Pier Paolo Poggio, Marino Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour, Milano, Jaca Book, 2020
Da “Città bene comune”, 9.12.2021
“Primavera ecologica» mon amour è l’esito di un lavoro meticoloso di ricostruzione di una straordinaria stagione dell’ecologismo italiano che gli autori – Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti – hanno vissuto da protagonisti in lotte anticipatrici. Episodi, testimonianze e fatti registrati con dettagli e considerazioni che gettano nuova luce su un esteso conflitto ambiente-lavoro che ha fatto da preludio, se non ancora compiutamente da avvisaglia, alla drammatica situazione attuale in cui è in gioco la sorte dell’intero pianeta. “Mon amour” esprime bene il rammarico degli autori – e non solo loro – per lo spreco culturale, politico, sociale cui è stata successivamente esposta un’azione che aveva saldato intellettuali, ricercatori, studenti ed anche operai attorno alla cura e alla salute delle persone e del mondo vivente. L’aspetto locale dei casi presi in considerazione, la lungimiranza scientifica e civile che ispirava scienziati che già intuivano con preveggenza la ricaduta globale della guerra condotta dal sistema dominante alla natura e alla salute operaia, collocano questa opera, unica e indispensabile, nella giusta prospettiva di recupero di una lotta di classe in cui purtroppo salariati e cittadini, al contrario delle imprese e dei legislatori, non erano ancora del tutto consapevoli di quale fosse la parte giusta con cui schierarsi. Il sottotitolo del libro Industria ed ambiente cinquant’anni dopo rivela una intuizione positiva: periodizzare le sconfitte e le poche vittorie sotto il profilo di una crescita di consapevolezza pubblica e quantificare i costi ambientali e sanitari rimossi come un crimine da esorcizzare nel poco tempo che rimane per affrontare le questioni della salute e del clima, ormai giunte a intaccare le possibilità di sopravvivenza su larga scala.
L’indagine del rapporto industria-ambiente in Italia è tuttora inesplorata e gli autori partono da lontano: l’idealismo del Novecento nel dopoguerra è stato scalzato dal produttivismo e dall’economicismo, con un passaggio – anche della sinistra – dalla centralità del partito del lavoro all’impresa. Il progetto di tenere insieme società e natura viene così sostituito da spezzoni di vicende e storie parziali: quelle dove i risultati a posteriori di vittime al lavoro o di morbilità gravi sul territorio hanno suscitato – ed ancora suscitano – particolare sgomento. Proprio in ragione di questa frammentarietà, la “storiografia non riesce a collocare la crisi ecologica come incontro tra scienze naturali e umane”. La gran parte di chi ha attraversato studi e laboratori universitari anche dopo il ’68, ha perso di vista la fabbrica, mentre la manifattura si insediava e disperdeva nel territorio ed i germi della coscienza operaia sulla salute venivano corroborati e coltivati solo da pochi straordinari studiosi isolati nei loro stessi dipartimenti. Con la conseguenza che il secondo miracolo economico si viene a compiere soprattutto a danno dell’ambiente, divorando paesaggi colture e culture.
La primavera ecologica raccontata da Poggio e Ruzzenenti è una storia di scienziati straordinari, collocati politicamente sul versante del lavoro, ma esclusi dalla torre d’avorio delle facoltà più illustri, proprio mentre il sistema industriale non si faceva carico di una crisi ecologica sempre più dilagante in molteplici rivoli che invadevano l’intera ecosfera. In quei tempi, ci si spostava dalla colonizzazione delle riserve naturali vitali, come l’acqua immessa e deturpata nei processi produttivi nelle regioni prealpine e della Pianura Padana, alla dispersione dei rifiuti nocivi al Sud, scaricati in territori privi di controllo. L’Italia si distingue così per una perversa forma di “autocolonizzazione” e “autosfruttamento” del proprio ambiente di vita, con un incredibile consenso delle forze politiche rappresentative, tutte in gravissimo ritardo sull’ecologia come investimento di consenso e partecipazione.
Nonostante questo giudizio disperante sulla realtà nazionale, gli autori si fanno carico di individuare le figure delle élite intellettuali che legano il loro nome a una straordinaria azione popolare, che muove dalla denuncia di casi ferali di distruzione della salute e dell’ambiente. Qui sta la “primavera ecologica” italiana spesso non tramandata con il rigore e l’insegnamento dovuti. Dopo una rassegna estesa del lavoro pionieristico della Carson, di Odum, Mumford, Peccei, Boulding, Commoner e Georgescu, Roegen, vengono portati alla luce le attività contemporaneamente di ricerca, studio, divulgazione e militanza di personaggi che segneranno la storia dell’ecologia integrale nel nostro Paese: Giorgio Nebbia, Dario Paccino, Giulio Maccacaro, Luigi Mara, Ivar Oddone, Giovanni Berlinguer, Gastone Marri, Laura Conti e Lorenzo Tomatis.
Preziosissima lungo tutto il testo è la ricchezza di note che costituiscono quasi un libro a sé e impreziosiscono di notizie biografiche e scientifiche, oltre che illustrative delle normative in vigore favorevoli alle imprese, le argomentazioni esposte. La tesi qui sostenuta è che negli anni Sessanta e Settanta si dipana una mirabile stagione che imposta correttamente il tema del rapporto tra sviluppo e ambiente, industria e territorio, tecnica e natura, inquinamento e salute. Ma l’azione esemplare non raggiunge tutti: anzi viene occultata. Politica e società reagiscono attraverso la rimozione e rinviando il più possibile l’adozione di norme e regole, comunque annacquate. Nei tempi a noi più vicini la rimozione assumerà i caratteri di un maquillage verde di facciata. Perfino l’adozione delle direttive europee avviene con quinquenni di ritardo, mentre è posto sotto attacco l’art.41 della Costituzione e le comunità locali vengono esautorate dalle valutazioni di impatto ambientale di opere come centrali elettriche e gasdotti.
Nel capitolo dedicato alla mancata giustizia ambientale viene avanzato un giudizio durissimo, ma del tutto confermato dalle assoluzioni per delitti ambientali ottenute o mandate in prescrizione in tutti questi anni, nonché, in tempi recentissimi, dall’accelerazione e dalla mancanza di controlli preventivi sulle procedure autorizzative delle opere utili alla transizione ecologica del Paese previste nel recente Pnrr. “C’è – viene scritto – una coerenza con la logica ‘totalitaria’ del sistema dominante: un oscurantismo di cui il negazionismo degli assassini della memoria dei campi di sterminio non era che un segno premonitore. A oltre 80 anni dalla Shoah noi italiani ci troviamo ancora con molti conti in sospeso per le nostre responsabilità in quella catastrofe. Analogamente, sconfiggere il negazionismo ambientale che si fa forza del progresso è impresa improba e di lunga lena, ma solo così riprenderebbe il cammino virtuoso che la primavera ecologica aveva indicato”. Il “chi inquina paga” sembra avere pochi riscontri. Il caso della Caffaro di Brescia è ampiamente discusso, così come la tragedia della Thyssen in cui le parti pubbliche hanno colpevolmente accettato il risarcimento economico.
Dopo una critica severa alla distruttività delle radici della vita insita nello sviluppo industriale degli ultimi secoli, si passa a una proiezione sul futuro, in cui non si contempla solo l’umano, ma l’insieme del vivente con la progressiva estinzione della biodiversità. Siamo di fronte ad una “pandemia silenziosa” in cui gli agenti chimici e le scorie radioattive segnano ben oltre il tempo delle attuali generazioni la letalità della loro dispersione in aria, suolo e acqua. Da qui si sente anche l’influenza – che bene si innesta sull’esperienza e la cultura degli autori – della Laudato si’ e dei movimenti degli studenti che hanno sollevato con drammaticità il problema del tempo che viene a mancare per le sorti della vita sul pianeta. Non ci sarebbe occasione migliore per rendere attuale lo spirito della Riforma sanitaria del 1978 in cui la tutela della salute si basava sull’unitarietà tra interventi preventivi, curativi, riabilitativi e il reinserimento sociale, mettendo in evidenza la prevenzione. Ora che la prevenzione primaria non esiste più, il prolungamento della vita offerto dalle cure più redditizie per l’economia sanitaria, confligge con un peggioramento delle condizioni di vita degli anziani che sopravvivono. È la presunzione di fare del pianeta un “manufatto dell’homo economicus” a ridurre la biosfera a tecnosfera e a fare delle sindemie in corso ed all’orizzonte il corollario inevitabile di una espugnazione della natura dalla sua autonomia e dalle sue leggi.
Se il ruolo della scienza occupava uno spazio rilevante ai tempi di Laura Conti e di Giulio Maccacaro con il coinvolgimento di fasce estese dell’opinione pubblica e l’impegno originale del movimento degli studenti e degli operai, nonché la penetrazione di una critica alla neutralità della scienza tra gli strati professionali all’opera dopo la conclusione del percorso degli studi, rimaneva tuttavia salda a livello di opinione pubblica – almeno fino alla fine del millennio – una concezione del mondo come terreno di dominio dell’umanità sulla natura e, quindi, l’indifferenza verso l’eccesso di capacità trasformativa messa in campo dal lavoro veniva ampiamente giustificata. Ad esempio, nel sindacato il conflitto tra lavoro e ambiente emerge solo nei casi di evidente contrasto con la salute, ma non raccoglie nella generalità gli spunti dei protagonisti della “Primavera ecologica”, per cui tutto era interconnesso e nulla di questo mondo poteva – come dirà Francesco nella Laudato si’ – “risultarci indifferente”. Un legame diretto tra ingiustizia ecologico-climatica e ingiustizia sociale sembrava riservato solo a menti aperte all’interdisciplinarità e non solo specializzate ed autorevoli nelle singole discipline scientifiche. Sono anzi i politici più dotati di cultura umanista – Conti, Berlinguer, Nebbia – a farsi carico di un nuovo inaspettato orizzonte che appare davanti alla crescita e allo sviluppo industriale: la continuità della specie in una biosfera che assume valenza primaria rispetto alle pretese della geopolitica. Come passo intermedio verso una diversa e rischiosa funzione dell’attività umana su scala locale-globale, si citano opportunamente i lavori di Hans Jonas, protagonista dell’accettazione sempre più diffusa, almeno nell’Europa sociale che allora andava consolidandosi, del principio di responsabilità e di precauzione. Invece, l’euristica della paura a fronte dell’innovazione, così insistentemente sostenuta da Dupuy, non reggerà affatto l’urto e la tensione alla crescita a spese della natura, negli stessi anni in cui quasi tutta la tecnocrazia anglosassone proclama la sostituzione dell’uomo (e della donna!) con protesi artificiali dotate di intelligenza e votate a superare i limiti attraverso la celebrazione di un concetto matematico astratto, ma molto attraente, come quello della “singolarità”. La supponenza della scienza è alimentata da uno squilibrio sociale poco indagato: i finanziamenti privati conquistano più facilmente i più istruiti, man mano che la scuola ritorna a mostrare le piaghe di un apparato selettivo e di classe.
Eppure, la profonda e radicale trasformazione dell’economia che la crisi ecologica richiede ha bisogno di una scienza critica, indipendente e creativa, che strutturi un diverso paradigma. Il merito straordinario di questo libro è di avere innestato sulla riscoperta dei maestri dell’ecologia una problematica sulle certezze scientifiche che diventa ancor più pressante con la pandemia (il testo è dell’inizio 2020!) e la brusca accelerazione della crisi climatica. L’ultimo (il VI) rapporto dell’Ipcc a ragione risponde al meglio al quesito posto, mettendo a fuoco l’assolutezza e l’inconfutabilità della scienza proprio in quanto vengono adottate tutte le misure necessarie affinché l’allarme sollevato abbia un livello di confidenza inaccessibile al negazionismo.
Dopo aver dato merito ai processi catalogati con l’acronimo Nimby, per aver scelto ormai ovunque la strada di avanzare una proposta alternativa a quella contestata (si veda Civitavecchia per il conflitto tra Enel ed Eni con la popolazione locale su metano e rinnovabili), definendoli una “difesa immunitaria” della società aggredita dalla patologia della modernità”, si affronta il cambio di marcia ora necessario in piena crisi climatica per la difesa integrale dell’ambiente e una riformulazione del rapporto tra uomo e natura. Con una scarsa confidenza nel ruolo di un movimento alternativo dal basso, gli autori puntano il dito contro l’immutabilità dei comportamenti delle imprese, spalmate banalmente di puro “green washing”. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro quanto la guerra umanitaria ed ha bisogno essere sostenuto da combattenti agguerriti che sfoderino l’arma di una tecnologia diretta a limitare il danno ambientale post, non ante. Una tecnologia spesso sofisticata fino all’azzardo e di pura riparazione, che consenta la crescita almeno dei più forti, magari mettendo in conto che non c’è spazio per tutti su questo pianeta. Un armamentario che, anziché conciliarsi con la natura la piega all’espansione quantitativa di una singola specie, che confida nella propria intelligenza, nei mezzi finanziari, negli armamenti, tutti assolutamente limitati se non incompatibili con le leggi della fisica della chimica della biologia, ma in piena continuità con la società e l’economia capitalista. E qui, opportunamente ritornano i richiami spesso oscurati di quella primavera ecologica così promettente: (Nebbia) “passare dall’economia dell’abbondanza all’economia dell’abbastanza”; (Commoner) “non c’è attività umana a impatto zero”, mentre “l’approdo mancato” (pubblicato dagli Annali Feltrinelli nel 2017) viene qui coniugato come “l’approdo impossibile”, dopo un esame impietoso quanto rigoroso.
L’ultima parte del saggio contiene un’analisi dell’industria italiana in cui, finalmente, si pone a fondamento di una sua valutazione anche di prospettiva l’insistente ricorso a un eccesso di consumo di energie fossili, accompagnato da una resistenza anche politica allo sviluppo delle fonti naturali rinnovabili. Resistenza non a caso attribuibile ancor oggi prevalentemente alle imprese partecipate dallo Stato o dai comuni, ma ormai ampiamente privatizzate e sottoposte a criteri aziendali oltre che dirette da manager educati al ritorno di profittabilità a breve. Bilanci e utili compensati da sussidi statali, esecrati quando ricadono su cittadini previdenti, ma imposti in Parlamento dove trovano ascolto i consiglieri di amministrazione designati dai partiti. L’altro corno esplicitato e documentato come caratteristico della politica industriale del nostro paese non è indipendente dal quadro precedente: si tratta della chimica e della base ad idrocarburi che ne ha retto un’espansione letale per gran parte delle regioni italiane. Oggi siamo in affanno perché nei cinquant’anni passati non si sono fatti i conti con la crisi ecologica che indicavano i padri di una primavera sprecata e tradita.
A conclusione di un saggio ricchissimo di spunti e di informazioni e prezioso per la rilettura e rievocazione di una formidabile base culturale dell’ecologismo italiano (che, va detto, era rappresentativo di un insediamento delle sue radici nel sociale) viene richiamato l’originale – e per certi versi inaspettato – apporto al concetto di ecologia integrale dell’enciclica Laudato Si’ assieme alla vitalità dei movimenti degli studenti sospinti da Greta Thunberg. Manca ad oggi un consistente e autonomo contributo del mondo del lavoro, ancora indifeso e incapace di esprimere tutta la sua auspicabile creatività per una indispensabile riconversione. Una sfida alla cultura industriale esaminata e criticata da Poggio e Ruzzenenti che potrà divenire praticabile solo con l’apporto di chi sarà in grado di rivendicare, col supporto della ragione e sulla base di nuovi rapporti di forza, una destinazione del proprio tempo non solo alla retribuzione, ma alla indispensabile cura del Pianeta dove è sorta la vita.