Progetto 80. La programmazione alla prova (mancata) della crisi ecologica. Il Pnrr ripeterà gli stessi errori?
In altra parte della rivista, pubblichiamo il bel saggio di Cristina Renzoni che analizza criticamente la parte più innovativa del cosiddetto Progetto 80. Rapporto preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75, redatto tra il 1968 e il 1969 dall’Ufficio del programma coordinato da Giorgio Ruffolo presso il Ministero del bilancio e della programmazione economica pubblicato in una prima stesura nel 1969((In questo lavoro prendiamo in esame appunto l’edizione a cura della Casa editrice Feltrinelli del 1969.)). Si tratta della parte dedicata al territorio, inserita nel capitolo quarto del rapporto relativo a Le direttive per i progetti sociali, che viene sviluppata più ampiamente nell’appendice in una sezione intitolata L’ambiente, accompagnata da alcune carte tematiche che compaiono nella prima stesura del 1969 e che verranno ampliate contestualmente alla pubblicazione degli studi territoriali legati al piano, le Proiezioni territoriali del Progetto 80, nel 1971((C. Renzoni, Il Progetto ‘80. Un’idea di Paese nell’Italia degli anni Sessanta, Alinea, Firenze 2012.)).
Ma il Progetto 80, nel suo insieme, merita ulteriori considerazioni anche in relazione alla sorprendente attualità in cui il Paese è alle prese con il Piano nazionale di ricostruzione e resilienza, pnrr, sorprendente perché per decenni, dagli anni Ottanta in poi, parlare di pianificazione o programmazione era considerato blasfemo nei confronti dell’idolo del libero mercato. Per di più, allora, per la prima volta l’ambiente veniva esplicitamente preso in considerazione in un documento governativo di programmazione economica, come anche oggi nel pnrr una parte non secondaria dovrebbe essere quella dedicata alla cosiddetta “transizione ecologica”.
La programmazione in economia nel Novecento
La stagione della programmazione economica degli anni Sessanta, com’è noto non fu certo, un inedito nella storia delle economie capitalistiche occidentali, anche se in qualche modo rappresenta un’eccezione in quanto il tentativo, in larga parte in verità fallito, venne compiuto non in una fase di crisi, ma appunto all’interno dei cosiddetti trent’anni gloriosi dell’economia, sull’onda ancora montante del “miracolo economico”, proprio con l’obiettivo di perpetuarlo in un quadro però più ordinato. Un’eccezione che forse ne spiega l’intrinseca debolezza, perché, come si sa, gli “spiriti animali” del capitalismo, strutturalmente anarcoide, non sopportano quelli che Guido Carli avrebbe poi definito “lacci e laccioli”, amano e praticano lo spirito del Far West, come ha con presunzione scientifica e schietta onestà intellettuale teorizzato Herbert Spencer. Infatti, se guardiamo ai casi che hanno preceduto quella stagione, ma anche all’attuale del pnrr, il capitalismo si è piegato a forme di pianificazione solo in situazioni di necessità e di grave crisi in cui il supporto dello Stato diventava in qualche modo decisivo per la sua stessa sopravvivenza. Il primo banco di prova fu quello provocato dal conflitto mondiale del ‘14-’18, che comportò una straordinaria mobilitazione produttiva delle diverse nazioni belligeranti, con una rigida pianificazione e un decisivo intervento dello Stato in diversi settori, non solo in quelli direttamente legati alla produzione degli armamenti((P. P. Poggio e M. Zane (a cura di), Scienza, tecnica e industria durante la grande guerra, Fondazione Luigi Micheletti – Liberedizioni, Brescia 2016.)).Ma fu la grande crisi del ‘29, che fece tremare dalle fondamenta il sistema capitalistico, ad imporre una generale assunzione in tutto l’Occidente di politiche caratterizzate da un forte intervento dello Stato nazionale diretto da una politica altrettanto forte, non solo nella produzione, ma anche nel controllo della finanza, nella programmazione territoriale, nelle politiche sociali e nella valorizzazione delle risorse ambientali della nazione, in chiave esplicitamente antiliberista. Il caso più noto è quello del New deal rooseveltiano e del programma di ricostruzione della valle del Tennessee. Ma politiche analoghe si svilupparono nel Commonwealt britannico e in Francia solo per citare le nazioni democratiche, mentre nell’Italia fascista si lanciava l’autarchia e nella Germania nazista si varava il primo piano quadriennale((La letteratura su queste vicende è vastissima. Mi permetto di segnalare: M. Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, Milano 2011, e l’innovativo lavoro di W. Schivelbusch, 3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler. 1933-1939, Tropea, Milano 2008.)). Così anche oggi è stata la drammatica crisi del Covid 19 a imporre il pnrr, inimmaginabile fino a due anni fa.
Progetto 80 un’idea di sviluppo non certo ecologica
Questo breve excursus può essere utile per evidenziare il grado di velleitarismo del Progetto 80, o meglio ancora, delle parti più innovative di questo, in particolare di quella ambientale.
Infatti, se andiamo ad esaminare le sezioni che più direttamente trattano dello sviluppo del Paese, nei diversi settori produttivi, dall’industria all’agricoltura, al terziario, risulta fin troppo evidente che il Progetto raccoglie fondamentalmente le aspettative di crescita e di profitti dei grandi operatori economici dell’epoca, privati e “pubblici”. E qui, come si vedrà, il tema della crisi ecologica che in quel periodo stava emergendo nel mondo ed in Italia, come abbiamo evidenziato in particolare nel n. 43 della rivista((http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/Default.aspx?id_articolo=43)), non viene per nulla considerato, anzi.
Agricoltura all’insegna della chimica e delle bioproteine dal petrolio
Potremmo iniziare con l’agricoltura che vive, proprio in relazione al boom economico, la più importante trasformazione della sua storia millenaria, quella che verrà denominata “rivoluzione verde”. Il Progetto prevede un’ulteriore accelerazione nel processo di modernizzazione, basato sulla meccanizzazione spinta, sui concimi sintetici e sui fitofarmaci, a cui l’industria chimica, come si vedrà, viene chiamata ad offrire un importante contributo:
La politica agricola degli anni Settanta va orientata al raggiungimento di due principali obiettivi. Il primo è la trasformazione di quella parte dell’agricoltura che è più suscettibile di sviluppo in un settore efficiente e competitivo, fondato su unità imprenditoriali moderne, di dimensioni adatte all’utilizzazione conveniente dei fattori produttivi, all’applicazione delle moderne tecnologie, al razionale impiego dei mezzi tecnici((Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto ‘80. Rapporto preliminare al secondo programma economico nazionale 1971-75, Feltrinelli, Milano 1969, p. 65.)).
Viene così sancito l’abbandono di una cultura agronomica di eccellenza, fatta di ricerche ed esperienze che avevano collocato l’Italia davvero all’avanguardia, nei campi della bonifica integrale con Arrigo Serpieri((C. Fumian, Modernizzazione, tecnocrazia, ruralismo: Arrigo Serpieri, in “Italia contemporanea”, n. 137 (ott.-dic. 1979); A. Marinelli, P. Nanni (a cura di), Arrigo Serpieri e la sua costruzione teorica fra economia politica e realtà settoriale. Atti del Convegno presso l’Aula Magna:della Facoltà di Agraria, Firenze, 22-23 aprile 1993, Stianti, San Casciano Val di Pesa 1995.)), dello studio sulla fertilità naturale dei suoli della Valle Padana di Giovanni Haussmann((E. Ongaro, Al servizio dell’uomo e della terra: Giovanni Haussman (1906 -1980), Jaca Book, Milano 2008.)), della selezione per via naturale di varietà di grano più produttive e resistenti ai parassiti e alle intemperie con Nazareno Strampelli((S. Salvi, L’uomo che voleva nutrire il mondo. I primi 150 anni di Nazareno Strampelli, Accademia georgica Treia, Treia (mc) 2016.)), delle pionieristiche realizzazioni di agricoltura biologica con Alfonso Draghetti((V. Montanari, Commemorazione del gr. uff. prof. Alfonso Draghetti tenuta presso la Stazione agraria sperimentale di Modena dal prof. Viscardo Montanari il 23 marzo 1960, Ferraguti, Modena 1960. A. Berton, Alfonso Draghetti (1888-1960): le radici dimenticate (ma molto attuali) del movimento biologico in Italia, in “Altronovecento.Ambiente Tecnica Società”, n. 28 (febbraio 2016). http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=28&tipo_articolo=d_persone&id=131.)).
Il tutto in ossequio alla chimica ed in particolare alla petrolchimica, un paradosso per un Paese pressoché privo di risorse fossili:
Per quanto riguarda l’industria chimica primaria, non viene previsto un nuovo ciclo di radicali trasformazioni strutturali, ma piuttosto l’adozione di processi di automazione sempre più spinti e l’intensificazione nella qualificazione dei prodotti. In questo settore il programma dovrà porsi essenzialmente due direttive. La prima è quella del continuo ammodernamento degli impianti, che devono risultare allineati alla concorrenza internazionale sia per quanto riguarda le loro dimensioni che per l’integrazione delle produzioni, intesa come razionale collocamento nell’ambito dello stesso ciclo produttivo di tutti i prodotti e sottoprodotti, che vi vengono realizzati. La seconda direttiva consiste nel mantenimento di un adeguato livello di ricerca. L’apparato di ricerca dell’industria chimica “primaria,” attualmente esistente nel nostro Paese, costituisce una buona base di partenza; si rende però necessario promuovere una sua qualificata espansione sia con la specializzazione dei centri esistenti sia con la creazione di nuovi centri((Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, op. cit., p. 197.)). […] Per quanto riguarda i prodotti specifici per l’agricoltura, l’attuazione delle direttive di politica agricola indicate nel presente Rapporto, comportando lo sviluppo delle produzioni agrarie di maggior pregio e l’introduzione di innovazioni tecniche, favorirà una espansione della domanda interna, non solo di produzioni chimiche “primarie” (in particolare, fertilizzanti), ma soprattutto di quelle di prodotti specializzati. Il programma prevedere perciò la promozione di iniziative in tre settori: a) quello dei prodotti sintetici per l’alimentazione del bestiame; b) quello dei fitofarmaci (diserbanti, anticrittogamici, insetticidi, ecc.); e) quello dei manufatti plastici per l’agricoltura. Si potranno, in particolare, prevedere in relazione alla creazione di nuove iniziative, sostegni per il finanziamento della ricerca e sviluppo, le cui esigenze sono in questi campi, notevolmente elevati((Ibid., p. 198.)).
Per l’agricoltura, oltre all’incremento dei fitofarmaci, di cui già si è detto e rispetto ai quali è bene ricordare che il testo critico di Rachel Carson, Primavera silenziosa, era suscito da Feltrinelli già nel 1963, si prevedeva il settore innovativo “dei prodotti sintetici per l’alimentazione del bestiame”, insomma la cosiddetta produzione di bistecche dal petrolio. Purtroppo, questo sciagurato progetto ebbe effettivamente un seguito agli inizi degli anni Settanta: gli animali, invece di nutrirsi con fieno e vegetali provenienti da pascoli o da colture dedicate, sarebbero stati alimentati con mangime di bioproteine ottenute da colture di microrganismi su frazioni commercialmente povere del cracking del petrolio. Vennero costruiti, con finanziamenti pubblici, due grandi impianti per la produzione di bioproteine, la Liquichimica a Saline Joniche in Calabria e l’Italproteine del gruppo eni a Sarroch in Sardegna, i quali ne avrebbero dovute produrre 100mila tonnellate l’anno. Di fatto non entrarono mai in attività perché si scoprì l’inevitabile tossicità di questi “mangimi” sintetici, mentre l’oil shock del ‘73 ne aveva addirittura fatto schizzare i costi ben al di sopra dei mangimi tradizionali((P. Bellucci, Le bioproteine: esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Feltrinelli, Milano 1980.)).
La soffocante e affaristica elefantiasi della petrolchimica
Per il resto il programma per la chimica era ben lontano dall’aggredire i veri snodi strutturali del settore che aveva visto negli anni Cinquanta tassi di sviluppo mai più registrati nel nostro Paese, con punte di eccezionale eccellenza proprio per l’industria chimica, grande protagonista del boom economico, che registrò mediamente un incremento annuo del 25%. Per quanto riguarda l’industria chimica la grande novità era rappresentata dal radicale cambiamento negli indirizzi produttivi introdotto nel dopoguerra dalle nuove tecnologie petrolchimiche, come il cracking (da to crack, fendere, spaccare), processo mediante il quale nella fase di distillazione della virgin naphta gli idrocarburi pesanti venivano trasformati in frazioni più leggere, ottenendo le olefine (etilene, propilene, buteni) e la serie degli aromatici, detti anche idrocarburi ciclici, come il benzene, il toluene e gli xiloli. Il vero boom di questo nuovo ramo della chimica organica si raggiunse con l’avvento dei polimeri (o chimica macromolecolare), dopo che nel 1954 gli studi del tedesco Karl Ziegler a Mulheim e dell’italiano Giulio Natta nei laboratori Montecatini (insigniti entrambi per questo del premio Nobel) consentirono di polimerizzare il propilene((F. Amatori, B. Bezza (a cura di), Montecatini 1888-1966, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 387-391.)). Così la chimica ed in particolare la petrolchimica diventano le vere protagoniste del boom, anche se nell’immaginario collettivo questo viene associato soprattutto allo sviluppo dell’industria dei beni di consumo durevole (l’automobile utilitaria, il frigorifero, la lavatrice). Questi simboli del cambiamento epocale determinatosi in quegli anni nei costumi e nella società italiana non si sarebbero imposti a livello di massa se le plastiche e le fibre sintetiche non avessero permesso un abbattimento dei costi rendendoli accessibili ad una vasta platea di consumatori. Non solo. Anche l’altro aspetto che ha accompagnato la rivoluzione sociale di quel periodo, cioè il passaggio da un’occupazione prevalentemente agricola ad una industriale, dal sud al nord e dalle campagne alle città, fu reso possibile dai processi di “modernizzazione” introdotti nei metodi colturali. L’esodo dalle campagne e la liberazione di un’ingente manodopera da impiegare nel decollo industriale fu il risultato di uno straordinario aumento della produttività in agricoltura favorito sì dalla meccanizzazione ma anche dall’immissione massiccia della chimica, con i concimi di sintesi e con la diffusione dell’impiego di insetticidi, antiparassitari ed erbicidi((Tra il 1960 ed il 1970 il consumo di fertilizzanti è passato da 8 milioni e 489 mila a 12 milioni e 747 mila quintali, con un aumento del 50%, mentre gli antiparassitari organici sono passati da 225 mila a 743 mila quintali, con un incremento del 330%; nel contempo il numero degli occupati si è quasi dimezzato da 6 milioni e 200 mila a 3 milioni e 700 mila. Cfr. C.C. Cesaretti, C. Donnhauser, Proposte per un’agricoltura ecocompatibile, in Istituto di Ricerche Ambiente Italia (a cura di) Ambiente Italia 1993, Milano, Edizioni Ambiente 1993, pp. 142-143. Si veda anche G. Fabiani, L’agricoltura italiana nello sviluppo dell’Europa comunitaria, in AA. VV., Storia dell’Italia repubblicana. Le trasformazioni dell’Italia. Sviluppi e squilibri, Torino, Einaudi 1995, pp. 298-348.)). Insomma, sembra di capire che effettivamente, al di là dell’enfasi comprensibile usata dai protagonisti di quella crescita impetuosa((Stiamo attraversando un periodo, che molti economisti tendono a chiamare della ‘rivoluzione chimica’, ciò in analogia alla rivoluzione industriale della fine del secolo scorso […] La ‘rivoluzione chimica’ interessa tutti i settori dell’economia e si concretizza in una graduale trasformazione e sostituzione di molti beni necessari al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo. L’essenza di questa rivoluzione è la ricerca”. Cfr. L. Morandi, L’industria chimica italiana nel 1953, in “La chimica e l’industria”, a. xxxvi, n. 4 (aprile 1954), pp. 275-282.)), senza la petrolchimica siano difficilmente spiegabili il ritmo e la qualità delle trasformazioni economiche di quel periodo in Italia e nel mondo. Questa cavalcata della petrolchimica nazionale vedeva come protagonisti, spesso tra loro concorrenti, l’industria privata, Montecatini, divenuta nel 1966 Montedison, dopo l’unificazione con l’Edison, rimpinguata finanziariamente dagli indennizzi ricevuti dallo Stato con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e l’industria pubblica, l’Eni che a partire dal 1954, attraverso l’acquisizione dell’Anic (Azienda nazionale idrogenazione combustibili) aveva attivato un proprio ramo nella chimica, costruendo un grande impianto petrolchimico a Ravenna per la produzione di fertilizzanti e di gomma sintetica. A questi protagonisti, negli anni Settanta, si affiancherà l’avventura della sir (Società italiana resine) di Nino Rovelli, che costruirà due poli petrolchimici a Porto Torres in Sardegna e in Calabria, godendo di ingenti finanziamenti pubblici, per imprese che in pochi anni entrarono in una crisi da cui non si sarebbero più risollevate. Sempre in quegli anni tempestosi della chimica italiana, è d’obbligo segnalare l’oscura, inquietante e controversa figura di Eugenio Cefis: dopo essere giunto a capo dell’eni, nel 1963, in seguito alla morte di Enrico Mattei in un incidente rivelatosi poi un attentato, avrebbe quindi scalato la Montedison divenendone presidente nel 1971 anche attraverso l’utilizzo di fondi neri della stessa eni, che comunque di fatto continuava a controllare, concentrando su di sé fino al 1977, quando si ritirò improvvisamente a vita privata in Svizzera, un enorme potere, economico, finanziario e politico, e diventando anche vicepresidente della Confindustria accanto a Gianni Agnelli((La figura di Eugenio Cefis è stata sempre molto discussa, oggetto di un’inchiesta che all’epoca fece molto scalpore, prodotta da G. Steimetz, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, Agenzia Milano Informazioni, Milano 1972, sparita immediatamente dal mercato poco dopo la sua pubblicazione, in cui si adombrava una responsabilità di Cefis nella scomparsa di Mattei oltre che indicarlo come vero fondatore della Loggia p2 ed ideatore di un programma di restaurazione autoritaria dello Stato in funzione anticomunista e di rigido allineamento atlantico. Questo testo fu assunto come filo conduttore da Pier Paolo Pasolini nell’ultimo suo romanzo, pubblicato postumo, con protagonista Aldo Troya alias Eugenio Cefis: P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992.)). L’oscurarsi delle figure imprenditoriali protagoniste di questo settore tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta ne accompagna anche il declino produttivo. I primi segnali premonitori si manifestarono proprio nel 1969, quando la produzione chimica, per la prima volta dal dopoguerra, registrò addirittura una flessione (- 0,9%), portando il passivo della bilancia commerciale del settore dai 39 miliardi del 1968 a ben 154 miliardi di lire((Andamento dell’industria chimica italiana nel 1969 in “La chimica e l’industria”, a. lii, n. 10 (ottobre 1970), pp. 999-1027.)). Il contesto, come si è visto, è di per sé alquanto burrascoso, con il futuro della chimica affidato a gruppi di potere non proprio limpidi ed a logiche di massimizzazione dei profitti, che si sviluppano all’ombra compiacente della politica e di generosi finanziamenti pubblici, ma che sfuggono del tutto agli interessi generali dello sviluppo del Paese. Una situazione, dunque, già ampiamente compromessa che non poteva essere di certo raddrizzata dal tentativo di programmazione del settore, appunto in seguito alle indicazioni pur generiche del Progetto 80, verso la fine del 1970 e nei primi mesi del 1971, promosso dall’ultimo governo di centrosinistra “storico”, curiosamente coevo della “primavera ecologica”. Il “piano chimico” elaborato da parte del ministro Antonio Giolitti e del segretario generale Giorgio Ruffolo, all’interno di un’ambiziosa quanto del tutto inefficace Programmazione economica prevista dal Progetto 80, fu il primo e unico tentativo di porre esplicitamente il tema delle prospettive dell’industria chimica all’interno di una progettualità di medio periodo. Purtroppo, ci si muoveva in una prospettiva culturale ed economica di crescita a livelli tali da ignorare del tutto non solo gli interrogativi che ponevano proprio in quegli anni i pionieri dell’ecologismo, ma anche la realtà della fase economica che si stava ormai lasciando alle spalle inevitabilmente gli anni d’oro del “miracolo”((La Montedison, il principale gruppo chimico nazionale, stava ormai da tempo accumulando perdite consistenti che la costringeranno ad una svalutazione delle azioni del 50% nel dicembre del 1972 e alla riduzione del capitale sociale da 749 a 374,5 miliardi di lire. Cfr. L. Gasperini, L’industria chimica nella storia italiana, D’Anna, Firenze 1974,p. 159.)). Così, candidamente, si prevedeva di quadruplicare la produzione dell’etilene, cioè della petrolchimica, tra il 1971 ed il 1980, con incrementi globali dei prodotti chimici dell’ordine del 15% annuo((L. Morandi, Principi di impostazione del “piano chimico” nazionale, in “La chimica e l’industria”, a. liii, n. 3 (ottobre 1970), pp. 269-274)). L’orizzonte era sempre quello di un’ulteriore crescita della petrolchimica, che sembrerebbe per certi aspetti paradossale per un Paese pressoché privo di petrolio. In realtà era un effetto quasi automatico di un processo che da tempo aveva visto l’Italia offrirsi come grande piattaforma della raffinazione europea, punteggiando le proprie pittoresche coste di colossali impianti: da un canto le grandi multinazionali americane miravano a farne una testa di ponte per la penetrazione nel mercato europeo, con poli industriali orientati alla lavorazione dei greggi mediorientali e alla successiva riesportazione dei derivati più pregiati, dall’altro anche imprenditori nazionali contribuirono alla crescita abnorme del settore, molto più del fabbisogno nazionale, per sfruttare anch’essi la vantaggiosa posizione geografica della Penisola. Così si passò da una capacità di raffinazione di 1,6 milioni di tonnellate annue nel 1938 a quasi 13 milioni di tonnellate già nel 1953((M. Perugini, Il fallimento dei progetti tecnologici di frontiera, in F. Amatori (a cura di), L’approdo mancato. Economia, politica e società in Italia dopo il miracolo economico, Annali, a. li 2016-2017, Feltrinelli, Milano 2017, p. 37.)). Ma oltre alla clamorosa distorsione quantitativa delle previsioni del Piano, la stessa classificazione dell’industria chimica risultava confusa e superata: riproponeva, ad esempio, la tradizionale divisione fra chimica inorganica ed organica, che la moderna scienza chimica riteneva ormai del tutto inadeguata((Cfr.: G. Illuminati, Le scienze chimiche negli anni Settanta, in “La chimica e l’industria”, a. lii, n. 12 (dicembre 1970), pp. 1207-1212.)), invece di concentrare l’attenzione su due sole categorie: “l’industria chimica pesante (gli heavy chemicals degli anglosassoni) […] comprendente i prodotti chimici di massa” e cioè la petrolchimica, il gruppo cloro-soda, i fertilizzanti tradizionali e “l’industria chimica secondariao se si preferisce industria chimica fine(da fine chemicals)”. Invece in Italia “l’industria chimica è orientata sulle produzioni di massa (heavy chemicals) ed è debole nei prodotti di alto contenuto tecnologico: infatti è in questo particolare spazio (fine chemicals) che la presenza di imprese straniere diventa sempre più pesante”((L. Morandi, Principi …, cit.)). Ma sui nuovi prodotti, grandi progetti non se ne vedono, si torna ad insistere sullo sviluppo delle fibre sintetiche nel tessile, sull’uso dei fitofarmaci e dei fertilizzanti in agricoltura, vedendo come unica possibile innovazione la produzione di bioproteine da residuati di petrolio, come additivo nell’alimentazione animale, di cui si è già detto più sopra. Un’ipotesi, quest’ultima, prospettata con grande enfasi, paragonata all’etilene per le plastiche, che risultò alquanto azzardata e fortunatamente impraticabile. Insomma si trattava di spingere ancora nel senso di una più massiccia iniezione di chimica nell’agricoltura, nonostante gli allarmi che da diverse parti venivano sollevati a questo riguardo. In conclusione l’ultimo vero dibattito sulle prospettive della chimica si dimostrò del tutto al di sotto delle reali sfide che attendevano il comparto, impermeabile a quella critica della tecnica che veniva avanzava in alcuni settori sull’onda del Sessantotto e ancor più alle motivate obiezioni del pensiero ecologista, e risultò sostanzialmente condizionato dalla fame di potere e di profitti della nuova “razza padrona”((E’ il termine coniato da Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani per il titolo del libro-inchiesta, dedicato, appunto, ad Eugenio Cefis. Cfr. E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, Feltrinelli, Milano 1974.)) e dalla cultura della crescita che aveva trionfato negli anni Cinquanta e Sessanta e che sarebbe stata traumaticamente sconfessata di lì a poco dalla crisi petrolifera del 1973-74((Tra il 1973 ed il 19744 si verificò la prima crisi petrolifera: tutta l’economia occidentale fu sottoposta al cosiddetto oil shock determinato da un improvvisa quadruplicazione dei prezzi del petrolio con gravi conseguenze per l’economia dell’Italia, ovviamente per la petrolchimica, del tutto dipendente dalle importazioni per il proprio approvvigionamento energetico. Cfr. A. Roncagli, L’economia del petrolio, Roma-Bari, Laterza 1982. Sulla situazione dell’economia italiana nei primi anni Settanta, Cfr. V Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’Ottocento ai giorni nostri, Torino, Einaudi 1995, p. 489ss; A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta europea, Torino, Bollati Boringhieri 1998; S. Garavini, Crisi economica e ristrutturazioni industriali, Roma, Editori Riuniti 1974.)). Nel frattempo la ristrutturazione della chimica nazionale, seguita alla profonda crisi della seconda metà degli anni Settanta, aveva cambiato il volto dell’intero settore. L’avventura della sir di Rovelli si era conclusa con un clamoroso fallimento agli inizi degli anni Ottanta((G. Trinchieri, Industrie chimiche in Italia. Dalle origini al 2000, Arvan, Venezia 2001, p. 271.)), la Montedison aveva cercato di superare le proprie difficoltà scorporando il comparto in perdita nella Montefibre, che però peggiorò ulteriormente la propria situazione costringendola a successivi tagli delle produzioni ed a chiusure di interi stabilimenti (Pallanza, Ivrea)((Ibid., pp. 252-253.)). La snia, gloriosa industria leader nel settore delle fibre artificiali, dopo un periodo travagliato in cui era entrata nell’orbita della Montedison, che nel 1972 ne deteneva il 30% delle azioni, era passata nel 1983 sotto il controllo della fiat, cambiando il nome da snia Viscosa in snia bpd (bpd da Bombrini Parodi Delfino, antica industria chimica produttrice di esplosivi ed acido solforico già prima della Grande Guerra, ed acquistata dalla snia nel 1968((Ibid., p. 245. La snia, quindi, nell’attuale secolo, preda di operazioni finanziarie spregiudicate, sarà portata al fallimento nel 2009.))). Ormai il destino della chimica italiana era segnato ed il settore lasciva lungo lo stivale innumerevoli siti, in gran parte dismessi ma altamente inquinati con cui ancora si devono fare i conti.
Energia a tutto nucleare
L’altro settore di vitale importanza è quello energetico che il Progetto 80 affidava quasi esclusivamente ad uno sviluppo massiccio del nucleare, per il quale vale la pena riportare per esteso gli ambiziosi programmi, anche alla luce di quanto poi avvenne, per fortuna, nella realtà:
Per quanto riguarda l’energia elettronucleare, la competitività economica ormai raggiunta da questa fonte nei confronti dell’energia termica tradizionale conferma la direttiva, già contenuta nel programma economico nazionale 1966-70, di coprire con energia elettronucleare i fabbisogni aggiuntivi di energia elettrica a partire dal periodo 1971-75. L’impiego crescente di energia elettronucleare contribuirà al conseguimento di una maggiore autonomia e diversificazione in campo energetico […]((Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, op. cit., p.76.)). L’impiego di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica va assumendo un’importanza crescente in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, sin dal 1970, oltre la metà dei nuovi impianti per la produzione di elettricità sarà costituita da centrali nucleari e tale quota è destinata ad aumentare rapidamente negli anni futuri. Nei Paesi della Comunità Europea la potenza elettronucleare installata raggiungerà, secondo le previsioni, circa 60 mila mwe nel 1980. In Italia si può stimare che, tra i programmi in corso e quelli in via di definizione, l’enel ordinerà nel decennio 1970-80 centrali elettronucleari per una potenza dell’ordine delle 10 mila mwe((Ibid., p. 194.)). Il programma di promozione si propone principalmente di far conseguire all’industria nucleare italiana una propria capacità di progettazione, condizione indispensabile per un suo efficiente sviluppo. In tal modo verranno cioè valorizzati gli sforzi compiuti in questo campo per la creazione di un rilevante apparato di ricerca e per la formazione di numerosi e qualificati ricercatori. Lo svantaggio in cui si trova l’Italia nel settore nucleare rispetto ai paesi più avanzati non appare certo colmabile in breve tempo. Pertanto il programma di promozione mentre sarà rivolto verso l’utilizzazione di tutti i progressi realizzati nei paesi più avanzati, individuerà contemporaneamente iniziative che consentano nel lungo periodo uno svincolo progressivo dal regime di licenza. A tal fine si identificano due linee di azione: la prima riguarda i reattori provati. La seconda riguarda i nuovi tipi di reattori. Per quanto riguarda la prima linea di azione che si colloca nel medio periodo, occorre principalmente promuovere la formazione di un autonomo patrimonio di conoscenze che è possibile conseguire anche nel regime di licenze, in cui operano le imprese italiane. Si tratta cioè di promuovere presso le imprese licenziatarie un’utilizzazione dei progetti che innesti un’adeguata attività di ricerca propria. In questo senso pertanto dovranno essere impartite direttive alle imprese pubbliche operanti nel settore. L’altra linea d’azione avrà come obiettivo lo sviluppo dei nuovi tipi di reattori. In questi campi le iniziative sinora sorte nei diversi paesi presentano pressoché pari possibilità di successo per il loro sviluppo a livello industriale in tempi a medio-lungo termine (metà degli anni ‘70) per i convertitori avanzati e a lungo termine (metà degli anni ‘80) per i reattori veloci. Il programma si svolgerà su tre direttive fondamentali: l’impegno e l’orientamento nella ricerca e sviluppo; la creazione per un organico e pronto passaggio dei risultati della ricerca e sviluppo all’attività industriale; il sostegno della domanda. Per quanto riguarda la ricerca e sviluppo essa sarà centrata nella formulazione di un piano a medio e lungo termine da parte del cnen che abbia come suo fondamentale obiettivo la realizzazione di prototipi nel settore dei convertitori avanzati e dei reattori veloci. La realizzazione di una produzione su scala industriale richiede che siano raggiunte dimensioni adeguate delle iniziative e che venga realizzato in modo organico il trasferimento in esse delle conoscenze ed esperienze acquisite dal cnen. Si dovrà perciò realizzare una concentrazione delle iniziative industriali mediante la costituzione, sul piano nazionale, di un unico consorzio per la progettazione dei nuovi tipi di reattori, che dovrà operare in stretta collaborazione con il cnen. Per quanto riguarda il trasferimento delle conoscenze acquisite dal cnen, sembra opportuno una sua partecipazione al consorzio. Ciò potrà avvenire in due modi: mediante il conferimento delle strutture del cnen attinenti alla progettazione del prototipo al consorzio; attraverso una partecipazione finanziaria di minoranza. In ogni caso occorrerà prevedere le necessarie modifiche istituzionali ed organizzative del cnen, per rendere possibile l’esercizio del ruolo propulsivo affidatogli. Una volta conseguita questa unitarietà di iniziative, si potrà – a seconda dei tipi di reattori; delle capacità e competenze sviluppate in campo nazionale; delle particolari prospettive commerciali che i diversi tipi di reattore potranno offrire – decidere di agire su un piano nazionale, oppure associarsi a eventuali consorzi internazionali. Risulta comunque opportuno che il nostro Paese, data la necessità di raggiungere dimensioni ampie per un efficiente sviluppo delle attività nucleari, ponga, a livello europeo, l’esigenza del coordinamento delle iniziative. Per quanto riguarda infine l’azione che potrà essere esercitata attraverso la domanda, si dovrà prevedere che, mediante la politica delle commesse dell’enel, venga impresso un adeguato sostegno, in caso di successo del reattore progettato, per il suo collocamento. Accanto al programma per lo sviluppo dei reattori occorre prevedere una specifica azione nel settore del ciclo dei combustibili. In questo campo l’attuazione della delibera del cipe del 2 agosto del 1968 in materia di approvvigionamento, di ritrattamento e d’arricchimento dell’uranio potrà consentire un grado soddisfacente di autonomia. In questo ambito va in particolare perseguita la partecipazione del nostro Paese ad iniziative internazionali per la realizzazione di un impianto per l’arricchimento di uranio; tale impianto, indispensabile per il conseguimento di adeguate disponibilità di combustibile nucleare, per il suo elevato costo non può infatti realizzarsi a livello nazionale((Ibid., pp. 195-196.)).
In altra parte della rivista((M. Ruzzenenti, Incidenti nucleari: una lezione per il futuro, “Altronovecento” settembre 2021.)) raccontiamo per sommi capi come andò a finire: sta di fatto che rispetto ai 10.000 mwe previsti dal Progetto si raggiunsero a malapena i 1.500 mwe effettivamente realizzati: al Nord, in Piemonte, a Trino Vercellese a 15 km da Torino, dove venne costruita la centrale del tipo pwr da 270 mw, entrata in funzione nel 1965; al Centro, nei pressi di Latina, a Borgo Sabotino, fortemente voluta da Mattei, una centrale del tipo gas-grafite da 216 mw, entrata in funzione nel 1964; al Sud, nelle campagne casertane di Sessa Aurunca nei pressi del fiume Garigliano, una centrale di tipo bwr da 150 mw, la prima costruita, entrata in funzione nel 1964, spenta dopo un incidente l’8 agosto 1978 e disattivata nel 1982; infine nel 1971 la costruzione a Caorso (pc) della centrale bwr da 850 mw che sarebbe diventata operativa nel 1981. Ma ogni successivo progetto, com’è noto, andò a schiantarsi contro i risultati del referendum abrogativo del 1987 che impose anche lo smantellamento delle tre centrali funzionanti.
Anche in questo caso, il Progetto 80 ignoravadel tutto l’altro filone alternativo per risolvere il problema energetico nazionale, l’energia solare, che proprio sul finire degli anni Sessanta vedeva in Giorgio Nebbia un attento studioso e divulgatore((G. Nebbia, G. Righini, L’energia solare e le sue applicazioni, Feltrinelli, Milano 1966.)), già protagonista dagli anni Cinquanta con i suoi distillatori solari((G. Nebbia, Alcuni nuovi studi sui distillatori solari, in “La chimica e l’industria”, a. xxxvi, n. 1 (gennaio 1954), pp. 20-27.)), e che trovava impegnato, tra il finire degli anni Sessanta e gli anni Settanta, Giovanni Francia nella ricerca sul solare a concentrazione, progettando la prima centrale elettrica solare a concentrazione al mondo, Eurelios, destinata ad entrare in funzione per conto dell’Enel ad Adrano nel 1981((gses, Giovanni Francia (1911-1980), https://www.gses.it/pionieri/francia.php. Il gses, Gruppo per la storia dell’energia solare, presieduto da Cesare Silvi, già ingegnere nucleare convertito al solare, ha prodotto numerose ricerche sui pionieri dell’energia solare. https://www.gses.it. Presso la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia è custodita una parte dell’ archivio di Francia, Fondo “Giovanni Francia”. https://www.fondazionemicheletti.eu/italiano/documentazione/archivio/dettaglio.asp?id=121&pagina=2)). Costoro raccoglievano e proseguivano la straordinaria e troppo ignorata storia della ricerca nel campo dell’energia solare in Italia((Dal 1998 è stato costituito il Gruppo per la storia dell’energia solare, gses, su iniziativa di Giorgio Nebbia, Pier Paolo Poggio e Cesare Silvi, che ne è il presidente. Cfr. www.gses.it.)), purtroppo minimamente presa in considerazione dal Progetto 80, di cui è doveroso ricordare alcuni dei più illustri protagonisti: innanzitutto, già agli inizi del secolo scorso, Giacomo Ciamician((Su Giacomo Ciamician (1857-1922) si veda: G. B. Bonino, Giacomo Ciamician, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 25, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1981, pp. 118-122; M. Venturi (a cura di), Ciamician. Profeta dell’energia solare, atti del convegno storico scientifico in occasione del 150° anniversario della nascita, 16-18 settembre 2007, Dipartimento di chimica Giacomo Ciamician, Università di Bologna, Fondazione eni Enrico Mattei, Milano 2008.)); quindi diversi ricercatori ed innovatori impegnati in particolare negli anni Trenta del Novecento, in periodo autarchico, a trovare nel sole l’alternativa ai fossili di cui l’Italia era priva, Gaetano Vinaccia, Mario Dornig, Luigi D’Amelio, Tito Romagnoli, Giovanni Andri, Daniele Gasperini, Alessandro Amerio((Si veda in particolare il capitolo v, Le fonti rinnovabili, la vera soluzione del problema energetico italiano, in M. Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, Milano 2011, pp.169-224.)).
In compenso, anche il nucleare come la petrolchimica, ci lasciava un carico inquinante difficilissimo da smaltire, rappresentato dal problema tutt’ora irrisolto della pesante eredità delle scorie e dei materiali contaminati recuperati dalla dismissione delle centrali.
“Liberi tutti” per la grande distribuzione nel commercio
Per concludere è utile anche dar conto di quanto il Progetto 80 prevedeva per il commercio e in particolare per la distribuzione in cui introduceva un’innovazione cruciale, in senso negativo, proprio per la gestione del territorio cui rimandava in teoria l’appendice sull’ambiente:
La direttiva principale in questo campo è di favorire l’affermazione delle forme moderne di commercio. Da un lato si tratta di consentire lo sviluppo della “grande distribuzione” secondo le esigenze del mercato, e, dall’altro di incoraggiare l’ammodernamento delle imprese tradizionali. La “grande distribuzione” è in fase di crescita, benché non abbia ancora raggiunto le dimensioni che essa ha negli altri Paesi avanzati dell’Europa. Lo sviluppo di questa forma di commercio è legato all’ampiezza e alla composizione demografico-sociale del mercato, nonché all’aumento del livello del reddito pro-capite. Questa tendenza non dovrà incontrare ostacoli amministrativi di carattere restrittivo, ma dovrà svolgersi nell’ambito della disciplina urbanistica. […] Condizione pregiudiziale per la realizzazione di forme moderne di commercio resta tuttavia la modificazione dell’attuale sistema di autorizzazione all’esercizio del commercio. Il criterio di subordinare il rilascio della licenza all’accertamento di requisiti obiettivi riguardanti le unità locali dovrà essere sostituito con quello basato sull’accertamento di alcuni requisiti di idoneità morale e professionale del richiedente. Questa modificazione potrà essere attuata con gradualità attraverso le seguenti tappe: 1) unificazione delle licenze per il commercio in sede fissa e ambulante; 2) istituzione di “albi” e fissazione dei requisiti necessari per esservi iscritti; 3) abolizione progressiva del sistema delle licenze((Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, op. cit., p.78.)).
Credo sia sotto gli occhi di tutti che cosa abbia comportato la liberalizzazione del commercio nei territori urbani e non solo: da un canto la desertificazione dei centri storici con la scomparsa dei negozi di prossimità, dall’altro il proliferare dei centri commerciali secondo una tendenza brutalmente darwiniana, di affermazione del più forte e distruzione del più debole, con una cementificazione selvaggia, non solo prodotta dalle superfici commerciali attive, ma anche dai parcheggi smisurati, nonché dai centri commerciali chiusi e annichiliti dalla concorrenza sregolata. Il tutto con le istituzioni locali pressoché impotenti a mettervi ordine.
L’analisi critica del Progetto 80 utile, forse, per valutare la qualità dell’attuale PNRR
L’analisi critica fin qui svolta potrebbe legittimamente essere ritenuta viziata dal cosiddetto “senno di poi”, problema con cui ha a che fare ogni storico, inevitabilmente condizionato dalla contemporaneità in cui è immerso. Proprio per questo abbiamo cercato di evidenziare come fossero già presenti all’epoca culture, ricerche, sperimentazioni che si muovevano in altre direzioni, poiché cominciavano ad acquisire consapevolezza della profondità della crisi ecologica.
Tuttavia, anche per il dibattito attuale sulla “transizione ecologica” ci sembrava importante evidenziare come non sia sufficiente un’attenzione doverosa al territorio e alla protezione naturalistica, come era previsto dall’appendice ambientale del Progetto, indubbiamente importantissima innovazione di per sé.
Infatti, se la crisi ecologica è stata prodotta essenzialmente dal sistema termoindustriale basato sui fossili e sulla infinita estrazione di risorse naturali, da un canto, e sul rilascio in ambiente di rifiuti tossici in forma solida, liquida e aeriforme, dall’altro, un Progetto 80 che non interviene in alcun modo a questo livello sottrae inevitabilmente credibilità anche all’appendice ambientale. A questo proposito, oltre a quanto più sopra rilevato, occorre ricordare che nel Progetto non si fa alcun cenno al contenimento delle emissioni industriali che a quell’epoca in Italia mancavano di qualsiasi regolazione e quindi controllo, mentre negli usa proprio con l’obiettivo di contenerle, nel 1970, Nixon creava l’Agenzia per l’ambiente, l’epa. In Italia abbiamo dovuto attendere il 1976 per avere una legge che regolasse le emissioni di sostanze tossiche dagli scarichi idrici delle industrie o che normasse le emissioni di veleni in atmosfera, e addirittura il 1982 per la prima legge sulla gestione dei rifiuti industriali. Ma il progetto 80 non ha la forza di affrontare il problema perché si teme di togliere al sistema industriale italiano, che cominciava già a mostrare qualche affanno dopo la sbornia del boom, un fattore decisivo di competitività, ovvero la disponibilità a titolo gratuito della risorsa ambiente.
Detto questo, non si può tacere che, appunto, proprio il Progetto 80 inaugura una prassi che sarà esiziale nei successivi cinquant’anni per i reiterati insuccessi nel fronteggiare davvero la crisi ecologica e che lo potrebbe essere anche per l’attuale pnrr. A partire da quella impostazione, il problema ambientale verrà considerata un tema settoriale, consegnato al volonteroso protezionismo naturalista e quindi assegnato ad un dicastero di fatto “senza portafoglio”, mentre le scelte vere, quelle che contano per il sistema economico e produttivo, si decidono su altri tavoli, nel frattempo dislocati sempre più al di fuori delle stesse istituzioni nazionali. E probabilmente, in questa trappola di settorializzazione, è caduto anche il movimento politico dei verdi italiani, che a differenza, ad esempio, della Germania, non è mai riuscito ad elaborare un progetto complessivo per il futuro del Paese, politico a tutto tondo, che contemplasse dunque una politica industriale, energetica, infrastrutturale, agricola, sociale, del lavoro, dell’ambiente, ecc. ecc.
In conclusione dal vaglio critico dell’esperienza del Progetto 80 forse si può ricavare qualche utile lezione anche per l’attuale pnrr e annessa “transizione ecologica”: se, nel nome della crescita ad ogni costo come obiettivo cui tutto sacrificare, ci si affida ancora una volta agli “spiriti animali” del capitalismo e del libero mercato ovvero alle grandi imprese che in cinquant’anni hanno dimostrato un sostanziale fallimento nel fronteggiare la crisi ecologica((Per una analisi argomentata dei cinquanta anni perduti dalla “primavera ecologica” del 1970 si veda: P. P. Poggio e M. Ruzzenenti, “Primavera ecologica” mon amour. Industria e ambiente cinquant’anni dopo, Iaca Book, Milano 2020.)), rischiamo di ripetere gli errori del Progetto 80 e di sperperare un’altra occasione. E qui lo storico può fermarsi.