greci. 

 La cultura  scientifica greca è tornata in Occidente attraverso la presenza araba in Spagna e in Sicilia e attraverso le Crociate. Nell’XI e XII secolo dopo Cristo si trovavano nel Mediterraneo persone colte, cristiani, musulmani, ebrei, che conoscevano il greco, l’arabo e l’ebraico; la presenza in Occidente di regnanti curiosi delle conoscenze anche tecnico-scientifiche del mondo islamico ha spinto gli studiosi medievali alla traduzione e rielaborazione di tali conoscenze e si sono così aperte le porte al mondo moderno. 

Una delle figure più importanti fra i matematici e fisici arabi è quella di Ibn al.Haitham, noto colo nome latinizzato di Alhazen, nato a Bassora, nell’attuale Iraq meridionale, nel 965 e vissuto a lungo in Egitto dove si occupò di regolazione delle acque del Nilo. Caduto in disgrazia si ritirò nella propria abitazione e si dedicò alla traduzione in arabo di centinaia di opere greche, fra cui gli Elementi” di Euclide” e i “Trattati intermedi” e l’”Almagesto” di Tolomeo”.  Morì al Cairo nel 1039.

Fondamentale è la “Ottica” nella quale Ibn al-Haitham riassume e rielabora le conoscenze precedenti ed espone alcuni fatti nuovi come il meccanismo della visione e della “camera oscura”. Dal punto di vista dell’energia solare Ibn al-Haitham chiarisce il meccanismo della rifrazione della luce (anticipando la misura del rapporti fra gli angoli del raggio incidente e del raggio rifratto che sarebbe stata riscoperta da Snell) e spiega perché una sfera di materiale trasparente esposta al Sole concentra la radiazione solare in un punto al di sotto della sfera. Il fenomeno è utilizzato nell’eliofanografo di Campbell (Figura xxxx), strumento usato per misurare il numero di ore di insolazione di una località. La radiazione solare che attraversa la sfera di vetro “brucia” parzialmente un foglio di carta posto nel fuoco della sfera e dall’esame della superficie della bruciatura si possono trarre informazioni sulla durata e dell’intensità della radiazione solare. 

Due opere minori di Ibn al Haitham, tradotte dal fisico tedesco Wiedemann, trattano gli specchi ustori sferici e parabolici. Ci doveva essere un grande interesse per questi problemi nel mondo islamico perché, quasi contemporaneo di Ibn al-Haitham, a Bagdad Ibn Sahl aveva scritto un libro spiegando anche lui il fenomeno della rifrazione della luce e trattando le lenti ustorie. 

Si può dire che con questi autori arabi erano ormai disponibili le informazioni per gettare le basi dell’utilizzazione “economica” dell’energia solare come fonte di calore ad alta temperatura. L’”Ottica” di Ibn al-Haitham fu tradotta in latino da un anonimo intorno al XII secolo e poi rielaborata dal polacco Witelo (latinizzato in Vitellone) nel XIV secolo. L’opera fu stampata a Basilea nel 1572. Nelle prime pagine dell’edizione di Basilea viene presentata una tavola ispirata alla leggenda di Archimede (Figura xxxx). L’”Ottica” di Ibn al-Haitham ha influenzato in Occidente Ruggero Bacone e molti altri tanto che dal XIII secolo in avanti si moltiplicano le notizie sugli specchi e sulle lenti ustorie. Il problema era soltanto quello di trovare materiali adatti per la costruzione di lenti abbastanza grandi e di specchi parabolici abbastanza lucidi per una buona riflessione dell’energia solare nel fuoco. Per alcuni secoli continuano comunque ad apparire più progetti e proposte che applicazioni pratiche. 

Un posto importante occupa a questo punto il napoletano Giovan Battista Della Porta (1535-1615) straordinario e modernissimo curioso, scrittore di scienze naturali, ma ancora influenzato da influssi “magici”, disposto a credere a dicerie che circolavano frablem persone colte del Cinquecento. La sua opera più nota è intitolata “Magiae naturalis sive de miraculis  rerum naturalium”, una collezione di idee e notizie di storia natritale, fisica, chimkicva, ricette per ottenere estratti di piante e notizie sulle lenti e sfere ustorie Nel capitolo X viene descritto un distillatore di acqua marina alimentato con l’energia solare; si tratta probabilmente della prima applicazione dell’energia solare alla soluzione di un problema pratico come l’ottenimento di acqua dolce dal mare. 

Con Della Porta si entra nel tempo moderno ma prima va ricordato che, apparentemente in maniera indipendente, anche nella lontana Cina qualcuno aveva scoperto che è possibile ottenere calore, del “fuoco”, con specchi esposti al Sole. Joseph Needham, nella sua monumentale opera “Science and civilization in China”, cita un trattato denominato Chou Li (Zhouli), scritto intorno al 300 avanti Cristo, in cui sono esposti i compiti dei numerosi funzionari di un molto precedente periodo Zhou. Fra questi un funzionario era addetto all’accensione del fuoco con specchi ustori. Lo stesso Needham cita che in un classico “trattato della guerra”, un colloquio fra l’imperatore T’ai Tsung (Taizong) e il suo generale Li Ching (Li Jing) vissuto all’inizio del 600 dopo Cristo, è detto che l’esercito deve disporre di specchi per accendere il fuoco col Sole anche durante lontane spedizioni.

Estratto da Quaderno n. 4 Altronovecento dedicato a

Giorgio Nebbia, Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo 1970-2013

a cura di Luigi Piccioni, Fondazione Luigi Micheletti

In Energie & Ambiente Oggi3, (9), 76-78 (marzo 2013) 

Vedere anche sito del Gruppo per la storia dell’energia solare 

18. Energia solare dimenticata

Quando potremo leggere il testo definitivo della tanto discussa “legge finanziaria” avremo, si spera, alcune buone notizie sia per la graduale diminuzione della dipendenza dalle fonti di energia fossili (carbone, petrolio, gas naturale) anche al fine di diminuire le emissioni nell’atmosfera dei gas responsabili dell’effetto serra, sia per un aumento dell’uso delle fonti energetiche rinnovabili, dai pannelli per il riscaldamento degli edifici, ai generatori fotovoltaici di elettricità, all’uso della biomassa vegetale per produrre carburanti (zuccheri e cellulosa per l’alcol etilico, grassi per carburanti per motori diesel) o plastiche biodegradabili. Una svolta, insomma verso una società moderna, “neotecnica” e rispettosa dell’ambiente.

Sarà allora il caso di vedere se esistono anche altre soluzioni “solari” che sono state sperimentate con successo e poi abbandonate e che potrebbero essere “resuscitate” grazie all’uso di nuove conoscenze e materiali; insomma la storia dell’energia solare può aiutare ad accelerare la transizione neotecnica e finalmente è stato creato in Italia un archivio storico, presso la Fondazione Micheletti di Brescia, più volte ricordata come centro di documentazione e ricerca di storia della tecnica. Fra gli studi raccolti in tale archivio meritano di essere ricordati quelli del francese Felix Trombe (1906-1985) di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Strano personaggio, laureato in chimica industriale con una tesi sui metalli rari lantanidi, per molti anni condusse ricerche di speleologia studiando e analizzando la circolazione delle acque in molte grotte fino allora inesplorate; i risultati sono raccolti in un noto “Trattato di speleologia”. Dopo il 1945 Trombe tornò ad occuparsi di metalli e, per migliorare le conoscenze sul comportamento dei metalli ad alta temperatura, costruì nel 1949 un “forno solare” della potenza di 50 chilowatt a Mont Louis, sui Pirenei orientali, nel Sud della Francia; la cittadina in alta montagna era stata scelta perché offriva per molti mesi un cielo limpido. La radiazione solare era concentrata con un grande specchio parabolico, azionato da un meccanismo che poteva “seguire” il Sole nel suo “moto apparente” nel cielo. Nel “fuoco” dello specchio si raggiungevano temperature altissime con le quali era possibile osservare le modificazioni e le proprietà dei metalli e dei materiali senza i disturbi e le contaminazioni che si hanno nei forni tradizionali: una temperatura altissima e “pulita”.

I successi del primo forno solare indussero le autorità francesi a finanziare la costruzione, sempre sui Pirenei, a Odeillo, di un secondo forno della potenza di 1000 chilowatt che attrasse — erano ormai gli anni della prima crisi energetica del secolo scorso — anche l’attenzione dell’ente elettrico francese il quale abbinò al forno solare una centrale termoelettrica, chiamata Themis, che funzionò del 1982 al 1986. Funzionò male perché, anche nelle condizioni migliori, il flusso di calore proveniente dal Sole è irregolare e discontinuo, nei vari mesi dell’anno e nelle varie ore del giorno, mentre una centrale termoelettrica ha bisogno di un flusso continuo di vapore a temperatura elevata e costante. D’altra parte il calore di origine solare ad alta temperatura, non può essere “immagazzinato” in maniera soddisfacente. I forni solari sono invece di grande utilità per la preparazione di leghe e metalli ad altissima temperatura, per reazioni chimiche speciali, da condurre al di fuori del contatto dell’aria, come del resto Trombe aveva ben intuito all’inizio delle sue ricerche; in questo direzione continuò a lavorare il laboratorio di Odeillo, anche dopo la chiusura della centrale Themis. Tanto più che nelle prove dei materiali ad altissime temperature c’è ancora moltissimo da scoprire con ricadute importanti nel campo meccanico, aeronautico ed elettronico.

Col suo lavoro con i forni solari Trombe era diventato una celebrità nel campo dell’energia solare di cui intuì la grande importanza sia nei paesi industrializzati sia in quelli emergenti. Col Sole si poteva diminuire il consumo di combustibili per il riscaldamento invernale e Trombe inventò un sistema di riscaldamento “passivo”, differente dai sistemi che richiedono dei pannelli esterni. Trombe propose di inserire, nella parete rivolta a sud degli edifici, una grande finestra di vetro dietro la quale è posto un “muro” con una faccia nera esposta al Sole. La radiazione solare, passando attraverso la lastra di vetro, scalda la parete nera del muro e resta “intrappolata” dentro la parete sotto forma di calore; la parete calda a sua volta scalda facilmente l’aria interna delle stanze. Negli anni cinquanta del secolo scorso il “muro di Trombe” diventò famoso in tutto il mondo e ancora oggi gli edifici con riscaldamento solare “passivo”, sempre più diffusi, utilizzano lo stesso principio, magari dimenticando chi ne è stato l’inventore mezzo secolo fa.

Trombe condusse molte altre ricerche sull’energia solare; progettò distillatori solari di acqua marina per fornire acqua dolce ai paesi aridi, essiccatoi solari per le derrate alimentati deperibili, frigoriferi solari. Trombe morì nel 1985, in un periodo in cui sui mercati stavano scorrendo di nuovo fiumi di petrolio a basso prezzo — e inquinante — e l’energia solare era in declino. Non fece quindi in tempo a vedere la ripresa dell’interesse per l’energia solare sollecitata dalle nuove crisi energetiche e dai movimenti ambientalisti. Dopo il 1990 a Odeillo, accanto al grande forno solare, è stato creato un centro di informazione del pubblico divenuto adesso, nel 2006, centro “Elio-odissea” per diffondere, specialmente fra gli studenti, le conoscenze sulle energie rinnovabili e sul Sole. Chi sa che non si faccia qualcosa di simile anche in Italia

7 giugno 2013 pubblicato su sito del GSES

19. LUCI E OMBRE DELL’ENERGIA SOLARE

Per molte migliaia di anni la vita umana ha risolto i suoi problemi grazie all’energia solare: l’energia solare “fabbricava” gli alimenti da cui derivava l’energia muscolare umana e animale; col Sole si otteneva sale dal mare, il Sole teneva in moto il ciclo dell’acqua che forniva le piogge e l’acqua per l’irrigazione ed era capace, col suo moto sulla superficie terrestre, di azionare macchine e ruote; dall’energia solare dipendeva il vento che spingeva le navi e anche azionava ruote. Le poche utilizzazioni mediante specchi erano più che altri sperimentali o curiosità scientifiche. La vera storia dell’energia solare come fonte energetica alternativa si può datare dalla seconda metà del Settecento quando cominciano a diffondersi “macchine” azionate dal calore ricavato dal carbone, poi con la comparsa dell’elettricità e poi con la storia della società contemporanea industriale. Il Sole — nelle due varie forme dirette o indirette (biomassa, vento, moto delle acque, moto ondoso) — è stato così pensato come possibile fonte di calore o di elettricità in alternativa alle fonti fossili, carbone e poi petrolio. Con alternanza di speranze e di delusioni, non senza legami con le paure circa l’esaurimento o le variazione di prezzo delle fonti fossili. La storia dell’energia solare, il tema del lavoro del Gruppo per la storia dell’energia solare (GSES), si intreccia quindi strettamente con la storia delle invenzioni, della tecnica, degli affari, dell’economia, dello stesso pensiero sociale nel mondo e, naturalmente, anche in Italia. Ci sono state ondate di interesse e di invenzioni dopo la scoperta degli effetti fotovoltaico e termoelettrico, dalla metà dell’Ottocento, con rilevanti contributi di studiosi italiani; nell’era coloniale in cui l’energia solare è stata pensata come fonte energetica specie per i paesi africani, per la liberazione dal bisogno di energia di questo paesi poveri, interessati da grandi estensioni di deserti assolati. Poi nuove ondate di interesse ci sono state fra le due guerre mondiali, questa volta associate all’autarchia conseguente alla grande crisi, in Italia e nel resto d’Europa, in Russia, in America. E ancora dopo la fine della seconda guerra mondiale all’energia solare ci si è rivolti come possibile fonte di energia per la ricostruzione. E’ stata l’età delle grandi conferenze internazionali nelle quali la presenza italiana è stata rilevante. Il trionfo del petrolio, dagli anni cinquanta e sessanta dal Novecento, ha appannato le speranze e gli interessi e ha messo in ombra le stesse ricerche sull’energia solare, riprese con rinnovata vivacità dopo la prima grande crisi petrolifera degli anni settanta. Sono seguite varie ondate di speranze e delusioni; all’energia solare ci si rivolti nella ricerca di una società “sostenibile”, dell’attenuazione dell’effetto serra, con forti incentivi finanziari dei vari stati e con conseguente nascita di imprese commerciali, talvolta avventurose, talvolta andate 2 Gruppo per lo studio dell’energia solare Incontro presso l’Archivio Centrale dello Stato Piazzale degli Archivi 27, 00144 Roma “Storia dell’uso dell’energia solare in Italia” Lunedì 8 luglio 2013 incontro a crisi finanziarie che hanno nuovamente fatto appannare l’ interesse per l’energia solare. Altrettanto movimentata è la storia delle varie invenzioni, con l’introduzione talvolta di vere innovazioni: la principale è stata la scoperta dell’effetto fotovoltaico del silicio nei primi anni cinquanta del Novecento, più spesso repliche o limitati perfezionamenti di invenzioni precedenti. Principale impegno del Gruppo per la storia dell’energia solare è la ricostruzione di queste pagine dell’evoluzione dell’energia solare attraverso la raccolta di documenti, studi e invenzioni, con fini pratici. Da una parte per comprendere l’origine delle varie soluzioni tecniche solari, dall’altra per incoraggiare la conoscenza delle invenzioni passate, spesso dimenticate, in modo da spingere nuovi studiosi o imprese a reali perfezionamenti che permettano di realizzare una auspicabile società solare. Gli studi consentono anche di comprendere meglio alcuni aspetti di carattere economico, storico e sociale associati all’energia solare, fra cui i dibattiti sulle priorità delle varie invenzioni, la concorrenza fra diverse soluzioni e i relativi interessi finanziari.. Fondamentale a tal fine è la raccolta di documenti e testimonianze nonché di apparecchiature, ciò che il Gruppo per la storia dell’energia solare ha fatto nei suoi nove anni di vita anche avvalendosi di donazioni di archivi privati, alcuni fortunosamente trovati e recuperati dal presidente del GSES ing. Cesare Silvi, ora depositati presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia www.fondazionemicheletti.it e il Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL www.musilbrescia.it. Si tratta di una impresa di grande rilievo storico e documentario, perché sfortunatamente la documentazione e gli archivi di molti gruppi o associazioni, sorti e dissolti in passato, sono andati perduti. Punto di riferimento importante è il sito www.gses.it curato dallo stesso ing. Silvi.

Gruppo per lo studio dell’energia solare

Incontro presso l’Archivio Centrale dello Stato

Piazzale degli Archivi 27, 00144 Roma

“Storia dell’uso dell’energia solare in Italia”

Lunedì 8 luglio 2013

20. Dalla storia il solare che vorremmo

L’energia solare si presenta sulla Terra come fonte di calore e come radiazione elettromagnetica, in quantità grandissime, di circa tre milioni di esajoule all’anno; il milione di esajoule che arriva sulle terre emerse corrisponde a circa 2000 volte la quantità totale di energia “usata” dagli esseri umani in un anno. L’energia solare è stata “la” fonte di energia per gli esseri umani fin dall’inizio della comparsa dell’Homo sapiens, un paio di centinaia di migliaia di anni fa e ancora più dopo la rivoluzione agricola di circa diecimila anni fa. La storia dell’energia solare mostra che da oltre duemila anni i nostri predecessori hanno cercato di “usare” l’energia solare con “macchine”, dapprima semplici poi sempre più complesse, un cammino pieno i successi ed errori e invenzioni dimenticate; alcune possono essere riscoperte per cercare soluzioni “solari” adatte sia ai paesi industrializzati sia a quelli poveri, alla luce della disponibilità di nuove conoscenze chimiche e fisiche sui materiali. I più grandi collettori solari sono le saline, grandi vasche poco profonde nelle quali il Sole fa evaporare l’acqua di mare fino a far precipitare il cloruro di sodio, il sale comune. Nel mondo la loro superficie è di circa 2000 milioni di metri quadrati, circa venti volte la superficie di tutti i pannelli solari termici e fotovoltaici e centrali a concentrazione in funzione nel mondo, e producono circa 70 milioni di tonnellate all’anno di cloruro di sodio. La stessa tecnologia viene adesso utilizzata nei salar degli altopiani di Cile, Bolivia e Argentina, per concentrare le soluzioni di sali di litio e recuperare il cloruro di litio, materia strategica per la produzione di batterie elettriche. Nel 1767 fu scoperto che un corpo, posto in una scatola coperta con una lastra di vetro ed esposta al Sole, poteva raggiungere molte diecine di gradi di temperatura. Un’osservazione che ha dato origine alla diffusissima tecnologia degli scaldacqua solari. Con simili semplici dispositivi è possibile essiccare molti prodotti agricoli, una evoluzione meccanica e più igienica dell’antichissima pratica di essiccazione per esposizione al Sole Col calore solare a bassa temperatura è possibile scaldare abitazioni, con soluzioni architettoniche sperimentate oltre mezzo secolo fa dal francese Felix Trombe e dall’americana Maria Telkes. I distillatori solari, i cui prototipi risalgono addirittura 2 Gruppo per la storia dell’energia solare (GSES, www.gses.it) Incontro dibattito presso Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, Rodengo Saiano Via del Commercio 18 – 25050 Rodengo Saiano – Brescia “Storia e attualità del solare termodinamico con il contributo italiano” venerdì 10 ottobre 2014 al 1873, sono ingegnosi semplici dispositivi che utilizzano la radiazione solare, diretta e diffusa, a mano a mano che è disponibile, per trasformare l’acqua di mare o salmastra in acqua potabile, un bene scarso e prezioso in molte zone assolate della Terra. Col calore solare a bassa temperatura, raccolto con dispositivi relativamente semplici e costruibili con un gran numero di diversi materiali e accorgimenti tecnici, è possibile azionare motori con il ciclo di evaporazione e condensazione di un fluido, l’ammoniaca nei motori costruiti dal francese Tellier nel 1889, l’anidride solforosa nei motori costruiti negli anni quaranta del Novecento dalla ditta italiana Somor. Sempre col ciclo di evaporazione e condensazione, il calore solare a bassa temperatura può azionare frigoriferi ad assorbimento, inventati negli anni venti del Novecento. Mediante specchi è possibile concentrare l’energia solare scaldando corpi anche a centinaia di gradi Celsius. Con semplici specchi, fatti di lamiere di metalli riflettenti, è possibile realizzare delle cucine solari con cui cuocere in maniera pulita, proprio nelle ore di massima insolazione, i cibi a temperature fra 150 e 250 gradi Celsius. Per ottenere temperature superiori è necessario orientare continuamente gli specchi per ”seguire” il Sole nel suo moto apparente nel cielo. Con acqua, oli o anche sali scaldati ad alta temperatura nel fuoco di specchi solari è possibile ottenere vapore per azionare macchine termiche capaci di produrre fino a circa mille chilowattora di elettricità all’anno con circa 6 metri quadrati di specchi. Nel mondo sono state costruite varie centrali termoelettriche solari a specchi con potenze di molte migliaia di chilowatt, anche se di non facile gestione e manutenzione. Occorre assicurare la continua pulizia degli specchi e, per disporre di elettricità anche quando la radiazione solare non è disponibile, occorre disporre di sistemi di accumulo dei fluidi caldi o integrare l’elettricità solare con altra elettricità L’unica ingegnosa proposta di “cattura” del calore solare ad alta temperatura con strutture stazionarie a nido d’ape trasparenti, capaci di evitare le perdite di calore per conduzione e convezione, è stata proposta nel 1961 dall’italiano Giovanni Francia; una idea che merita di essere perfezionata. Le strane proprietà della produzione di elettricità dal contatto fra differenti materiali esposti alla radiazione solare (fotoelettricità) e al calore solare (termoelettricità), pur studiatissime dall’Ottocento in avanti, hanno avuto applicazioni commerciali soltanto dopo la scoperta, nel 1952, dei semiconduttori a base di silicio. Con le celle fotovoltaiche è possibile, come è ben noto, ottenere direttamente elettricità in ragione di circa 120 chilowattore all’anno per metro quadrato di fotocelle. Ormai vengono 3 Gruppo per la storia dell’energia solare (GSES, www.gses.it) Incontro dibattito presso Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, Rodengo Saiano Via del Commercio 18 – 25050 Rodengo Saiano – Brescia “Storia e attualità del solare termodinamico con il contributo italiano” venerdì 10 ottobre 2014 installate centrali della potenza di migliaia di chilowatt; l’elettricità viene però prodotta in alcune ore del giorno e diversamente nelle varie stagioni, per cui la loro utilizzazione commerciale richiede l’integrazione con l’elettricità di origine fossile in speciali reti di distribuzione, “intelligenti” ma di scomoda gestione. Gli impianti fotovoltaici trovano invece utile applicazione in piccole unità adatte ai paesi poveri e capaci di risolvere, con modesti accumulatori, problemi come l’alimentazione di frigoriferi per conservare cibo e medicinali, di sistemi locali di telecomunicazioni e di illuminazione, dove finora non sono arrivate le reti di distribuzione dell’elettricità. L’altra forma della “forza” del Sole adatta a risolvere problemi umani, è quella del calore trasferito alle varie parti dei continenti e degli oceani, capace di generare il flusso del vento. Anche qui sono state proposte centinaia di soluzioni, ma hanno avuto successo, finora, soltanto le grandi centrali eoliche a pale rotanti, con potenze fino a qualche centinaia o anche migliaia di chilowatt di potenza, con produzione di circa 1200-1800 chilowattore all’anno per ogni chilowatt di potenza; anche qui si tratta di elettricità disponibile con imprevedibili discontinuità. Il vento genera anche il moto ondoso, disponibile soprattutto lungo le coste degli oceani, proprio dove abitano le popolazioni finora prive di elettricità. Lo “sfruttamento” del moto ondoso per ottenere energia meccanica o elettrica ha stimolato moltissime invenzioni che possono ora essere “riscoperte” e utilizzate a fini commerciali grazie anche ai nuovi materiali divenuti disponibili. L’altra grande fonte di energia rinnovabile è costituita dal moto delle acque dei fiumi tenute in continua circolazione nel ciclo dell’acqua generato dal calore solare. Dei potenziali 300 miliardi di chilowattore “contenuti” nel moto di un anno delle acque dei fiumi italiani, soltanto appena 45 miliardi di chilowattore all’anno sono trasformati in elettricità nelle grandi centrali idroelettriche. Almeno altrettanti potrebbero essere ottenuti con impianti ad acqua corrente, con limitato effetto sull’ambiente, localizzati nelle valli dove motori ad acqua hanno funzionato per secoli, poi abbandonati. Della biomassa vegetale, “fabbricata” ogni anno dalla fotosintesi solare, la parte che non ha uso alimentare, costituita dagli scarti e residui agricoli e forestali, stimabile in Italia in alcune diecine di milioni di tonnellate all’anno, può essere trasformata in carburanti per autoveicoli o motori. La tecnologia è destinata a cambiare a favore delle attuali e soprattutto delle nuove soluzioni “solari” a mano a mano che le fonti di energia fossili stanno andando incontro a problemi di scarsità, di aumento dei prezzi, e si stanno rivelando responsabili di inquinamenti locali e del riscaldamento planetario. E’ perciò il caso di guardare al Sole come fonte di energia del futuro, ma anche come occasione di 4 Gruppo per la storia dell’energia solare (GSES, www.gses.it) Incontro dibattito presso Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, Rodengo Saiano Via del Commercio 18 – 25050 Rodengo Saiano – Brescia “Storia e attualità del solare termodinamico con il contributo italiano” venerdì 10 ottobre 2014 innovazioni, di invenzioni, di riscoperta di invenzioni dimenticate; dalla storia della tecnica una sfida per le nuove generazioni. La stessa storia mostra che gli insuccessi e le delusioni economici e tecnicoscientifici si sono verificati ogni volta che si è tentato di far fare al Sole le cose che sono possibili con i combustibili fossili; ne sono esempio le ”grandi” centrali fotovoltaiche o eoliche che finora sono sopravvissute con finanziamenti pubblici, presentandosi come la soluzione per liberare i paesi industriali dalla schiavitù dei combustibili fossili e dei loro inconvenienti ambientali, e che entrano in crisi ad ogni bizzarria del mercato finanziario. Per un vero duraturo successo delle fonti energetiche rinnovabili dipendenti dal Sole occorre chiedere al Sole quello che lui sa dare meglio, tenendo conto della bassa intensità di energia per unità di superficie della radiazione solare e della sua discontinuità. Non a caso il miglior impianto solare è la vegetazione, capace di rendere disponibili agli esseri umani, con bassi rendimenti ma senza macchine, alcuni chilowattore all’anno per metro quadrato. D’altra parte i caratteri del Sole nelle varie forme in cui si manifesta sulla Terra, come calore, radiazione, moto del vento e delle acque, anche nella loro semplicità e lentezza, si prestano a soddisfare molti bisogni umani e attendono nuove invenzioni e nuove imprese. Essenziali soprattutto per aiutare nel loro sviluppo i paesi oggi afflitti dalla miseria per mancanza non solo di alimenti e di acqua di buona qualità, ma anche di energia, pur avendo a disposizione grandi spazi, una elevata intensità dell’energia solare, risorse naturali che proprio le forze del Sole possono valorizzare. Si tratta di un potenziale “mercato” di un miliardo di persone, centinaia di migliaia di famiglie. Il professor Giacomo Ciamician, oltre un secolo fa, scrisse che un giorno la “civiltà”, grazie all’energia solare e alle conoscenze della chimica e della biologia, sarebbe tornata nei paesi africani dove era nata, in alternativa alle fumose e inquinate città industriali. Una alternativa alla pressione che milioni di abitanti di paesi poveri esercitano, inascoltati, alle porte dei paesi oggi opulenti.

Gruppo per la storia dell’energia solare (GSES, www.gses.it)

Incontro dibattito presso Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia, Rodengo Saiano Via del Commercio 18 – 25050 Rodengo Saiano – Brescia

“Storia e attualità del solare termodinamico con il contributo italiano”

venerdì 10 ottobre 2014