“Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo
Pier Paolo Poggio, Marino Ruzzenenti, «Primavera ecologica» mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Milano, Jaca book, 2020, pp. 192, 18 € .
“Stiamo scrivendo nella condizione inedita di reclusi in casa, come gran parte dell’umanità, nel tentativo di contenere l’aggressione maligna del Covid 19”.((Pag. 171.)) Una situazione contingente benché di estrema gravità, ma anche una precondizione da cui deriva il lavoro di scavo, di verifica, di ripensamento con cui Pier Paolo Poggio e Marino Ruzzenenti hanno riguardato il mezzo secolo che ci separa dalla fiduciosa affermazione di Giorgio Nebbia, che si fosse allora davvero agli inizi di una “primavera ecologica”. Viviamo oggi invece un triste autunno, una volta di più la natura afferma la capacità di dissolvere stili di vita, comportamenti, modi di lavoro e di consumo, la stessa comunità civile.
Ripensare il mondo dentro la pandemia è dunque obbligo e dovere per tutti, per chi da quella lontana primavera ha iniziato a leggere e studiare i fenomeni sempre più allarmanti che gravano sul pianeta e per chi invece ancora insiste a perseguire l’ossessivo mito della “crescita”, ciecamente additata come obiettivo primo dal potere economico e politico del mondo intero (o quasi. Solo il Bhutan, mi pare, addita oggi la felicità dei suoi abitanti come scopo primario dell’azione di governo regale).
Il lavoro di Poggio e Ruzzenenti ha sullo sfondo la rivoluzione industriale e tecnologica di questo ultimo mezzo secolo, basata essenzialmente sull’energia fossile e nucleare e che ha dominato la produzione delle economie cosiddette avanzate tra cui affannosamente è entrata l’Italia; ovviamente il libro si muove tenendo presente l’orizzonte planetario, ma punta l’attenzione sul caso Italia, studiato però – ed è uno dei maggiori pregi del lavoro – non solo sulle evidenze nazionali, ma attraverso l’esperienza, la riflessione, le strategie che altrove sono state utilizzate.
Volendo dunque mantenere l’attenzione sul rapporto che si è costituito tra industria e ambiente in Italia nel periodo considerato (mezzo secolo), la prima constatazione che ne traggono gli autori è che si tratta di un rapporto a tutt’oggi poco esplorato, sul breve o sul lungo periodo. Adottando poi come criterio guida la dimensione qualitativa e quantitativa dell’impattoche l’industrializzazione ha esercitato sull’ambiente, distinguono quattro periodi (e la loro diversa consistenza bibliografica): dalla fine Ottocento ai primi decenni del Novecento; dagli anni Trenta a metà anni Cinquanta; da metà anni Cinquanta agli anni Settanta; dagli anni Ottanta ad oggi. È però il terzo periodo l’oggetto della ricerca ed è il più devastante, caratterizzato dall’espansione impetuosa della petrolchimica e dall’uso di fonti energetiche gravemente inquinanti.
Ci penserà però la crisi energetica e l’evento di Seveso del 1976 a mettere in evidenza gli effetti del libero sfruttamento del territorio da parte del capitalismo industriale. È qui che si può già misurare quella che nel libro viene definita “una sorta di ‘autocolonizzazione’ e di ‘autosfruttamento’ del proprio ambiente di vita. In sostanza i meccanismi sono simili a quelli classicamente coloniali (sfruttamento selvaggio delle risorse umane, naturali ed economiche di un territorio da parte di una potenza straniera dominatrice), ma messi in opera da forze interne, che appartengono allo stesso Paese che si ‘autosfrutta’, in un contesto democratico e con il consenso delle forze politiche rappresentative, una forma di servitù volontaria, basata sulla condivisione più che sul dominio dall’esterno”. ((Pag.25.))
Il brusco risveglio degli anni Settanta, la vittoriosa battaglia antinucleare e la “primavera ecologica” che ha la sua premessa nella prima giornata della terra del 1970 e vede l’avvio di una prima mobilitazione ambientalista, si deve confrontare però, fino agli anni Novanta, con l’alternarsi, da parte del sistema politico, della rimozione o del rinvio nell’adozione di norme e regole, nonostante l’intervento in campo dell’Unione Europea. Basta pensare che a fronte dell’incidente di Seveso del 1976 l’Ue adotta nel 1982 la Direttiva CEE n.82/501 (chiamata Direttiva Seveso) che la legislazione italiana si degna di recepire con il DPR 175/88…
Da questo punto di vista, è sconfortante la lettura del documentatissimo capitolo quarto, uno dei più importanti, dedicato a La mancata giustizia ambientale: non meraviglia più di tanto quanto si legge se si riflette che, a fronte dell’emergenza ambientale, altra gravissima emergenza italiana è proprio l’emergenza giudiziaria: a prescindere dai suoi costi e dai suoi tempi, è sicuro incentivo all’illegalità pervasiva nel nostro Paese il sapere di poter contare sull’impunità o sui tempi biblici dei processi. Anche se la maggior carenza a monte sta nell’attività legislativa. Eloquente quanto si legge, nel sempre ricco e puntuale corredo di note: “Nel 2014, anno che ha registrato il maggior numero di procedimenti penali per violazione del testo unico ambientale, su un totale di 12.771 procedimenti, 7.174 sono stati archiviati, in 8.727 casi l’azione penale riguarda contravvenzioni e solo in 147 casi l’azione penale è per delitti. Cfr ISTAT, I reati contro l’ambiente e il paesaggio. I dati della procura. Anni 2006-2016 , “Report”, 10 luglio 2018, pag. 5″. ((Pag.57 n. 1.))
Anche a questo proposito i paradossi si sprecano: Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia con il Governo Prodi dal 1996 al 1999, dichiara nel 2014: “Il reato di disastro ambientale non è finora previsto dal nostro Codice – e, se lo si volesse includere nel generico altro disastro – la norma attuale sarebbe comunque un’arma spuntata, perché la misura (bassa) della pena minima, e la difficoltà di prolungare nel tempo il momento in cui il reato si consuma, fanno sì che la prescrizione scatti in tempi abbastanza brevi, perfino anteriori al verificarsi degli effetti dannosi, ed eventualmente delittuosi, sulla popolazione e l’ambiente”.((Citato a pag. 62.)) Bene, e lui dov’era? Eppure ha riformato con altre leggi organiche il sistema giudiziario.
Nei successivi capitoli il volume affronta il ruolo ambiguo della scienza, nella crisi del paradigma chimico e fossile, per poi passare alla “sindrome Nimby” e al nuovo “imbroglio ecologico”. Riutilizzando nell’oggi l’espressione di Paccino, ci si imbatte in un altro incredibile paradosso, che fa sì che il signor Stefhan Schmidheiny, magnate svizzero della Eternit e responsabile delle devastazioni del cemento-amianto in mezzo mondo, si trasformi nell’ideologo dello “sviluppo sostenibile” (e diventi leader “verde” del WBCSD.((Word Business Council for Sustainable Development.))
A stretto giro di invenzione segue poi la proposta lanciata a Davos nel 2017 della circular economy pronta a limitare l’estrazione dell’ambiente di nuove risorse ed energie non rinnovabili in cambio di immissione di materiali postconsumo, dimenticando però che nessuna attività umana ha impatto zero e che l’incubo dei rifiuti eterni((Cfr. l’articolo dello stesso titolo della Società chimica Americana di cui si parla a pag. 156.)) non è una minaccia, ma una realtà.
“D’altro canto, questo strano cinquantenario della Giornata della terra, celebrato nel chiuso delle nostre case, ha indotto a una sorta di consuntivo di questo mezzo secolo dell’ambientalismo”. ((Pag.178.)) Consuntivi più o meno pessimistici, ma anche manifestazioni, appelli, lezioni, studi, articoli lanciati in quest’anno difficile da una costellazione di individui, gruppi, associazioni che dovrebbero riuscire a far massa critica, ma di cui si fa ampio regesto; ancora di più, per gli autori, sarebbe urgente un Piano del lavoro, come quello lanciato da Di Vittorio nel 1949: “Forse questo sarebbe il momento più opportuno per il movimento sindacale di contrapporre alla propaganda green del sistema delle imprese un serio progetto di riconversione sociale ed ecologica dell’economia, un nuovo Piano del lavoro e dell’ambiente da proporre al Paese”.((Pag. 183.)) È un punto importante, chiama in causa la necessità di una “primavera sindacale” e politica, non solo ecologica.
È un libro utile e rigoroso, condensa anni di studi e di interventi dei suoi autori((Penso per esempio tra le opere di Ruzzenenti al saggio L’autarchia verde. Un involontario laboratorio della green economy , 2011 che indicava le tante strade interrotte, e oggi nuovamente percorribili, nella ricerca italiana degli anni ’30.)); offre un’imponente serie di indicazioni e di riferimenti rispetto ai temi via via trattati; reca comunque in sé l’attività della Fondazione Micheletti che da decenni anche per loro merito lavora – sotto l’ala amica e ispiratrice di Giorgio Nebbia – a far sì che, forse, possa cominciare davvero una nuova “primavera ecologica”.