Recensioni
F. Arminio, Diario civile, Sellino, Pratole Serra, 1999 (Piazzetta dell’Università n.3, 83030 Pratola Serra-AV).
Le lotte ambientaliste di questi anni, tra le poche occasioni di partecipazione democratica diretta, spariscono in genere senza lasciare tracce. Nella maggior parte dei casi non sono conosciute nemmeno mentre sono in atto, a meno che per caso o per fatti di cronaca riescano ad arrivare sulle reti televisive nazionali. Una delle cause di tale situazione è che queste lotte spesso interessano luoghi e popolazioni che non fanno parte della scena metropolitana, i loro protagonisti talvolta sono addirittura i contadini, una classe o categoria sociale che nell’immaginario collettivo, specie delle giovani generazioni, fa parte di una sorta di “medioevo” dai confini indefiniti.
In Irpinia la lotta contro la discarica del Formicoso sviluppatasi negli anni Novanta ha trovato un cronista d’eccezione nel poeta Franco Arminio che raccoglie in questa pubblicazione gli articoli da lui scritti per “Il Mattino” tra il ’98 e il ’99. L’ultimo “La tragedia della città di fronte” è dedicato al crollo del palazzo di Foggia nel novembre dell’anno scorso, ovviamente subito dimenticato (dopo la morte di Antonio Cederna chi segue più nei modi dovuti queste storie rivelatrici?). Arminio racconta la bellezza dell’Alta Irpinia e dei paesi del Sud interno, sconosciuto ai più, stretto nella morsa dell’abbandono e di una modernità senza volto, che affacciatasi prepotente sull’onda del terremoto: «Un soffio geotermico si mosse, breve e infinito apparì l’oltraggio. Poi fu una lunga stagione di fumo, la stagione degli architetti, dei geometri e degli ingegneri. Dall’anima fredda delle loro mine è uscita fuori l’Irpinia che vediamo adesso. Salivano le scale dei comuni con mani basse ed intente ad accogliere la moneta vagante dei contributi».
Da quel momento il fiume carsico dei rifiuti penetra dentro paesaggi bellissimi, sconosciuti e abbandonati: «dagli anni Sessanta in poi, non c’è un film, un libro, un’opera teatrale che dia conto del sud interno, dei mille paesi che stanno come lumache senza guscio tra i monti e le valli dell’Appennino».
Dove un tempo si mandavano gli oppositori politici, adesso si spediscono i rifiuti. Oggi nei paesi sviluppati la guerra contro la natura (la biosfera) ha preso il posto del dominio diretto sugli uomini, e così – dice Franco Arminio – «la dislocazione delle discariche segue lo stesso criterio che una volta si seguiva per gli agitatori politici: il confino, il luogo desolato».
Gli scarti della civiltà consumistico-industriale, testimonianze di un caos entropico in continuo aumento, sono spinti cinicamente e stupidamente verso terre silenziose e appartate, lontane nel tempo più che nello spazio. «E così dopo Difesa Grande, luogo estremo dell’Irpinia, ai confini con la triste Dannia, si va sul Formicoso, bellissimo e solitario Altopiano di mitici guerrieri e di antichi pastori».
Con orgoglio, passione civile, Arminio ci dà una tersa testimonianza della lotta vittoriosa, per quel che ci dice una breve nota introduttiva al libro, condotta dai contadini dell’Alta Irpinia in difesa della natura e della propria dignità. In una “lettera aperta al Procuratore” simbolo di uno Stato che torna ad essere eguale a quello di sempre, prepotente coi deboli e incapace di far rispettare le leggi ai potenti, l’autore sintetizza il significato di una vicenda che rimanda a molte altre, ignorate dai media, anche se si manifestano ormai in ogni angolo della Terra segnali deboli ma tenaci di un legame, un’esile trama, che possiamo considerare l’altra faccia della globalizzazione.
«Il comitato “Nessuno tocchi il Formicoso” è stato ed è semplicemente una cornice al cui interno si è mosso e si muove un sentimento popolare arcaico e profondo di attaccamento alla propria terra. Quello che è accaduto nei mesi scorsi sul Formicoso fa onore alla gente dell’Alta Irpinia. Quasi mai nel Sud d’Italia si è sviluppato un movimento così vasto a difesa dell’elementare esigenza di non vedere calpestate la propria dignità e le proprie speranze di riscatto. Il movimento di questi mesi per certi aspetti è perfino più nobile di quello che negli anni Cinquanta portò all’occupazione delle terre» (p. 60).
La differenza, possiamo aggiungere, è che le lotte contadine del passato, pur andando incontro a molte e talvolta tragiche sconfitte, hanno lasciato una memoria e una storia, mentre i movimenti locali per l’ambiente e la salute, con poche eccezioni, sembrano destinati a svanire nel nulla, inghiottiti da una società che pensa di poter fare a meno della storia, per vivere in un presente da consumarsi all’istante. Scopo di questa rivista è di resistere a tale deriva, dare un piccolo contributo ad un grande progetto: imparare a costruirsi la propria storia.
Brescia, 28 marzo 2000 Pier Paolo Poggio
Passato, presente (e futuro?) della contestazione ecologica
Giorgio Nebbia
Il nuovo interessante libro di Roberto Della Seta, “La difesa dell’ambiente in Italia. Storia e cultura del movimento ecologista”, Milano, Franco Angeli, 2000 (107 pagine) rappresenta un importante contributo alla comprensione dei movimenti ecologisti, ambientalisti, verdi, eccetera.
Quando l’ecologia è sbarcata in Italia, alla fine degli anni sessanta del Novecento, al fianco delle tre associazioni ambientaliste esistenti – Italia Nostra, WWF, Pro Natura – hanno cominciato a formarsi numerosi gruppi spontanei di lotta contro i pesticidi, contro le fabbriche inquinanti, contro il nucleare, contro la congestione del traffico urbano, e contro altre offese all’ambiente che si traducevano in danni alla salute umana. Un movimento molto frastagliato, difficilmente classificabile politicamente, ma animato da una grande volontà di cambiamento della società allora esistente verso un’altra più rispettosa della natura, meno violenta. Si comunicava, allora, con mezzi rudimentali, notiziari, spazi ottenuti su riviste preesistenti, e la grande carica di passione civile riusciva ad ottenere ascolto anche nei giornali nazionali.
Da allora le associazioni si sono moltiplicate; nel 1980 è nata, come emanazione dell’Arci e con una matrice di sinistra, la Lega per l’ambiente, oggi Legambiente, la più importante associazione ambientalista; dai primi anni ottanta hanno cominciato a presentarsi alle elezioni delle formazioni “verdi”, originariamente con numerose sfumature e suddivisioni, divenute poi un vero e proprio partito con molti parlamentari e oggi alcuni ministri.
Molti gruppi del “movimento” si sono trasformati in strutture organizzate, con presidenti e segretari generali, funzionari, riviste – e un crescente bisogno di quattrini. Per realizzare i congressi, gli studi, le pubblicazioni, le varie iniziative, per mantenere gli uffici e i rapporti con le sezioni e i soci, bisognava cercare soldi, dapprima presso “lo stato”, poi dagli enti locali, infine dalle imprese meno becere sul terreno ecologico. Inevitabilmente la tensione di lotta e di opposizione ha finito per stemperarsi in rapporti, anche se in genere non subordinati, con “il potere”.
Il quale potere, a cominciare dal Ministero dell’ambiente, è stato ed è disposto ad accogliere le associazioni ambientaliste in comitati e commissioni, in una grande ammucchiata in cui figurano anche gli “ecologisti fascisti”, a finanziarne le iniziative, ad ascoltarne, apparentemente, i buoni consigli (salvo poi continuare a fare la propria politica, a prestare doverosa attenzione agli interessi degli speculatori e degli inquinatori).
A poco a poco si è andata diffondendo la teoria del cosiddetto “ambientalismo scientifico”: non si deve dire sempre “no”, occorre mettere a disposizione dei governi, nazionali e locali, le competenze presenti nelle associazioni, per risolvere singoli problemi, dalla misura dell’inquinamento del mare, alla progettazione e gestione dei parchi: con la conseguenza che i movimenti, nati originariamente come forme di contestazione del potere, sono lentamente caduti nella trappola che il potere tende abilmente ai suoi oppositori invitandoli a diventare suoi collaboratori, consulenti del principe, a partecipare al “governo” delle cose.
Una parte del movimento ambientalista si è così lentamente trasformato in una specie di parastato che si è candidato a fare, pur con generose intenzioni, quello che dovrebbe essere fatto, per suo dovere, dello “stato” nelle sue varie forme, fino addirittura a spiegare alle industrie come dovrebbero fabbricare la plastica, o la benzina, o le automobili, o i detersivi.
Così gradualmente il “movimento” ha perduto gran parte dell’originale carica di contestazione e di opposizione, gran parte del suo ruolo di voce critica della coscienza popolare e civile, anzi direi che in questa commistione con il potere politico ed economico l’ambientalismo è stato contaminato con alcuni dei vizi di tale potere: la competizione, la gelosia, la lotta di persone e gruppi per prevalere, la conta di quale associazione ha più soci o compare di più in televisione, o viene invitata di più ai congressi o agli show, di quale personaggio fa per primo un comunicato stampa o rilascia una intervista, eccetera.
La conseguenza di questo svuotamento della contestazione si vede nel fatto che quando succede un incidente a una fabbrica, o esce cloro da una cisterna, quando le colline franano, i fiumi invadono strade e campi, quando si costruiscono porti turistici nei luoghi più inappropriati – la notizia non desta ormai più indignazione; al più una blanda protesta.
Lo “stato”, che dovrebbe operare per il bene pubblico, è assente e al suo posto abbiamo avuto e abbiamo dei “governi” che operano più nell’interesse di gruppi di potere economico che in quello della collettività. Ricordo che molti anni fa lo scrittore e poeta Giorgio Bassani, quando era presidente dell’associazione Italia Nostra e quando Italia Nostra era una delle voci critiche della contestazione in difesa dei beni collettivi, diceva che l’associazione – ma il discorso vale per tutte le associazioni e i movimenti – avrebbe chiuso quando l’Italia avesse avuto “uno Stato”.
Se si vuole davvero operare nel nome dei valori collettivi, bisogna ripartire da una lotta e da una contestazione ecologica basata sulla difesa dei diritti fondamentali della salute umana e della natura, dalla cui integrità la salute umana e il benessere dipendono, cioè dei beni che non hanno un padrone, basata sulla difesa di quel bonum publicum che uno stato degno di questo nome dovrebbe tutelare davanti a qualsiasi altro valore.
Fortunatamente sopravvivono, intorno a singoli problemi, in varie parti d’Italia, gruppi di lotta contro gli elettrodotti, contro le discariche, contro gli inceneritori, contro le fabbriche inquinanti, ma con vita difficile, con limitato ascolto non solo nei grandi mezzi di comunicazione, di proprietà o controllati dai governi e dalle imprese, ma perfino nelle numerose riviste “ecologiche”, ormai su carta patinata (magari riciclata).
Ci sarà un futuro per i movimenti di difesa dell’ambiente soltanto se si ricomincerà a riconoscere che l’ambiente va difeso contro un “nemico”, forte, potente e agguerrito.
Il nemico è rappresentato dal potere economico – nei suoi vari volti di speculatori nell’edilizia, di fabbriche inquinanti, di fabbricanti di merci nocive o sbagliate, di complesso militare-industriale – ma anche dai governi nazionali e locali che fanno le leggi su misura del potere economico o che, sempre per non disturbare il potere economico, non fanno osservare quel po’ di leggi favorevoli all’ambiente, che bene o male sono riuscite a passare.
E’ il caso della legge che prevede la pianificazione del territorio nell’ambito dei singoli bacini idrografici, una legge che costringerebbe le Regioni, nel cui territorio un bacino idrografico si estende (Vara e Magra, Po con i suoi affluenti, Tevere, Reno, Ofanto, Basento, eccetera) a decidere insieme un piano di bacino e le priorità degli interventi, una legge che imporrebbe una solidarietà nell’interesse del “popolo del fiume”, delle popolazioni unite dall’appartenenza allo stesso bacino idrografico. Invece ciascuna regione vuole spendere i “propri” soldi per il “proprio” pezzo di fiume o di bacino e la pianificazione viene vanificata.
Ci si piange addosso per la crescente congestione delle città, ma si accetta che il governo incentivi la rottamazione degli autoveicoli, cioè l’incontrollata espansione del parco circolante automobilistico, dietro l’ipocrita maschera che le nuove automobili saranno meno inquinanti.
A questo proposito bisogna anche interrogarsi se le associazioni ambientaliste sono all’altezza o hanno voglia di fare una nuova contestazione. Ricordo la celebre amara battuta di Pogo: “Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi” (per inciso citata già nel 1971 da Barry Commoner nel suo libro “Tthe closing circle”, da noi “Il cerchio da chiudere”).
Troppe volte si vede che le sezioni delle varie associazioni fanno la corsa, ciascuna per proprio conto, a cercare sponsor per una iniziativa, un corso di lezioni, un seminario, in modo non coordinato con le sezioni o le altre associazioni, al di fuori di un progetto unitario di lavoro e di lotta.
Più volte è stata avanzata la proposta di creare delle “autorità-ombra” di bacino idrografico, in contrapposizione alle autorità-vere di bacino, spesso sonnolenti o assenti, ma per far questo occorre che le associazioni ambientaliste di varie zone vicine, di diverse regioni, lavorino insieme, lottino insieme.
Contestazione ecologica significa anche rimettersi a studiare, consumando il fondo dei pantaloni (femminili e maschili) sulle seggiole davanti ai libri e alle riviste scientifiche che trattano di ecologia, di geografia, di urbanistica, di geologia, di idrologia, di chimica e, perché no?, di storia. Quello che originariamente si proponevano le Università verdi e che oggi è (sarebbe) reso molto più facile dalle informazioni che si possono ottenere per via informatica.
Il nemico è potente e organizzato e talvolta anche abbastanza bene informato, diffonde le informazioni, spesso deformate e distorte, ammantate di rigore scientifico, è in grado di “acquistare” scienziati e consulenti di grido.
Il movimento ambientalista, nei suoi tempi migliori, è riuscito a battere l’avversario proprio sul terreno delle conoscenze. Si è riusciti ad alfabetizzare i contadini della Maremma o del Salento spiegando perché le centrali nucleari erano una iattura e quali erano i pericoli della radioattività e insegnando a controbattere gli scienziati dell’ENEL; si è riusciti a spiegare ai cittadini che cosa sono le ceneri volatili, le ammine aromatiche cancerogene, il piombo tetraetile, o perché il mare si mangia le spiagge, o quali danni vengono dagli inceneritori di rifiuti, oggi mascherati da termovalorizzatori…
Forse una carica di coraggio nella contestazione potrebbe essere tratta anche da una ricostruzione storica delle lotte ecologiche del passato; da qui l’importanza di libri come quello di Della Seta. Alcune di tali lotte sono scomparse senza lasciare traccia, senza archivi e scomparse talvolta nel ricordo stesso dei militanti. Un archivio storico delle lotte ecologiche avrebbe una grande importanza perché proprio tale storia mostra che solo protestando si vince: Protest and survive.
L’unico esempio, per ora, di un tale archivio, si ha presso la Fondazione Micheletti di Brescia, la stessa che cura questa rivista telematica ”altronovecento”. Notizie sul patrimonio di tale archivio storico del movimento ambientalista il lettore avrà trovato nel numero 1, novembre 1999, di “altronovocento” e trova anche in questo numero 2, marzo 2000, che sta guardando adesso.
La salvezza dal crescente degrado ambientale va cercata, insomma, nella ripresa, nei prossimi anni, di un forte e coraggioso movimento di lotta ecologica, da condurre insieme ai movimenti pacifisti, femministi, di difesa dei consumatori, di solidarietà col Sud del mondo, ai movimenti che si battono per nuovi valori e nuovi diritti, movimenti che pure esistono, sotterranei, quasi invisibili, ma più numerosi di quanto si pensi, collegati fra loro con notiziari a bassa circolazione, ma vivacissimi.
Probabilmente occorre anche un coraggioso confronto con le organizzazioni dei lavoratori che non sono, come purtroppo alcuni ambientalisti credono, per principio e per conservare l’occupazione, dalla parte dei “padroni” e degli inquinatori contro gli ambientalisti, tutt’altro. Forse va ricordato – come fa opportunamente Della Seta nel secondo capitolo del suo libro – che nelle fabbriche sono nati molti importanti movimenti di lotta per la salute sul posto di lavoro, che è interesse comune di ambientalisti e lavoratori lottare contro un comune nemico che butta via, come uno straccio, l’ambiente inquinato e la vita avvelenata degli operai.
La salvezza dell’ambiente, insomma, può venire da una grande unione di tutti i movimenti di liberazione dalla violenza, dalla stupidità, dal conformismo, dall’omologazione dominata dalla televisione, liberazione di cui c’è particolare bisogno in questi anni in cui tutte le forze sembrano concordi nel riconoscere le virtù del capitalismo e dell’economia di mercato, che sono invece le vere fonti della devastazione e contaminazione dell’ambiente e della natura – e della salute umana.
Sono le regole della “saggezza” economica corrente, infatti, che impongono di estrarre sempre di più risorse fisiche e materiali, di sfruttare sempre di più la natura, di sbarazzarsi dei rifiuti al minimo costo possibile. La violenza all’ambiente e al territorio è perciò implicita – direi inevitabile – nel comportamento di una società che misura tutto soltanto in unità monetarie e nei cui calcoli non c’è posto per i beni che non hanno padrone e che non hanno prezzo: la salute, l’aria e l’acqua pulita, il silenzio, la bellezza.
Il capitale, naturalmente, fa di tutto per non cambiare: accusa i movimenti ecologici di essere contro il progresso e la modernità che il capitalismo identifica soltanto nella produzione e nel possesso di merci e beni materiali, in quantità sempre maggiori. Come risposta alla contestazione ha anzi inventato l’idea che si possa continuare sulla strada dell’assalto alle risorse naturali, alla produzione e al “consumo” e alla produzione di rifiuti a condizione di accettare uno sviluppo “sostenibile”.
Uno sviluppo che dovrebbe assicurare la crescita dei paesi poveri, che dovrebbe garantire alle future generazioni una quota delle riserve di combustibili, foreste, terre coltivabili e acqua, senza peraltro toccare la crescita economica attuale dei paesi ricchi. Il che è impossibile. Si può pensare ad un miglioramento delle condizioni di vita dei paesi poveri soltanto accettando un contenimento dei consumi nei paesi industrializzati. Ed ecco che appaiono chiare le contraddizioni: imprese e governi a parole dichiarano il loro amore per la sostenibilità e per le varie “agende ventuno” e nei fatti operano contro l’equità internazionale e contro qualsiasi limite ai consumi e agli sprechi – compresi quelli per le merci oscene per eccellenza, le armi – contro, cioè le azioni che dovrebbero essere “sostenibili” e ecologicamente accettabili, ma che devono essere evitate perché incompatibili con le regole del capitalismo. Altro che sostenibilità: al più potremmo darci da fare per realizzare un mondo meno insostenibile, ma a condizione di seguire una strada ben diversa da quella che viene seguita o lodata oggi in tutti i paesi, compresi quelli governati oggi da “una sinistra” o qualcosa del genere.
Rapporti meno violenti con la natura e con gli altri coinquilini del pianeta terra richiedono, ancora più che in passato, un movimento ecologico: una sfida per molti, ma soprattutto per la sinistra che potrebbe avere un ruolo guida se si liberasse dalle timidezze e dalla subordinazione ad un ordine di cose, quello capitalistico, che non è il suo.