Rappresentare il rischio: il corpo umano tra lavoro e ambiente in due fondamentali musei tedeschi

DHMD- Museo Nazionale d’Igiene, Biologia e Anatomia di Dresda

L’Esposizione Permanente

Entrando al DHMD la prima cosa che lo spettatore incontra e che difficilmente dimenticherà lungo il percorso è “L’uomo trasparente“, la riproduzione a grandezze naturale di un corpo umano e dei suoi apparati interiori. Dietro la sottile superficie di pelle trasparente che ne costituisce l’involucro è possibile osservare i vari strati e tessuti di cui si compone l’anatomia e la fisiologia del corpo umano. Non è immediatamente comprensibile in tutta la sua portata il significato che questo corpo ha assunto nel tempo per il Museo fino a diventarne il simbolo. È prima necessario inoltrarsi all’interno delle varie sezioni in cui si sviluppa l’esposizione permanente, ripensarlo sollecitati dal percorso. La mostra è articolata in 7 sezioni, sviluppate su un unico piano, in circa 2.500 mq di estensione:

1) L’uomo trasparente.

2) Vita e morte.

3) Mangiare e bere.

4) Sessualità.

5) Ricordare, pensare, imparare.

6) Moto.

7) Bellezza, pelle, capelli.

Passeggiando nella prima parte il visitatore si trova di fronte a corpi, o parti di questi, colpiti da malattie varie, i tessuti e le forme alterati, da ricondurre ad insufficienze igieniche. È una sezione storica, i reperti e le riproduzioni esposte riguardano l’800, e il 900 e sono funzionali ad introdurre un discorso sulla consapevolezza medica e la cultura dell’igiene. L’accento è posto naturalmente sulle scoperte scientifiche e tecnologiche. I progressi in campo medico portarono ad uno studio sempre più approfondito del corpo umano, rendendo accessibili e visibili anche i suoi strati più interni. Una importante momento fu certamente la scoperta dei raggi X sul finire dell’800, subito applicati in campo medico nei primi anni del nuovo secolo. Nel xix secolo si era affermata l’Igiene moderna, la Medicina Sociale, a partire da problematiche ambientali e sociali, legate all’urbanizzazione e all’industrializzazione. Inteso in senso ampio il sapere relativo all’igiene e alla benessere fisico è qualcosa di più antico ed ha una storia ben più lunga. Il Museo ricorda l’agopuntura cinese e tutta la sua teoria sottostante, che oggi sappiamo bene quanto si fondasse su conoscenze ed intuizioni profonde sulla natura del corpo e del suo benessere, a loro modo “scientifiche”. Inoltre nell’ambito della cultura occidentale e delle sue origini la rappresentazione museale ricorda l’uomo greco, il suo ideale di perfezione del corpo, di bellezza e benessere, forma e salute.

Igiene, corpo, trasparenza, ma sempre in relazione al contesto culturale e sociale più ampio. È ancora in questa sezione che viene menzionato come un grande impulso verso una maggiore conoscenza delle problematiche relative all’igiene ed alla salute dell’uomo venne dalla trasformazione in senso industriale delle società moderne. Il lavoro industriale ebbe un impatto devastante sui corpi umani: le miniere, la macchina a vapore, le prime fabbriche, l’ammassamento di popolazioni in vecchie e nuove città, portarono milioni di uomini, donne e bambini all’interno di ambienti insalubri, pericolosi, per le sostanze inalate, toccate, mangiate, con i quali lavoratori si trovavano quotidianamente a contatto. Le prime leggi sulla sicurezza in Germania vennero varate in conseguenza di questo impatto devastante, e non solo a partire da considerazioni religiose, umanitarie o sociali. La guerra necessitava di corpi sani e forti per essere combattuta, vinta. Era necessario porre dei rimedi al lato oscuro e tragico dell’industrializzazione, per non compromettere la sorte della nazione, gettare le basi dei suoi futuri sviluppi. Anche i lavoratori si organizzarono, con i sindacati, i partiti, per difendere il benessere e la salute, farne un diritto. La legislazione sociale fiorisce a partire dalla seconda metà dell’800, quando la guerra comincia a rivelare un volto moderno, di massa, quando le associazioni dei lavoratori diventano a loro volta macchine moderne, di massa, sempre più consistenti numericamente, consapevoli, forti.

Ma questa è solamente la prima sezione. È importante prenderla in considerazione nella sua ampiezza, perché il successivo percorso si sviluppa in direzioni plurali, allargando ulteriormente il discorso, approfondendo determinati ambiti, ma sempre all’interno di questa cornice cognitiva. Dopo un breve viaggio all’interno del corpo umano, dalla sua origine a livello di cellula fino alla sua morte, l’utente incontra una sezione dedicata al cibo. L’igiene, la salute vengono qua presi in considerazione non solo come carenze, ma nei loro sviluppi positivi, come benessere, attraverso il tema dell’alimentazione. Il cibo è cultura, esistono una pluralità di “cucine”, che si sono sviluppate negli anni, nei secoli, in relazione con il contesto ambientale, climatico. Tutte le culture alimentari condividono oggi preoccupazioni relative all’inquinamento, che fa del cibo veicolo di potenziali minacce. La sensibilità e la percezione verso questi rischi sono in continuo aumento, così come la consapevolezza delle tematiche ambientali, nonostante questa conoscenza conviva con stili di vita e comportamenti contrastanti. Il museo sviluppa questi aspetti, sottolineando la stretta relazione tra una buona alimentazione, e quindi la prevenzione, la profilassi, ed il benessere del corpo, tra questo ed il benessere della mente. Il cibo, l’attenzione verso la qualità, la bontà, vengono prese in considerazione come cura di sé, e questa osservata nella sua interazione con l’ambiente. Il fragile ed esposto corpo umano è sempre cultura, ambiente, soprattutto a partire dal punto di vista dell’igiene.

La prospettiva adottata non è mai riduzionista, piuttosto è tesa a prendere in considerazione l’essere umano ed il corpo nella sua massima ampiezza. Questo aspetto è visibilissimo nella parte dedicata alla sessualità. Qua il corpo viene preso in considerazione come linguaggio, comunicazione, che si esplica a partire dal sostrato più biologico fino ad arrivare alla comunicazione verbale. Il percorso invita a riflettere sui differenti livelli di comunicazione, sull’importanza di un sorriso, di un gesto, del suono della voce, dell’odore. La comunicazione verbale non è che una piccola parte di questo sistema, dove la simpatia e l’antipatia, l’attrazione e la repulsione sono determinati da un complesso di fattori, visibili ed invisibili, associati alla condizione fisica e psichica. La sessualità viene quindi analizza nella sua funzione riproduttiva, ed essendo questo un Museo dell’Igiene, vengono sviluppate le questioni relative ai problemi di riproduzione, connessi a loro volta alla salute ed al benessere, e quindi lo sviluppo scientifico del settore, la dimensione artificiale.

L’esposizione permanente prosegue affrontando lo sviluppo della scienza in rapporto, dopo la riproduzione sessuale, al cervello umano, alle nanotecnologie, esaltando le possibilità conoscitive e quindi profilattiche delle nuove acquisizioni. Ma finisce con una collezione molto ampia di oggetti per la cura del corpo, estetica e igienica, esposti sopra una sorta di isola, all’interno di uno spazio più ampio dedicato al moto. Su queste pareti, utilizzando tecnologie avanzate, l’utente interagisce a vari livelli con strutture che ne mettono a prova il corpo, il coordinamento, le potenzialità. Sono certamente queste ad attrarre maggiormente lo spettatore: a questo punto dell’esposizione ha dimenticato le riproduzioni di corpi infetti della prima sezione, e rinfrancato dalle mostre su cibo e sessualità, dalle potenzialità della scienza, ha certamente posto il corpo al centro del proprio interesse, e a questo punto si vuole cimentare in qualche prova. Si tratta della parte dove c’è stato un maggiore investimento in tecnologie, la più leggera di questo percorso museale. Ma non sembra catturare l’attenzione a lungo, soprattutto delle persone più adulte, che preferiscono rilassarsi osservando la magnifica collezione di antichi oggetti da toilette, risalenti a più epoche storiche ((“Dresda conserva come prestito permanente la collezione Schwarzkopf, composta di oltre 2.000 pezzi sulla storia della bellezza e cura dei capelli. Si tratta di un’affascinante vetrina dedicata a 5.000 anni di cultura sulla cura del corpo e sulla salute dell’uomo: antichi rasoi, forcine per capelli, attrezzi per barbieri e parrucchieri, toilette da bagno in ceramica, pettineuse, portacipria, testiere per parrucche, “attira-pulci”, ovvero piccoli contenitori in avorio con forellini riempiti di melassa in cui cadevano le pulci che proliferavano nelle parrucche e negli apparecchi per la permanente. Un corredo grafico di immagini sugli antichi mestieri di barbiere, parruccaio, profumiere con scene illustrate del XVIII secolo completano il percorso espositivo che ci svela tutti i segreti sul culto della bellezza e dell’igiene personale attraverso varie epoche e culture: dall’antichità al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco, dal Classicismo ai giorni nostri”, tratto da “Destinazione Germania. Musei“, www.vacanzeingermania.com)). Una lunga serie di minuti articoli per la cura quotidiana dei capelli e del corpo, e la ricostruzione di ambienti e toelette, attraverso arredi, allestimenti di reperti, opportuna per immaginare i piccoli gesti, tutto il sapere pratico necessario per usarli con capacità, eleganza. È lo strato più superficiale dell’uomo trasparente a venire infine preso in considerazione, dopo un lungo viaggio tra interno ed esterno, malattia e benessere, sostanza e forma, igiene e ambiente. Il corpo alla fine di questo percorso, appare come un testo, da leggere ed interpretare a vari livelli, da osservare scientificamente nella sue vulnerabilità e nelle sue potenzialità, fisiche e psichiche, o da conoscere e ascoltare, scoprendo la bellezza nel benessere, nella cura del sé e dell’ambiente, non solo in quanto estetica, piuttosto come etica della prevenzione. Non sembra affatto esagerata la definizione assunta da questa istituzione, che vanta quasi un secolo di storia e conserva la sua denominazione originaria di Museo dell’Igiene, di Museo del Corpo Umano, o meglio ancora Museo dell’Uomo. Sotto questa veste, emersa soprattutto negli ultimi decenni, il museo ha saputo rinnovarsi in coerenza con la sua originaria impostazione, e suscitare nuovi interessi presso il pubblico più vasto, pur trattando una materia, certamente non facile da divulgare e rappresentare ((

“La fondazione del Deutsches Hygiene-Museum si deve all’iniziativa (1912) dell’industriale di Dresda Karl August Lingner (1861-1916), il produttore del colluttorio Odol. Nel 1911, Lingner fu uno dei protagonisti della “Prima esposizione internazionale sull’igiene” che richiamò a Dresda oltre cinque milioni di visitatori . Durante la Repubblica di Weimar, il museo contribuì enormemente a democratizzare e diffondere i concetti di salute e sanità grazie a forme di presentazione comprensibili a tutti. In occasione della “Seconda esposizione internazionale sull’igiene” del 1930, il museo fu trasferito nell’edificio progettato da Wilhelm Kreis (1873-1955) in cui ha sede ancora oggi. Il pezzo di maggior richiamo della mostra era l’Uomo di vetro, che è divenuto il simbolo del Deutsches Hygiene-Museum ed è oggi come allora uno dei suoi oggetti più rappresentativi.

Dopo il 1933, il patrimonio ideale e l’indirizzo pedagogico del museo, insieme ai suoi metodi di comunicazione moderni e molto progrediti, furono messi al servizio dell’ideologia razziale nazionalsocialista. Il bombardamento di Dresda nel febbraio 1945 distrusse gran parte del museo e degli oggetti che componevano la preziosa collezione. Durante gli anni in cui Dresda fece parte della Repubblica democratica tedesca, il museo assunse un compito paragonabile a quello che ricopriva la Bundeszentrale für gesundheitliche Aufklärung (Centrale federale per l’educazione sanitaria) nella Germania ovest. Dopo il 1991 è mutata radicalmente l’immagine del Deutsches Hygiene-Museum che, come “museo dell’uomo”, si riallaccia con mezzi contemporanei al principio innovativo che ne aveva visto la nascita. Nel 1999 il Deutsches Hygiene-Museum è stato trasformato in fondazione di diritto civile.

Dal 2002 al 2006, l’edificio che ospita il museo è stato sottoposto a un risanamento e una modernizzazione completi a opera dell’architetto professor Peter Kulka che lo ha riportato allo stato originale, inglobando al contempo elementi moderni nella struttura. Ne è scaturito un dialogo teso ed esteticamente convincente tra l’edificio storico risalente al periodo classico della modernità e un personalissimo linguaggio architettonico contemporaneo”. . http://www.dhmd.de/ Presidente del Consiglio direttivo e Direttore del Museo è Klaus Vogel.))

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Il percorso museale oltre a basarsi su reperti, si sviluppa grazie all’ausilio di riproduzioni, video, filmati, giochi, ai quali si accede soprattutto con l’utilizzo di computer disseminati lungo il percorso. Sono sempre momenti di approfondimento, a tratti concepiti come veri e propri test, con i quali l’utente è portato ad interagire per mettere alla prova il suo grado di comprensione degli argomenti trattati. Una interazione quella proposta dal museo volta soprattutto ad informare, istruire, stimolare riflessioni, anche nei suoi momenti più ludici. La rappresentazione museale nell’allestimento degli spazi, non è mai spettacolare. Si sviluppa su un solo piano e le stanze che la contengono, non particolarmente ampie e regolari, non sembrano prestarsi allo sviluppo di particolari scenografie. La parte più avanzata tecnologicamente non stupisce e non coinvolge molto a lungo gli spettatori. Le soluzioni adottate danno la sensazione di essere invecchiate precocemente, e per quanto portino il corpo dell’utente al centro del percorso non presuppongono una interazione complessa, capace di catturare l’attenzione, di aprire effettivamente ad un nuovo livello di coinvolgimento e apprendimento. È interessante rilevare però la filosofia di fondo. Dopo una rappresentazione, divisa in sezioni tematiche, che si sviluppa attorno al linguaggio del corpo, la vulnerabilità e le potenzialità dell’organismo, lo spettatore è portato a relazionarsi su un piano diverso, dove è lui stesso ad essere al centro dell’attenzione, ad interagire con macchine e supporti che misurano le sue capacità. Piuttosto sobria anche quando utilizza soluzioni tecnologiche, il fascino che esercita l’esposizione deriva sicuramente dalla capacità di affrontare la tematica dell’igiene in relazione con vari aspetti della vita quotidiana, attraverso la pratica della prevenzione e della cura di sé, offrendo approfondimenti scientifici stimolanti e leggeri.

Sotto la veste sempre più appropriata di Museo dell’Uomo, il Dhmd, nell’ultimo decennio ha consolidato la sua importanza, evidentemente non circoscritta alla sola regione di appartenenza.

Un fattore importante nel segnalare la vitalità del Museo, la sua capacità di rinnovarsi e di rispondere alle mutate sensibilità ed attese, è stata certamente l’apertura di una apposita sezione riservata ai bambini. Dal 2005 è aperto il “Kinder Museum”, su un’area di ben 500 mq allestita per creare una esposizione-laboratorio, uno spazio di esperienze. Qua, in coerenza con il tema e l’impostazione formativa generale, effettivamente è possibile misurare le possibilità di apprendimento sollecitate dal gioco e dal contatto con vari materiali ed esercizi. Tutti i musei di nuova generazione prevedono appositi spazi per bambini, per rispetto verso una fascia numerosa ed importante della popolazione, e per il ruolo che le istituzioni museali possono avere nella formazione accanto alle scuole, che spesso non possiedono gli ambienti e le competenze per sviluppare certe tematiche in modo così ampio ed efficace. Non stupisce che quello del Dhmd sia molto frequentato, i bambini si divertono passando del tempo suo interno, si tratta di una vera e propria esposizione da conoscere giocando, pensata con grande serietà e intelligenza.

Il museo è anche una importante sede culturale. Ospita congressi ed eventi su questioni sociali e culturali legate al mondo attuale, e allo sviluppo delle scienze. Possiede una importante biblioteca aperta al pubblico, con oltre 30.000 testi consultabili, su vari supporti multimediali. I circa 1.600 reperti esposti sono parte di una collezione che oggi raggiunge 30.000 pezzi, sulla storia dell’educazione sanitaria e dell’igiene nella vita quotidiana. Ma forse più di tutto, hanno contribuito ad attrarre attenzione e visitatori le importanti mostre temporanee allestite negli ultimi anni. Queste vengono curate con una particolare attenzione alla dimensione scenografica, al coinvolgimento del pubblico e gli spazi vengono concepiti in collaborazione con architetti, designer, sociologi e scienziati. Il Museo promuove esposizioni che trattano temi di grande attualità, connessi alla concezione dell’uomo elaborata nella parte permanente, che mantengono costantemente viva l’offerta culturale proposta dal Museo. Nell’ultimo decennio sono state proposte le seguenti: “L’uomo nuovo“, “Il cosmo in testa“, “L’uomo imperfetto“, “I dieci comandamenti“, ” Il mito Dresda“. Abbiamo avuto la possibilità di visitare una di queste esposizioni tra il 2009 e il 2010, ne cui forniamo di seguito un breve commento

Un esempio di esposizione temporanea: WORK; MEANING AND CARE

L’esposizione “Work, Meaning and Care“((L’Esposizione è parte del progetto “Il Futuro del lavoro”, promosso dalla Federal Cultural Foundation.)), si è svolta dal 25 giugno 2009 all’ 11 aprile 2010. Il tema proposto è il lavoro contemporaneo, che come annuncia una piccola guida in tedesco ed inglese, viene affrontato a partire da interrogativi molto spregiudicati sull’attuale società e sul suo futuro. È importante segnalare il particolare della doppia lingua, perché gli stessi materiali cartacei sono solo in lingua tedesca per la mostra permanente, e la presentazione delle traduzioni è integrale solo per l’esposizione temporanea.

Per chi ha visitato la mostra permanente è evidente fin da subito una particolare attenzione nella concezione e nell’allestimento della temporanea. A partire dall’utilizzo dello spazio. Anche in questo caso i supporti tecnici utilizzati per creare vari livelli di fruizione ed approfondimento sono soprattutto video filmati, ma sono inseriti all’interno di una ambientazione molto più avvolgente per lo spettatore, disposti ed utilizzati in modo più vario e creativo. Le cinque stanze in cui si dispone, sono divise da scenografie differenti, tese a produrre nello spettatore una molteplicità di esperienze. Lo sviluppo dei contenuti è lineare, sostenuto dall’incalzare di domande “semplici” sul significato del lavoro oggi, ma suddiviso in capitoli con colori e suoni differenti, da percorrere a diverse velocità, ora strisciando ai margini della stanza, ora seduti al centro, sempre di fronte a monitor, grandi, piccoli, dalla presenza discreta e rarefatta agli inizi, poi ammassati in pile, diffusi su colonne, appesi alle pareti, fino a divenire grandi come le stesse, e avvolgere un’intera sala. Una sorta di mimesi della società della comunicazione, straniante per l’eccesso, la caricatura.

Fonte primaria attorno alla quale è costruita la narrazione della mostra sono una serie di interviste a persone con percorsi lavorativi e di vita molteplici, strutturate attorno ad un gruppo di interrogativi. Tra gli intervistati compaiono curiosamente anche dei bambini, anche loro intenti a rispondere sui modi ed i tempi della loro vita quotidiana. A queste esperienze e punti di vista soggettivi sono stati affiancati utilizzando le pareti, enormi grafici, con diverse soluzioni visive, che esprimono le risposte quantitative agli interrogativi sottostanti le interviste. Apriva la mostra un montaggio di brani concentrati sulla descrizione di una normale giornata di vita. La sveglia, i mezzi di trasporto, il traffico, le ore di lavoro, i pasti, il ritorno a casa, ecc… Chi lavora si alza molto presto, deve spesso percorrere della strada per recarsi sul posto, per tornare a casa le sera, le giornate appaiono incatenate al lavoro, condizionate pesantemente dalla sua forma, erose dal tempo. Anche le esperienze dei bambini sembrano segnate in questo senso, la loro vita un dinamico affaccendarsi. D’altro canto c’è chi non lavora, chi non lavora abbastanza, chi è costretto a passare il suo tempo nella ricerca di una occupazione, nella formazione in vista di una occupazione, o nella noia, nella depressione. Ampi e contradditorie appaiono fin dall’inizio le questioni a cui si trova di fronte lo spettatore. I grafici che sulle pareti illuminano i trend degli ultimi decenni e i numeri della società tedesca contemporanea, mostrano come le ore lavorate nel complesso siano costantemente diminuite, in modo più o meno regolare. A sorprendere è spesso la distanza che sembra separare le tendenze storiche, i valori medi da queste espresse, dalle vite e voci dei singoli. In generale è la rappresentazione corrente del posto del lavoro nella società contemporanea ad essere messa in tensione, da più parti. Tra le questioni quella del lavoro e del tempo libero; del salario e del suo utilizzo; della soddisfazione e delle attese; affrontate attraverso domande molto dirette quali: Quanto lavoreresti se dipendesse da te? Quale significato ha il lavoro per te? Quali obbiettivi consideri importanti per il tuo lavoro? Che cosa ti rende felice nel tuo lavoro? Come spendi il tuo denaro? Qual è il costo del tempo libero? Ti annoi mai? Vuoi cambiare il mondo attraverso il tuo lavoro? Paure e speranze?

Il quadro che emerge è quello di una situazione molto segmentata, contraddittoria, ma che nel complesso indica quanto il lavoro sia ancora oggi centrale nella vita delle persone, anche di chi non lo possiede, non solo per la sua diretta relazione con il salario ed il potere economico. Il lavoro e la sua esperienza non stratifica le persone solo in base al reddito, al potere, alla precarietà dei contratti, ai suoi ritmi, ma anche alla soddisfazione connessa, al tempo libero, alle attese. E queste dimensioni si trovano sovrapposte o meno, compresenti ma nelle forme più diverse, nelle vite di ogni singolo. C’è chi lavora e non percepisce nemmeno un reddito, perché truffato o perché volontario, e chi sacrificherebbe volentieri un po’ di salario ad una maggiore qualità della vita, e quantità di tempo libero, ma non può fermarsi. Chi ha un rapporto più strumentale con il lavoro, e pensa solo alla fine della giornata, e poi del mese, chi cerca nel lavoro un ambiente umano, nel quale realizzarsi, partecipare. Il tempo libero d’altro canto appare spesso troppo poco, pieno anche questo di cose da fare, di corsa, accanto ed oltre il lavoro, per la casa, la famiglia, per sé. Per chi è in cerca di occupazione c’è invece la noia, lo stress, la ricerca e la formazione, gli stage ed i tirocini, spesso gratuiti.

A circa metà del percorso espositivo si tratta anche dei rischi e delle malattie connesse al lavoro. I grafici mostrano come sono soprattutto i disturbi di origine psichica ad essere aumentai, connessi allo stress, agli stili di vita. Le interviste raccontano del traffico, di inquinamento ambientale e acustico, dei ritmi di lavoro e della precarietà, dell’erosione di determinati diritti, di pasti di dubbia qualità consumati in fretta, delle frustrazioni nella ricerca di una occupazione o sul posto di lavoro, di dolori e acciacchi vari. Molti dei rischi connessi al lavoro contemporaneo, sempre più terziarizzato, sono di medio e lungo periodo, provocati da minacce forse meno visibili che in passato, che intaccano in modo forse meno diretto, ma altrettanto insidiosi per la salute ed il benessere del corpo umano. Quasi provocatoriamente accanto ad un grafico che espone le ore di lavoro perdute negli ultimi decenni per disturbi psichici ne è stato posto uno analogo che traccia il quadro per le ore non lavorate per sciopero, che hanno invece conosciuto una decrescita serena negli ultimi anni.

Cambia l’economia, la produzione, ma anche le sensibilità, gli stili di vita, i bisogni. Condizioni oggettive e soggettive si intrecciano in un divenire, in cui il lavoro continua ad avere un ruolo centrale. È soprattutto questo ad emergere lungo il percorso, la centralità del lavoro nella vita delle singole persone, e le contraddizioni di questo fatto di fronte all’evidente trasformazione dell’economia e della società. Un dato che stride con gran parte della rappresentazioni sociali correnti, ma anche con i profili tracciati dalle tendenze storiche. Come se il tempo liberato dal lavoro continuasse ad essere ad esso sussunto, ed il lavoro irretisse anche la vita vissuta fuori dai suoi spazi. Le interviste e i dati esposti mostrano che è aumentato il tempo dedicato allo shopping, alla spesa, in generale ai consumi, compresi la cura di sé, l’analista, la palestra. Ma è interessante notare come molte persone sentono di avere poco tempo veramente libero, da dedicare a se stesse, agli affetti, e vivono tutto questo come connesso alla giornata di lavoro, intesa in senso ampio, sociale. Non è certo una conseguenza diretta del lavoro se certe pratiche sono diventate cultura diffusa, bisogni, ma dal tipo di occupazione dipende molto la possibilità e il modo di soddisfarli, e questi hanno spesso una influenza sulla vita lavorativa. Anche osservato da questo punto di vista, il confine tra lavoro e tempo libero, tra occupazione e disoccupazione, sembra farsi sempre più poroso, complesso, attraversato da fenomeni che ne mettono in tensione il senso. Il tempo dedicato alla formazione è l’esempio più evidente, ma la stessa ricerca di una occupazione è sempre più un lavoro, e certi consumi sono evidentemente strumentali alla promozione di sé, sul lavoro e non, certi canoni estetici divengono stringenti, mettersi al lavoro oggi significa anche modellarsi attorno ad essi. Per non parlare delle occupazioni connesse alla casa, alla famiglia, al tempo passato sui mezzi di trasporto o a fare la spesa. Significativamente in questa stanza accanto ai video sono poste su di un piano inclinato, perfettamente in riga, delle scarpe consunte, deformate dall’uso. Possiamo immaginarle ciondolare sui marciapiedi, o correre dietro un tram, attraversare strade, ed entrare in ufficio. Simbolo in ogni caso di affaccendamento, dinamismo, corsa. La prima parte della mostra termina con questi interrogativi sul ruolo ed il significato del lavoro oggi, illuminati dalle esperienze di una molteplicità di vite, dagli scarti tra queste e le rappresentazioni correnti.

La mostra prosegue nella successiva sezione con videointerviste a testimoni privilegiati: vari esperti del settore parlano da monitor istallati in circolo attorno ad una colonna posta al centro della stanza. Per terminare indicando alcuni possibili scenari per fare fronte ai problemi relativi al mondo del lavoro odierno. Come fare fronte alle disparate esperienze emerse dalle storie di vita? Spesso così distanti ed in contraddizione tra di loro? Il lavoro come abbiamo visto continua a rivestire un ruolo centrale nella vita delle persone, anche troppo da molto punti di vista, nonostante l’impossibilità di creare nuova occupazione, la flessibilità dei contratti, la tendenza generale alla riduzione delle ore di lavoro nella società. Gli scenari proposti sembrano mostrare che solo un complessivo ripensamento dell’attuale società del lavoro può andare incontro alle complesse questioni emerse. Ad esempio il terzo scenario propone di formalizzare il lavoro solo dopo i 40 anni, lasciando agli individui tempo per gli studi, la formazione, le esperienze, nel concepire una famiglia, sostenendolo in questa fase con una “pensione”. La vita si allunga, è possibile lavorare più anni, ed inoltre è solo sulla soglia dei 40 anni che effettivamente oggi le persone vanno incontro ad una occupazione stabile. In questo modo la famiglia e le esperienze non verrebbero vissute con la frustrazione attuale. Per parlare del futuro i video al posto delle consuete interviste utilizzano animazioni i cui pupazzi assomigliano in tutto ai “mitici” Mappet. Finisce qua la mostra in fondo ad una stanza, dove gruppi colorati di parallelepipedi di altezza diversa formano l’ultima installazione, arredata da scritte e piccoli monitor, lo spettatore seduto di fronte a scenari futuribili. Non resta che tornare indietro, ripercorrere tutto a ritroso, ripensare tutto a ritroso ((Il responsabile della esposizione temporanea è Klaus Vogel, che dirige anche il Museo)).

La mostra temporanea interagisce positivamente con il percorso museale complessivo, le due esposizioni si arricchiscono di significato pensate nella loro relazione. È il corpo dell’Uomo trasparente, con tutti i significati che questo ha acquisito durante la visita alla esposizione permanente ad incarnarsi in ogni testimonianza; dietro ogni singolo volto, ora sappiamo vedere un corpo vulnerabile, a vari livelli. La testimonianza di chi si alza presto la mattina, corre per raggiungere il posto di lavoro, attraversa traffico ed inquinamento, pranza in un bar, torna a casa la sera stanco, passa poco tempo e di qualità bassa con la famiglia, evoca non solo il dinamico affaccendarsi di una società moderna, lo stress, ma i danni visibili ed invisibili che minacciano gli uomini. Non stupisce che a fronte di una continua diminuzione di incidenti mortali sul lavoro, dovuta anche alla trasformazione dell’economia e della produzione, i nuovi rischi presi in considerazione nella mostra temporanea sono connessi ai tempi e metodi dell’attuale lavoro, agli stili di vita ad esso connessi. Disturbi della personalità, malattie del sistema nervoso, ed organiche che sono difficilmente riconducibili direttamente ed esclusivamente al lavoro, inteso come posto di lavoro, ma che sembrano in relazione più in generale con le forme di vita contemporanee e l’ambiente, all’interferenza di vari fattori. Infine il lavoro appare una istituzione centrale, troppo centrale nella vita dei singoli, per la loro salute e benessere, a fronte di trasformazioni economiche e sociali che rendono questa centralità problematica, nella sua forma attuale.

DASA – German Occupational Safety and Health Exhibition.

Man, Work, Technology – Dortmund

È importante sottolineare l’importanza che il corpo umano e l’uomo in generale hanno assunto nel Museo di Dresda, a partire da una prospettiva relativa all’igiene, perché appare evidente una certa continuità nell’esperienza del DASA di Dortmund. Sicuramente tra queste istituzioni è possibile ravvisare una relazione molto più profonda che non tra Dasa e Museo della Tecnica di Berlino e Museo del Lavoro di Amburgo, che pure trattano di materie affini. E questa relazione non attiene tanto alla sovrapposizione delle tematiche, ne allo stile della rappresentazione museale, ma piuttosto allo sguardo sull’uomo, nella prospettiva sviluppata nei rispettivi terreni di ricerca. Entrando al Dasa, un museo che si propone di esplorare la relazione tra uomo, lavoro e tecnica, la prima cosa che il visitatore incontra è significativamente un cerchio di metallo, posto al centro dell’ingresso e quindi precedente alle esposizioni, dove in una spirale di anelli concentrici vengono ricordate le date più importanti inerenti la legislazione sulla protezione della salute e del corpo umano al lavoro. Le prime date risalgono al periodo preunitario l’ultima al 2000, sancisce la recezione di una legge comunitaria, europea, e coincide con l’apertura del museo nel suo complesso al pubblico ((Il Dasa ha aperto la sua attività al pubblico nel 1993 come parte del Federal Institute for Occupational Safety and Health, e ha completato il suo allestimento nel 2000, in occasione dell’Esposizione Mondiale “Expo 2000”. Nel 1996 il Dasa è stato il primo vincitore del “Micheletti Award”. President of BAuA: Isabel Rothe; Head of DASA: Dr. Gerhard Kilger; Responsible: Dr. Gerhard Kilger.)). Sono queste le prime informazioni proposte dal museo, e forniscono delle coordinate essenziali a dare un senso alla successiva esposizione, incorniciandola all’interno di date, di epoche, che verranno riprese più diffusamente e raccontate all’interno del percorso espositivo. Subito dopo però, sulla soglia della mostra permanente, troviamo ancora il ” corpo trasparente“, simbolo di Dresda, posto significativamente in apertura anche all’interno di questo museo. Come al Dhmd, al Dasa di Dortmund è l’essere umano in quanto corpo ad essere certamente il protagonista della narrazione proposta. E questa sembra essere la novità più interessante e l’elemento distintivo, di questa proposta museale. Evidentemente c’è sempre l’uomo dietro a qualsiasi storia e musealizzazione del lavoro e della tecnica, e questa presenza può essere evocata solo in modo indiretto, tramite una rappresentazione, ma spesso le mostre proposte nei musei tradizionali appaiono riduttive, le macchine inerti e le istallazioni mute, nonostante il loro valore di reperti e la loro importanza storica. Se rispetto a Dresda c’è sicuramente un salto nelle soluzioni proposte a livello espositivo, nel grado di interazione permesso ed auspicato, nei confronti dei musei di Berlino ed Amburgo, lo scarto è presente anche nella prospettiva assunta. Nel complesso il Dasa brilla come una stella all’interno di questa costellazione di musei, ed è evidente l’ intento di colpire e sorprendere, di sconvolgere addirittura le aspettative con cui ogni utente si presenta all’appuntamento con questa istituzione. Sicuramente non è indifferente a questa capacità di mettere in campo una prospettiva innovativa il fatto che il Dasa, come il Museo di Dresda del resto nel suo specifico ambito, situi la sua riflessione sulla frontiera del futuro: sono sempre occhi di oggi quelli che guardano verso il passato, nuove sensibilità a dischiudere nuovi racconti capaci di parlare al presente, agli uomini di oggi.

È difficile rendere conto sinteticamente dell’esperienza complessiva proposta dal Dasa, anche per le dimensioni e la ricchezza dell’esposizione. Il percorso si sviluppa su due piani dell’edificio, si prolunga all’esterno, all’aperto, nel sottosuolo addirittura, e nel complesso occupa uno spazio di circa 13.000 mq. Ma non è certo l’ ampiezza a dare corpo e spessore a questa visita. ((Per una visione d’insieme del Museo e della sua esposizione rimando al sito dello stesso: http//www.baua.de))

Può essere efficace presentare la novità del suo percorso, lo stile con cui affronta il problema della rappresentazione del rapporto tra “uomo, lavoro e tecnica” nella storia e nel presente, descrivendo alcuni momenti di questa esposizione, comparandoli dove possibile con altre. Il Museo del Lavoro di Amburgo e il DASA hanno in comune una importante sezione dedicata all’industria della stampa ed alla sua evoluzione, con reperti simili, non diversi per la loro importanza storica. In entrambi i musei le macchine esposte sottolineano con efficacia gli importanti cambiamenti che hanno investito questo settore nei secoli, da Gutenberg (circa 1440) al Linotype (1886), e poi negli ultimi decenni del 900, con l’ulteriore salto tecnologico, la rivoluzione informatica. I progressi della tecnica trasformano il modo di lavorare, la forma e il contenuto della produzione: certe mansioni scompaiono, il lavoro da artigianale diviene industriale, poi terziario. In entrambi i musei sono presenti laboratori, dove l’utente può osservare una macchina in funzione, cimentarsi o assistere a dimostrazioni di qualche antico mestiere, evocare l’arte, lo sforzo e la durezza di certe mansioni. Tuttavia la prospettiva assunta dal Dasa, ponendo al centro della sua attenzione non solo il lavoratore accanto alla macchina, ma l’essere umano, la sua salute e sicurezza, appare più dinamica, animata. Ogni reperto diviene un’occasione per riflettere sul rapporto sempre complesso, spesso tragico, tra l’uomo e la tecnica. Osservando questa storia vediamo diminuire la percentuale di rischio di infortuni, legati soprattutto a certi macchinari, o i rischi per la salute derivati dal contatto con determinate sostanze chimiche, ma scopriamo anche gli effetti sulla persona degli aumentati ritmi di lavoro, la disumanizzazione di certi mestieri che si fanno ripetitivi, monotoni, stressanti nel momento che divengono meno rischiosi. Arrivando al presente consideriamo i rischi che possono arrecare al corpo lunghe ore passate davanti al computer. Per gli occhi naturalmente, ma anche alla spina dorsale, per le posizioni cui è costretto un impiegato contemporaneo, per lunghe ore. Vengono inoltre ricordate le importanti normative che hanno disciplinato la materia in questi ultimi anni, che hanno portato e costretto la tecnologia ad impegnarsi non solo per migliorare le macchine in termini di efficienza, ma nella loro interazione con la salute ed il benessere fisico e mentale dell’uomo.

Per fare conoscere tutto questo, accanto alle macchine e situazioni di lavoro riprodotte ed esposte in spazi ad esse collegati, sono state disposte apposite postazioni, con supporti cartacei ed audiovisivi, efficacemente integrate all’interno del percorso narrativo, della scenografia. La storia della stampa diventa quindi una storia di corpi, di corpi al lavoro, in contesti che mutano, e in continuo divenire, sottoposti sempre a nuovi rischi. Il punto di vista assunto è quello di una sorta di “umanesimo integrale”, ampliato dalla attuale sensibilità verso il corpo ed il suo benessere. Arrivato alla fine di questa parte del percorso lo spettatore è così quasi costretto a volgersi indietro e a osservare “contropelo” la storia di questo settore dell’industria e del lavoro, a chiedersi se da molti punti di vista, nonostante gli incidenti e le malattie professionali che comportavano, non fossero in qualche modo più umani certi mestieri artigianali. Il progresso appare un percorso a più strati, che apporta benefici ad un livello ma produce effetti perversi e contradditori su un altro, osservato pensando all’uomo ed alla sua integrità in modo ampio.

Accanto a questa sezione, che si sviluppa in più parti ed ambienti, una riflessione sull’orologio, il tempo e la sua misurazione. Sulla scia di Mumford la misurazione del tempo, la diffusione degli orologi sempre più precisi, accompagna e rende possibile l’affermarsi del capitalismo, dell’industrializzazione, di una cultura a questi adeguata. Il tempo, astratto dalle stagioni ed esperienze, diviene un particolare tipo di merce, per certi versi affine al denaro((Lewis Mumford, Tecnica e cultura, Il Saggiatore, Milano 2005.)). L’industria della stampa, dato il bene prodotto, ha poi un suo particolare regime, scandito dal lavoro notturno, dall’ultima notizia, dalla necessità di chiudere per mandare in stampa, per consegnare e diffondere i giornali in fondo alla notte, prima che la città si svegli, si animi della brulicante presenza dei suoi individui. È questa continua capacità di rimandare alla presenza del lavoro vivo dietro ogni macchina, processo, organizzazione del tempo ad animare il percorso offerto dal Dasa di dinamismo, profondità. Grazie ai diversi supporti mediali utilizzati, a partire dalla scenografia, fino ad arrivare alle semplici didascalie scritte, ed alle foto, è il corpo umano che vediamo al lavoro e osserviamo nella sua fragilità e resistenza.

La parte dedicata all’industria della stampa al Dasa si chiude e prosegue nello stesso tempo, nella successiva destinata alla contemporanea società dell’informazione e comunicazione. Una sezione molto spettacolare, per diversi motivi, proiettata decisamente verso il futuro, dove tuttavia viene continuamente ribadita, anche di fronte a robot e macchine che sembrano lavorare in completa autonomia dagli esseri umani che le hanno creati, la centralità dell’uomo e la sua responsabilità verso se stesso e verso il mondo. Si comincia con la riproduzione di un immenso computer: schermo e tastiera. A pochi metri una postazione mouse dalla quale è possibile interagire con il mezzo. Il più grande computer portatile del mondo oltre ad avere un certo impatto, ha un significato simbolico evidente, che rimanda alla sua centralità nella vita delle persone, nell’economia, nel lavoro. L’utente è quindi invitato a sedersi sul sedile di una moderna cabina aerea, a verificare di persona cosa significa lavorare in una postazione del tutto computerizzata e informatizzata, dove i messaggi e le informazioni da tenere costantemente sott’occhio sono una quantità innumerevole, la responsabilità e l’attenzione che questo comporta, il conseguente stress. Indossando un apposito paio di occhiali ed entrando in una stanza aperta solo su un piccolo lato ci si immerge all’interno di una “fabbrica virtuale”, tridimensionale, all’interno di spazi ed ambienti riprodotti nel loro volume, direttamente al centro di una azione che produce effetti, per fortuna a loro volta solo virtuali, sulla vita e sull’ambiente della scena. Un’altra delle fantastiche opportunità offerte dalle odierne tecnologie e proposta al Dasa. Chiuso all’interno di una gabbia metallica come una belva da circo un robot gioca a comporre immagini su di una parete spostando riquadri da un punto ad un altro, con abilità, destrezza, precisione. Non sembra pericoloso ma gli spettatori sono tenuti a distanza da una grata, quasi a suggerire i rischi oltre alle opportunità, offerte dalla contemporanea rivoluzione tecnologica.

La parola chiave di questo museo è sicuramente “esperienza”, ed anche questo distingue profondamente il Dasa dalle altre istituzioni museali. Lo spettatore è continuamente invitato a diventare un attore, ed a esperire direttamente certi posti di lavoro, misurare la costrizione di determinate posizioni, le responsabilità che comportano, comprendere i rischi che certi particolari apparentemente poco significativi implicano all’organismo ed alla sua struttura, agli altri ed all’ambiente. Gli interrogativi posti dalla rappresentazione sono altrettanto sorprendenti e spregiudicati: siamo diventati delle semplici appendici del mouse? Cosa facciamo incatenati per ore davanti a schermi? Quali posizioni adotta il nostro corpo, quali sono i movimenti quotidiani? Quali e quante sono le responsabilità di determinate occupazioni? Quali sono le fonti di rischi per il sistema nervoso? Nulla appare scontato al Dasa, nessuna domanda banale, ed anche questo contribuisce al suo fascino. L’intento è evidentemente quello di catturare l’attenzione con proposte coinvolgenti, interattive, capaci di stupire e sconvolgere quello che a questo punto possiamo chiamare decisamente ” attore“, dato il posto che gli è riservato sulla scena.

La parte finale del piano terra del Dasa, si apre all’interno di uno spazio molto ampio, spalancato verso l’alto, dove sono visibili le sezioni dei piani superiori, i corrimano dei percorsi e passaggi che aggirano questa sorta di piazza. La struttura del Museo è infatti in gran parte in telai in metallo e vetro, trasparente anche verso l’esterno, salvo gli allestimenti naturalmente, e utilizza la luce come parte della scenografia. Su di un lato lo spettatore si trova di fronte ad un unico reperto, la struttura di un camion deformata da un incidente. Appese ai muri delle foto mostrano drammatici momenti dello scontro, il contesto urbano, l’incendio seguito all’impatto. Sull’altro lato un forno elettrico ed altri reperti siderurgici di grosse dimensioni, in alto, sopra una sorta di terrazza, è intuibile l’allestimento di una sorta magazzino. Ma lo spettatore viene quasi risucchiato da una galleria del suono colorata, che riproduce l’interno di un apparato uditivo, un orecchio. In questo lobo può ascoltare una vasta tipologia di suoni molto comuni alle orecchie delle persone, al loro udire quotidiano, opportunamente distinti in rumori e musica, valutarne l’intensità in decibel. Poco dopo può provocare lui stesso una diversa gamma di rumori, attraverso semplici installazioni, sempre molto curate nell’ambientazione, esperire l’impatto di rumori legati a varie macchine e mestieri. Tutto questo mentre viene informato sui vari danni all’udito che questi comportano nel medio lungo termine. Il rumore significa in senso vasto inquinamento acustico, vibrazioni, stress, con tutto quanto comporta per il sistema nervoso in generale. Nel caso dell’industria dei trasporti l’unico reperto esposto è assunto come un simbolo, oltre che come segno e ricordo di un preciso evento, ed il tema assunto soprattutto per le responsabilità e rischi che comporta per l’individuo e per l’ambiente, incidenti e inquinamento. Il settore d’altro canto si caratterizza per porre in evidenza come la sicurezza e la salute del lavoratore sul posto di lavoro sia strettamente connessa alla sicurezza degli altri e dell’ambiente. In questo caso la relazione tra le varie dimensioni è diretta, brutale nella sua trasparenza. Un taglio culturale decisamente volto al presente, al futuro, alle minacce visibili ed invisibili, che il progresso tecnico porta con sé. In una galleria attigua l’attenzione si focalizza sulle patologie che agenti chimici, presenti nell’ambiente di lavoro e nell’aria, con la loro interferenza, provocano per la salute del corpo.

La scelta espositiva relativamente ai trasporti prescinde completamente dall’idea di reperto e da una sezione storica, e distingue il Dasa profondamente dai tradizionali musei della tecnica. Ma allo stesso tempo appare quasi complementare alla presenza a Berlino all’interno del Museo della Tecnica, di una sezione trasporti immensa e ricchissima di reperti storici, dedicata alla ferrovia, una sezione che da sola merita una visita. Dai primi tentativi di costruire un sistema di trasporti per spostare il materiale, su rotaia, ai treni, ed alla loro evoluzione tecnica nella storia. Le gigantesche locomotive a carbone dell’800 con le rudi cabine aperte, le bellissime e raffinate carrozze di prima classe, e poi le linee sempre più affusolate e dinamiche del 900, la compressione dello spazio nella forma e nelle dimensioni, del tempo nella velocità. Il progresso è rappresentato su di una scala, dove la tecnologia sale ora in modo più graduale, ora attraverso rapidi progressi, salti, e rivoluzioni, come il passaggio dall’energia a vapore a quella elettrica. In questa linea ideale che si disegna nella mente del visitatore è presente uno scarto, un buco, che sembra trascinare al suo interno l’idea stessa di progresso. Nella rappresentazione museale viene esposta in perfetta soluzione di continuità, senza nessun mutamento nella scenografia, tutto ad un tratto una carrozza in legno, grezza, esempio di quelle utilizzate dai nazisti per le deportazioni. Siamo alla fine degli anni 30, ed i locomotori precedenti e seguenti nella cronologia, mostrano gli evidenti avanzamenti nella concezione dei treni. La punta più alta del progresso in termini di velocità, comodità, sicurezza, fa capolino in carri bestiame, dove corpi di esseri umani viaggiavano ammassati verso nuove barbarie. Salvo questo “scarto” nel percorso museale proposto a Berlino la storia della tecnica è posta in relazione all’uomo, al lavoro, all’ambiente soprattutto dalla bellezza dei reperti, dalla loro importanza e capacità di evocare epoche e mestieri, forme di vita e culture. L’esposizione è tradizionale, mette a disposizione una mole impressionante di reperti storici, e non si avvale di particolari supporti mediali o scenografici. Nel complesso la rappresentazione proposta sembra isolare la storia della tecnica dal suo impatto sugli uomini e sul mondo, riproducendola come un progresso lineare, una sorta di epica che parla/si narra da sola, indifferente agli interrogativi ed alla sensibilità della cultura contemporanea.

È soprattutto nella seconda parte del Dasa, quella che si sviluppa al secondo piano, che l’esperienza dell’utente/attore è posta decisamente al centro dell’esposizione. La mostra tratta il rapporto tra uomo, tecnica e lavoro soprattutto in direzione del futuro, ed in modo ancora più spregiudicato, anche negli allestimenti. La proposta in alcuni casi consiste esclusivamente nell’entrare in contatto di ambienti e situazioni. Per rendere questa interazione il più avvolgente possibile le scenografie allestite cercano di stimolare il visitatore attonito in tutta la sua gamma di sensi, di colpirlo con repentini mutamenti. Improvvisamente ci si trova immersi in una sezione verde, accanto a grosse felci e piante tropicali illuminati dal sole, splendenti. La guida consiglia di sedersi in apposite poltrone, prendersi una pausa, lasciarsi attraversare dalle sensazioni proposte/prodotte dalla mostra, sbalordire dalla piacevole sorpresa. Entrare in sintonia con la natura, riscoprire la profonda appartenenza ad essa, i bisogni e le possibilità ad essa connessi, l’integrità dell’essere umano e dei suoi sensi. In un contesto artificiale tuttavia, che ricorda la complessità del rapporto tra l’uomo e l’ambiente, l’interazione dell’uno sull’altro, nel tempo. È con una idea molto espansa di uomo che l’utente penetra nella sezione attigua dedicata al nuovo ambiente di lavoro. Appare banale, ma forse non lo è affatto, dire che l’essere umano, il suo corpo, necessita di aria pura, luce solare, verde, per il suo benessere e la sua salute. Come integrare questi bisogni con quelli della produzione, del lavoro? E’ possibile?

Quattro stanze si susseguono, costruite in diversi materiali e colori, con suoni ed un odore loro. Simboleggiano le fondamentali competenze dell’uomo, le sue capacita mentali, intellettive, fisiche e sociali. Entrando in questi spazi l’utente/attore sprofonda in diverse e per certi versi stranianti esperienze: le stanze sono vuote, salvo un cubo posto al centro con sopra un oggetto, un simbolo; i sensi sono messi in tensione dall’ambiente, da differenti atmosfere e profumi. Tutto questa parte della mostra si caratterizza per una particolare attenzione verso la scenografia, l’allestimento degli spazi si fonde completamente con l’esposizione, per sollecitare tutti i sensi, evocarne le potenzialità e per converso i limiti posti all’integrità degli uomini dalle forme di lavoro e vita contemporanea. Scenari futuribili vengono drasticamente accostati a laboratori del passato: “mondi virtuali”, l’informatica, la “cibernetica” al bisogno umano di consistenza, manualità, contatto, come aspetti che non si escludono, rispondono a diversi momenti dell’essere: animale e artificiale, fisici e mentali, ecc…. Ed accanto una interessantissima sezione sulla salute nei servizi sanitari, le più moderne tecnologie e acquisizioni scientifiche a servizio dell’igiene e della salute, della vita. Un umanesimo integrale, che “ricompone” l’uomo in tutta la sua complessità di natura e tecnica, essere vivente e cultura, di attore all’interno di un ambiente che contribuisce a creare. L’esposizione proposta è anche un invito a pensare in nuovi termini il rapporto tra uomo, tecnica, natura. A partire da una azione culturale volta a sensibilizzare e diffondere la cultura della prevenzione occupazionale ed ambientale, è l’integrità dell’uomo che ci troviamo continuamente di fronte, nella storia, nel presente. La salute, la dignità, il benessere psicofisico del lavoratore nella rappresentazione museale, attraverso parole e tematiche come l’ambiente e il corpo, divengono quasi naturalmente discorsi più ampi, che interrogano il significato stesso di questi termini, riaprendoli verso vecchie e nuove direzioni.

L’ampio utilizzo di touch screen, computer ed altri supporti audiovisivi, installati in modo creativo dentro l’esposizione, invitano continuamente ad approfondire vari aspetti e tematiche, o propongono semplicemente giochi, formativi e informativi, momenti più ludici/rilassanti, utili pause dentro un percorso che comporta una continua sollecitazione sensoriale. Più spesso anche i dispositivi o gli spazi più ludici sono comunque fatti per sorprendere, coinvolgere l’utente in una interazione o performance dove è lui stesso e il proprio corpo al centro della mostra. Appare evidente, immergendosi nel percorso proposto dal Dasa osservando le varie reazioni degli utenti, come ponendo al centro del percorso il corpo umano il Dasa vada incontro ad una cultura ed attenzione che è tutta contemporanea. Assecondando in questo le attese degli uomini di oggi, ponendo il loro stesso corpo al centro dell’esperienza museale, riesce a coinvolgerli in una riflessione più ampia sulla sicurezza e la salute di fronte al lavoro, alla tecnica, e più in generale all’ambiente, che altrimenti riuscirebbe certamente meno attraente. Non sembra casuale che le parti dove si prevedono approfondimenti più specifici sulla malattie e la sicurezza del corpo, siano anche quelle che gli utenti attraversano più velocemente, anche perché di fruizione meno immediata, percepiti come distanti. È difficile identificarsi con determinati problemi, farli propri, soprattutto in assenza di una guida intelligente che li riconnetta al contesto e ne sottolinei l’importanza, la prossimità. All’interno del Museo questi aspetti vengono monitorati, per studiare eventuali correzioni di tiro, cambiamenti.

La mostra non si estende solamente all’interno di questi due piani del museo, prosegue all’esterno, nel sottosuolo. Da diverse parti del percorso espositivo, o da passaggi di scorrimento, è infatti visibile a tratti un vero e proprio cantiere edile, allestito in un ampio cortile interno. Con l’industria delle costruzioni torniamo al lavoro materiale, manuale, ad altre tipologie di rischi per il corpo. Il cantiere funziona come un vero e proprio laboratorio, nel quale entrare in contatto con le svariate situazioni e lavorazioni connesse alla costruzione di un edificio: arrampicarsi sulla cabine di una “gru” alta 30 metri, scavare una fossa con un “martello pneumatico”, ecc… e naturalmente utilizzando i sistemi di prevenzione previsti, indossando guanti e caschetti. “Fare sicurezza” non significa solamente dotare i lavoratori e gli utenti dei “dispositivi di protezione individuale”, ma spiegare quelli incorporati nelle tecnologie, quelli derivati dal piano e dal coordinamento delle lavorazioni. Sotto la superficie del Dasa è pronto per entrare in funzione come parte dell’esposizione anche un “tunnel”, dove gli utenti a gruppi potranno assistere al lavoro di scavo di una apposita macchina, e quindi apprendere direttamente le difficoltà ambientali ed i pericoli che comporta anche questo lavoro. Al momento si tratta dell’ultima “trovata”, tra le straordinarie esperienze messe in campo da questo museo, ma il lavoro di ricerca e di studio è permanente, e non c’è dubbio che il futuro riserverà nuove sorprese e approfondimenti, sia nei contenuti che nelle loro rappresentazioni. ((È interessante rilevare come il primo Congresso Internazionale per le Malattie del Lavoro, venne fatto a Milano nel 1906, a partire dalle riflessioni su incidenti e le malattie professionali causati dalla costruzione del Traforo del San Gottardo del 1882 e del Sempione ultimato proprio negli anni immediatamente precedenti il Congresso. Tra i due lavori di scavo circa vent’anni, una differente impostazione dei lavori, e soprattutto un impatto assolutamente più contenuto del secondo Traforo in termini di incidenti mortali, infortuni e malattie.)) Non appare sorprendente apprendere che gli utenti di questo museo non fanno che aumentare negli ultimi anni, in controtendenza con altre esperienze museali simili, sicuramente spiazzate da questa proposta, e per quest’anno, nel quale Dortmund, ed il bacino della Ruhr, è Capitale europea delle Cultura, si prevede già un afflusso record.

Relazione inedita del 2010, realizzata per Fondazione MUSIL