Ricordi per Alberto Magnaghi

Luoghi della memoria dagli anni Sessanta a Torino

“Il 28 febbraio 1963 la Facoltà di Architettura di Torino, ospitata nell’elegante Castello del Valentino, era occupata dagli studenti.”

(https://archivi.polodel900.it/scheda/oai:polo900.it:140621_occupazione-della-facolta-di-architettura-da-parte-degli-studenti-torino-28-febbraio-1963)

Avevo conosciuto Alberto Magnaghi due anni prima di quell’occupazione ed eravamo diventati molto amici. Ero iscritta alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Torino, dove seguivo le lezioni di Nicola Abbagnano a Palazzo Campana, ma frequentavo anche le gallerie d’arte della città. In una di queste avevo incontrato Alberto, che era nel pieno del suo periodo creativo, dedicandosi alla pittura e alla musica (tra l’altro all’armonica a bocca, con cui aveva vinto nel 1959 un premio internazionale). Avevamo amici comuni, con cui giravamo per le osterie, ancora numerose in quegli anni, e ci immergevamo in lunghe discussioni artistico-politiche.

La casa di Alberto, in corso Mediterraneo, si trovava proprio di fronte a uno dei collegi universitari, quello appunto del Politecnico, al quale afferiva la Facoltà di Architettura. Su uno dei due angoli del palazzo di fronte alla casa dei Magnaghi c’era l’ingresso di una mensa universitaria, da cui si usciva senza essersi tolti la fame, ma lì vicino, all’angolo di via Braccini, una trattoria un po’ meno a buon mercato (per la mensa noi studenti pendolari avevamo dei buoni) forniva pasti migliori. Da “Rosa” facevano bistecche grandiose, che ci riconciliavano con la vita. Per fortuna la mamma di Alberto preparava enormi macedonie di frutta, di ristoro e conforto nei pomeriggi di studio (a cui io mi aggiungevo di passaggio perché abitavo non lontano). Era una zona di confine tra il quartiere della Crocetta e la Lancia, dove si collocava anche il CUS, il Centro Universitario Sportivo.

A questi primi due luoghi di Alberto – per il quale i luoghi, il ‘territorio’, ha sempre contato tanto – si aggiungevano altri posti in centro. Mi ricordo bene gli incontri in via Po, dove si trovava la Galleria La Bussola fondata da Luigi Carluccio.

Via Po, all’ingresso da Piazza Castello s.d.

Racconta Stefano Silvestro, capocantiere che salvò le lose di cui era lastricata via Po: “Torino ha iniziato a distruggere le vie storiche negli anni Sessanta perché il ciottolato dava fastidio ai tacchi ed è stato ricoperto tutto da asfalto. Negli anni Ottanta si sono accorti che era meglio tornare indietro e si è grattato via l’asfalto ripristinando la via in pietra o in ciottolato. Tante vie o piazze erano state ricoperte. Non si pensava a tutelare un paesaggio storico.”

Ascoltandolo, mi chiedo che cosa pensasse Alberto di questa distruzione.

Ma torno al ricordo di altri luoghi. Contavano molto quelli sulla collina, dove si scappava a mangiare merende sinoire (cenali o cenatorie) o a passeggiare o semplicemente a guardare la città dall’alto, come al Monte dei Cappuccini, a Superga, all’Eremo. La maggior parte di quei ritrovi sono scomparsi oppure si sono gentrificati, diventando ristoranti di lusso.

Le discussioni politiche erano accese. Alberto per qualche tempo fece parte del Partito comunista, certo in modo critico; dal 1963 era segretario della sezione universitaria del PCI, da cui uscì nel 1968, ma gli interessava molto il nostro filo-situazionismo. Parlo al plurale perché costituivamo un gruppetto solidale fin dal Liceo Alfieri frequentato ad Asti, un trio composto da un mio fidanzato e un nostro amico, inseparabili. Con una cara amica, Anna Bravo, andammo a Strasburgo a conoscere gli studenti che incoraggiati dai situazionisti avevano (nel novembre 1966) dirottato i fondi del sindacato studentesco – il quale allignava nell’indifferenza più completa delle masse studentesche – verso la pubblicazione di una brochure che divenne famosa, De la misère en milieux étudiant. Con un’altra cara amica, Daniela Marin, francesista, la traducemmo in italiano e la pubblicammo da Feltrinelli nel 1967.

La Facoltà di Architettura venne occupata più volte. Quella del 1963 era solo la prima. Il 15 novembre 1967 fu rioccupata dagli studenti che protestavano contro il trasferimento della facoltà alla Mandria, una sede periferica disagiata (le immagini raccolte in quell’autunno da Luciano Canzi sono ora custodite dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea). “Assistenti e studenti occupano la Facoltà” era la scritta che campeggiava sullo striscione issato all’esterno del Castello del Valentino.

La valenza politica di quel luogo sarebbe durata per tutti gli anni Sessanta. Quando nel 1969, il giovedì 3 luglio, ci unimmo come “studenti” o ricercatori al grande sciopero di Mirafiori al corteo partito da questa fabbrica o meglio ai suoi relitti, arrivammo alla facoltà di architettura e esausti ci sdraiammo in un’aiuola di fronte al Castello. Era un corteo ridotto a “relitti”, perché eravamo stati bloccati da uno schieramento ingente di polizia in Corso Traiano – che vedevamo nereggiare di fronte a noi mentre reggevamo lo striscione di testa del corteo. Era sembrata una buona idea mettere operai e donne davanti a tutti, come una dichiarazione di orientamento politico. Disperse e dispersi, ci eravamo rifugiati nelle alte case popolari del corso Traiano, salendo tutte le scale di corsa, spesso accolti dagli abitanti e così salvati dalla polizia che ci inseguiva.

Sdraiati nell’aiuola, ci eravamo sentiti al sicuro. Ma bisognava ancora tornare a casa, sempre a piedi, perché c’era uno sciopero sindacale contro gli aumenti degli affitti e il massiccio ricorso agli sfratti. Non ricordo di aver mai camminato tanto. Alberto sarebbe stato perfettamente a suo agio in quei frangenti e in quell’atmosfera, dato il suo ruolo come organizzatore e leader. Ma in quell’anno si trasferì a Milano.

Altri luoghi significativi erano le campagne del Monferrato e delle Langhe, filtrati dalla lettura di Pavese e Fenoglio. Alberto ci invitava spesso nella sua casa di famiglia a Scaletta Uzzone, dove abitava ancora sua nonna, accogliente e vivace. Conservava fotografie del nonno omonimo di Alberto, nato a Casale Monferrato nel 1874, docente a Palermo e Torino, studioso di antropogeografia. Erano luoghi di vigne e di trattorie note per la tradizionale cucina piemontese, dal fritto misto al coniglio coi peperoni. In quelle zone di collina si trovavano ancora i vecchi partigiani, che narravano le loro esperienze.

Anche il palazzo di via Carlo Alberto a Torino, dove si trovava la mia Facoltà, era stato occupato per un periodo abbastanza lungo:

Palazzo Campana ex Casa Littoria, febbraio 1967.

Il 9 febbraio il Palazzo era stato occupato e la sera stessa fu sgomberato dalla polizia chiamata dal rettore. Nei giorni seguenti si succedettero le occupazioni a Fisica, al Politecnico, a Filologia, di nuovo al Palazzo Campana, in un alternarsi di serrate, riaperture, occupazioni, sgomberi violenti. Nel maggio 1967 ci fu nuova occupazione di Architettura e nuovo sgombero con chiusura. In ogni occupazione gli studenti organizzavano dei controcorsi, che mettevano in atto un nuovo modo di studiare e fare ricerca. L’occupazione del Palazzo Campana dal 27 novembre al 27 dicembre del 1967 segnò l’inizio del Sessantotto, con l’arresto di Luigi Bobbio e Guido Viale.

A Filosofia avevo seguito con passione i corsi di Pietro Chiodi, che ci insegnava l’esistenzialismo e ci raccontava episodi della sua attività partigiana nella Resistenza al nazifascismo. Venivano a sentire le sue lezioni e quelle di Abbagnano anche ex allievi come Umberto Eco e studenti di altre facoltà. Credo che Alberto fosse tra questi, ma la mia memoria al proposito non è precisa.

Le distanze politiche si approfondirono con la sua partecipazione a Classe Operaia e la mia/nostra fondazione del Gruppo Gramsci, esponente della cosiddetta Terza Tendenza, minoritaria rispetto ai due poli principali della sinistra radicale, l’operaismo (Potere operaio) e lo spontaneismo (Lotta continua). Nelle mie posizioni restavano tracce del periodo filo-situazionista, trasmessomi dal caro amico Mario Perniola (coetaneo mio e di Alberto), scomparso nel 2018. Credo che valga la pena soffermarsi su questo “non detto”: l’influenza dei situazionisti parigini, anche per quanto riguarda la storia intellettuale di Alberto.

Secondo Guy Debord e il gruppo da lui fondato nel 1957, l’Internationale Situationniste, che pubblicò la rivista omonima in dodici numeri dal 1958 al 1969, la pratica dello spazio suggerita dai surrealisti era insufficientemente sovversiva, somigliando piuttosto a una deambulazione contemplativa. Debord proponeva di operare una pratica più intervenzionista nella vita quotidiana, che avesse una valenza nella sfera politica e non solo in quella intellettuale artistica. Si trattava della dérive situazionista, intesa a contestare l’urbanismo imposto dal capitalismo, che influisse ogni giorno sugli individui diminuendo la possibilità di incontri.

Il concetto di deriva era legato al riconoscimento di effetti di natura psicogeografica, inclusi intrinsecamente nel paesaggio urbano. L’analisi ecologica delle fratture nel tessuto delle città e delle unità elementari urbane avrebbe permesso di riconoscere il rilievo psicogeografico dello spazio sociale e tentare di cambiare l’organizzazione spaziale alienata, per permettere alle persone di costruire liberamente le loro vite e di “produrre se stessi”. La dérive contribuiva a un’erranza urbana, a un urbanismo critico rispetto alla logica dell’economia capitalistica.

Non voglio affibbiare ad Alberto Magnaghi il titolo di urbanista situazionista, espressione che sarebbe un ridicolo ossimoro in termini e in concetti. Voglio solo ricordare perché gli interessasse la nostra frequentazione dei situazionisti e dei loro scritti. Forse questa immagine gli era piaciuta:

Guy Debord “Cartographie Situationniste (Dérive, Psychogéographie, Situations, Cinéma)” https://www.tokyoartbeat.com/en/events/-/2017%2FF400