Postfordismo e sviluppo sostenibile

Negli studi sul postfordismo viene di norma elusa una questione inevitabile. Se il postfordismo è l’ultima parola in fatto di organizzazione della produzione se non della società, come si colloca rispetto alla problematica ambientale, considerato che la questione ecologica è la più recente tra le grandi questioni storiche della modernità?

C’è una coincidenza temporale tra il manifestarsi della crisi ecologica, alla conclusione del grande ciclo espansivo fordista, e l’impiantarsi di un nuovo modello produttivo che è alla base dell’attuale economia globalizzata; può quindi essere utile tentare di mettere in relazione due vicende che nella realtà sono intrecciate, imprimendo un segno forte e distintivo sulla fase storica più recente.

La parabola dello sviluppo estensivo dell’industrializzazione, facente perno sul sistema di fabbrica, si è dispiegata in poco più di un secolo. Se si considerano i paesi sviluppati, l’arco cronologico va all’incirca dal 1850 al 1970, con scarti temporali nelle due direzioni di qualche entità ma che, ad eccezione dell’Inghilterra, non superano i due/tre decenni. Nella prima fase domina il modello di fabbrica analizzato da Marx, la seconda è caratterizzata dalla diffusione del sistema taylorista-fordista. L’affermazione del capitalismo industriale, che modella lo stesso movimento operaio, produce contemporaneamente la questione ambientale moderna e il suo oscuramento, l’accettazione dei suoi costi, della sua incidenza sulle persone, a partire da quelle dei lavoratori, e sull’ambiente.

Con gli anni Settanta il processo di industrializzazione subisce un freno con fenomeni di deindustrializzazione dalla fenomenologia molto complessa (crisi delle aree di vecchia industrializzazione, diffusione territoriale della piccola e media impresa, spostamento degli impianti in paesi poveri). È solo in coincidenza con questa fase di completa ristrutturazione del sistema industriale che si delinea un vero e proprio movimento di opinione ambientalista e variamente antindustrialista. Si affacciano e si moltiplicano le istanze postmaterialistiche, acutamente analizzate da R. Inglehart((R. Inglehart, The Silent Revolution, 1977, trad. it., La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, Milano, 1983.)).

Mentre si appresta a vincere la sfida con il comunismo, il capitalismo abbandona la promessa di uno sviluppo universalistico e di una democrazia dei consumi; preso atto che esistono limiti ambientali alla crescita e limiti sociali allo sviluppo, viene messa in atto una strategia di aggiramento e di adattamento alla nuova realtà. Alcuni dati inoppugnabili quali il ruolo dell’informatica nel nuovo modo tecnico di produrre e la drastica diminuzione degli addetti all’industria nei paesi sviluppati, hanno indotto molti analisti a parlare di società postindustriale, il che, preso alla lettera, è sbagliato, trattandosi piuttosto di un salto di qualità dell’industrialismo (società “neoindustriale”). Si è verificata una forte discontinuità in termini organizzativi e tecnologici con effetti dirompenti sul fattore lavoro, oltre che sul ruolo dello Stato, ma ciò è avvenuto all’interno di una continuità rivelatasi molto più forte di tutti i cambiamenti.

Indagato sul versante dell’organizzazione del lavoro, il postfordismo non presenta le caratteristiche di innovazione epocale che gli vengono attribuite, sia perché prima del fordismo e accanto ad esso sono riscontrabili moduli organizzativi analoghi, sia perché il fordismo in molti casi è ancora ben presente e dimostra capacità di adattamento e innovazione. Dove innegabilmente c’è stata una rivoluzione è sul versante tecnologico, su sollecitazione del conflitto sociale e della lotta per il potere (da cui la preminenza accordata ai settori della comunicazione, dell’informazione, delle reti, con netta egemonia statunitense).

Lo sviluppo dell’informatica, con le sue enormi capacità di calcolo, simulazione, virtualizzazione, costituisce solo una funzione per rendere più vantaggioso il vecchio modo di produrre con risparmio di lavoro e incremento di produttività, oppure può essere alla base di nuovi prodotti, di un nuovo ciclo emancipativo ed ecologicamente virtuoso? Di sicuro l’innovazione di prodotto non discenderà deterministicamente dalla tecnologia disponibile, bensì dal contesto sociale e culturale, cioè dalle scelte degli attori sociali (non riducibili all’impresa). Per il momento si sono rafforzate le tendenze di fondo del modello industriale, per cui la sua eclissi relativa in alcune aree, o il fallimento delle varianti incapaci di internalizzare le novità organizzative e tecnologiche, rientrano nel processo della sua generalizzazione. Se ci si pone dal punto di vista del polo lavoro si può constatare come la diminuzione dell’occupazione complessiva nel settore industriale riguardi solo i paesi “maturi” e solo le situazioni in cui il posto di lavoro è ancora relativamente protetto.

Le innovazioni tecnologiche e organizzative, incentrate sulla flessibilità, vanno nel senso di una valorizzazione delle capacità individuali della forza lavoro, così come di una personalizzazione dei prodotti. Nei settori dove c’è stata una massiccia adozione dei sistemi flessibili di produzione è diminuita l’occupazione ed è migliorata la qualità del lavoro (ma alla fatica è subentrato lo stress). L’orario di lavoro però non diminuisce, anzi aumenta tanto nei paesi in “via di sviluppo” che in quelli di vecchia industrializzazione. Con ogni probabilità, pur in mancanza di statistiche attendibili, gli addetti all’industria su scala mondiale sono complessivamente tuttora in crescita. Si tratta, per altro, di una forza-lavoro sempre meno garantita, che sta perdendo i diritti sociali appena intravisti dal punto di vista delle condizioni di vita, della salute e sicurezza in fabbrica, della esposizione a sostanze inquinanti e, come detto, della stessa durata della giornata lavorativa. Il polo lavoro non è stato cancellato ma indebolito, frammentato, reso incapace di muoversi sul terreno della globalizzazione economico-finanziaria; da molto tempo le sue lotte sono puramente difensive, per cui sempre più i sindacati sono bollati di conservatorismo. Con una immagine brutale alcuni sostengono che i lavoratori si aggrappano alla corda che li impicca. A causa di un peso contrattuale sempre meno incisivo, è difficile pensare che riescano a riproporre, come avevano cominciato a fare nel recente passato, la questione di un cambiamento del modo e del cosa produrre, per salvaguardare la loro salute fisica e psichica ed eliminare le conseguenze negative sull’ambiente delle produzioni industriali.

Gli alti tassi di disoccupazione, la divisione internazionale e la grande segmentazione del mercato del lavoro, la forte concorrenzialità al loro interno, una condizione di crescente insicurezza, impediscono che i lavoratori, tanto nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo, svolgano un ruolo “ecologico” incisivo, essi vengono piuttosto usati in difesa dell’industria così com’è. Il modello industriale ha cambiato la fisionomia ma non la sostanza della sua azione plasmatrice della società e dell’ambiente. Contrariamente agli assunti delle rappresentazioni postmoderne, l’industrializzazione non ha cessato di intensificarsi e di andare sempre più in profondità. Basti considerare i trattamenti industriali a cui vengono sottoposti gli elementi naturali primari: terra, acqua, aria. Giustamente si pone l’accento sulle tecnologie che intervengono sulle basi stesse della vita ma questo è l’esito di un processo continuo di artificializzazione, di modificazione industriale dell’ecosfera. Gli interventi chimico-fisici nei confronti del suolo, delle acque e dell’aria sono di dimensioni imponenti e tutto è avvenuto in una frazione di tempo irrisoria non solo rispetto ai tempi della storia naturale ma anche di quella umana: attualmente vengono creati ogni anno 500 nuovi composti chimici e se ne impiegano in attività industriali più di 70.000 di cui solo per il 10% si hanno dati circa i loro effetti sugli animali((Cfr. D. Balducci, L’industria della scienza, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 337.)).

La politica non ha i mezzi per porre sotto controllo una dinamica che avanza irresistibile, con effetti imprevedibili, in un intreccio inestricabile tra volontà di sapere e ricerca del massimo profitto. Del resto le ideologie politiche moderne sono state prodotte dall’industrializzazione, sia quelle che l’esaltavano che quelle affermatesi grazie ai miti costruiti in risposta al trauma dello sviluppo industriale (la nazione, la razza, lo Stato eletto, lo Stato guida del socialismo, ecc.).

A fine ‘800, e anche dopo, gli stessi riformisti si proclamavano apertamente fautori del superamento del capitalismo. A distanza di un secolo la situazione si è capovolta, oggi il capitalismo è considerato un dato oggettivo, così come lo era in passato l’industrialismo, ed è solo alla spinta della modernizzazione che si affida la prospettiva di un futuro postindustriale, sotto forma di potenzialità tecniche inutilizzate per mancanza dei presupposti economico-sociali.

Nell’età delle tre guerre mondiali, l’ideologia del Progresso, tramontando, si è concretizzata in uno sviluppo senza precedenti, e questo ha trovato nella grande fabbrica il suo motore e il simbolo attorno a cui organizzare tutta quanta la società. Nel modello fordista, centrato sulla produzione materiale quantitativa, la fabbrica è il cuore della società, la quale in ogni suo aspetto deve essere organizzata in base alle esigenze del sistema produttivo; di qui la spinta alla pianificazione, la cui logica si impone a sistemi politici di segno antitetico. La società-fabbrica era finalizzata all’aumento della produzione, reso possibile dalla generalizzazione del sistema industriale e dalla intensificazione del progresso tecnico. Ci potevano essere differenze politiche, violenti scontri di interesse e lotte ideologiche, ma il Novecento è contrassegnato dal paradigma della crescita illimitata; il conflitto serve per stabilire quale forma politica è in grado di conseguire il maggior aumento di produzione, vale a dire il massimo di potenza. Questa concezione non è più dominante da quando ha cominciato a diffondersi la consapevolezza dei limiti geopolitici, sociali e ambientali dello sviluppo, ma non è stato sostituito da un altro paradigma con eguale forza egemonica (e non può esserlo il modello dello sviluppo sostenibile che appare il frutto di un compromesso).

Nell’ambito della Triade (Europa occidentale, America del Nord, Giappone) a partire dagli anni Settanta il rilancio dell’economia è avvenuto sulla base di un assetto produttivo neoindustriale che non fa più perno sulla fabbrica fordista. Nell’ottica della storia dell’industria ciò costituisce una sorta di rivoluzione, a livello tecnologico e organizzativo, ma questo avviene in piena continuità con l’industrialismo produttivista otto e novecentesco. A conferma del fatto che il capitalismo non può superare il produttivismo – senza negare se stesso – ma solo allargare e articolare la sfera della produzione includendovi non solo cose ed oggetti materiali ma beni immateriali e relazionali. Nel postfordismo, già nella fase della produzione, assume un ruolo cruciale la velocità di circolazione delle informazioni e delle merci (materie prime, semilavorati e prodotti finiti).

Un vero salto di qualità avviene nel rapporto tra lavoro e non-lavoro, tempo della produzione e della riproduzione, tempo di lavoro pagato e attività generiche. Nel postfordismo è messa al lavoro tutta la vita dei soggetti, mentre tramonta l’ideologia del lavoro tutti quanti diventano “lavoratori”. La produzione, al suo grado più alto, utilizza il corpo non meno delle capacità cognitive e tutto quanto il tempo libero; infatti la macchina si incepperebbe se attraverso il consumo non venissero sollecitati i desideri e le passioni delle moltitudini, sia come effettivi consumatori sia come aspiranti tali. Soprattutto i consumatori delle aree centrali si sottopongono ad uno sforzo senza precedenti che ha il suo corrispettivo nell’intensificazione del lavoro. L’attività lavorativa è sempre più coinvolgente, non si tratta più di una prestazione più o meno faticosa e però separata dal resto della vita, essa comprende in misura crescente il sapere, le capacità comunicative, relazionali, gli stessi sentimenti ed emozioni. Così come nel consumo è la vita che viene messa al lavoro.

La fine della separazione tra lavoro e vita è l’elemento cruciale; l’esistenza viene riunificata e resa “produttiva” senza più la possibilità di distinguere tra tempo di lavoro e di non-lavoro, il che rende fittizia la retribuzione in base alla durata della giornata lavorativa. Anche lo spazio tende ad essere permeato e i territori occupati da una fabbrica che può diffondersi ovunque mentre abbandona i suoi luoghi storici. Questo paesaggio sociale vede il proliferare di un nuovo tipo di lavoro a domicilio nell’era informatica. «La prima caratteristica del lavoro indipendente è la domestication del luogo di lavoro, è l’assorbimento del lavoro nel sistema di regole della vita privata», ne consegue che «la cultura e le abitudini della vita privata si trasferiscono sul luogo di lavoro», viene meno la separazione tra casa e fabbrica e l’esistenza, nel lavoro indipendente, è ridotta «a un unico ciclo socio-effettivo, quello della vita privata»((S. Bologna, Dieci tesi per la definizione di uno statuto del lavoro autonomo, in S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 16-17.)).

Le implicazioni molto impegnative del venir meno della separazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, così come dei confini tra fabbrica, società e territorio, richiedono una profonda riformulazione della teoria sociale: «La fine del fordismo, negando, almeno in parte, la separazione netta fra il momento produttivo e la vita ordinaria che caratterizzavano quella fase storica, richiede una teoria dei fatti sociali che abbracci, simultaneamente, tutti i lati della vita dell’uomo in società»((G. Becattini, in AA.VV., Un paradigma per i distretti industriali, (a cura di C. M. Belfanti e T. Maccabelli), Grafo, Brescia, 1997, p. 266.)).

Si apre qui una contraddizione, infatti l’enfasi posta sul fattore umano non dovrebbe far perdere di vista che tale risorsa per manifestarsi deve poter mantenere un ampio grado di libertà e autonomia, mentre una precoce e completa funzionalizzazione alla produzione è controproducente. È ormai acquisita la consapevolezza che lo sviluppo è condizionato da fattori storici e culturali molto di più di quanto previsto della teoria economica. «Recenti lavori sulla crescita economica hanno messo in risalto la parte svolta dalla manodopera, dall’istruzione e dall’esperienza, e dal cosiddetto “capitale umano”. Sono serviti a colmare il divario definito “residuale” dal modello neoclassico di crescita; nuove teorie hanno richiamato l’attenzione sulla funzione del fattore umano che stimola la crescita ben al di là di quanto faccia l’accumulazione di capitale fisico»((A. Sen, Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 105.)).

Per altro le valutazioni sulla centralità del fattore umano nel nuovo modo di produrre sono poi fortemente divaricate, segnalando un’ambivalenza del postfordismo, in cui coesistono individualismo e cooperazione. Secondo Enzo Rullani il «processo di costruzione delle reti globali e dei contesti locali, su cui si regge il nuovo modo di produrre, non è individualistico, mercantile, utilitaristico: al contrario, ha natura intrinsecamente sociale. Nasce infatti dalla riappropriazione dei “mondi della vita” compressi dal fordismo, e dall’uso delle energie in essi latenti: la creatività, la capacità di comunicazione, la voglia di cooperazione»((E. Rullani, La politica del postfordismo: un’agenda per la sinistra, in “Il ponte”, 1995, n. 4, pp. 22-23.)).

Come è noto, un aspetto molto interessante dell’economia postfordista è rappresentato dal fenomeno dei distretti, ben rappresentato, e studiato, in Italia. Oltre alle performance economiche, e anche per darne una spiegazione, gli specialisti hanno sottolineato la capacità dei distretti di fare integrazione e legame sociale. I distretti, che segnano una sorta di rinascita dell’industria rurale, meritano di essere studiati in termini di ecologia sociale, come faceva la scuola di Chicago con la sociologia urbana. Ma qui interessa piuttosto segnalare il rapporto tra attività produttive e ambiente naturale o costruito a livello di distretto, laddove la coincidenza tra residenza e fabbrica, l’intreccio a maglie strettissime tra produzione, territorio, ambiente di vita, dovrebbe favorire la presa di coscienza e l’uso accorto del capitale naturale disponibile. Per quel che riguarda il ciclo storico dell’industrializzazione il panorama rischia di essere sconfortante, la situazione attuale è conosciuta solo in modo impressionistico. È significativo però che Rullani veda a livello di sistemi locali il terreno su cui implementare politicamente il postfordismo, attraverso progetti di riqualificazione della vita urbana e progetti di recupero e tutela dell’ecosistema naturale.

In effetti il modello distrettuale, strutturato su reti di imprese, presenta le migliori caratteristiche per sperimentare la proposta di un’ “ecologia industriale”, basata su un insieme diversificato di aziende che formano una catena di impianti (cluster) in cui gli scarti dell’una forniscono la materia prima dell’altra. Secondo Wolfgang Sachs, avendo come fine ultimo una produzione nulla di rifiuti, questo schema rappresenta la tipologia ideale in una nuova era del limite. L’obiettivo è quello di riproporre a livello di tecnologie sofisticate la tendenza alla chiusura dei cicli produttivi che caratterizzava le economie tradizionali, realizzando una convergenza tra ricerca scientifica orientata ecologicamente e saperi formatisi storicamente nell’uso e manutenzione del capitale naturale.

Sarebbe così possibile recuperare, in un contesto industriale avanzato, comportamenti e saperi che nella gestione del rapporto con l’ambiente naturale e costruito hanno consentito la formazione di quelle risorse umane rivelatesi decisive per il successo economico dei distretti produttivi e dei sistemi di piccole e medie imprese. Come risulta dall’ipotesi secondo cui il capitale sociale, il patrimonio di fiducia, il legame sociale informale, le pratiche cooperative sono strettamente legate alla capacità-necessità storica di trovare soluzioni collettive alla conservazione e valorizzazione delle risorse naturali. In una tale ottica il patrimonio territoriale viene concepito come il «codice genetico per lo sviluppo locale autosostenibile» (A. Magnaghi).

Una prospettiva che comporta una inversione di tendenza, almeno per le merci materiali e i flussi della forza-lavoro, rispetto alla dispersione nello spazio degli impianti produttivi e il conseguente enorme aumento dei trasporti su lunga distanza. La proposta è quella di un rafforzamento equilibrato delle economie locali e regionali, rispondendo ad istanze d’ordine economico, ecologico e sociale, che stanno entrando in rotta di collisione con la logica dominante della specializzazione competitiva.

Rispetto a questi obiettivi l’assetto produttivo postfordista realmente esistente, specie in Italia, presenta aspetti altamente problematici. Il suo dispiegarsi, successivo al fallimento delle politiche di pianificazione, ha fatto sì che il territorio venisse consumato in modo abnorme e irrazionale. L’impatto ambientale, specie nelle situazioni ad economia diffusa, non è stato preso in considerazione, cosicché «fino agli anni Ottanta gli aspetti connessi alle esternalità erano totalmente ignorati nella stima dei costi di produzione a causa delle difficoltà che comporta la loro quantificazione»((A. Lorenzoni e M. Fontana, in “Energia blu”, 1998, n. 2.)). Del resto anche gli attori sociali procedevano in modo schizofrenico: di norma gli operai erano ostili alle lotte delle popolazioni interessate dall’inquinamento, mentre queste ultime ignoravano le lotte dei lavoratori per la salute e la sicurezza.

A tutt’oggi non sembrano in via di superamento due aspetti critici dell’assetto postfordista a carico dell’ambiente: a) la disseminazione delle unità produttive con i connessi problemi di controllo delle emissioni, così come delle situazioni interne dal punto di vista della salute e sicurezza; b) l’impatto di una rivoluzione della logistica, che riguarda non solo i prodotti finiti ma l’intero ciclo delle materie prime e dei semilavorati, coinvolgendo il trasporto su gomma e rotaia, la navigazione fluviale e marittima. In particolare risulta evidente la contraddizione tra vantaggio economico e danno ecologico che deriva dal ruolo cruciale assunto dai networks di subfornitori, con la conseguente enorme espansione dei trasporti specie su gomma, tanto su brevi che su lunghe distanze.

Egualmente penalizzante finisce con l’essere il posizionamento della nostra industria nei settori tradizionali, quelli in cui l’artigianato e le PMI hanno mietuto i maggiori successi. L’efficienza economica delle PMI italiane non è stata accompagnata da una adeguata innovazione tecnologica per la mancanza di forti sostegni alla ricerca. Per superare l’arretratezza dell’Italia nei comparti ad alto contenuto tecnologico, solo recentemente è stato proposto il sostegno alle imprese “eco-efficienti” (certificazioni EMAS, ECOLABEL, ecc.), con «un forte impegno nella ricerca e nella innovazione di processo e di prodotto, che assume la qualità come asse strategico per l’affermazione sui mercati: sapendo che oggi parlare di qualità significa soprattutto parlare di sostenibilità ambientale»((S. Cofferati, Il filo rosso dello sviluppo sostenibile, in “Testimonianze”, 1999, n. 5, p. 72.)). L’Italia vanta primati mondiali in alcune significative nicchie produttive ma è all’ultimo posto nella UE quanto a impianti e produzioni industriali tecnologicamente avanzate ed ecocompatibili.

L’innovazione di prodotto (il cosa produrre) è alla portata delle potenzialità scientifico-tecnologiche disponibili, ma incontra un ostacolo difficilmente superabile nel calcolo economico dominato dalla convenienza immediata, ed ancor più arduo è il confronto con l’ideologia del mercato impegnato a celebrare la sua vittoria politica. È senz’altro vero che il liberismo serve a smantellare le strutture ereditate dal fordismo; quelle che non si intravedono sono nuove istituzioni con cui governare il rapporto economia-società-ambiente. In questo, che non è un vuoto ma un territorio ingombro di macerie, rischia di incepparsi la stessa transizione dal fordismo al postfordismo.

Una contraddizione analoga emerge considerando la funzione dell’informazione e della comunicazione nei nuovi processi produttivi, che si avvalgono delle capacità cognitive del lavorare cooperando. Come hanno messo in luce le interpretazioni che parlano di “modello della cooperazione comunicativa”, fondato sulla “conoscenza e il sapere collettivo informali”, nel contesto di una sorta di svolta cognitiva in risposta alla crisi del modello taylorista e fordista((Cfr. C. Marazzi, Il lavoro autonomo nella cooperazione comunicativa, in S. Bologna e A. Fumagalli, op. cit., pp. 45 e sgg.)). E però la situazione sociale dei nuovi lavoratori rende la cooperazione “anoressica”, l’organizzazione concreta del lavoro mortifica le potenzialità della svolta cognitiva.

«Tutti gli osservatori, di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, convengono che l’informazione e la conoscenza sono diventate il nuovo fattore produttivo primario»((P. Pellizzetti in “Micromega”, 1998, n. 4, p. 222.)). Ciononostante i “lavoratori che sanno”, lungi dal costituirsi in classe generale, rimangono chiusi in un isolamento individualistico. Come sostiene Richard Sennet, nel capitalismo flessibile le forme di lavoro si vanno individualizzando e intimizzando, il lavoro non svolge più un ruolo di mediazione tra pubblico e privato, diventando sempre più un’esperienza individualizzata, segnata dalla disintegrazione del tempo in frammenti senza la possibilità di costruire un progetto di vita, incompatibile con l’imperativo della flessibilità: il postfordismo si rivela una tecnica profonda di privatizzazione. Se questa analisi è giusta le riserve di capitale sociale, che hanno sostenuto lo sviluppo delle economie diffuse basate sulle piccole imprese e la microelettronica, sono destinate ad esaurirsi in tempi brevi.

La centralità del lavoro autonomo nel postfordismo non riflette unicamente una nuova forma di organizzazione del lavoro, in una tale ottica gli elementi di autonomia non vanno oltre una autorganizzazione di attività spesso fortemente dipendenti e subordinate, anche quando sono inserite in circuiti cooperativistici. È però un fatto che l’attività lavorativa concreta è contrassegnata da una crescente richiesta di capacità autorganizzativa, indipendentemente dalla natura giuridica del rapporto di lavoro. In tal modo i cambiamenti che concernono l’organizzazione del lavoro si inseriscono in un processo storico di formidabile portata dispiegatosi nelle società industriali negli ultimi decenni, riassumibile sotto il concetto di privatizzazione, da intendersi in termini economici e sociali ma ancor prima culturali e antropologici. I tempi e le modalità del crollo del socialismo reale hanno segnato l’esito più eclatante di una tendenza straordinariamente pervasiva. La nuova economia ha tratto beneficio dal processo di liberazione di energie individuali e ha incentivato la spinta all’affermazione individualistica, alla crescita di una società di individui che rivendicano come valore primario e meta principale, se non unica, quella della libertà, con una evidente e clamorosa inversione di tendenza rispetto alle masse organizzate ideologicamente, politicamente ed economicamente dell’era fordista.

Con il postfordismo diventano egemoni due processi simmetrici ed opposti a quelli che si erano dispiegati nel fordismo: individualizzazione e globalizzazione di contro a massificazione e nazionalizzazione. I protagonisti della nuova economia sono gli individui connessi tra di loro attraverso le reti; è questo assetto che scompagina la forma dello Stato/nazione sotto l’azione di una classe transnazionale che si autorappresenta come l’anticipazione di una democrazia cosmopolitica. Essa ha il suo corrispettivo nelle moltitudini in movimento da un paese all’altro, da un continente all’altro, sottoposte ad un ordine biopolitico informale che segnala tutta la distanza che separa la superficie dagli strati profondi, dentro e fuori dall’Occidente.

Nonostante gli aspetti cooperativistici e comunitari, riscontrabili ad esempio nelle economie distrettuali, il postfordismo rientra pienamente nel grande ciclo della individualizzazione-privatizzazione antropologica, economica e sociale. Se questo percorso sfocerà in un individualismo maturo, capace di riconoscere l’eguale dignità ed irripetibilità di ogni persona, di ogni forma di vita, con le conseguenze che ne derivano sul piano dei valori e delle scelte, è ancora presto per dirlo. Per quel che qui ci interessa, nella sua forma attuale l’individualismo e il modello produttivo ad esso confacente sembrano molto lontani dal poter affrontare le emergenze ambientali globali che sempre più chiaramente si stanno delineando; d’altro canto la privatizzazione esprime un trend antitetico alle deboli prese di coscienza circa l’impellente urgenza di adeguata tutela dei common goods (i beni comuni indivisibili come l’aria e l’acqua), per non dire del più sofisticato traguardo del mantenimento del “capitale naturale” (si pensi alla biodiversità e alla molteplicità ecosistemica). Nondimeno esistono strategie possibili, ad esempio coniugando individualismo e qualità della vita, in nome della riappropriazione del tempo, ma affinché questo avvenga occorre la piena internalizzazione della questione ambientale – storicamente la maggiore novità e conseguenza negativa dello sviluppo – sia nell’analisi socioeconomica sia nelle agende politiche.

Secondo i suoi teorici la frontiera del nuovo modello, il suo limite problematico, sono rappresentati dall’ambiente umano e sociale non certo dall’ambiente naturale, la cui riduzione funzionale viene considerata un obiettivo già raggiunto. Nel modello industrialista fordista la natura veniva dominata dall’esterno, attribuendo alla tecnologia una potenza soverchiante e quindi la capacità di imporre comunque i suoi obiettivi, spezzando e superando i vincoli naturali. Con il postfordismo, che vuole aggirare la crisi ecologica indotta dalla rozzezza del primo industrialismo, l’approccio cambia e diventa fondamentale la capacità di raccordare la produzione al mondo della vita; utilizzando il sapere tecnico-scientifico il nuovo assetto dell’economia generalizzata punta al controllo e alla manipolazione interna a fini produttivi dei sistemi viventi. In questa fase la scienza di riferimento non è più la fisica ma la biologia. Se da un lato il lavoro dei singoli uomini concreti diventa sempre più astratto e immateriale, dall’altro il capitale saldatosi al sapere riesce a «partecipare attivamente alla vita della natura per trasformarla e socializzarla sempre più profondamente ed estesamente»((A. Gramsci, Quaderni dal carcere, vol. III, Einaudi, Torino, 1975, p. 1540.)).

Mondo e ambiente, storia e natura, sono intrecciati e ogni contrapposizione statica è ideologica, frutto di un disagio e della ricerca di una compensazione: l’intervento umano sugli esseri viventi ha una lunga tradizione. Di sicuro però le forme attuali più avanzate di azione umana tecnologizzata sulla natura come materia vivente, sulle forme di vita, comportano possibilità, problematiche e rischi inediti. Non ci sono ancora gli elementi per una valutazione della portata economico-industriale delle tecnologie applicate alla vita (dalle biotecnologie in campo vegetale ed animale sino all’intervento sul genoma umano, anticamera della fabbricazione del vivente umano). Al momento la discussione è incentrata sugli aspetti etici anche se la questione degli alimenti transgenici comincia ad avere un rilievo importante in campo commerciale ed agricolo. Può darsi che l’individuazione di pericoli per la salute e l’ambiente faccia declinare alcune delle linee di sviluppo produttivo attualmente in discussione, in ogni caso questa sembra essere la nuova frontiera della tecno-scienza. Se tale previsione è giusta le conseguenze sulla produzione potranno essere da un lato congruenti con il paradigma postfordista, visto che si accentuerà ulteriormente l’incidenza della dimensione cognitiva sino alla produzione industriale delle forme di vita, dall’altro saranno foriere di un ritorno ad una concentrazione dai tratti monopolistici e assolutistici. In effetti né il mercato né la democrazia sembrano in grado di affrontare questo tipo di sfida più ardua e selettiva di quella informatica. Si consideri che in tale nuovo e un po’ sconvolgente comparto merceologico non c’è spazio per la diffusione e la dispersione che, sia pure con molte contraddizioni, ha caratterizzato l’era dei computer; le sue caratteristiche sono tali da far pensare ai tradizionali assetti oligopolistici della petrolchimica e dell’industria farmaceutica, mentre si delinea una condizione postumana, visto che l’uomo non si limiterebbe a sfruttare le risorse naturali e ad usare la materia vivente, egli riuscirebbe a crearla a suo piacimento, ivi inclusi i suoi “simili”.

Entriamo in uno scenario con tre polarità reciprocamente conflittuali, costituite rispettivamente dalle grandi imprese globalizzate, gli stati-nazione o altre forme politiche portatrici di interessi territoriali, la galassia composita dei movimenti che criticano o rifiutano l’applicazione industriale delle ricerche di genetica e biologia. Per un insieme di motivi, tutte quante scontano un deficit di consenso e legittimazione; ci si avvia quindi a superare una soglia di non ritorno in un contesto fluido se non caotico, dominato da uno sviluppo tecnico-scientifico che avanza inarrestabile e a velocità crescente, sino a presentarsi come un processo automatico, non più controllabile, per cui nell’esperienza della generalità degli uomini la “seconda natura” rischia essa di diventare un regno selvaggio della necessità: «atomizzati, incapaci di comprendere il mondo in cui vivono (…), gli individui civilizzati tendono a regredire, a ridiventare in qualche modo selvatici»((C. Formenti, Mito e secolarizzazione nella cultura tardo-moderna, in “Iride”, 1994, n. 12, p. 382.)).

Abbiamo ereditato dal passato complesse e potenti giustificazioni al dominio illimitato della natura, l’Occidente trae ancora la sua principale fonte di legittimazione ideologica dall’incontro vittorioso di tecnica e libertà, al punto da poter accampare una sorta di diritto al dominio. Ma proprio questa vittoria eccessiva ci immette in una realtà ulteriore, in cui sembra possibile una illimitata manipolazione della vita. Con il passaggio delle biotecnologie dalla fase della sperimentazione alla produzione industriale (organismi geneticamente modificati della Monsanto, ecc.), il postfordismo si autotrascende: da forma di organizzazione del lavoro centrata sull’elettronica all’avvento non più futuribile della progettazione e produzione della materia vivente, all’evoluzione della natura sottomessa alla tecnica.

«Il trionfo dell’elettronico – osserva Carlo Formenti – disegna un orizzonte di smaterializzazione del mondo, in cui teoria, modelli, immagini non appaiono più rappresentazioni della realtà ma dispositivi per la creazione diretta di nuova realtà, fino ad appiattire quasi completamente il reale sull’immaginario». Ma è con la ricerca genetica e le biotecnologie che «l’idea di seconda natura evoca sempre meno l’immagine della materia inorganica animata e resa “intelligente” e capace di agire autonomamente dall’opera dell’uomo: al suo posto si sta installando piuttosto l’immagine della materia organica che plasma se stessa». La materia vivente non è più affidata alle leggi del caso e dell’evoluzione, essa si avvia ad incorporare un “progetto” reso possibile dallo svelamento scientifico del segreto alchemico sull’anima mundi. La differenza, rispetto al mondo della magia, è che «oggi tutto ciò avviene al di fuori da qualsiasi mediazione simbolica, si produce come mero effetto automatico di un dispositivo totalmente laico e secolarizzato, il quale non si interroga affatto sul significato del proprio operare»((C. Formenti, op. cit., pp. 390-392.)).

La biologia, agendo tecnologicamente sul genoma di piante, animali, in prospettiva esseri umani, diventa un ramo dell’industria; attraverso la smaterializzazione e informatizzazione passiamo dalla biosfera, concettualizzata da Vernadskij all’inizio del ‘900, alla “infosfera”, che secondo Paul Virilio finirà col disintegrare non solo le società e le culture, ma concorrerà a produrre mutazioni incontrollabili delle forme della vita presenti sulla terra. L’angoscia di fronte alla distruzione della natura si può così accompagnare alla regressione “naturalistica” di soggetti-individui che si inseriscono in un paesaggio senza storia, nel presente assoluto del “tempo reale” che attua in forma parodistica il regno dello spirito.

Smaterializzazione, simulazione, virtualizzazione sono diventate parole chiave nel nuovo modo di produrre; non è più solo l’arte che libera l’uomo dalla “cattività della natura” ma è la tecnica che oltrepassa ogni limite: inquina e ci libera dall’inquinamento, distrugge e crea portandoci interamente sul suo terreno. La tecnologia conquista la terra e si proietta nello spazio, e sarà sempre più il controllo dello spazio a rendere possibili le forme più efficaci di governo e dominio della terra. Le distanze perdono di significato perché vengono divorate dalla tecnologia ma questo non ha impedito il delinearsi di una controtendenza, lo spazio viene annullato ma i “luoghi” resistono e si moltiplicano, tutti coloro che possono farlo si creano delle “nicchie ecologiche”. Più difficile appare la resistenza (o l’adattamento) alla compressione del tempo per effetto della velocità crescente; il “tempo reale” ci immette nel mondo della comunicazione istantanea che né il corpo né l’anima, né la storia naturale né quella culturale della specie sembrano in grado di poter padroneggiare; di qui il rischio di un oscurantismo post-scientifico, «connesso con il “tecno-culto” di una scienza senza coscienza, a cui affidare il governo della propria sensibilità in un ambiente di vita sempre più artificializzato»((U. Fadini, Paesaggi tecnologici, in “Mimesis”, 1994, n. 2, p. 132.)).

Le conseguenze culturali della smaterializzazione e del virtualismo attendono ancora una piena elaborazione, specie sul versante della memoria, del rapporto tra presente e passato. Può servire da esemplificazione il brusco cambiamento che sta investendo la storia dell’industria. La fine del fordismo ha dato il via all’archeologia industriale, con complesse ed interessanti problematiche d’ordine urbanistico e architettonico, di storia sociale e della tecnica, ma con il postfordismo tutto ciò sembrerebbe azzerato, spariscono i monumenti e i documenti: i suoi edifici non hanno forma, sono modulari, intercambiabili, privi di identità; le sue memorie sono elettroniche, cancellabili, obsolete, diventano illeggibili e precipitano nel tempo senza storia del digitale. La tecnologia più pervasiva mai apparsa, capace di eccezionali exploit, di cambiare pervasivamente la faccia del mondo, i paesaggi urbani e quelli umani, di mettere al lavoro gli elementi primi della vita, non evoca più l’immagine di una “scatola nera” da decifrare ma quella di un “buco nero” che inghiotte interamente la trama del passato più vicino, il tempo della vita. Tutte le storie, come tutte le tradizioni, culture, modi di essere e di produrre, in compenso, sono continuamente riattualizzati, compresenti e contemporanee, senza profondità, lontananza, spessore, senza nemmeno più una successione temporale ordinata, come si conviene ad una società astorica. Non sono cambiamenti da poco, rapidi e silenziosi disegnano il contesto culturale del postfordismo.

Sullo sfondo di una natura “altra”, l’uomo attraverso il lavoro costruiva il suo mondo addomesticando l’ambiente. Ma il concetto di lavoro cambia di significato allorché l’industrializzazione porta a compimento la costruzione del mondo facendone un “ambiente” di secondo grado, una “seconda natura” in cui poter vivere in condizioni di sicurezza. Non avendo un ambiente per sé, una sfera vitale che le consenta la sopravvivenza, la specie umana è gettata nel mondo e deve affidare al lavoro il ricambio organico con la natura. Il mondo sarebbe invivibile se non fosse mediato dal lavoro, ma paradossalmente ora è l’ambiente di secondo grado, il mondo creato dall’industria che evoca il rischio di una crescente invivibilità.

La costruzione del mondo è avvenuta in un tempo che chiamiamo storia, ma, quando l’attività di trasformazione si è dispiegata in un processo incessante e accelerato, allora l’uomo ha dovuto riconoscere l’esistenza dell’ambiente che stava cancellando; anch’egli è costretto entro una nicchia ecologica seppure grande quanto il pianeta: la biosfera. Che accetti o meno tale condizione, si è verificata una svolta, che riguarda tanto la storia quanto il lavoro, vale a dire l’attività trasformatrice dell’uomo nel tempo. Mentre il lavoro, come mediazione tra cultura e natura, accresce enormemente le sue potenzialità, l’uomo, cioè la specie, dovrebbe prendere atto di limiti invalicabili. Non la natura in quanto tale, che sovrasta illimitatamente l’uomo nelle dimensioni del pianeta per non dire del cosmo, ma l’ambiente di vita della specie umana lungi dall’essere una risorsa inesauribile e una frontiera sempre da oltrepassare è fragile e limitato. La modernità senza negarsi dovrebbe diventare riflessiva, l’economia da quantitativa a qualitativa, la costruzione del mondo un’alleanza con la natura piuttosto che un artificio astratto. Il che implica un padroneggiamento della tecnica in nome dell’interesse collettivo dell’umanità, facendo della crisi ambientale la base per un radicale riorientamento del sistema produttivo, di fronte agli esiti di una dinamica storica che non viene più accettata come un destino ineluttabile.

La convinzione prevalente è molto più semplicistica e prevede che l’utilizzo di tecnologie pulite, vale a dire che consumino il minimo di energia, di materie prime e risorse naturali, con il minimo di scarti residui, sia in grado di attivare cicli artificiali sostenibili. Tale ipotesi ha il vantaggio di inserire la questione ambientale in uno scenario tecnologico di alta qualità, vale a dire omogeneo con il paradigma culturale dominante in Occidente. Sulla base di tale impostazione il modello dello sviluppo sostenibile, che prevede il mantenimento del capitale naturale, potrà essere rispettato solo con un forte impulso dell’innovazione tecnologica, aumentando i rendimenti e diminuendo il consumo delle risorse naturali.

Secondo uno scenario ottimistico, facente perno sulle inesauribili risorse dell’homo faber e su una rinnovata “intelligenza della storia”, il postfordismo si configurerebbe come la fase di transizione che ha reso possibile il passaggio ad una economia senza crescita, in cui lo sviluppo qualitativo realizza il superamento della crescita quantitativa. Concorrerebbero a tale esito tre fattori principali evidenziatisi negli anni Novanta: a) l’inversione del trend demografico mondiale; b) la diminuzione della domanda di energia; c) la smaterializzazione dell’economia (tanto sul versante del prodotto che del lavoro). La conclusione è che lo «sviluppo realmente moderno (postindustriale) risulta pochissimo “esigente” in termini di spazio, d’energia, di carryng capacity»((G. Cannata, L’ambiente e la fine della crescita, in “Il ponte”, 1999, n. 9, p. 126.)). Posizioni più radicali sostengono che tali risultati sono il frutto di meccanismi endogeni di riaggiustamento da parte del sistema, per cui non c’è bisogno di politiche ambientali dato che la protezione dell’ambiente entra spontaneamente in agenda superata una determinata soglia di benessere; in una economia di mercato tutt’al più si può pensare a strumenti come i “permessi di inquinamento” liberamente negoziati. In realtà tutte queste argomentazioni ruotano attorno alla possibilità di sostituire il capitale naturale con altre forme di capitale costruito o artificiale (una tendenza che investe apertamente i global commons a livello di biosfera, passando attraverso la loro privatizzazione).

In una prospettiva immediata le innovazioni tecnologiche e organizzative del postfordismo diventano gli strumenti per realizzare lo sviluppo sostenibile. Così se le biotecnologie utilizzano solo «modestissime quantità di risorse materiali ed energetiche», la realtà virtuale «consente di effettuare qualsiasi operazione senza supporti fisici», e l’informatica chimica, capace di mandare messaggi come il sistema nervoso o immunitario, lascia intravedere ulteriori enormi possibilità. Passando dagli scenari alle caratteristiche puntuali del postfordismo, l’accento viene posto ancora sul loro contributo alla dematerializzazione dell’economia che assieme alla creazione delle risorse consente «di realizzare uno sviluppo sostenibile, ossia tale da garantire anche alle generazioni future ambiente e risorse non depauperate». In particolare si ricorda: «la trasformazione dell’industria da mera fornitrice di prodotti a fornitrice di soluzioni per assolvere funzioni, (il) che permette di sostituire dei prodotti oggi consolidati con nuove tipologie di servizio; il ricorso ad organizzazioni più efficienti, adattive e flessibili come il Just in Time eliminando sprechi, invenduto, magazzini; il benchmarking e il Total Quality Management; il lean manifacturing che porta a strutture produttive più leggere; il reengineering, che riorganizza l’impresa eliminando tutto ciò che non crea valore aggiunto»((U. Colombo e G. lanzavecchia, Sviluppo sostenibile, in “Enciclopedia del Novecento”, secondo supplemento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1998, pp. 494-496.)).

A queste proiezioni sull’avvenire, a questo investimento totale sul futuro, fa da contrappunto la preminenza del passato che caratterizza l’ecologia; quest’ultima infatti diventa ecologia politica, assume un rilievo storico per l’ipoteca che getta sul futuro, in conseguenza dell’accumularsi nel passato di azioni e produzioni dagli effetti imprevedibili ma immancabili; superata una soglia difficile da determinare ma che sicuramente esiste, il pregresso diventa irreversibile e si proietta operativamente sul futuro; lungi dal dominare la potenza della natura, le azioni sempre più incisive degli uomini finiscono con l’accrescerla; ad un certo punto essa non funge più da filtro e ammortizzatore ma da accumulatore di potenza che lancia devastanti retroazioni. Cominciano ad essere di questo tipo i cambiamenti climatici indotti artificialmente.

Da quando le trasformazioni dell’ambiente, al di là delle proteste romantiche o neoromantiche, hanno cominciato ad essere misurate in termini di danni oggettivi e rischi potenziali, risulta ingenua e inefficace la tesi secondo cui la radicalizzazione della dinamica moderna porterà come dono il passaggio dalla quantità alla qualità. La vicenda novecentesca ha definitivamente messo in crisi la fede nelle conseguenze razionali dell’agire formalmente razionale; ne consegue che il rapporto tra scienza e natura, tecnologia e ambiente, non può più essere riproposto nei termini di una filosofia positivistica dell’avvenire. La questione ecologica, come succede per il discorso economico in termini di sviluppo sostenibile, rende necessaria una storicizzazione autoriflessiva, una presa di distanza e di congedo dalla tradizione della modernizzazione indefinita, anche restando all’interno delle coordinate di fondo della cultura occidentale.

Tutto ciò rimette in questione l’azione storico-sociale dell’uomo sulla natura. Non serve a nulla contrapporre natura e tecnica, emozionalità e razionalità, in ogni caso è un approccio improponibile sul piano storiografico. Ci sembra invece più utile tentare di capire quali sono state le spinte profonde, non solo economiche, che hanno alimentato lo sviluppo della tecnica e dell’industria, intervenendo sempre più intimamente nella natura e creando ogni sorta di artifici. Accenniamo qui almeno ad un percorso, che rimanda all’interpretazione di Max Weber sul ruolo che la ricerca della salvezza ha avuto nelle origini e lo sviluppo del capitalismo. Una linea di pensiero che attraverso l’analisi dei percorsi della secolarizzazione individua nella tecnica e nell’industria, specie dopo il crollo della politica, le entità a cui gli uomini continuano ad affidare le loro istanze di salvezza.

Si può partire da una affermazione di Hans Jonas: «Il rapporto intimo della vita con la possibilità della morte sta più in profondità: esso è dato dalla costituzione organica in quanto tale, dal suo stesso modo di essere». Questa polarità-unità di vita e morte è ciò che illusoriamente ma tenacemente la società tecnologizzata mira a superare; la natura organica ci imprigiona in un tempo ciclico di nascite e di morti; non riuscendo a sopportare l’angoscia della morte gli uomini moderni pensano di sfuggirvi creando un mondo completamente artificiale, in cui anche gli organismi viventi possono venire prodotti artificialmente. In tal modo però la vita diventa sempre meno importante, il massacro è sempre possibile. La vittoria illusoria sulla morte, attraverso il controllo della vita, si converte nel suo contrario, ed il superamento del bisogno materiale è artificiosamente ristretto ad una minoranza della specie (che spesso concepisce l’esistenza in termini grettamente materialistici).

La tecnica diventa lo strumento per una fuga dalla condizione umana, segnata dallo sgomento e dall’angoscia «di essere stati gettati in un mondo dall’ostilità soverchiante, in cui predomina la paura, dal quale l’uomo cerca ad ogni costo di fuggire»((H. Arendt, La via della mente, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 254.)). Così la spinta ad un controllo completo della natura, sino alla sua sostituzione-cancellazione da parte di una anti-natura puramente artificiale, non può essere interpretata unicamente in base a motivazioni economiche, non si persegue solo il profitto attraverso la produzione e il consumo. La costruzione di un mondo artificiale, popolato solo di merci materiali e immateriali, senza più alcun rapporto con i cicli naturali, pretende di realizzare una sorta di immortalità.

La nuova economia postfordista dimostra una straordinaria capacità nel recuperare e incorporare le contraddizioni che determinavano i maggiori conflitti nella fase precedente: di fronte alla sua estensione e intensificazione le resistenze assumono una fisionomia corporativa e si impone l’idea che anche gli aspetti negativi dello sviluppo saranno superati dalla sua marcia ulteriore, da cui l’auspicio di una compiuta globalizzazione. La tecnologia, sempre più centrata sull’informazione e la conoscenza ha possibilità senza limiti e sta attirando le enormi masse di denaro disponibili nel mercato finanziario mondiale, realizzando sinergie da vertigini. La information and communication technology è il motore di una inedita rivoluzione industriale che promette di espandersi senza limiti creandosi un proprio ambiente: il cyberspazio. In questo scenario faustiano si perde di vista il limite dell’ambiente-mondo, come biosfera, e dell’uomo come essere naturale-mortale, ovvero il limite diventa la frontiera continuamente da oltrepassare.

Flessibilità, imprevedibilità, innovazione, adattamento continuo, sono le caratteristiche salienti del nuovo modo tecnico di produrre. In esso non è più possibile effettuare un controllo dall’alto, una programmazione e pianificazione; le imprese si autorappresentano come isole di razionalità in un mare di incertezza. Quel che spesso si ripete a proposito dell’ambiente sociale vale anche per l’ambiente complessivamente inteso, rispetto a cui le imprese, divenute gli unici soggetti dell’economia, sembrano rinunciare all’obiettivo del controllo per accontentarsi di una navigazione a vista. Il che discende anche dal mutato rapporto con lo Stato e dalla subordinazione di quest’ultimo alla logica dell’impresa.

L’innovazione aveva assunto un carattere permanente già con la seconda rivoluzione industriale allorché la ricerca venne istituzionalizzata trovando nella grande impresa e nello Stato i suoi referenti. Questo assetto, tipicamente fordista, rimane egemonico sino alla fine degli anni Sessanta, allorché prende l’avvio un processo di democratizzazione e socializzazione dell’innovazione, non solo dal lato della produzione, con le inaspettate performance delle PMI, ma anche da quello dei consumi (passaggio dalla standardizzazione all’individualismo di massa).

Pur evitando ogni determinismo tecnologico è semplicemente impossibile immaginare l’assetto postfordista senza la condizione necessaria rappresentata dalle tecnologie informatiche e telematiche. Sono esse che consentono la diffusione e dispersione delle attività produttive nello spazio locale e globale, contestualmente ad un aumento della complessità organizzativa nonché ad una crescente concentrazione aziendale e finanziaria. Si sviluppa una separazione sempre maggiore tra luoghi della produzione e luoghi del consumo, ma questa distanza geografica e culturale è come annullata nella infosfera che comanda l’infittirsi degli spostamenti materiali. Lo spazio subisce una compressione ed è preso in un vortice, in un movimento incessante, mentre una pluralità innumerevole di luoghi entrano in collegamento tra di loro, cercano di far valere la loro identità, nel momento stesso in cui ogni separatezza viene azzerata. Se è vero che da secoli esiste un’economia mondiale, la globalizzazione è contrassegnata dalla compressione simultanea dello spazio e del tempo, dall’intensificarsi ed infittirsi della circolazione ininterrotta di merci materiali e immateriali.

Se la prima impressione è quella di omogeneizzazione, di livellamento, di universalizzazione per quel che concerne la cultura come la produzione e il consumo, basta poco per rendersi conto che la nuova realtà economica, ponendoli in concorrenza, esalta le diversità dei luoghi, dei territori, le differenze storiche, così che la contemporaneità del non contemporaneo diventa essa stessa una risorsa nella competizione globale piuttosto che un’arma per il ritorno del politico. Quest’ultimo, espressione tipica della modernità, ha avuto il suo fulcro attorno alla dimensione nazionale, portata al parossismo nel ciclo novecentesco, mentre lo scenario attuale è dato dalla fitta trama di rimandi tra locale e globale, individualismo e universalismo. È il trionfo di un capitalismo che «consente la progressiva integrazione di tutte le attività in un mercato generalizzato, ma al tempo stesso ammette un alto grado di flessibilità e innovazione al livello locale. È il principio di integrazione che consente alla diversità di essere tollerata senza minacciare l’unità del sistema»((B. Readings, in “Il manifesto”, 5 gennaio 2000.)).

L’impresa, attraverso l’endogenizzazione della tecnologia al processo economico, si muove come se non avesse più vincoli esterni, sul tipo delle risorse naturali scarse; le risorse occorrenti vengono create e ciò dimostrerebbe che l’ambiente stesso è stato internalizzato, diventando parte del processo economico e materia di una creazione-innovazione continua. Se non è ancora una creazione ex nihilo è però una transustanziazione della natura-ambiente: «creazione di risorse e creazione di un nuovo ambiente vengono a coincidere: l’ambiente, reso endogeno al processo di cambiamento, non appare più come un vincolo bensì come una variabile strategica da plasmare in relazione e in funzione della strategia perseguita». Le imprese in quanto sistemi «innovativi hanno necessariamente attitudini espansive ed aggressive; tendono quindi a considerare l’ambiente come qualcosa che può e deve essere plasmato per mezzo di azioni incisive, e quindi attraverso l’ideazione, la progettazione e l’esecuzione di processi produttivi innovativi». L’ambiente nella prospettiva innovativa-qualitativa delle economie industrializzate occidentali non ha più alcuna consistenza in sé e per sé: «esso diviene parte integrante del problema del cambiamento economico e come tale deve essere trattato»((M. Amendola, Innovazione tecnologica e comportamento economico verso l’ambiente, in S. Scamuzzi (a cura di), Costituzioni razionalità ambiente, Fondazione Adriano Olivetti – Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 197-206.)).

Il postfordismo ha il suo motore nella generalizzazione della forma impresa e nell’economia neoclassica la sua teoria. Dopo l’interventismo, protezionismo e statalismo, dopo le teorie dello sviluppo basate sulla pianificazione, si torna alla “mano invisibile”. Si tornano a proporre le regole del funzionamento naturale dell’economia di mercato. In una tale ottica naturalismo e scientificità coincidono, infatti la possibilità di un’economia scientifica deriva dall’aver individuato le leggi (naturali) che reggono il comportamento dell’uomo. Mentre si teorizza la completa autonomizzazione della “seconda natura” dai limiti e vincoli dell’ambiente naturale, l’economia e la società escono dalla storia e si naturalizzano. D’altro canto il capitalismo diventa un insuperabile stato di natura perché solo in esso le leggi dell’economia possono liberamente manifestarsi.

Se è fondata l’ipotesi secondo cui la riaffermazione dell’ideologia del mercato autoregolantesi costituisce una risposta non solo al fallimento dell’economia di piano, ma anche al manifestarsi della crisi ecologica, allora si capisce perché il “naturalismo” assuma valenze particolarmente aggressive: infatti esso affida le sorti della società ai meccanismi di selezione naturale. Viene così abbandonata la possibilità, che hanno solo gli uomini, di scegliere i propri comportamenti, di formulare una strategia, di investire le proprie energie e creatività in ideali, miti o utopie, in base agli scenari che riescono a costruirsi, secondo diverse scale di priorità, optando di sacrificare opportunità immediate o a breve termine per obiettivi di lungo periodo. A causa di un cupo pessimismo antropologico, diventa impossibile sottrarsi alla presa dell’economia assoluta che, come in passato la politica, intende assorbire al suo interno ogni aspetto della vita, della società e della natura.

Tra le strategie di sottrazione alla presa dell’economia generalizzata rientra l’elaborazione di un’economia ecologica che ha finito con l’individuare nel concetto di sviluppo sostenibile la sua piattaforma. Partendo dalla critica di Georgescu Roegen ai “miti economici” e facendo leva sui concetti di irreversibilità e entropia (per cui il riciclaggio della materia non può mai essere completo), l’economia ecologia propone di rivedere l’impostazione concettuale dell’economia neoclassica; individuando le attività economiche insostenibili e misurando il consumo di risorse non rinnovabili perviene ad una revisione dei sistemi vigenti di contabilità nazionale, basati sul Pil, che per rispondere alle esigenze dello sviluppo sostenibile debbono integrare la contabilità monetaria con una contabilità fisica del patrimonio naturale((M. Bresso, Per un’economia ecologica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.)).

Il concetto di sviluppo sostenibile, che per certi aspetti si può far risalire a Malthus, ha trovato la sua formulazione paradigmatica nel cosiddetto Rapporto Brundtlandt (1987), secondo cui «è sostenibile un livello di prodotto che assicura il benessere della generazione attuale, ma non compromette la possibilità di benessere alle generazioni future». Il limite è dato dalla capacità di assortimento della biosfera, soddisfatta tale condizione lo sviluppo è possibile e la via indicata è quella del miglioramento della tecnologia e dell’organizzazione sociale.

L’interpretazione che gli economisti hanno dato dello sviluppo sostenibile non pone alcun vincolo di principio alla conservazione delle risorse ambientali e naturali; queste potrebbero anche essere totalmente cancellate, l’importante è che possano essere sostituite in modo tale da garantire anche in futuro un uguale grado di utilità, cioè di produzione e consumo, ovvero di benessere. Secondo il premio Nobel Robert Solow «è molto facile sostituire le risorse naturali con altri fattori. Perciò in linea di massima non vi è alcun problema; il mondo può andare avanti anche senza risorse naturali». È un’affermazione paradossale perché presupporebbe la creazione dal nulla, mentre è vero che una quantità crescente di prodotti artificiali viene ottenuta con un impiego decrescente di risorse naturali, per effetto di una tendenza storica di lungo periodo della tecnologia e anche per l’incidenza della crisi ambientale.

La sostenibilità nell’interpretazione economicista di Solow si riduce alla consolidata convinzione che in un’economia industriale, contrariamente a quel che pensavano gli economisti classici, sia sempre possibile trovare dei sostituti naturali o artificiali alle risorse naturali che scarseggiano, quindi non c’è alcun obbligo a conservare il capitale naturale esistente, purché sia conservato il grado di benessere sinora raggiunto. In questa prospettiva la sostenibilità, vale a dire l’incidenza della problematica ambientale attraverso l’internalizzazione delle esternalità negative, non sposta l’impianto analitico basato sul calcolo individualistico costi-benefici.

Ma la dimensione di alcune emergenze planetarie (acqua, aria, clima, desertificazione) fa sì che anche tra gli economisti si affermi la tesi che per affrontare la questione dei diritti delle generazioni future occorra abbandonare l’approccio individualistico, entrare nella problematica dei beni pubblici e del ruolo dello Stato, ed ammettere che attualmente «l’impianto teorico della scienza economica è ancora troppo inadeguato per recepire istanze come quella ambientale» (S. Zamagni). L’internalizzazione dell’ambiente ha reso economicamente appetibile l’ecologia, ma in tal modo la contraddizione è spostata senza essere superata; lo sviluppo non diventa più sostenibile se aumenta la quota del Pil derivante da attività e servizi “ecologici”, anzi può essere vero il contrario per l’innescarsi di circoli viziosi speculativi, talvolta criminali.

Nell’attuale situazione storico-sociale la riduzione dell’ecologia ad un ramo dell’economia è particolarmente agevole, ma siccome in tal modo nessun nodo della crisi viene risolto, finisce con l’essere inutile e dannosa. Pensare ad un rientro spontaneo nei limiti della “capacità di carico” sembra irrealistico, per cui sarebbe necessario supportare alcune tendenze già in atto con misure semplici ed efficaci, sul tipo dei “nuovi indicatori di valore” proposti da Giorgio Nebbia. Egli constata che «manca qualsiasi attendibile contabilità fisica dei flussi di materia e di energia attraverso la tecnosfera» e propone di introdurre indicatori di valore legati al costo energetico, al costo ambientale e al costo in risorse naturali. Così “varrebbe” di più la merce e il servizio che, nel corso della produzione o dell’uso, richiede un minor utilizzo di risorse naturali o di capitale naturale. Tenendo conto della crescente scarsità di acqua a fini antropici (oggi una tragedia per popoli considerati senza valore, domani un’emergenza mondiale), un’applicazione concreta dovrebbe riguardare il “costo in acqua” delle merci. Più in generale, di ogni merce o servizio dovrebbe essere misurato il «costo ambientale sulla base della quantità di residui o scorie che vengono immessi nell’ambiente nel corso della produzione o alla fine della vita utile»((G. Nebbia, Critica della globalizzazione. Materia e bisogni per il XXI secolo, in “Il tetto”, 1998, n. 205/206, pp. 66 e sgg.)).

La crisi ambientale ha indotto un ripensamento sul ruolo della natura anche nel processo di produzione della ricchezza, a lungo rimosso dalla teoria economica, mentre oggi se ne riconosce il ruolo attivo, cooperativo, accanto al lavoro umano, ma con una sua autonomia, con una propria dinamica che deve essere conosciuta e rispettata. Si tratta di una rivoluzione culturale che riguarda sia la scienza (teorie della complessità) che la sensibilità e l’etica, in controtendenza rispetto all’allontanamento della natura per l’infittirsi della mediazione tecnologica. In una tale situazione un nuovo rapporto o alleanza con la natura può avvenire solo in termini riflessivi, attingendo alla scienza, alla memoria, alla storiografia capaci di restituire il ruolo attivo e cooperativo della natura nello stesso sviluppo dell’economia: «in un’epoca nella quale l’industria ha ormai cancellato la presenza della natura nelle merci, il sapere storico comincia a fornire i suoi antidoti, riscoprendo in profondità le relazioni primarie nel processo di produzione della ricchezza»((P. Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma, 1996, p. 13.)).

Uno degli imperativi del calcolo dello sviluppo sostenibile concerne la valutazione del capitale naturale, per cui accanto al lavoro umano e al capitale bisogna valutare il “lavoro” svolto dall’ambiente. Una proposta è quella di H. T. Odum, che ha formulato il concetto di emergia (derivante dalla combinazione di energy e memory) dato dalla somma di tutte le energie, presenti e passate, necessarie in un processo completo di trasformazione; tutti gli input che supportano un processo vengono messi su una scala comune, quella dell’energia solare, l’energia che è alla base di tutti i processi che si verificano nella biosfera. (Si può notare per inciso che la recente applicazione di tale metodo ad una tipica provincia postfordista come quella di Modena ha evidenziato gli indici estremamente negativi del distretto manifatturiero di Sassuolo).

La teoria dello sviluppo sostenibile costituisce un tentativo di risposta ai due opposti scenari delineatisi alla fine degli anni Sessanta, anticipati dall’ondata della contestazione giovanile. La liberazione di tutte le energie creative, al di là dei limiti della razionalità mercantile, avrebbe dovuto poter soddisfare ogni desiderio, travolgendo la società dei consumi sul suo stesso terreno; l’ottimismo industrialista poteva così trovare alimento nelle frange più oltranziste della contestazione. Sul versante opposto la controcultura incontrava il catastrofismo, il rifiuto della civiltà occidentale e di ogni processo di civilizzazione in quanto intimamente decadente e profanatore della Natura. In entrambi i casi la possibilità di garantire una prospettiva di progresso era messa in pericolo; a ciò si aggiunga che le élites intellettuali, che avevano preso sul serio la crisi in atto del rapporto società-natura, stavano approdando a proposte di tipo malthusiano e comunque fortemente pessimistiche (necessità di uno “sviluppo zero”). L’elaborazione della concezione dello sviluppo sostenibile si afferma come reazione ad uno scenario lacerato e si basa sulla possibilità di contemperare lo sviluppo economico con le esigenze dell’ambiente, realizzando una saldatura tra economia ed ecologia.

Siccome la vittoria sulla natura, resa possibile dalla tecnica industriale, rischia di distruggere le basi naturali della vita, il rapporto con la natura viene formulato su nuove basi etico-filosofiche: «la lotta contro la natura con l’obiettivo del dominio sulla natura viene interrotta dalla lotta intorno alla natura con l’obiettivo di poter conservare la natura come ambiente della società»((K. Eder, Questione ecologica e nuova identità collettiva, in “Iride”, 1995, n. 14, p. 8.)). Lo sviluppo sostenibile può intendersi come lo strumento di un rapporto con la natura basato sull’etica della responsabilità (H. Jonas), volta ad instaurare delle relazioni comunitarie degli uomini tra di loro e con la natura.

Secondo questa prospettiva una crescita illimitata non è “tecnicamente” possibile, lo sviluppo per poter continuare da quantitativo deve farsi qualitativo (risparmio di energia, produzione di merci immateriali, ecc.) e in ogni caso l’economia per essere sostenibile deve tener conto della capacità di “sopportazione” del pianeta Terra, il che impone l’ottemperanza a due principi basilari: «a) lo sviluppo è soggetto a un insieme di vincoli che pone i tassi di sfruttamento delle risorse a livelli non superiori a quelli dei tassi di rigenerazione naturali o amministrati; b) l’uso dell’ambiente come “deposito di rifiuti” deve risultare conforme al principio che i tassi di scarico non dovrebbero superare i tassi di assimilazione (naturali o amministrati) degli ecosistemi riceventi» (D. W. Pearce).

Esistono evidenti analogie tra l’economia postfordista e l’ecologia politica a partire dal fatto che per entrambe lo Stato nazionale appare l’ostacolo e l’avversario con cui si scontrano. Basti pensare alla globalizzazione finanziaria e produttiva, al ruolo subordinato e puramente funzionale che hanno gli Stati rispetto al sistema economico, con ritardi che alimentano un inedito liberismo di massa, di contro agli “spiriti animali” di cui si sono rivelati portatori una miriade di localismi. Ma anche per l’ecologia politica non lo Stato nazionale bensì il “globale” e il “locale” sono stati i punti di riferimento della mobilitazione. Si attaglia perfettamente al posfordismo questa riflessione sui movimenti ecologici: «L’ecologia è identica alla scoperta del “globale” così come alla rinascita del “locale”, dell’ “ambiente” vissuto immediatamente. Lo Stato nazionale è quell’istituzione che non sa padroneggiare i problemi globali né sa aiutare le attività locali. L’appropriazione e il controllo politici di problemi ecologici sono identici all’incapacità di risolvere questi problemi da parte della politica che rimane nei limiti degli Stati nazionali»((K. Eder, op. cit., p. 13.)).

Abbiamo visto come nel postfordismo, accanto alla dilatazione degli spazi, sino ad una mondializzazione rotta da grandi e piccoli squilibri, si  sviluppino forme pervasive di privatizzazione e come non ci siano più confini precisi tra lavoro e vita privata. Lo stesso movimento si manifesta con grande intensità dal lato dell’ambiente. È plausibile sostenere che il concetto di globalizzazione si sia inizialmente affermato nel discorso ecologico, si pensi al global warming e ad altre emergenze planetarie che anche i più ottimisti tra i tecnologi non possono sottovalutare. Ma non meno interessante è l’altra opposta e speculare, in realtà intimamente connessa, dimensione del rischio. Il diffondersi sotterraneo, inutilmente bollato di irrazionalismo, di un sentimento di insicurezza pervasivo: «l’esperienza che l’aria e il mangiare e bere, dunque le condizioni elementari di riproduzione, sono in pericolo», per cui «i rischi ambientali vengono sentiti come una minaccia alla vita privata in quanto tale»((Ivi, pp. 9-10, corsivo nostro.)).

La questione ambientale ha fatto riemergere il rischio dentro sistemi sociali che dopo i grandi cataclismi della prima metà del secolo avevano puntato tutto sulla sicurezza, il benessere, il comfort. Investendo la sfera del lavoro, il rischio si è insediato in modo permanente nella società avanzata, determinando sia richieste di chiusura in vere e proprie nicchie ecologiche socialmente reazionarie che aspettative euforiche di salvezza nelle nuove tecnologie, quasi ovunque una diffusa depoliticizzazione, contrastata da iniziative civiche, movimenti spontanei o organizzati che in vario modo si collocano in un’ottica di etica ambientale e sociale, peraltro spesso monotematica.

La polarità tra locale e globale sul piano economico e politico non ha sinora modificato la tendenza individualistica di fondo che ha dominato l’ultimo quarto del XX secolo. Al contrario la questione ecologica ha riproposto il problema della limitazione dei diritti individuali all’uso dei beni collettivi, per effetto dell’esauribilità e non riproducibilità delle risorse naturali. È stato così reintrodotto l’«elemento comunitario che era sembrato dissolversi nel processo di razionalizzazione della modernità»((Ivi, p. 12.)). La forte carica ideologica che connota termini quali individuo e comunità può far perdere di vista la tendenza storica ad una convergenza che deriva dall’impossibilità di fuoriuscire dalla modernità e dalla necessità di ridefinire il nostro rapporto con la natura. Ciò in pratica si traduce nel passaggio dallo sfruttamento senza freni della natura ad uno sfruttamento razionale, vale a dire nel passaggio ad un nuovo tipo di sviluppo. Ne è derivata la sorprendente convergenza, almeno in linea di principio, di tutte le principali istituzioni del nostro tempo sulla parola d’ordine dello sviluppo sostenibile.

Lo sviluppo sostenibile, partendo dal dato di trasformazioni ambientali sempre più rapide e dagli esiti problematici, pone al centro delle sue attenzioni le generazioni future che dovrebbero avere a disposizione un capitale naturale non inferiore di quelle presenti (mantenimento della biodiversità) mentre resta incerta l’entità della sostituzione delle risorse naturali da parte di quelle artificiali senza predeterminare la vita delle generazioni che verranno, ovvero minare la sopravvivenza delle generazioni presenti (questione dell’impatto ambientale dell’agricoltura e dell’allevamento industrializzati e impossibilità-incapacità di farne a meno).

Si può argomentare che, cercando di comporre lo sviluppo con la prospettiva ecologica di ridefinizione del rapporto società-natura, lo sviluppo sostenibile va incontro a contraddizioni insanabili; questa critica però può essere eccessiva tenendo presente che la bussola dello sviluppo sostenibile è fornita dal concetto di limite di tolleranza del sistema Terra, il che significa porre argini non superabili alla crescita economica e invertire il processo di colonizzazione della vita, liberando spazio e tempo per attività in cui sia ridotto al minimo il consumo della materia e dell’energia fisica e privilegiato lo sviluppo delle attività superiori della mente e del lato affettivo, non-distruttivo della natura umana.

Più incisiva è la critica dello sviluppo sostenibile da un punto di vista sociale, secondo cui nell’attuale situazione la sostenibilità si traduce in una condanna alla povertà; detto in altri termini lo sviluppo sostenibile sarebbe un lusso che possono permettersi solo i paesi ricchi. Anche in questo caso una contestualizzazione storica può essere utile per uscire da dilemmi irrisolvibili: la via del saccheggio illimitato delle risorse naturali e umane non ha consentito alcun sviluppo ai paesi poveri, la distruzione ecologica non è servita al successo economico. Questo vale ugualmente per le dittature di sviluppo di tipo socialista che sono andate incontro ad un completo fallimento. L’eccezione cinese è, da ogni punto di vista, la grande incognita del XXI secolo.

In estrema sintesi lo sviluppo non sarebbe sostenibile perché non si può avere sviluppo senza crescita; se questo apparentemente succede, dipende dal fatto che le fabbriche di merci materiali sono spostate altrove (ad esempio in Cina). Per quel che riguarda l’attuale organizzazione sociale della produzione e la connessa divisione del lavoro, nonché i modelli culturali e i sistemi politici che la sostengono, una tale critica appare storicamente fondata. Al contrario la sua generalizzazione, che va a colpire la tecnica in quanto tale, in quanto attività genericamente umana, ripropone un’immagine della storia come decadenza ed errore, ed appartiene alle eredità negative del Novecento.

Nella comunità scientifica si va delineando un ampio consenso al paradigma dello sviluppo sostenibile, anche perché esso restituisce ai ricercatori un ruolo cruciale, sono essi che debbono fornire i dati oggettivi con cui sono tenuti a confrontarsi tutti gli attori. L’opinione più diffusa è che «lo sviluppo sostenibile si profila per il nostro pianeta come una delle più grandi sfide in campo sociale, economico e ambientale. L’obiettivo è quello di costruire una società che sappia coniugare la tutela dell’ambiente, lo sviluppo sociale e lo sviluppo economico delle comunità locali e che conduca ad una più equa distribuzione delle ricchezze e al mantenimento delle risorse per le generazioni future»((M. Porcelli e S. Bastianoni, Analisi termodinamica e valutazione della sostenibilità ambientale di un sistema territoriale: lo studio della provincia di Modena, in “Oikos”, 1999, n. 8, p. 59.)).

Queste proposte non hanno senso in una prospettiva in cui la felicità e la realizzazione di ogni altro valore sono affidati all’aumento indefinito dei beni consumabili, laddove il consumo funziona da carburante dello sviluppo nelle aree centrali del sistema, ricevendo impulso dalla personalizzazione, sofisticazione, smaterializzazione, mentre l’ostentazione del superfluo ha il suo rovescio nell’aggravarsi catastrofico del divario globale Nord-Sud e nella penetrazione delle diseguaglianze mondiali all’interno dei paesi sviluppati. Secondo una critica diffusa la ristrutturazione postfordista del capitalismo, facendo dell’impresa e della sua logica il soggetto economico per eccellenza, si prefigge di superare ogni limite e vincolo, non ultimi quelli ambientali: «Il postfordismo ha ridotto in modo sostanziale il controllo locale, regionale, nazionale dello Stato sull’ambiente economico ed extraeconomico» mentre la produzione decentrata e il controllo finanziario accentrato si prefiggono di «trarre vantaggi da minori costi di produzione e leggi ambientali più favorevoli»((R. J. Antonio e A. Bonanno, La povertà della democrazia centrata sul mercato, in “Alternative”, 1995, n. 1, pp. 78-79.)).

La vittoria politica e il consenso sociale di cui gode il neoliberismo nei paesi occidentali, oltre ad alimentare reazioni integraliste e fondamentaliste, mette in mora la possibilità di politiche incentrate sullo sviluppo sostenibile e ogni altra elaborazione tesa ad integrare il paradigma ecologico nel governo dell’economia e della società. Risultano così inattuali le critiche, a volte molto acute, ad un possibile utilizzo tecnocratico dell’ecologia: uno scenario strettamente legato ai tempi e alla futura incidenza delle emergenze globali.

Si paventa il rischio che l’ecologia scientifica, sposandosi con la teoria generale dei sistemi, l’informatica e la cibernetica, finisca con lo sfociare in una sorta di dominio tecnocratico: la natura verrebbe salvata ma a prezzo di un controllo totale. L’ecologia sistemica e funzionalistica vuole proteggere la natura dall’annientamento non lasciando più niente al di fuori dei suoi calcoli. Attraverso il concetto di ecosistema l’ecologia viene normalizzata, riportata all’interno del paradigma quantitativo-matematizzante, riassorbita nelle coordinate di fondo di una concezione strumentale ed utilitaristica della natura. Ciò che soprattutto le rimproverano i suoi critici è di contribuire a cancellare l’unicità e irripetibilità di ogni aspetto della realtà storico-naturale, di perdere un valore  che era appena stato intravisto, e che dovrebbe essere la base per un rapporto non più basato sul dominio e la distruzione. Il che implica che l’uomo riconosca un valore in sé alla natura, vale a dire un significato vitale per la sua esistenza, una dignità etica, una qualità estetica, indipendentemente dall’uso che può farne.

La cultura della tarda modernità si è dimostrata sensibile alle istanze di reincantamento del mondo, aprendosi ad altri modelli culturali, riscoprendo memorie profonde, rinunciando alla propria separatezza e superiorità, ma tutto ciò non ha aperto una nuova dinamica. E proprio l’avanzare della crisi ecologica, la necessità di internalizzare l’ambiente nell’economia, spinge nel senso di una ulteriore razionalizzazione e funzionalizzazione: «la questione della natura rende la cultura della modernità ancora più dipendente dalla razionalità della scienza moderna, dal discorso ecologico scientificizzato»((K. Eder, op. cit., p. 20.)). Il concetto scientifico di ecosistema riesce ad inglobare tutto: «Anche i nidi sui rami degli alberi buoni produttori di legname vengono inclusi nel calcolo previsionale, anche la vita dell’erbaccia, ribattezzata “erba selvatica”, viene pianificata. Tecnologia ecologica significa intervento totale. Per questo anche l’ecologia non è al di fuori della logica del progresso; ne è anzi il culmine»((L. Trepl, in J. Humburg, Il pensiero verde, Il lavoro editoriale, Ancona, 1986, p. 42.)).

L’idea di “fine della storia” ha come presupposto la sottomissione integrale della natura resa possibile dall’industrializzazione; esito non dissimile avrebbe il controllo cibernetico totale che trasformerebbe il mondo storico in un ambiente senza storia, dove tutto avviene nel rispetto di una regolarità naturale conosciuta e applicata attraverso una tecnologia sofisticata. Serge Moscovici già nel 1968 parlava di uno “stato di natura cibernetico”. In definitiva potremmo dire che attraverso l’ecologia sistemica si perviene ad una ulteriore tecnicizzazione della natura, non più limitatamente a qualche sua porzione ma nel suo insieme. La natura non è più concepita come un organismo ma come una macchina, «una macchina particolare, tuttavia, corrispondente al livello della società industriale avanzata, cioè una macchina produttrice di energia dotata di regolazione automatica»((W. Sachs, Per una critica dell’ecologia, in “Volontà”, 1992, n. 2, p. 45.)). Secondo Wolfgang Sachs il pensiero basato sul modello dell’ecosistema sta prendendo piede nella coscienza contemporanea, il che parrebbe molto lontano dal “senso comune” dominante nella nostra società. Nondimeno egli ha ragione quando afferma che «esso esprime il concetto di natura tipico della nostra epoca».

Ogni epoca, da quando l’uomo non è più stato immerso nell’ambiente naturale, ha elaborato un proprio concetto di natura. Oggi, in presenza della crisi ecologica, l’idea di natura formulata dalla teoria funzionalista ecosistemica è la più attrezzata per essere socialmente condivisa nei paesi industrializzati e in quelli che stanno industrializzandosi. Ma ciò non nel senso della possibilità di trasporre le leggi dominanti in natura – ed individuate dall’ecologia scientifica – all’interno della società, ovvero realizzando la pianificazione ecologica totale, stigmatizzata da Ludwig Trepl. Tali tendenze potrebbero diventare operative solo in presenza di un aggravarsi catastrofico della crisi, nell’immediato il riduzionismo sistemico è piuttosto funzionale al progetto di sfruttamento integrale della natura, quindi ad una modernizzazione che possa contare sulla conoscenza delle leggi che regolano la riproduzione delle comunità viventi a tutti i livelli, evitando errori e retroazioni indesiderate. Siamo quindi ancora totalmente all’interno del ciclo storico dell’economia industriale e stiamo vivendo la sua apoteosi, con l’esplicito tentativo di annettersi l’ecologia, ed è su questo passaggio che si è attestato il senso comune.

È una descrizione che fotografa staticamente la realtà e che lascia insoddisfatti, anche perché la questione ambientale non è riassorbibile e produce nuovi scenari. Per riconoscerli ed aiutare a farli crescere bisogna innanzitutto spezzare un blocco concettuale. Nella logica del pensiero binario, in ultima analisi, ci sono solo due possibilità: o l’ecologia è riassorbita nell’economia e la rafforza, estendendo ed approfondendo il suo dominio attraverso la tecnicizzazione e la monetizzazione della natura, oppure l’ecologia prevale sino ad un ritorno dell’uomo nella natura, l’uomo viene riassorbito nell’ambiente e per non far violenza alla natura rinuncia al mondo e pone fine alla storia. Si tratta di forme speculari di naturalismo, nel primo caso il capitalismo è la natura a cui l’umanità deve arrendersi, cancellando da sé anche il ricordo dell’autentica natura umana per lasciar spazio ad una informe postumanità; nel secondo caso il rifiuto integrale della tradizione occidentale, segnata da un errore diabolico, conduce ad esiti nichilistici. È possibile sostenere che l’ecologia segnali una crisi inedita della tradizione occidentale e ponga all’ordine del giorno il suo superamento; a ciò non si può rispondere con una forzatura o con una regressione. Oggi una discontinuità è possibile solo se la scienza e la tecnica diventano lo strumento per uno sviluppo sostenibile. Le potenzialità della svolta cognitiva dell’economia, un tratto saliente del postfordismo, costituiscono una risorsa preziosa per affrontare lo scenario definito dalla crisi ecologica: l’innovazione tecnica e sociale si misura sulla diminuzione dell’impatto ambientale, il progresso è possibile solo invertendo la tendenza alla distruzione della natura. L’apporto occidentale, limitato ma imprescindibile, può essere quello di una tecnologia così avanzata e intelligente da rendere possibile l’esistenza di una molteplicità di forme di vita naturali e di stili di vita sociali che si sviluppino in discorde armonia nella biosfera.