Politiche ambientali. Un’introduzione

Il testo che segue apre (pp. 9-21) il numero 108 di “Meridiana” del 2023 dedicato in gran parte a un esame critico delle politiche ambientali in Italia. A seguire abbiamo riportato l’indice degli otto saggi che compongono la parte monografica.

La transizione ecologica è uno dei pilastri del progetto Next Generation Eu e costituisce una direttrice fondamentale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La seconda missione, denominata Rivoluzione verde e transizione ecologica, si occupa dei grandi temi che caratterizzano la questione ambientale: dal miglioramento nella gestione dei rifiuti rafforzando la raccolta differenziata e sviluppando nuovi impianti di trattamento, alla decarbonizzazione attraverso l’utilizzo sempre più intenso di fonti di energia rinnovabile, dal sostegno alla filiera dell’idrogeno al potenziamento del trasporto pubblico locale con mezzi a bassa emissione, dalla messa in sicurezza del territorio per contenere i rischi idrogeologici e salvaguardare aree verdi e biodiversità all’eliminazione dell’inquinamento delle acque e all’incremento della disponibilità di risorse idriche.

Un’agenda fitta che manifesta una indubbia consapevolezza pubblica relativa alla necessità di intervenire per colmare quel deficit ambientale che si è venuto configurando nel corso degli ultimi settantacinque anni circa. Solo in parte si tratta di istanze del tutto nuove. Esse rappresentano, infatti, l’esito finale di un lungo percorso di politiche e di interventi adottati dall’Europa nel corso degli ultimi decenni. Al tempo stesso, le ricadute sul piano energetico e ambientale prodotte dal complicato intreccio tra gli effetti della guerra tra Russia e Ucraina e quelli dell’innalzamento delle temperature causati dal cambiamento climatico, ne impongono una accelerazione.

Per quanto riguarda l’Italia gli ultimi cinque decenni e poco più sono stati caratterizzati dalla crescita nella società di una consapevolezza delle problematiche ambientali e dalla diffusione nel dibattito pubblico di una categoria come quella di ambienteche si fonda sull’idea di ricomporre la frattura epocale tra economia ed ecologia, tra mondo fisico da una parte e mondo della produzione e del consumo dall’altra. In questo stesso periodo è anche cresciuta, pur con differenze temporali e territoriali, l’attenzione dell’attore pubblico nei confronti di questi temi. E se gli anni ottanta e novanta del secolo scorso sono stati caratterizzati da una importante produzione di leggi e di interventi sul tema delle acque, dell’energia, delle aree protette, dell’inquinamento, dei rifiuti, delle bonifiche, soprattutto grazie alla presenza del partito verde in Parlamento, anche i primi decenni del terzo millennio hanno conosciuto un impegno in questa direzione maggiormente volto al riordino di normative esistenti come l’approvazione del Testo unico dei beni ambientali e culturali nel 1999, il Codice dei beni culturali e del paesaggio nel 2004, e nel 2006 il Testo unico dell’ambiente,

Ma se questo è il periodo in cui nella storia d’Italia è stata più assidua l’attenzione delle istituzioni pubbliche nei confronti dei problemi dell’ambiente, è pur vero che è anche la fase in cui più intensi sono stati alcuni processi distruttivi degli equilibri eco sistemici. Non è questa la sede per una loro disamina dettagliata Si vogliono ricordare qui solo alcuni esempi: l’allargamento dello sprawl e di un’espansione disordinata e sregolata delle periferie urbane che spesso in assenza di regolazione e sulla base di spinte illegali, rappresentano acceleratori di problemi ambientali e sociali; l’inadeguatezza del sistema impiantistico che riguarda lo smaltimento dei rifiuti urbani nelle regioni centro-meridionali ma anche dei rifiuti industriali e che alimenta spesso lo sviluppo delle ecomafie e dei cospicui traffici illegali di rifiuti; l’aggravarsi dell’intreccio tra questione sociale e questione ambientale con l’allargarsi delle fasce di popolazione più in difficoltà come quelle principalmente colpite dall’inquinamento e dall’inadeguata struttura dei servizi igienico-sanitari in molte aree urbano-industriali attive e dismesse; una accelerazione del consumo di suolo ormai svincolato dall’andamento della variabile demografica che riguarda sia terreni fertili e di pregio, che alvei dei fiumi e aree di massima pendenza spesso all’origine di eventi catastrofici e di dissesto idrogeologico; lo sviluppo di varie forme di abusivismo edilizio che investe oltre alle zone costiere anche aree particolarmente soggette a rischio sismico e vulcanico; i più recenti effetti del cambiamento climatico sulle disponibilità idriche e i drammatici problemi di siccità e di desertificazione; le gravi conseguenze prodotte dai processi di artificializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento; la riduzione della biodiversità con la riduzione delle specie vegetali ed animali oltre che della loro variabilità genetica.

Ed è da queste osservazioni che deriva la questione centrale intorno alla quale ruotano i contributi di questo numero di “Meridiana”. A quali criticità occorre guardare per spiegare questa contraddizione profonda che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni di vita del nostro Paese? Cosa impedisce agli interventi adottati e alle politiche pubbliche di “camminare” e di trovare una concreta attuazione? Un insieme di criticità e di inerzie sembrano derivare dagli aspetti più problematici e controversi dei meccanismi di applicazione di interventi messi in campo dall’attore pubblico. L’obiettivo è dunque quello di avviare una riflessione, di aprire un cantiere di ricerca di cui questo numero della rivista vuole essere un momento di avvio, su aspetti che riteniamo siano fondamentali nel far fronte alle sfide che il presente pone alle generazioni sia presenti che future e di cui le problematiche ambientali ne rappresentano uno degli aspetti cruciali.

Un primo insieme di problematiche riguarda il rapporto con le norme comunitarie. Il complesso delle politiche ambientali in Italia va collocato all’interno del percorso istituzionale e politico avviato con i lavori portati avanti dal vertice tra i capi di stato e di governo dei sei paesi membri organizzato a l’Aja nel dicembre del 1969 e successivamente in quello di Parigi, che, sotto la spinta del fervore organizzativo e del dibattito che animò i lavori preparatori alla Conferenza di Stoccolma del 1972, condussero all’approvazione del primo programma di Azione ambientale approvato definitivamente nel novembre del 1973. Nella fase che da questi anni giungeva fino alla prima metà degli anni ottanta furono individuati e definiti i temi e le finalità che troveranno nell’Atto Unico approvato nel 1986 quando era presidente della Commissione Jacques Delors, una più solida sistemazione giuridica. Secondo l’articolo 130 R l’azione della comunità in tema di ambiente ha l’obiettivo di salvaguardare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente; di contribuire alla protezione della salute umana; di garantire un’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Inoltre i principi ai quali doveva attenersi l’azione politica comunitaria, sebbene presenti già nei tre programmi di azione ambientale venivano ora definitivamente sanciti. Sempre nello stesso articolo si legge che l’operato della comunità in materia ambientale è fondao sui principi dell’azione preventiva e della correzione, nonché sul principio “chi inquina paga”1. Il filo rosso che ha tenuto insieme pur nelle inevitabili differenze le elaborazioni teoriche e politiche di questi anni, riguardava l’urgenza di coniugare l’economia e l’ambiente, l’industrializzazione e la salute dei cittadini, lo sviluppo e la protezione delle risorse naturali. La soluzione delle problematiche ambientali rientrava comunque in un’idea di cooperazione tra Stati diretta al rafforzamento di un’Europa intesa innanzitutto come entità economica per facilitarne la circolazione delle merci e potenziarne l’industria. Un’impostazione, quella di guardare ai problemi dell’ambiente coniugando sviluppo e tutela dell’habitat che avrebbe caratterizzato l’impegno delle istituzioni comunitarie, ispirandosi al contempo sia alle istanze produttive proprie della costruzione di un’economia europea integrata che a quelle più ampie e “planetarie” della sostenibilità intesa come superamento della povertà. Un insieme di istanze che avevano trovato una formulazione teorica chiara nel Report of the World CommissiononEnvironmentandDevelopment:OurCommonFuture, frutto dei lavori della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo istituita dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1983, pubblicato nel 1987 e conosciuto come Rapporto Bruntland.

In settori come quello agricolo si registra invece un evidente ritardo delle stesse politiche comunitarie nel tenere conto delle problematiche ambientali e coniugare le esigenze dell’ambiente con quelle della produzione agricola. Come ci spiega Rossano Pazzagli nel suo saggio, la Politica agricola comunitaria (Pac) tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta è stata dominata dai principi della Rivoluzione verde, ovvero un modello di agricoltura altamente industrializzata e fondata sull’uso massiccio di sementi selezionate geneticamente, prodotti chimici e macchine. Si è trattato di un indirizzo dominante e basato sulla specializzazione che ha finito per produrre gravi danni ambientali come la riduzione della biodiversità agricola e l’estensione delle monocolture, e sociali come il declino dell’agricoltura contadina. Solo tra gli anni ottanta e novanta anche la Politica comunitaria ha preso coscienza del fallimento di quegli indirizzi e della necessità di tutelare le aree agricole riscoprendo il valore delle risorse ambientali e della loro tutela. Con il Libro verde sulla Pac del 1985 e il lancio dei Programmi integrati mediterranei si andava affermando una visione indirizzata maggiormente verso produzioni agricole alternative e una migliore integrazione dell’agricoltura con le politiche di sviluppo rurale. Il cosiddetto Pacchetto Delors del 1987, che dedicava una prima parte alla riforma della Pac, aveva proposto di orientare le produzioni verso la qualità diversificando le produzioni e salvaguardando l’ambiente. La riforma MacSharry del 1992, da parte sua, segnava il passaggio da una politica di aiuto al settore agricolo fondata sul sostegno dei prezzi a forme di sostegno diretto dei redditi, introducendo nuovi obblighi per i coltivatori in materia di protezione dell’ambiente e incentivi per migliorare la qualità dei prodotti alimentari. Alla fine del secolo XX, il programma “Agenda 2000” confermava, in un quadro di ampio respiro, il rilievo riconosciuto alla multifunzionalità agricola, alla qualità e salubrità degli alimenti e alle pratiche di sostenibilità agro-ambientale. La valorizzazione e la tutela dell’ambiente sono ormai stabilmente presenti nei documenti di indirizzo e nei regolamenti che ne discenderanno; essi saranno ripresi pochi anni dopo anche nella successiva Riforma Fisher (2002), che oltre a favorire il sostegno unico al reddito, ribadiva tra gli obiettivi della Pac la buona conservazione dei terreni e il rispetto degli standard ambientali, di benessere animale e sicurezza alimentare. Si trattava tuttavia, come vedremo per altri settori, di politiche che non negano le esigenze dello sviluppo e della crescita, ma che tendono a contenerne gli effetti più distruttivi per l’ambiente e la società. A tale proposito Pazzagli sottolinea che il passaggio verso il riconoscimento del valore del paesaggio e della cura del territorio, della salubrità e della difesa del suolo hanno continuato ad andare di pari passo con esigenze produttivistiche e con le ragioni di una agricoltura improntata alla crescita e alla produzione industriale “Ma permaneva, in sostanza, – scrive l’autore – l’obiettivo prioritario dell’aumento della competitività e la difesa delle quote di mercato nel contesto internazionale. Ciò appare come l’arduo tentativo di mettere insieme la causa del danno e la sua soluzione, di sostenere l’agricoltura industriale e insieme la mitigazione dei suoi effetti ambientali”.

A fronte di questi indubbi ritardi, a confronto con altre parti del mondo i Paesi europei si caratterizzano per una spiccata sensibilità ambientale ed una importante tradizione di attenzione ai problemi dell’ecologia. Nonostante ciò, esiste una forte divaricazione tra la percezione e le reali performance messe in atto dagli Stati membri. Maurizio Franzini ha più volte ricordato che i vari fattori che concorrono a rendere deboli le amministrazioni pubbliche nazionali nell’attuare le norme comunitarie si ricompongono in un’unica fondamentale problematica e cioè “l’accondiscendenza che gli stati nazionali hanno nei confronti di queste inadempienze”2. Un’accondiscendenza che, d’altra parte, rende comprensibile il permanere indisturbato di contraddizioni e inefficienze indubbiamente prodotte dai conflitti interni alle istituzioni nell’ambito di alcuni settori cruciali della vita pubblica come quelli legati ai servizi ai cittadini e alla produzione di beni. Con questo strumento interpretativo possiamo analizzare anche per la situazione italiana l’agire ambiguo di un attore pubblico che si muove il più delle volte in maniera tortuosa e occasionale, e il cui operato è l’espressione di resistenze, conflitti, feroci lotte interne, inerzie di vario tipo.

Un primo gruppo di problematiche messe in evidenza dagli articoli pubblicati in questo fascicolo riguarda quelle generate dall’entrata in gioco delle Regioni nella tutela dell’ambiente e del territorio. È un tema che ricorre in queste pagine come una questione controversa. Lo segnala Salvatore Romeo nel ripercorre l’intero iter durato circa due decenni che ha portato alla stesura della legge Merli sulla tutala delle acque approvata definitivamente nel 1976. L’inquinamento delle acque era già dagli anni sessanta diventato oggetto di discussione e di dibattito tra tecnici e imprenditori, amministratori locali e poteri pubblici nazionali3. Considerata come il segno di una transizione da una impostazione igienista e unicamente fondata sulla tutela della salute ad un’altra invece diretta a proteggere le risorse naturali in sé, la legge Merli ha conosciuto un lungo percorso. Esso riflette l’evoluzione del modo con cui l’attore pubblico in Italia si è posto nei confronti della necessità di promuovere interventi in grado di contenere gli effetti distruttivi di uno sviluppo che teneva in scarsa considerazione l’impatto su risorse cruciali per la produzione di beni e di servizi.

La legge riguardava la disciplina degli scarichi nelle acque, e la definizione dei limiti di accettabilità delle sostanze inquinanti a seconda del tipo di insediamento, industriale o civile. Numerose furono le problematiche che, durante la sua approvazione, furono oggetto di punti di vista differenti tra le forze politiche e istituzionali: il termine di adeguamento degli scarichi industriali, l’adozione di una disciplina differente per gli insediamenti civili, la distribuzione delle spese relative alla realizzazione dei depuratori, ma soprattutto i più generali assetti istituzionali nella realizzazione della politica di tutela. L’autore mostra come in questa lunga fase si consuma un passaggio cruciale da una impostazione tecnocratica e centralista che aveva caratterizzato il Progetto ’80 e il Programma economico nazionale 1971-75, ad una fortemente influenzata dall’entrata in scena delle amministrazioni regionali. Nell’ambito del comitato Merli le istanze regionaliste portate avanti prevalentemente dalla giunta lombarda, furono sostenute da forze politiche come il Partito comunista “a dimostrazione della convergenza consolidata fra comunisti e una parte dei gruppi dirigenti delle nuove amministrazioni”. E se le funzioni di indirizzo rimasero di competenza dello Stato centrale, passarono alle Regioni la redazione dei piani regionali, la direzione dei sistemi di controllo e l’esecuzione delle operazioni di rilevamento dei corpi idrici. Una contesa, quella tra Stato centrale e Regioni, che finì con il compromettere una efficace applicazione della legge. Se, dunque, essa rappresentò un decisivo passo avanti soprattutto nella misura in cui stabiliva che tutti gli scarichi fossero sottoposti ad autorizzazione, non riuscì tuttavia ad invertire il processo di degrado delle acque in Italia. Emersero ben presto le inadeguatezze sul piano della realizzazione degli interventi, a causa della scarsità delle risorse necessarie e dell’impreparazione delle amministrazioni regionali, ovvero “dei soggetti che avevano rivendicato (e infine ottenuto) un ruolo centrale nella politica di tutela”.

Anche Luigi Piccioni e Giuliano Tallone ritornano sul tema delle implicazioni del trasferimento alle Regioni di competenze amministrative riguardanti la conservazione della natura tra il 1972 e il 1977. Un trasferimento di competenze che si tradusse, soprattutto in campo forestale, in una paralisi dovuta all’assenza di conoscenze tecnico-scientifiche e di personale adeguato. Un passaggio al quale non si poteva negare un aspetto positivo dovuto al fatto che l’iniziativa regionale gode dei vantaggi di una maggiore prossimità ai territori, alle loro potenzialità e alle loro esigenze e quindi “tende ad essere – almeno potenzialmente – più tempestiva e incisiva rispetto a quella governativa e ministeriale”. Un insieme di elementi che ha mostrato i suoi aspetti positivi nella creazione del sistema dei parchi regionali della Lombardia nel 1973. A fronte di questi aspetti, tuttavia, le regioni manifestano una diversa capacità di applicare le politiche di conservazione della natura. “La cartina di tornasole – scrivono gli autori – e il caso più visibile è quello delle aree protette, dove Lombardia e Piemonte operano rapidamente, in modo creativo ed efficiente e realizzando reti di parchi e riserve diverse ma esemplari in pari grado mentre le altre regioni seguono, alcune in modo abbastanza soddisfacente ma altre con ritardi via via più gravi e spesso con capacità di legiferare e di istituire riserve del tutto inadeguate. Il risultato è un quadro a macchie di leopardo che si è poi consolidato nel tempo”.

Una problematica, d’altra parte, lungamente trattata da una vasta letteratura e resa drammaticamente attuale proprio dal dibattito in corso sull’autonomia differenziata. Basti qui ricordare le riflessioni sviluppate da Salvatore Settis che riguardano il passaggio alle Regioni della tutela del paesaggio realizzata dalle leggi di decentramento degli anni settanta in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione che prescrive assoluta unitarietà dell’azione di tutela in tutto il territorio nazionale4. Questo passaggio fu realizzato con una grande confusione terminologica e normativa. “Nel decreto delegato del 1977 – scrive Settis – termini come “urbanistica”, “uso del territorio”, “ambiente”, “bellezze naturali”, “beni ambientali” furono usati in modo promiscuo, quasi fossero interscambiabili”5. Si finì dunque per confondere tre concetti, ovvero “urbanistica”, “paesaggio” e “ambiente”, che nonostante siano stati concepiti dall’attore pubblico con la finalità di trovare un equilibrio non distruttivo dell’impatto delle attività umane sulle risorse naturali, si sono formati in contesti storici profondamente differenti6. In altre parole, uno dei principali nodi interpretativi relativi alla debole incidenza degli interventi pubblici in tema di risorse ambientali si colloca all’interno di una problematica più ampia che riguarda i cambiamenti profondi introdotti dall’istituzione delle Regioni e che ci porta a individuare gli anni settanta del Novecento come una delle principali cesure nella storia dell’Italia repubblicana. Occorrerà dunque approfondire con ricerche di lunga lena questo particolare ambito di analisi per avere contezza dell’intricato groviglio di resistenze introdotto dalla moltiplicazione dei poteri pubblici e dalle loro profonde differenziazioni territoriali.

Sul tema delle difficoltà nel recepire le norme comunitarie in tema di politiche ecologiche per l’industria interviene Valerio Caruso mettendo innanzitutto in evidenza i ritardi con cui l’Italia recepiva la direttiva Seveso per la prevenzione e il controllo dei rischi industriali del 1982 con ben sei anni di ritardo con il Dpr n.175 del 1988. Si è trattato di norme di grande importanza proprio per aver consentito una mappatura delle industrie a rischio e un’individuazione delle sostanze dannose nonché delle soglie individuate per il loro impiego. Questi interventi, tuttavia, avviano un sistema di controlli estremamente complesso fondato sull’autorizzazione preventiva che introduceva una differenziazione di trattamento tra industrie a maggior rischio alle quali si imponeva un obbligo di notifica e altre a minor rischio soggette ad una dichiarazione contenente un minor numero di dati. Ulteriori complessità venivano introdotte anche con l’implementazione del sistema per le Valutazioni di impatto ambientale (Via) introdotto con Dpcm 377/88 e perfezionato anni dopo con il Dpr 12 aprile 1996. A tale proposito scrive l’autore: “Se a questo ritardo sommiamo anche le difficoltà nella comunicazione Stato-regioni, date in questo caso dal concorso di un numero elevatissimo di dicasteri ed enti nel rilascio di pareri ed autorizzazioni sulle varie tipologie di opere, non sorprende trovare, nei primi anni novanta, l’Italia in coda alle classifiche europee per numero di progetti in grado di compiere l’intero iter di Via”.

Con riferimento all’estrema complessità dei sistemi di controllo, l’autore prende in considerazione anche i problemi legati al decentramento che riguardano soprattutto la questione dell’inquinamento delle acque. Nonostante le critiche avanzate da più parti e fondate nel corso degli anni novanta sull’esigenza di combattere la frammentazione degli organismi competenti per accentuarne l’efficienza, il sistema inevitabilmente finisce con lo scontrarsi con l’esposizione degli organi pubblici alle pressioni degli interessi locali e con le effettive disponibilità delle risorse finanziarie degli enti regionali.

Resistenze e limiti analoghi a quelli individuati nell’attuazione dei provvedimenti di ecologia industriale si possono trovare nell’applicazione della legislazione che riguarda i Sin ovvero i siti di interesse nazionale. Una nuova consapevolezza pubblica delle problematiche legate al rapporto tra industria e ambiente era emersa già nel corso degli anni ottanta quando iniziava a farsi strada una concezione sistemica dell’inquinamento industriale che condusse all’introduzione (con la legge 8 luglio 1986 n. 3491) del concetto di “area ad elevato rischio ambientale”. E nel solco tracciato da questo cambiamento, nel decennio successivo il ministero dell’Ambiente ha sulla base del Decreto ministeriale del 20 ottobre 1999 n. 471 individuato 57 Siti inquinati oggetto di interventi di interesse nazionale (Sin). Nella maggior parte si è trattato di aree industriali dismesse oppure ancora attive che necessitano di opere di bonifica e di attività volte a ridurre le fonti di inquinamento.

L’esigenza di intervenire per la riqualificazione di queste aree si è posta con forza anche perché si tratta di aree all’origine di emergenze ambientali e sociali tra le più gravi nel nostro Paese. Lo studio epidemiologico realizzato dall’Istituto superiore di sanità e chiamato Progetto sentieri ha potuto verificare per questi siti non solo un eccesso di mortalità dovuta a diverse tipologie di agenti inquinanti, ma anche che si tratta di aree dove le popolazioni che vi abitano appartengono per una percentuale molto alta alle fasce più povere.

I Sin, dunque, rientrano nel quadro di una strategia nazionale volta al contempo sia al risanamento ambientale che al riutilizzo di aree contaminate e finalizzata a nuove forme di sviluppo. Salvatore Adorno mostra come i principali ostacoli alla realizzazione delle bonifiche siano da mettere in relazione alle modalità con cui si è configurato il rapporto tra pubblico e privato, tra amministrazioni e imprese. Il principale ostacolo ha riguardato la separazione tra la fase del risanamento dei suoli e quella del riutilizzo dell’area. Una separazione resa ancora più complicata dalla complessità delle procedure legate alla messa in sicurezza e al rilascio delle autorizzazioni e certificazioni. A ciò si aggiunga l’alto costo che i proprietari delle aree devono sostenere per gli interventi di bonifica che spesso superano il valore delle stesse aree, e che in molti casi sono considerati soggetti inquinatori quando invece hanno acquistato i terreni in tempi successivi ai processi di contaminazione. Ancora oggi sono molti i casi in cui si sono succeduti molti proprietari, e non è ancora chiaro chi deve addossarsi le responsabilità storiche dell’inquinamento di suoli ed acque.

Queste situazioni hanno prodotto contenziosi lunghi e di difficile soluzione che hanno di fatto paralizzato la realizzazione delle bonifiche. Secondo i dati che ci fornisce Adorno, “la durata lunga dei procedimenti calcolata al 2018 su 41 Sin è stata di 16,28 anni con il coinvolgimento medio di 19,97 soggetti pubblici e di 68,84 soggetti privati”. Si è trattato di circostanze che hanno aperto varchi a procedure poco trasparenti, al coinvolgimento di gruppi criminali, alla mancanza di controlli, all’affidamento a società pubbliche come la Sogesid che hanno svolto attività “opache” e non regolate da norme. L’autore, infine, ricorda che nei territori storici dell’industrializzazione chimica e petrolchimica le aziende che hanno avuto obiettivi strategici meno legati alla loro permanenza nei territori, spesso oligopoli multinazionali, sono state più disponibili ad aprire i contenziosi che hanno portato all’interruzione o anche all’abbandono dell’attività di bonifica.

Se dunque la difficile applicazione delle norme e delle procedure che riguardano gli interventi ecologici di risanamento dei siti inquinati di interesse nazionale si lega al difficile rapporto tra pubblico e privato, nel caso delle politiche energetiche le problematiche sembrano di diversa natura. E qui il tema della debolezza dell’azione statale si lega ad un altro ordine di problemi ovvero all’intreccio tra politica ed economia che ci rimanda al ruolo delle grandi aziende energetiche e al modo con cui si è venuto storicamente a configurare in Italia il loro rapporto con lo Stato.

Elisabetta Bini mostra come si è evoluto nell’ambito delle politiche pubbliche il nesso tra energia e ambiente. Pur avendo introdotto nei Piani energetici nazionali del 1981 e del 1985 importanti riferimenti alla tutela ambientale e all’uso delle rinnovabili, solo nel 1988 il Parlamento ha approvato un nuovo Pen che faceva riferimento alle fonti energetiche rinnovabili, all’ampliamento dell’energia geotermica, idroelettrica e allo sviluppo del solare e dell’eolico per usi industriali. A ciò si aggiungeva il Piano operativo di ricerca per il 1989 che prevedeva forti investimenti nelle rinnovabili e nel risparmio energetico, mentre nel 1990 il ministro dell’Ambiente stabiliva una serie di linee guida per ridurre le emissioni. Nonostante ciò l’Italia continua ad essere dipendente dall’estero per importazioni di fonti energetiche e in particolare da idrocarburi. Anche dopo la privatizzazione, Eni ed Enel continuano ad avere una posizione di quasi monopolio nella gestione delle questioni energetiche. In particolare l’Eni continua ad avere un monopolio di fatto sulle importazioni e sulle infrastrutture utilizzate per trasportare il gas naturale in Italia, costruite quando l’azienda era di proprietà statale. “Questa situazione peculiare – conclude Elisabetta Bini – si è tradotta in una forte dipendenza del governo dalle decisioni prese da aziende private il cui scopo principale è quello di aumentare i propri profitti”.

Sempre in tema di transizione energetica, in coerenza con gli impegni europei contratti con il Green Deal, l’Italia nel 2050 non dovrà più immettere gas serra nell’atmosfera. Per prefigurare un percorso che permetta di far fronte a questo impegno, il solo documento prodotto finora dalle istituzioni preposte è la Strategiaitalianadilungoterminesullariduzionedelleemissionideigasa effetto serra prodotta dal ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica nel gennaio 2021. Il documento ministeriale mostra il carattere controverso e ambiguo degli orientamenti governativi. Federico Butera nel suo saggio dimostra che una transizione alle rinnovabili intesa come è presentata in questo documento, ovvero come mera transizione tecnologica e realizzata all’interno di un sistema economico immutato e governato dalle leggi di mercato, non può risolvere la crisi ambientale. Infatti per allineare domanda e offerta di energia prodotta dall’intermittenza della produzione solare ed eolica, o nel caso delle emissioni “hard to abate” causate da alcune produzioni (acciaio, cemento, petrolchimico), esiste un residuo emissivo che per essere eliminato richiederebbe una trasformazione profonda dei cicli produttivi attraverso investimenti di lunga durata, riorganizzazioni produttive, innovazioni senza peraltro garantire un corrispondente immediato profitto.

Mentre per l’agricoltura si prevede di contare su un aumento della capacità di assorbimento dei boschi, nel caso dell’industria una tecnica che piace alle multinazionali del fossile è la Ccs ovvero la tecnica della cattura e dello stoccaggio della CO2. Si tratta di estrarre la CO2 contenuta nei fumi della ciminiera di una fabbrica o di una centrale elettrica e immetterla in una tubazione che la trasporta in luoghi adatti situati sottoterra come giacimenti esausti o acquiferi salini. Questa tecnica consentirebbe di usare le fonti fossili senza aumentare la concentrazione di CO2 in atmosfera. L’autore si chiede a proposito quale sarebbe l’impatto sugli ecosistemi, sul paesaggio, sulla disponibilità di risorse per la costruzione di una nuova rete parallela a quella del metano e che confermerebbe il modello lineare che ha portato all’attuale crisi ambientale. “La Ccs (Carbon Capture and Storage) – ricorda Butera – è una tecnica intrinsecamente insostenibile, perché si basa sul modello lineare estrai-trasforma-produci-usa-getta che ci ha portato all’attuale crisi ambientale perché è in contrasto col modello circolare che governa il funzionamento degli ecosistemi e della biosfera tutta”. Ma al di là di questi aspetti tecnici la questione interpretativa sulla quale Federico Butera invita a focalizzare l’attenzione riguarda in generale quello che, si è visto, rappresenta il tema centrale della riflessione europea e si potrebbe dire mondiale che ha caratterizzato la questione ambientale degli ultimi sessant’anni. Si tratta cioè del tentativo, sempre più problematico, di coniugare due ambiti e cioè l’ambiente e lo sviluppo che appaiono difficilmente conciliabili. In generale il ricorso ad una crescente quantità di energia in gran parte serve ad alimentare direttamente e indirettamente una crescente produzione di beni di consumo. Ciò vuol dire esercitare una crescente pressione sulle risorse e sulle stesse nostre basi di sussistenza di cui la letteratura scientifica internazionale ha ormai da tempo messo in evidenza la loro esauribilità e limitatezza. Per questo motivo la transizione energetica e più in generale quella ecologica non può fondarsi unicamente su cambiamenti tecnologici, occorre cambiare sistema di valori e modelli di comportamento. Scrive Butera in proposito: “Dobbiamo abituarci a essere sobri, a non lasciaci allettare dalle lusinghe della pubblicità che ci induce a volere quello che ha il vicino, anche se non ci serve, non ci migliora la qualità della vita. Abituarci ad acquistare un capo di vestiario durevole, magari più costoso, invece di dieci più a buon mercato ma resi obsoleti dalla moda dopo pochi mesi. Abituarci a scambiare i prodotti, a noleggiare invece di comprare quelli che ci servono occasionalmente. Abituarci a far riparare gli elettrodomestici, le apparecchiature elettroniche, invece di comprare tutto nuovo. Dobbiamo abituarci a mangiare meno carne, a comprare prodotti alimentari il più possibile a km zero e biologici – e sfusi, non avvolti in imballaggi monouso destinati a essere rifiuto. Chi vive in città deve abituarsi a non possedere l’auto, ma a fare ricorso al car sharing, quando occorre, privilegiando comunque la bici (anche elettrica) o il monopattino elettrico”. Sono i precetti dell’economia circolare secondo i quali per mantenere l’attuale livello di benessere occorre progettare fin dall’inizio le attività produttive con l’obiettivo di fornire beni non programmati a morire e pronti per essere recuperati fin dalla loro nascita. Un sistema di principi che trova la sua rappresentazione plastica nell’espressione Cradle to Cradle, dal titolo del libro di McDonough e Braungart divenuto ormai un testo cult dell’ecologia politica7.

Si può concludere questo breve excursus con la domanda intorno alla quale Maurizio Franzini fa ruotare la sua riflessione, vale a dire l’incapacità delle democrazie occidentali di raggiungere attraverso le politiche ambientali dei risultati efficaci. E cioè se il mancato funzionamento delle politiche ambientali derivi dal dissenso nei loro confronti da parte delle generazioni presenti, oppure se esso “va ricondotto a un difetto di funzionamento della democrazia”. In realtà le problematiche ambientali e in particolare il cambiamento climatico danneggiano i più poveri che non sono in grado di sopportare i costi delle politiche ambientali, mentre i ricchi, che si ritengono poco colpiti, non sono disposti a sopportare i costi di quelle politiche. “Mitigare i costi ambientali (sussidi, tasse ecc.) richiede interventi redistributivi, preferibilmente a carico dei più ricchi e delle forme meno accettabili di arricchimento. Se la transizione deve essere, come si dice giusta, non può fare a meno di misure redistributive che mitighino i costi per i più deboli e si finanzino attingendo al reddito (e alla ricchezza) dei più forti”. Il ragionamento dell’autore conduce al tema del crony capitalism e, quindi, alla capacità dei ricchi di condizionare le decisioni politiche attraverso diverse forme di lobby anti-clima. Basti pensare al grande potere di influenzare le decisioni di alcuni attori come le big oil – se ne è parlato a proposito del ruolo dell’Eni e del carattere strettamente tecnologico con cui si sta impostando la transizione energetica che lascia ampio potere al fossile -, che allontana non solo da una reale soluzione della crisi ambientale, ma anche dal contenuto di una democrazia ben funzionante. Per concludere, ci fa piacere riportare una frase tratta proprio dal saggio di Maurizio Franzini:

Non è la mancanza di consensi a spiegare le politiche, ma sono (anche) le politiche attuate o non attuate a spiegare la mancanza di consensi e a rafforzare gli effetti della unequal voice.

Indice del numero 108 di “Meridiana”

· Rossano Pazzagli, Le politiche tardive. Agricoltura e ambiente dalla Rivoluzione verde alla sostenibilità (1950-2000)

  • 1. L’equivoco «verde»
  • 2. Una politica senza l’ambiente
  • 3. Verso «Agenda 2000»: l’ambiente e le politiche rurali
  • 4. Conclusioni

· Salvatore Romeo, La tutela delle acque in Italia. Il percorso travagliato della «legge Merli» (1955-79)

  • 1. Introduzione
  • 2. La «questione delle acque» e le prime proposte di tutela (1955-68)
  • 3. La parabola del Ddl 695 (1969-72)
  • 4. Dalla «legge Merli» alla «Merli bis» (1976-79)
  • 5. Considerazioni finali

· Luigi Piccioni, Giuliano Tallone, Le politiche per la conservazione della natura

  • 1. Quale natura? Quale conservazione? Una storia lunga e tormentata
  • 2. Le lunghe radici della conservazione della natura in Italia
  • 3. La grande accelerazione, dagli anni sessanta
  • 4. Lo stato dell’arte

· Valerio Caruso, Riforme e politiche ecologiche per l’industria in Italia: spunti per una storia del principio di prevenzione

  • 1. La prevenzione del rischio: l’Europa, il ministero e i limiti della stagione delle riforme di metà anni ottanta (1986-92)
  • 2. Le tensioni degli anni novanta e Duemila: verso un’integrazione degli obiettivi e degli strumenti
  • 3. Prevenzione e innovazione tecnologica, un’agenda di ricerca

· Salvatore Adorno, La bonifica dei Siti di interesse nazionale. Il caso della Rada di Augusta

  • 1. I Sin tra prospettive di sviluppo, giustizia ambientale e inefficienze operative
  • 2. Il Sin di Priolo e la Rada di Augusta
  • 3. In Diritto
  • 4. Mercurio
  • 5. Epilogo

· Elisabetta Bini, Energia e ambiente. La lunga stagione dei Piani energetici nazionali (1975-88)

  • 1. Il dibattito sul Pen negli anni settanta
  • 2. Il nesso energia-ambiente negli anni ottanta
  • 3. Conclusione

· Federico M. Butera, Progettare e realizzare un mondo nuovo: Italia a emissioni nette zero nel 2050

  • 1. Introduzione
  • 2. Transizione senza trasformazione
  • 3. Italia a emissioni zero o negative nel 2050
  • 4. Crescita, Pil, benessere e stili di vita
  • 5. Considerazioni conclusive

· Maurizio Franzini, Il «fallimento climatico» e le sue ragioni

  • 1. Introduzione
  • 2. Il «fallimento climatico»
  • 3. Favorevoli e contrari alle politiche contro il cambiamento climatico
  • 4. La mitigazione dei costi e il consenso
  • 5. Il ruolo della disuguaglianza economica
  • 6. Lobbying, fossili e finanza
  • 7. In conclusione: democrazia, crony capitalism e cambiamento climatico

1 Si veda L. Scichilone, L’Europa della sfida ecologica. Storia della politica ambientale europea (1969-98), il Mulino, Bologna 2009.

2 M. Franzini, “Ambizioni e timidezze delle politiche ambientali europee”, in Le politiche per l’ambienteinItalia, a cura di G. Corona e R. Realfonzo, FrancoAngeli, Milano 2017, pp. 53-64.

3 Il problema della scarsità delle risorse idriche fu affrontato e preso in considerazione dal punto di vista della programmazione economica e della pianificazione territoriale, con un’attenzione particolare alla questione dei costi del risanamento delle risorse danneggiate dall’inquinamento. Il Senato aveva dedicato una serie di studi al tema della tutela delle risorse idriche dalle fonti inquinanti, pubblicati con il titolo Problemi dell’ecologia nel 1971 e I problemidelleacqueinItalia.Relazioniedocumentinel 1972.

4 Si veda S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degradocivile, Einaudi, Torino 2010, 2012 e 2019. Si ricorda che solo recentemente, nel 2022, la tutela è stata allargata all’ambiente, alla biodiversità, agli ecosistemi e agli animali. Un allargamento, d’altra parte, non sempre valutato come positivo. Si veda a tale proposito P. Carpentieri, C. Iannello, G. Montedoro, La concezione crociana di paesaggio nel diritto contemporaneo, Editoriale Scientifica, Napoli 2023.

5 Cfr. Settis, PaesaggioCostituzioneCemento, cit., p. 211.

6 Sulla nascita di questi concetti e la loro evoluzione nell’apparato normativo dei paesi del mondo occidentale si veda seppur in maniera sintetica il mio L’Italia dell’Antropocene. Percorsi ambientali tra XX e XXI secolo, Carocci, Roma 2023.

7 W. McDonough, M. Braungart, Cradle to Cradle. Remaking the Way We Make Things, Vintage Publishing, New York 2002 (trad. it. Torino 2003).