Riflessioni economologiche

Abstract

L’esigenza di associare in un qualche modo l’economia con l’ecologia, s’è posta dal primo apparire di quest’ultima per le tante assonanze e richiami tra l’una e l’altra disciplina, tra cui essenziali la comune discendenza da realtà naturali e l’influenza che entrambe hanno sulla società.

Il saggio s’ispira a questa problematica, assumendo che nessuna delle due discipline sia di per se superiore all’altra per cui è negata un’economia ecologica come anche un’ecologia economica, il che conduce alla proposta di un’unica disciplina, che trova fondamento e giustificazione nel problema energetico, a cui è dedicato il 1§ L’Economia energetica.

 Questo si apre con un’analisi critica dell’economia che, in quanto scienza che giustifica la prassi sociale capitalista, non affronta il tema di fondo della produzione del surplus; per risolvere questo buco nero della scienza economica, l’autore formula la tesi che la produzione del surplus viene dal lavoro solo quando esso attualizza e rende disponibili, per la produzioni dei beni, energie naturali più grandi di se; da qua la nozione di rendita energetica

In questa ottica la teoria de: 2§ La merce/valore subisce una torsione rispetto agli schemi economici consolidati. Il surplus prodotto dalla rendita energetica si distribuisce nella società secondo modalità non economiche ma bensì politiche. Il mercato capitalista non è un distributore obbiettivo, naturale, del surplus ma solo il risultato attuale di un processo storico, tutt’altro che terminato. A livello microeconomico il prezzo può anche essere sensibile alla scarsità del bene, o al potere sul mercato del produttore, ma a livello macroeconomico esso rappresenta la quantità di energia investita nella produzione e coincide col suo valore.

Questo valore è misurato dal 3§ Il lavoro, esso stesso è una forma di erogazione energetica, e ciò è possibile in quanto il lavoro fisico viene separato dalla sua componente telenomica e progettuale, che è avocata e monopolizzata dalle classi dirigenti che, in forza di tale privilegio, si appropriano del surplus produttivo, ossia della rendita energetica. Appropriazione che non è totale ma che sicuramente assegna a queste classi il diritto di gestirla.

L’interpretazione energetica del sruplus produttivo, ha fatto emergere l’importanza de §4 Il ciclo ecologico, sconosciuto all’economia classica. Ancora non molti anni fa non si poneva la necessità del riciclo della materia, in quanto, per essere i materiali residui della produzione materiali organici, esso era fatto dalla natura medesima. Ma la grande massa dei consumi e l’introduzione di materiali residui non più organici ha bloccato ed invertiti quei processi, non più a livello locale, come accadeva anche nel passato,  ma globale. Altrettanto non si poneva il problema della dissipazione dell’energia (aumento della temperatura, dell’albedo).

Questi nuovi problemi hanno posto in luce il tema della scarsità dell’energia, perché ora per avere il ricilo dei materiali di scarto, sia della produzione che del consumo, bisogna consumare energia, ossia bisogna usare una parte del surplus produttivo, della rendita energetica; a pari produzione/consumo di merci corrisponde una minore rendita energetica, ossia si entra nel regime dei rendimenti decrescenti. L’economia capitalista, dominata dalla legge della massimizzazione dei profitti e dall’incessante aumento demografico è incapace di governare questa realtà, essa spinge a consumi energetici sempre maggiori, sempre più distruttivi, un’autentica e reale minaccia per l’umanità.

Ecco la necessità di una nuova scienza della produzione e distribuzione dei beni, appunto l’economologia.

Riflessioni economologiche((Con il termine economologia intendo riunire in un solo concetto sia l’economia che l’ecologia. Anche se non molto scorrevole è preferibile a economia-ecologica o ecologia-economica, poiché entrambe queste dizioni sottintendono la priorità dell’una rispetto all’altra, quando invece è da costruire un sapere che ipotizzo unitario perché unico il problema.))

di Giancarlo Zinoni

1§ L’economia energetica

La scienza economica si propone la conoscenza delle leggi e dei fenomeni inerenti alla produzione e alla distribuzione dei beni materiali, identificati come merci aventi un prezzo/valore. Come tutte le scienze essa assume che la conoscenza debba essere oggettiva ossia autonoma dall’attore conoscente e acquisibile a partire da fenomeni dati “per sè stessi” e quindi le leggi dell’economia devono essere valide e conoscibili in quanto tali e non in quanto facenti parte del contesto sociale; da qua il loro presunto carattere “naturalistico”, la loro presunta intrinseca necessità.

A partire da tali premesse epistemiche l’economia contempla solo quei fenomeni ai quali siano applicabili le categorie: merce – valore – mercato, trascurando e obliterando ad es. i beni non mercificabili o non ancora mercificati. In virtù di questi statuti l’economia dovrebbe assumere il valore di una conoscenza scientifica, che sia predittiva e normativa per la quale dirigere ed orientare i fenomeni economici.

Storicamente, la scienza economica nasce in connessione con il capitalismo; è quindi comprensibile l’interesse di questo all’interpretazione e alla codificazione della prassi economica in una scienza che lo ponga al di sopra e al di fuori delle contingenze sociali. In questo senso l’economia può anche essere letta come scienza borghese che esprime la soggettività di questa classe; in forza di tale giudizio la scienza economica sarebbe un’ideologia altamente formalizzata e non una scienza oggettiva.

Malgrado l’aspirazione universalistica, la scienza economica si é sviluppata sicuramente in presenza di stimoli sociali ed è frequente che una lunga e consolidata prassi di rapporti sociali sia assunta come una legge naturale successivamente razionalizzata ed anche formalizzata; ma la razionalizzazione e la formalizzazione non sono di per sè paradigmi di oggettività scientifica in quanto le strutture logiche formalizzate per essere tautologiche e per prescindere dagli oggetti ai quali sono applicate, hanno valore di verità solo relativamente a sè stesse. Ciò avviene anche per la scienza economica che, pur se è matematizzata, rimane prevalentemente descrittiva e non riesce ad essere, in modo affidabile, scienza predittiva.

Da tali considerazioni non s’inferisce la totale falsità e/o parzialità delle sue acquisizioni; l’aspirare ad essere scienza e contemporaneamente strumento dell’ideologia borghese non è una contraddizione che come tale la neghi. La contraddizione empirica, per non essere logica, non implica la negazione dialettica che a livello empirico non sempre e non necessariamente è una negazione che si autoadempie((Va osservato che per la cibernetica il feedback, in quanto controreazione dell’effetto é, sul piano formale, contraddittorio rispetto alla causa; infatti esso può essere di senso negativo che positivo e non essere pari ed uguale alla causa; da qua si conclude che la contraddizione dialettica può anche non essere una negazione per la causa ma bensì anche un’affermazione, avere su di  essa un effetto positivo, cosi ad es. è risaputo che le lotte sindacali hanno prodotto stimoli positivi sul capitalismo.)).

Dalla negazione dialettica ne dovrebbe conseguire la negatività della borghesia e per essa del capitalismo; ma per quanto una classe egemone produca rappresentazioni soggettive, unilaterali ed ideologiche, per il fatto di essere il risultato di un processo sociale interpreta sempre e comunque delle realtà sociali. Solo quando il soggettivismo della classe egemone entra in conflitto con queste ha inizio l’eclissi delle sue funzioni, il suo declino e, con il suo prolungarsi, la sua pericolosità sociale.

Marx, come tutto il pensiero socialista ha assunto l’economia come scienza oggettiva prospettando delle sintesi sociali radicalmente diverse da quelle capitaliste. Per esso i rapporti di produzione, proprio in virtù dell’economia come scienza, erano prioritari rispetto alla società e, avendo mutuato dall’economia classica la tesi che i beni hanno un valore pari al lavoro umano necessario a produrli e ne inferiva che, perché il capitalista possa accumulare profitto, al lavoro è assegnato un valore inferiore a quello che produce. Il differenziale tra il valore prodotto dal lavoro e il valore con cui è rimunerato costituisce il profitto da parte del capitalista; ecco che mutando i rapporti di produzione tutta la società ne verrebbe mutata.

Per l’economia classica, invece, il lavoro, con il capitale e le risorse naturali, è uno dei fattori di produzione, che ha il suo valore specifico in base alla produttività. Il prezzo della merce a sua volta è determinato dall’insieme dei costi, dalla remunerazione del rischio imprenditoriale(profitto) e dall’equilibrio della domanda con l’offerta ossia della scarsità relativa della merce in rapporto all’interesse marginale del consumatore per essa. Mentre la teoria marxiana pone l’accento sul valore, quella classica pone l’accento sul prezzo; il problema è visto da due angolature diverse, mentre col valore ha evidenza il rapporto merci/lavoro, col prezzo invece si valuta l’attitudine delle merci ad inserirsi nel mercato

Questi approcci, tra loro diversi, lasciano comunque in sospeso ed ignorano un dato elementare quanto macroscopico formulato chiaramente ancora nel 1881 da Podolinskij: «il lavoro umano, esprimendoci nel linguaggio della fisica, accumula nei suoi prodotti una più grande quantità d’energia di quella che deve essere spesa per la produzione della forza dei lavoratori»((Contemporaneo di Marx; sull’argomento e sull’autore vedere il mio «Il socialismo fisico di Podolinskij», Brescia 1989.)) e aggiungo: ciò avviene in qualunque regime economico, in qualunque epoca, in qualunque società. Assumendo che il lavoro, anche quello umano, non può che essere espresso col linguaggio della fisica, la tesi di Podolinsckij evidenzia il dato oggettivo capace di fondare l’economia come scienza. Il dato è illustrato dall’esempio del contadino che semina un quintale di frumento e ne raccoglie dieci; di quei dieci quintali, tolto i suoi consumi per rigenerare le fatiche impiegate a produrle e i bisogni famigliari e tolta la scorta necessaria alla semina successiva, rimane un’eccedenza che o va dispersa e quindi cessa d’essere tale, oppure va ad implementare la produzione d’altre merci, ad es. tessuti, diventando il fattore propulsivo della produzione d’altri beni. Il lavoro agricolo produce, in termini energetici o di beni o di valori, quantità maggiori di quanto ne consumi; da qua il formarsi del surplus o eccedenza di produzione a sua volta all’origine dell’economia e della politica e della capacità di riproduzione materiale della società della sua sopravvivenza.

Il concetto di lavoro, come fu introdotto da Riccardo ancora sul finire del secolo XVIII e rielaborato poi da Marx, era bastante a giustificare la presenza del surplus produttivo; infatti, per la carenza dei saperi necessari, non era allora possibile concludere che la formazione del surplus non inerisce alla produzione dei beni in quanto tali, ma bensì inerisce ai rapporti che la società nel suo insieme ha con la realtà naturale per la mediazione del lavoro. Ma per acquisire che il surplus produttivo è il risultato del rapporto società/natura, è necessario aver elaborato, quanto meno nelle sue linee essenziali, la teoria della conservazione dell’energia e dell’entropia, ossia aver assimilato nella cultura del quotidiano le leggi della termodinamica.

La tesi marxiana della forza-lavoro, che produce un valore più grande del suo stesso valore, pone il problema ontologico di comesia possibile che un essente si evolva o si trasformi in altro maggiore di sé, il che sul piano logico equivale ad asserire che il minore produce il maggiore. Sicuramente Marx pensava che la dimostrazione empirica del fatto fosse sufficiente a garantirne la realtà, ma questa dimostrazione non l’ha potuta dare, in quanto la sua tesi contraddice la legge della conservazione dell’energia e della materia, derivata a sua volta da quella fondamentale che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma e che letto in chiave ontologica, è il principio della conservazione della realtà o dell’essereove, dato un sistema chiuso, se una sua parte si accresce altrettanto cala in proporzione in un’altra parte per cui, quali che siano le trasformazioni, il totale é sempre a somma zero. Tutto questo significa che non può esiste il miracolo economico di una ricchezza o di una produzione che cresca a dismisura e senza limiti; il suo aumento é sempre a spese di qualcosa, di qualche altra parte della natura.

L’unica spiegazione possibile di come il lavoro possa produrre ricchezze più grandi di sè senza contraddire le leggi della termodinamica e senza ricorrere a quid metafisici è che, diversamente dal lavoro fisico, il lavoro umano attualizza e rende disponibili energie, naturalmente date, più grandi di se.

Gli alimenti vegetali ed animali sono stati i soli materiali energetici usati sin dai primordi della civiltà fino alla scoperta della trasformazione del calore in lavoro ottenibile dall’introduzione di materiali energetici quali il legno, il carbone, il petrolio e ultimo l’atomo.

Da quanto esposto ne viene che il surplus produttivo, implementato dal lavoro, è possibile a seguito dell’impiego delle potenzialità energetiche presenti in natura che, rese fruibili dal lavoro di estrazione/lavorazione dei materiali energetici, sono impiegate nella trasformazione di altri materiali, sempre naturalmente dati, in beni fruibili. I materiali energetici si distinguono da tutti gli altri dal fatto che la loro trasformazione, in concordanza con la legge dell’entropia, è irreversibile; infatti una volta bruciati, ossia utilizzati non si possono più recuperare, come avviene invece per gli altri materiali. In definitiva l’uomo, col lavoro, non crea nulla e l’energia si presenta quindi come la merce universale, che concretizzata nei materiali energetici costituisce quella merce base di cui Sraffa (1960) aveva ipotizzato la necessità economica e che fosse la misura universale dei valori.

Ciò premesso è conseguente la tesi che un prodotto vale l’energia consumata per produrlo, sia che venga erogata da un motore biologico (uomo, animale) o meccanico e il valore dell’energia consumata equivale all’energia che è stata spesa per produrla. Esemplificando si ponga che per produrre un barile di petrolio si spendano X unità energetiche, e che da quel barile si ricavino N unità energetiche pari a cento volte X; orbene mentre il valore del barile sarà uguale a X il valore degli oggetti prodotti con l’energia del barile di petrolio sarà cento volte superiore.

Nella produzione degli oggetti non energetici l’energia è solo consumata e deve essere fornita per intero dai materiali energetici. Tutti gli oggetti prodotti dall’uomo, esclusi quelli energetici, sono ottenuti a spese del surplus energetico o rendita energeticaespressa dal saldo positivo tra l’energia prodotta e quella spesa. La parte di rendita energetica che non venga impiegata nella produzione o sia usata per produzioni non fruibili (inutili) é persa, come non fosse stata prodotta ed i costi della sua produzione vanno a gravare sulla parte utilizzata, diminuendone la rendita.

Il concetto di rendita, che equivale a quello di guadagno, ossia il differenziale in valori assoluti tra ricavi e spese, è antico; diversamente quello di rendimento è solo recentemente entrato nel lessico comune; e non tutte le sue implicazioni epistemiche, sono state esplorate. Esso è un concetto matematico; definisce il rapporto tra una quantità variabile ed una costante ed è espresso o in percentuale o in frazione d’unità quando la costante è posta uguale ad uno. Per la legge della conservazione dell’energia i rendimenti non possono essere superiori a 100 o all’unità, ma in economia si assiste invece al fenomeno che questi rendimenti sono superiori all’unità ossia si ricava più di quanto si spende, che diversamente non si potrebbe avere la rendita. Essa, come si è visto, è ottenibile dai materiali energetici, perché è solo da essi che si ottiene più energia di quanta se ne consumi e nella produzione d’ogni altro oggetto l’energia è sempre consumata.

La rendita energetica evidenzia un’antinomia tra scienza fisica ed economia che non può essere passata sotto silenzio pena lo sfociare della seconda in teorie e programmi ideologici giustificativi del sistema capitalista ed è un’antinomia che si preferisce ignorare, poiché il riconoscerla e l’accettarla porterebbe a conclusioni diverse da quelle volute. Ne viene che l’economia non potrà farsi scienza finché disconoscerà che: sia la rendita energetica, come anche che il profitto non sono il compenso del rischio d’impresa o lavoro non pagato, ma l’appropriazione della rendita da parte del capitalista. L’economia, in quanto scienza della produzione e della distribuzione dei beni, non può condurre a riconoscere la rendita energetica; a questa conoscenza soccorre l’ecologica quale scienza del rapporto tra società e natura; reciprocamente necessarie esse si integrano in quella che appunto propongo con l’economologia.

2§ La merce/valore

Il bene, sia esso un oggetto o un servizio, è sempre un prodotto finalizzato alla soddisfazione di bisogni umani veri o presunti che siano; esso è il punto di partenza dei rapporti economici, che si formano quando il bene si trasforma in merce la cui funzione, in forza del valore/prezzo, è di far intercambiare il bene con qualsivoglia altro; infatti quando di un bene non é domandata la scambiabilità questi non diventa merce e non é un oggetto economico((Non ritengo corretta la definizione dell’economia come scienza della gestione dei beni scarsi o della scarsità, perché questo concetto è ambiguo ed inadeguato a spiegare l’attività economica. È lapalissiano stabilire che tutto ciò che viene domandato è scarso, poiché se non fosse scarso, non sarebbe domandato. All’uomo, per la sua struttura biologica, non è dato nulla se non l’aria, esso è quindi in uno stato di perenne scarsità onde tutto dovrebbe essere oggetto dell’economia il che è palesemente improponibile. Infatti sono oggetto dell’economia solo i beni che sono valutabili e che diventano merci; quei beni, invece che pur  necessari ancorché scarsi ma che non sono valutabili, non hanno valore, sono ignorati dall’economia; solo quando di essi si prospetta la possibilità di valutarli diventano delle merci come lo sono ad es. i cibi preconfezionati che fino a qualche decennio fa non erano considerati delle merci perché ognuno o ogni famiglia se li confezionava per conto suo.)).

Per potersi scambiare tra di loro, le merci hanno la necessità di essere misurate, confrontate sulla base di uno o più parametri che prescindano dalla specificità della singola merce e siano comuni a tutte, che siano numerabili e che siano accettati al di là della volontà dei singoli attori economici, in altri termini che siano intersoggettivi. Il valore assume pertanto la forma e la capacità di una norma, di un vincolo che, per essere generato da una lunga prassi sociale, appare come astorico, naturale, appartenente alla realtà delle cose che pur avendo loro leggi oggettive possono essere usate dall’uomo.

La misura si ottiene dall’impiego di un oggetto simbolo, come l’ora, il metro, il chilogrammo che numera (conta) quante volte l’unità simbolo sta nell’oggetto. L’oggetto simbolo che misura il valore di scambio é la moneta o il danaro((Anticamente il danaro era un’unità di misura di lunghezza ed anche di peso; é chiara quindi la discendenza del denaro come quantità monetaria dal denaro che misura le quantità.)), all’origine dei tanti sistemi monetari per misurare il valore delle merci,  al quale, unico tra tutti i sistemi di misura, è associato il diritto del suo portatore a scambiarlo con qualsivoglia merce in pari quantità a quanto esso ne numera; e che il danaro, o la moneta, sia l’attestato di un diritto é provato dal fatto che per essere valida e circolare deve sempre essere supportata da un potere politico comunque espresso.

Comparare le diverse merci, assegnare loro un valore vincolante, inventare la moneta e dare ad essa la forza di un diritto, é stato un processo storico sviluppatosi nel corso di millenni e che ha assunto varie forme. Il processo è interpretato dalla scienza economica come un insieme di dati naturali per cui disconosce che esso é il prodotto della prassi sociale, che é oggettivo relativamente alle società che lo riconoscono e lo applicano ed anche che senza di esso l’economia capitalista ed il mercato sarebbero impensabili ed impossibili. La teoria economica si é costituita come scienza che indaga i fatti economici a prescindere dalla loro storicità, e solo così le è possibile assegnare al mercato la funzione demiurgica di garantire l’oggettività sia del valore che della moneta facendoli esistere per se, aventi la forza cogente di norma e diritto naturali. Con tali premesse si esclude a priori, se non per aspetti marginali, l’interdipendenza e l’interattività dei fenomeni economici con le strutture sociali per cui, affermata la naturalità dell’economia, è la società a dovervisi adeguare. Questa è vista come un contenitore o categoria strutturalmente diversa dai fenomeni economici che contiene, dai quali dipende ma sui quali non ha influenza, anche  l’acqua e utile all’uomo pur e la sua composizione e qualità non sono date dall’uomo ma dalla natura.

Se all’opposto si riconosce che la società é un ente reale si avverte che essa ha tra le sue funzioni anche quella di dover garantire l’esistenza materiale degli individui; per attuare tale obiettivo essa adotta come strategia la produzione dei beni cosi come la riproduzione biologica é la strategia della conservazione della specie Queste strategie sono specifiche poiché l’uomo risolve e attua i suoi problemi esistenziali non seguendo l’istinto, come gli altri animali, ma ponendosi degli scopi; egli, in quanto animale teleologico prima di agire deve immaginare degli scopi, deve finalizzarli e programmare la prassi che valuta idonea al loro raggiungimento; per questo, diversamente da ogni altro vivente che può vivere anche solo rimanendo in equilibrio con le risorse ambientali (omeostasi), egli è l’unico animale capace di modificare finalisticamente l’ambiente per indirizzarlo ai suoi scopi.

Superata la fase dell’economia di ricerca, le società umane si indirizzano alla produzione, coltivazione dei primi materiali energetici, gli alimenti. Con la loro produzione, la società si é trovata di fronte al surplus, di come produrlo e come consumarlo in altre parole della sua gestione. La società capitalista è l’ultimo dei modi storici, e non l’unico modo possibile, della gestione del surplus produttivo; se cosi non fosse si sarebbe alla società assoluta oltre la quale non è possibile alcuna altra società, il che ovviamente è solo un articolo di fede per i capitalisti ed i loro epigoni.

Il modo più elementare di gestire il surplus è di non porselo come scopo ma di contenere la sua produzione al limite della sussistenza, contenimento ottenibile con la regolamentazione sia dei bisogni che della popolazione. Questa strategia, per quanto risulta dagli studi antropologici, é stata seguita dalle prime società umane orientate all’economia di sussistenza; in esse si lavorava meno che nelle attuali e la loro era un’economia dell’abbondanza nel senso che le merci non erano scarse in quanto non puntando al massimo dei consumi, non ve n’era scarsità((L’economia di sussistenza basata sulla raccolta e sulla caccia non é stata una scelta volontaria ma chiaramente condizionata dalle capacità tecnologiche per aggredire l’ambiente; le comunità preistoriche avevano bisogno di grandi estensioni di territorio per sopravvivere; si reputa che nel paleolitico un individuo, avesse bisogno per la sua sopravvivenza di circa cinque km. quadrati di territorio. Questa era la superficie necessaria per stare in equilibrio con l’ambiente, ossia per prelevare quanto esso poteva riprodurre spontaneamente. L’immaginario di rispetto, venerazione e riguardo che tutti i popoli arcaici hanno nei confronti della natura rimanda e rispecchia questa esigenza di stare in equilibrio con essa.)).

Coll’avvio della produzione agricola emerse il problema del surplus. La prima forma accertata della sua gestione é quella della sua distribuzione per linee parentali via via più allargate secondo la logica del dono, il potlatch((Mauss; Marcel «Essai sur le don, forme et raison de l’echange dans le sociétés arcaïques» (Paris, 1923))). Questo sistema genera una circolazione di doni e non di merci, dando origine alla dépanse alla dilapidazione del surplus che non é reinvestito. I beni non hanno un valore intrinseco ma solo sociale; sono donati per manifestare il prestigio del donatore come del ricevente, uno status simbol; il potlatch é una forma di consumo collettivo del surplus.

Il modo di produzione asiatico((Assumo questa catalogazione da Marx e dai recenti studi che l’hanno riproposta. In proposito: La forma di produzione asiatica, Ferenc Tökei, Sugar 1970; Sur le mode de production asiatique, opera collettiva Editions Sociales, Paris 1969; la sua traduzione ita­liana con ampliamento a altri contributi: Sul modo di produzione asiatico, Milano 1975)) e l’economia di palazzo tipica della Grecia micenea((Questa ipotesi la ritengo possibile  dall’interpretazione delle tavolette di Pilo, nella traduzione di Carlo Consani e Mario Negri, edita dall’Università di Macerata,1993-94)) si possono pensare come una sua evoluzione; entrambi sono caratterizzati dalla concentrazione del surplus in strutture sociali ove il donativo, la cessione del surplus da parte del produttore, si é via via trasformato in un obbligo, sempre rimanendo il principio della sua redistribuzione collettiva attuata in diversi modi((È ipotizzabile che la politica delle grandi opere pubbliche, presente nelle società arcaiche a forte centralizzazione politica come quelle fluviali, ad es. l’Egitto, abbiano avuta, quantomeno all’origine, la funzione di redistribuire il surplus agricolo.)).

Il baratto, lo scambio di beni contro beni, è praticato verso gli altri gruppi sociali, quelli esterni. Lo scambio nasce dal fatto che non tutte le società avevano le stesse materie prime e le relative tecnologie di lavorazione; la selce, l’ossidiana, il sale, le terrecotte e poi i metalli erano merci strategiche di primaria importanza dopo quelle energetiche/alimentari. Nel baratto il concetto di valore è più in nuce che espresso, avviene sui valori d’uso, sulle utilità che sono assegnate ai vari prodotti; la produzione non è ancora finalizzata al mercato, il produttore è il gruppo segmentale, la famiglia, che al suo interno produce tutto o quasi tutto quanto gli abbisogna. Il dono come il baratto sono ancora modi di colloquiare, di legare con altri segmenti sociali; la rendita energetica è percepita come una ricchezza pubblica che, gestita inizialmente dai maggiorenti, diviene gradatamente prelievo più o meno forzoso ma sempre entro gli ambiti di una società organizzata per famiglie, ossia tribale.

Per la comparsa dell’economia mercantile era necessario il progressivo allentamento e rottura dei vincoli della famiglia tribale. Tale autentica rivoluzione, per altro lenta, coincide con la progressiva separazione e costituzione dei maggiorenti in casta o classe con l’assunzione della funzione della gestione (produzione e distribuzione) del surplus per concludersi con l’appropriazione dello stesso e dei mezzi di produzione((L’evoluzione delle forme di proprietà non é stato sempre pacifico ed indolore e non in tutte ha assunto le tipologie di quella occidentale. In Europa le lotte agrarie per il riconoscimento del diritto assoluto sulla terra si sono protratte fino al Sec. XVIII.)).

Il diritto alla proprietà (la terra coltivabile, le miniere, gli strumenti) legittima e rende consuetudinario il diritto al surplus. Senza la legittimazione ed acquisizione alla prassi economica della proprietà fondiaria prima ed industriale poi non può formarsi il valore della merce e del mercato; è sicuramente superfluo ed irrilevante argomentare sull’antecedenza della proprietà rispetto alla formazione del valore o viceversa; sicuramente sono interdipendenti.

La rendita energetica aumenta con l’affinamento delle tecniche produttive; contestualmente l’invenzione dei contenitori di terracotta offre la possibilità di conservare i surplus alimentari, liquidi e granaglie, per un tempo più lungo e di differirne il consumo. Senza di questi non si avrebbe potuto avere la coltivazione dell’ulivo o della vite come quella dei cereali. Questo insieme di fattori sociali e tecnici concorre alla formazione del mercato che preme per assegnare ai beni un valore meno aleatorio ed estemporaneo, a dare loro una misura certa, un prezzo, trasformandoli in merci. S’innescano cosi quegli automatismi per i quali ogni oggetto o servizio può, qualora si riesca a valutarlo e definirne il prezzo, essere scambiato.

Tra gli automatismi che concorsero a costruire il valore delle merci va evidenziato il contributo di fattori culturali quali lo sviluppo del pensiero e della filosofia occidentali che, da Pitagora ai nostri giorni, hanno elaborato con continuità e sistematicamente la teorica della misura; anche la scienza nasce come cultura della misura e della quantità((Nel: Il saggiatore, il protagonista di un dialogo di Galileo, era la persona che saggiava i metalli, ossia ne valutava e misurava la loro purezza, in particolare per l’oro, l’argento, il rame; sicuramente con questo titolo Galileo pensava alla scienza anche come  il sapere della misura.)).

Una teoria del valore inizia da degli oggetti dalle caratteristiche ritenute utili; poi individua la caratteristica che li accomuna e li assimila, infine costruisce un metro che quantifichi in unità di misura la caratteristica universale comune ad ogni prodotto. Queste sono scelte o decisioni prese a monte del valore, compiute sulla base di valutazioni sociali, formatesi sia in modo cosciente e determinato che anche per automatismi spontanei((La nostra abitudine mentale di considerare le decisioni come atti della ragione ci fa dimenticare che in mancanza di scienza i problemi, specie quando sono innovativi, si risolvono con la procedura delle decisioni ignoranti, definite da V. Silvestrini come quelle ove: « il decisore…si trova ad agire non già in condizioni di incertezza ma in condizioni che possono essere definite di ignoranza » (La decisione presuntuosa; Rinascita, Giugno 1984, n° 26) a cui si ovvia in primo tempo con la diagnosi precoce, direi in corso d’opera, avanti che l’errore diventi irreparabile e catastrofico e poi col mutare ed adattare la decisione alle nuove realtà. Questi criteri ricalcano quelli di A. Simon circa le strategie della ricerca ove. « Ogni ramo (della ricerca) é sviluppato fino al punto in cui si rileva una contraddizione » (Le scienze dell’artificiale, ISEDI, Milano 1973). La decisione ignorante si avvale anche del metodo delle approssimazioni successive ove il risultato della decisione viene prima valutato secondo i valori correnti in una data società e secondo gli scopi prefissati e poi viene rielaborato in nuove decisioni che tengono conto delle realtà nuove che la decisione precedente ha prodotto. Il risultato finale quindi non é precostituito a priori  e, pur se interamente causale, non é determinato in toto dalla decisione. Questa procedura non ha bisogno della razionalità per produrre dei risultati; essa, in quanto non é possibile razionalizzare quanto ancora non si sa o non si é prodotto, interviene a posteriori per codificare i vincoli e le prassi operative, per renderla ripetibile senza doverla continuamente riscoprire.)); è per la loro mediazione che si forma la merce come bene portatore di un valore di scambio.

Quanto esposto avvalla la tesi che il valore delle merci non è una nozione in sè oggettiva. L’unica tesi oggettiva circa il valore della merce è il suo contenuto energetico. Qualora lo si potesse misurare verrebbero a far parte dell’economia a pieno titolo anche quei beni e quelle merci, come il lavoro volontario, quello domestico nonché quello finalizzato a prodotti non vendibili, che per non essere scambiabili ne sono espulsi ma che sono sempre e comunque degli impieghi della rendita energetica e che possono raggiungere anche valori socialmente significativi.

3§ Il lavoro

Il fattore che permette la formazione del valore é il lavoro, esso è l’unico fattore presente in ogni bene o merce, sia materiale che immateriale e che ho già avuto occasione di definire come: l’erogazione telenomica di energia meccanica.((Si veda il mio saggio: Il socialismo fisico di Podolinskij, cit. ed anche  Il sistema autoritario  (Pellicani, Roma 1993). Engels dissenta dalla definizione energetica del lavoro: « Qua e la sembra che qualcuno abbia non poca voglia di reimportare nell’economia la categoria termodinamica del lavoro, come accade per la lotta dell’esistenza nel caso dei darwinisti … c’è da chiedersi se il lavoro fisiologico compiuto si possa esprime senz’altro in modo esauriente in chilogrammetri … non si può misurare il lavoro fisico dell’uomo al modo in cui si misura quello della macchina a vapore  » ( Dialettica della natura, Ed. Rinascita, Roma 1950, p.170). Qua Engels esplicita la tesi espressa poche pagine prima quando contesta a Büchner. « La pretesa di applicare la teoria della natura alla società e di riformare il socialismo » (Ibid. p. 131). Questo concetto é ripreso nella lettera a Marx del Dicembre 1882 ove rimprovera a Podolinskij di: « trovare nel campo delle scienze naturali una nuova prova della giustezza del socialismo e ha mischiato quindi cose della fisica con cose dell’economia » (Ed. Rinascita, Carteggio Marx-Engels ) Si nota come egli sostenga apertamente la tesi della separazione della natura dalla società, necessaria per poter accreditare il surplus come lavoro non retribuito ed evitare la contraddizione con la legge della conservazione dell’energia; legge verso cui ha alcune perplessità « Leggi generali della natura – ci resta soltanto la gravitazione e forse la teoria della trasformazione dell’energia (vulgo  teoria meccanica del calore) nella sua forma più generale » (Cit. p. 187). La mia tesi é che accettare, il lavoro umano quale prodotto di una macchina termica come il corpo biologico, non significa dover assimilare necessariamente la società alle leggi della fisica per cui la prima possa essere letta come un fenomeno fisico, ma significa che il lavoro umano in quanto telenomico interfaccia la natura (fisica-biologica) con la società.))

Affinché i beni, per effetto dell’intercambiabilità, diventino merce è necessario che anche il lavoro sia riconosciuto come merce specifica, distinto dagli altri fattori della produzione ed avente diritto, al fine della sua sussistenza e riproduzione, alla contropartita in merci necessarie alla ricostituzione dell’energia fisica consumata.

Ma il lavoro umano, a differenza di quello animale o meccanico, è composto anche di telenomia; questo è il dato culturale, caratterizzato dalla capacità di rappresentare, interpretare e agire la realtà sia materiale che sociale, di progettare e programmare degli scopi e delle attività. La parte telenomica è talmente costitutiva che non esiste un lavoro umano che sia unicamente fisico, anche perché il corpo umano non è precostituito per un tipo di lavoro per cui per ogni lavoro l’uomo deve inventare l’uso del suo corpo

Così inteso, il lavoro non implica la sudditanza sociale e politica, come non implica la dominanza della figura del proprietario; questi rapporti diventano tali solo a seguito della formazione di strutture autoritarie((Vedi il mio saggio, Il Sistema autoritario, Roma 1993)) che operano nella direzione di separare la componente energetica da quella telenomica. Quando la componente telenomica è acquisita come prerogativa dei gruppi dirigenti e al lavoro è richiesta o riconosciuta solo o prevalentemente la componente energetica esso diventa servile, il lavoratore é sottomesso ad altri ed aliena da sè il suo corpo, quel motore che da sempre l’uomo ha usato e che, ancora oggi, dà i maggiori rendimenti energetici ed è insuperabilmente il più versatile.

Con lo sviluppo del sistema autoritario, i gruppi dirigenti si specializzano e s’identificano sempre più nella funzione di organizzare/gestire il surplus trasformando progressivamente il controllo sociale degli strumenti e dei mezzi materiali della produzione in proprietà privata e appropriandosi della rendita energetica che, nella prassi capitalista assume la forma di profitto.

Nella storia, la società ha espresso diversi scenari di subalternità del lavoro fisico, dallo schiavo, al servo della gleba, all’operaio sino al moderno lavoratore telematico, e tutti hanno dato origine al conflitto per la distribuzione della rendita energetica, conflitto espresso con la tendenza da parte del proprietario a pagare meno il lavoro in quanto costo (razionalizzazione dei costi/ricavi) e all’opposto, da parte del lavoratore, a massimizzare il salario. Nelle società divise in classi, dicotomiche, il problema è simmetrico; non vi è alcuna legge naturale o criterio oggettivo che deponga per la prevalenza dell’un metodo sull’altro, il che prova che il lavoro fisico é diventato servile per la legittimazione di prassi quali la violenza e il ricatto che il detentore dei mezzi di produzione esercita sul lavoratore, al quale è tolta ogni altra legittima possibilità di accesso alla rendita energetica che non sia il lavoro subalterno.

La parte di rendita energetica riconosciuta al lavoro fisico, oscilla comunque entro due limiti oggettivi, che per essere teorici non sono mai raggiungibili. Col primo il lavoro, quando é ricompensato al di sotto delle esigenze fisiologiche, porta alla debilitazione ed alla abulia del lavoratore per cui la sua produttività si approssima allo zero. È il caso dello schiavismo ove i rendimenti sono molto bassi con la conseguente riduzione al minimo dei contenuti telenomici. Ciò è stato causa non ultima, per le società schiaviste, della modesta crescita tecnologica((Il sistema di produzione schiavista per mantenere alto il livello di produzione é costretto all’impiego del lavoro umano in una stretta fascia di età, grosso modo dai quindici ai trenta anni. Oltre questi limiti il mantenimento dello schiavo non era più redditizio, da qua la necessità di non fare l’allevamento degli schiavi e di rifornirsi continuamente di materiale umano fresco (industria della guerra); dall’altro lato, per gli schiavi che sopravvivevano oltre tali limiti era più conveniente ridurli in semi-servitù, da cui l’istituto dei liberti che si automantenevano ma che nel contempo mantenevano dei doveri verso l’antico padrone.)) e la contemporanea squalifica morale del lavoro da parte del “libero“. Il limite opposto è l’assegnazione al lavoro dell’intera rendita energetica, con il totale consumo del surplus; in queste condizioni lo sviluppo della società si arresta, sia in senso civile, che economico, che culturale riconducendosi ai livelli dell’economia di sussistenza con il drastico contenimento dei bisogni ed anche la drastica diminuzione della popolazione.

Il lavoro, produttore ed utilizzatore della rendita energetica, per essere l’unico fattore presente in tutte le merci ha potuto essere la merce universale; il suo costo valore diventa così il metro col quale misurare qualunque merce. Ma la misurazione del lavoro in termini energetici non é possibile sia perché una prassi ormai millenaria ha seguito altre strade, sia per la macchinosità della sua determinazione sia anche perché è impossibile misurare secondo energia la componente telenomica. In assenza di misurazioni fisiche del lavoro, il suo valore, ossia la sua quota di accesso alla rendita energetica si è andato costruendo come rendimento((Il rendimento del lavoro é simile al rendimento energetico di ogni altra macchina, ossia il rapporto, nell’unità di tempo, tra l’energia resa e quella consumata che a sua volta e composta da lavoro umano e da lavoro macchina. L’energia viene consumata per produrre oggetti per cui la sua misurazione può essere fatta per quantità di peso, di volume, di oggetti, mentre il lavoro non é misurabile secondo tali criteri. L’unico parametro che é omogeneo a tutti i dati della produzione é l’unità di tempo, per cui il rendimento del lavoro umano é misurato in quantità di materia trasformata nell’unità di tempo. Questo metodo é possibile per date e specifiche lavorazioni e/o prodotti, essendo pressoché uniforme l’incidenza del lavoro per ognuna di esse.)) medio orario. Il lavoro telenomico, impalpabile ed immateriale che conferisce qualità al prodotto, é anch’esso parametrato al lavoro medio, pur se corretto da criteri di qualità molto variabili quali il potere sociale e politico del lavoratore, la cultura, la capacità professionale e contrattuale, il sesso o la razza ed altri che la società riconosce al lavoratore o al gruppo sociale produttore di telenomia.

Per i lunghissimi evi che separano la scoperta dell’agricoltura dalla scoperta del lavoro meccanico, il maggiore e pressoché unico fornitore di energia meccanica é stato l’uomo; ecco allora la necessità che la quasi totalità degli uomini fosse addetta all’erogazione di energia meccanica, mentre solo una piccola frazione si era specializzata ed appropriata del lavoro telenomico venendo a costituire la classe dirigente.

Il valore del lavoro, criterio d’ogni altro valore economico, é dato dalla quota parte di rendita energetica o surplus che gli viene riconosciuta oltre alla ricostituzione dell’energia fisica consumata nel lavoro; ma tale quota non é automatica, non nasce da leggi oggettive e non é consequenziale alla produttività come é evidente oggi dove la produzione aumenta pur a fronte della diminuita intensità di lavoro umano; essa all’opposto si forma nella contrattazione/conflitto tra le classi, onde l’antinomia del valore del lavoro, base del valore per ogni altra merce, che non é soggetto al mercato. Ciò che da sempre decide la distribuzione del reddito tra i vari attori sociali non é il mercato e tanto meno la sua illusoria libertà, ma sono i rapporti di forza((Il concetto di rapporti di forza non é meccanicamente riconducibile alla forza materiale impositiva; esso racchiude tutti quei poteri di tipo sociale, economico, politico e culturale per i quali una classe o gruppo sociale riesce a far valere,a  imporre la sua specificità ed egemonia nei confronti di altre classi o gruppi. Pertanto esso é concetto che riflette fenomeni complessi, non riducibili a semplificazioni.)) tra le classi, le lotte sociali, sindacali e politiche; ne  emerge che non esistono, e non si possono dare regole oggettive per assegnare la parte di spettanza all’uno o all’altro, al lavoro o al capitale.

La teoria economica minimizza il conflitto sociale per poter fare del mercato la premessa universale d’ogni esistenza sociale onde non potrebbe esistere società senza mercato da cui l’assioma che senza la libertà di mercato non può esserci quella politica. Il mercato, in quanto momento della mediazione tra gli attori economici può essere libero allorché non sia assoggettato a nessun vincolo ed in tal caso esso sarebbe totalmente casuale. Questa condizione è tanto più vera quanto più gli attori sono numerosi ed equipotenti hanno le stesse capacità contrattuali. La teoria era abbastanza verosimile nel mercato precapitalista, quando era la casualità della domanda a generare l’offerta per cui era inesistente o modestissimo il pericolo delle merci invendute e pertanto pressoché inesistente la tendenza del venditore ad agire sul consumatore. Nell’economia capitalista é l’offerta che provoca la domanda, è la produzione che provoca il consumo, inducendo nel consumatore la dipendenza al mercato, di fatto dominato e controllato dai produttori, arrivando al paradosso del consumatore che domanda ciò che il produttore vuole vendergli, inducendo nel primo la volontà del secondo. La teoria economica del marginalismo non ha più senso poiché la legge del mercato non é più costituita dall’incontro della domanda con l’offerta ma da un’offerta che, velocizzando i consumi con l’obsolescenza dei prodotti e l’ossessiva proposta qualitativa, domina la domanda.

É esiziale per il produttore avere il controllo/dominio sul mercato; sarà poi il darwinismo economico ad emarginare ed eliminare i più deboli, perciò il mercato tende ad essere sempre meno libero, sempre più dominato e finalizzato dai grandi poteri economici. La sua funzione mediatrice ed equilibratrice sono progressivamente svuotate dai cartelli tra i produttori, dai monopoli e dalle le fusioni in grandi corporations; con questi mezzi si tende a ridurre la concorrenza tra le imprese ed a stabilire una gestione sempre più centralizzata del mercato da parte del produttore. Il controllo del mercato è l’ultima frontiera del capitalismo, post-fordista o post-moderno. Per effetto dei progressi tecnologici si ottengono variabilità e flessibilità produttive inimmaginabili non molto decenni fa per cui la produzione non è più al centro dell’espansione capitalista; il problema non è produrre ma vendere da qua la preminenza del mercato e l’esigenza del suo controllo poiché le grandi imprese, le multinazionali devono operare secondo linee di certezza o di eventi altamente probabili e su non quelle casuali di un mercato libero. Il baricentro dell’economia capitalista si è spostato dalla produzione al mercato, questo il senso della new-economy.

In questo contesto, la visibilità sociale della classe operaia, la classe fornitrice della forza lavoro, è diminuita pur non essendo diminuita di molto la sua consistenza numerica. Di contro emerge la figura del consumatore la cui incidenza sociale è di tipo passivo; esso al massimo può non comperare un prodotto, ma gli manca la capacità propositiva e la forza sociale dell’aggregazione organizzata che ha la classe operaia. La libertà di mercato si rivela un’illusione, una metafora che sottende la tendenza dell’economia capitalista alla soppressione d’ogni vincolo sociale o politico che l’imiti la libertà d’impresa. Ma il dominio e il controllo del mercato presuppongono un’egemonia non solo economica ma anche politica e culturale, che totalizzi la società in ogni suo aspetto e che non coincide con la libertà degli uomini ma con la loro sudditanza. L’individualismo esasperato, indotto dalla new-economy, rompe i legami solidaristici e sociali, isola l’individuo rendendolo incapace d’autonomia e facilmente subalterno; per esso la libertà capitalista si risolve esattamente nel suo contrario

4§ Il ciclo ecologico

L’introduzione, nell’analisi economica, della dimensione energetica evidenzia che, l’economia classica circoscrive i suoi interessi limitatamente al ciclo produzione/consumo. Questo é solo una parte, quella virtuosa, quella che produce merci in virtù del consumo del surplus energetico, l’altra parte quella che riporta la materia ad essere nuovamente immessa nel ciclo virtuoso è ignorata perché essa non produce ricchezza  ma consuma il surplus energetico.

Il sistema-Terra per effetto dell’attività della fotosintesi immagazzina, fissa parte dell’energia solare nella crescita della massa biologica. Questo processo è stato per lunghi evi, sufficiente ad implementare le attività produttive dell’uomo; in altri termini le attività umane consumavano tanta energia quanto riuscivano ad utilizzare di quella solare. Ma la domanda d’energia, per effetto delle scoperte scientifiche e della spinta capitalista è andata progressivamente crescendo; l’equilibrio tra l’energia solare e quella utilizzata dall’uomo si è spezzato, da qua il ricorso sempre più massiccio ai materiali energetici fossili che sono energia solare immagazzinata nei grandi evi della Terra. Ma la quantità di questi è finita, come è anche finita la quantità dei materiali non energetici; ciò spinge il sistema economico al loro riciclo, cosa che per i materiali energetici. In ogni caso Il riciclo non può essere totale sia a causa della entropia della materia((Mi riferisco alla tesi di Gerogescu Roegen. « …il riciclaggio non può essere completo…nessun processo può realmente riunire tutte le molecole di una moneta che si é consumata »  (Energia e miti economici,  Boringhieri, Torino 1982, p. 38))) che per l’impossibilità di avere rendimenti che siano prossimi al 100%.

Col consumo le merci cedono energia/materia e nel processo una parte si degradano come materiali-rifiuti mentre un’altra parte viene metabolizzata come incremento della massa della sociosfera (massa biologica + massa dei manufatti permanenti)((Ovviamente parlare della massa della sociosfera non tiene conto delle differenze che possono esistere all’interno della massa. Il concetto che differenzia il valore di questa massa mi sembra che venga reso con quello di impronta ecologica molto più idoneo ad indicare il peso ecologico di una specifica società o gruppo sociale.)).  I processi naturali riportano poi i materiali-rifiuto ai livelli di riutilizzo chiudendo in tal modo il ciclo iniziato dalla produzione/consumo. Il ciclo rigeneratore o di ricupero fatta dalla natura, ripercorre il cammino a ritroso a spese dell’energia solare ed il risultato finale non è l’esatta ricostituzione della materia consumata ma questa è riorganizzata e diversifica ed i materiali di risulta si presentano carichi di nuove informazioni, dando cosìorigine alla grande variabilità della biosfera che, per i suoi contenuti informativi, é un enorme patrimonio. Basti pensare che l’humus, ossia il terreno coltivabile e il risultato del riciclo naturale dei rifiuti organici vegetali-animali. Ma con la produzione industriale, l’attività spontanea della natura è insufficiente a chiudere il ciclo sia per l’enorme quantità di rifiuti che anche per la presenza sempre maggiore dei materiali artificiali non riciclabili e che sono all’origine dei cicli perversi, inquinanti. Questi materiali, non riciclati o mal riciclati si accumulano in continuità e rappresentano una perdita netta di materia e d’energia oltre ad essere un pericolo biologico.

Il ciclo economologico: materia/merce/materia completa, con il ricupero dei materiali, quello dell’economia politica. La loro ricostituzione, come per ogni altra produzione che non sia di materiali energetici, è possibile solo col consumo d’altra energia che si aggiunge a quella spesa nella produzione e ciò produce la caduta dei rendimenti energetici rispetto al rapporto costi/ricavi. Mentre nell’economia preindustriale il ricupero era a spese dell’energia solare e non di quella prodotta dall’uomo ora il ricupero è interamente a carico di quest’ultima. Ha qua inizio la fase dei rendimenti decrescenti o della caduta della rendita energetica, ove questa diminuisce per doverla consumare in quantità sempre maggiori nella chiusura del ciclo economologico. Il mercato non ama accollarsi il costo del riciclo dei rifiuti, specie di quelli industriali, poiché é un costo aggiuntivo che diminuisce la rendita e tende a scaricare questi costi sulla società. Ciò non arresta ii rendimenti decrescenti poiché in un sistema chiuso non ha importanza di come sono distribuiti i costi al suo interno; l’effetto finale dei rendimenti decrescenti è, al limite, la paralisi economica. Da qua l’enigmatica dei bilanci econometrici (i PIL) che mettono in conto dell’attivo i maggiori consumi dovuti al ripristino delle qualità naturali consumate e che non sono più spontaneamente riciclate.

A questo punto si hanno due scenari possibili: con l’uno i livelli ecologici consumati nel ciclo economico sono ripristinati con il consumo della rendita energetica, il che equivale al contenere i consumi entro i limiti di tolleranza del sistema-Terra, con l’arresto dell’incremento della massa della sociosfera; con l’altro, per rendere il costo del risanamento, dei cicli perversi, accettabile e sopportabile, si punta all’incremento esponenziale della rendita energetica anche ricorrendo a fonti esterne al sistema Terra((L’energia nucleare si può considerare esterna al sistema Terra per il fatto che é un’energia cosmica; il concetto tradotto in termini entropici significa che la spesa energetica per il riciclo si attua non a spese del sistema-Terra ma del cosmo. Una variante d’energia cosmica utilizzabile è quella dell’idrogeno che è uno dei materiali più diffusi, se non il più diffuso nell’universo. Ma l’utilizzo dell’idrogeno come fonte d’energia oltre a difficoltà tecniche, comunque superabili, ha il difetto di non essere scarso e d’uscire dagli schemi del mercato capitalista. In parole povere, esso è un materiale accessibile a chiunque e non può essere monopolizzato come oggi avviene per il petrolio o per l’uranio. Sostituire il petrolio con l’idrogeno è una rivoluzione che il capitalismo può difficilmente accettare, e che cerca di rallentare o rinviare ma a spese di costi ecologici e quindi sociali enormi.))

Per l’economia classica la prima ipotesi è inaccettabile, poiché limita drasticamente la rendita energetica e mette in forse tutte le strutture sociali e politiche che si reggono sull’assioma dello sviluppo continuo e indefinito e mette in crisi il capitalismo quale struttura tendente a massimizzare il profitto. Tale ipotesi, pur se politicamente inaccettabile per la società capitalista, è invece la soluzione che più garantisce il futuro al genere umano.

La logica capitalista é sicuramente a favore dell’altro scenario ove si accede ad una rendita energetica talmente grande e continuata da pagare la chiusura di qualunque ciclo ecologico, quale che sia la sua grandezza. La tesi è ineccepibile ma ha un limite nella finitezza del sistema-Terra come superficie, come risorse dei materiali e come sopportabilità della biosfera di convivere con forti e massicci apporti energetici, quali ad es. l’aumento della temperatura, o la modifica dell’atmosfera con l’aumento dell’anidride carbonica e la diminuzione percentuale dell’ossigeno, che porterebbe alla distruzione di informazioni biologiche necessarie alla vita umana, per sostituirle con altre non biologiche; da qua il rischi di sopravvivenza dell’umanità.

Vi é anche uno scenario intermedio, quello dello sviluppo sostenibile. Esso è la perenne illusione di avere i vantaggi senza pagarne i costi che, nel caso del rispetto dell’ecologia, si potrebbero pagare alla sola condizione di disporre di un sistema talmente grande, come il cosmo, da essere insensibile alla variazioni entropiche, esattamente l’opposto della finitezza del sistema-Terra. Poiché qualunque sviluppo economico compreso quello sostenibile, anche se lento e controllato, può essere solo materiale, esso presuppone necessariamente l’incremento del consumo di materia e di energia, possibile unicamente a spese del sistema-Terra. La carry-capacity si può avere solo nel primo scenario.

Il quadro si riassume nella dicotomia, che diverrebbe fatale se irrisolta, tra il sistema-Terra e il sistema sociale; mentre il primo è di tipo finito e le sue risorse per quanto grandi hanno dei limiti quantitativi invalicabili, il sistema sociale all’opposto è di tipo aperto e, per la duplice pressione sia demografica che dell’aumento dei consumi, non ha “in se” limiti al suo accrescimento. Questi limiti, per non essere naturalmente dati, possono essere costruiti come dati finalistici che la società assume coscientemente; ma per accedere ad una cultura che produca questa capacità d’autodeterminazione sociale é necessario abbandonare il principio della massimizzazione dei profitti (già il sottometterlo a controllo significherebbe negarlo), dei risultati, dei benefici, del successo demografico; bisogna uscire da una concezione meramente biologica di aumento della massa sociale, per accedere a quello dell’ottimazione dei rapporti società/natura, che non implica il successo, la vittoria, il dominio dell’una sull’altra, ma la convivenza. In questa direzione l’economologia, come scienza delle merci/materia e non delle sole merci/valore, può proporsi come utile approccio per ridisegnare una garanzia di futuro ed una possibilità sociale che oggi ancora non esiste.

Non é possibile pensare al futuro quale proiezione in crescendo dell’economia di mercato capitalista; questa, per avere come finalità la massimizzazione del profitto, si realizza solo consumando sempre più natura, anche disgregando i processi naturali:Tutto ciò, in termini di termodinamica, equivale all’estrazione all’infinito di entropia negativa il che è assolutamente impossibile. Una prospettiva del genere, in un sistema finito come quello della Terra, produce inevitabilmente la distruzione d’informazioni contenute nella materia vivente, a partire dall’humus del terreno, ai vegetali, agli animali, alla stessa società.

Le conclusioni da trarre non sono semplici, la loro attuazione implica una profonda riflessione nonché radicali trasformazioni della società. La pressione da questa esercitata sul sistema-Terra, altrimenti detta pressione antropica, é tale da risultare sempre meno sopportabile. Ma tale pressione non é irreversibile; la società, potendo essere capace di telenomia, come scardina i sistemi ecologici, altrettanto può convivere con essi.

La società umana e con essa la nostra specie, se vorrà sopravvivere, dovrà adottare strategie di convivenza col sistema-Terra, quali il contenere e disciplinare la duplice pressione: demografica e consumistica entro limiti di tolleranza per il sistema; tanto l’uno può crescere quanto l’altro calare. In definitiva la società si dovrà riorganizzare secondo finalità economologiche sostituendo alla cultura della competizione quella della compatibilità.

Concludendo, si possono riassumere queste riflessioni nelle tesi:

1) la merce vale il costo energetico dell’intero ciclo ecologico

2) produrre/consumare più di quanto il sistema-base permette causa la perdita di informazioni e alterazioni irreversibili per il sistema medesimo

3) l’esistenza dell’umanità dipende dalla sua compatibilità col sistema-base

La rendita energetica

Ritengo opportuno dare una breve ed essenziale bibliografia ragionata sul tema dell’energia e della rendita energetica. Il tema è relativamente nuovo per la scienza economica, che esprime molte resistenze ad accettarlo e lo relega in posizione marginale. La remore alla sua accettazione vengono sia perché le sue conclusioni si presentano come eccentriche rispetto alla prassi economica del capitalismo sia anche perché la cultura umanistica recepisce con difficoltà l’idea che le teorie scientifiche debordino dal loro ambito costituito. Influisce anche un’insufficiente elaborazione critica della teoria per cui, più che di una teoria della rendita energetica, si ha un approccio alla conoscenza dell’influenza delle risorse energetiche sulla società..

Il problema dell’energia si era posto nel secolo precedente (Podolinsckji – Geddes), ma solo nel secondo dopoguerra esso emerge nella sua importanza in concomitanza con l’inizio dell’uso civile dell’energia atomica. Nel 1956 il testo di Angelos Angelopoulos L’atomo unirà il mondo, trasmette l’ottimismo sull’uso pacifico dell’atomo; non vi è ancora coscienza della pericolosità del suo uso e del fatto che per avere un atomo sicuro, quand’anche fosse possibile, i costi sarebbero talmente alti da abbassare la sua rendita energetica a un livello di poco superiore a quella del petrolio o del gas naturale. Non c’è ancora la coscienza che lo sviluppo dell’energia atomica avrebbe portato, per gli alti costi e la complessità tecnologica, ad un concentramento di potere economico enorme (Laura Conti 1978). Sulla scia dell’uso pacifico dell’atomo si muove Felice Ippolito, Fabbisogno energetico ed energia nucleare del 1961; esso parte dalla tesi che lo sviluppo delle moderne società può aversi solo a condizione dell’aumento dei consumi energetici a cui le risorse naturali non sarebbero bastanti, da qua la necessità del ricorso al nucleare.

Negli anni settanta, con lo choc energetico del 1973, si sviluppa una coscienza diffusa, un senso comune, della tematica sociale dell’energia che sfocia nella coscienza ecologica e nei movimenti politici dei verdi. Nel 1972 il Club di Roma con I limiti dello sviluppo, lancia l’allarme ecologico; nel 1976, la Fondazione Ford fa seguito con Un progetto per una politica dell’energia. Testi che daranno origine a giudizi e valutazioni diverse e contrastanti. Quindici anni dopo dal testo citato, Ippolito, nell’introduzione al convegno «L’energia del futuro» promosso nel 1976 dall’istituto Gramsci, riprende la sua tesi sul nucleare. Rileggere quegli interventi mostra quanto fosse ricca, e meno schematica di quanto avvenne in seguito, la discussione sui problemi energetici: Al fondo c’è la presa di coscienza che l’energia è questione fondamentale e decisiva per la società, il che è una novità assoluta nel panorama culturale, quello italiano in particolare. È sempre di quegli anni il lavoro (1971-1976) di Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Econimcs process  e poi  Energia e miti economici; l’autore vede nell’energia, in specifico nell’entropia, la teoria che interfaccia la scienza con l’umanesimo e spezza la separatezza della scienza economica dalle scienze naturali; superamento che conduce all’idea di misurare il valore della merce in termini fisici. Inascoltato ma, nonostante ciò pregnante, il saggio di Giarini-Loubergé La delusione tecnologica, che all’ottimismo della formula più energia più produzione, oppone la teoria dei rendimenti decrescenti, ossia sempre più energia per produrre risultati sempre più modesti. Rifkin con un testo del 1980 il cui titolo è già un programma: L’entropia, la fondamentale legge della natura da cui dipende la qualità della vita, riporta il problema energetico alla legge fisica dell’entropia, che costituisce il ponte di passaggio e di unità tra cultura scientifica ed umanistica. Questi ultimi testi hanno l’indubbio merito, a partire dal problema energetico, di porre con forza e con molti più argomenti, il tema della necessità di costruire nuovi rapporti tra società e natura, già posto da Geddes (1881-85). Seguono poi, quelli che io reputo lavori di assestamento, e precisamente: Storia dell’energia, (Debeir, Deléage, Hémery  1986) e Economia Ecologica, (Martinez-Alier 1987). Diversi tra loro, questi lavori a loro modo riassumono il dibattito precedente. Col primo si definisce chiaramente il concetto di rendita energetica, mentre il secondo lancia la tesi di fusione tra economia ed ecologia. Quest’ultima è anche la tesi James O’Connor con, Capitalism, Nature, Socialism (1988) che legge in chiave marxista il conflitto del capitale non solo con il lavoro (rapporti di produzione) ma anche con la natura; la sua seconda contraddizione.

L’onda lunga del decennio appassionato, quello degli anni 70, sta esaurendosi. Il capitalismo ormai è partito alla globalizzazione e dopo pochi anni il socialismo reale crollerà come un castello di carta. Questo porta ad un ripiegamento generale per tutte quelle teorie e studi che sono altra cosa rispetto al trionfalismo del capitalismo globale e che non condividano la fede nell’assoluta capacità del mercato di regolare ogni aspetto della vita economica dei singoli e delle collettività nazionali e dei rapporti della società con la natura.

Ciò non toglie, che non si continui a studiare, segnalo il mio Il socialismo fisico di Podolinsskij, (1989), Marx-Engels-Podolinskij, una traccia teorica perduta? (Bagarolo 1991). Anche se non tratta espressamente del tema dell’energia o dell’entropia, il libro di Hösle Philosophie der ökologischen Krise(1991)è un’originale e per nulla trascurabile approccio, in chiave metafisica, al tema ecologico. Per l’approccio ad una lettura economica dell’energia oltre al già citato Rifkin: L’energia come altro indicatore del valore delle merci (Nebbia 1992), Il bilancio energetico di un’agricoltura «tradizionale»: Bologna 1881 (Finzi – Lo Vecchio 1992). Ma il lavoro è faticoso, la rivista  Scienza-natura-Capitalismo, dopo due anni scompare; il progetto dello Sviluppo sostenibile che cosi tante speranze aveva sollevato rivela la sua contraddizione poiché, comunque inteso, è inscindibile dall’aumento del consumo, per quanto razionalizzato o pianificato, della natura; altrimenti sarebbe sviluppo zero; su questa frontiera si colloca Future Wealth (Robertson 1990). Per ultima una segnalazione tutt’altro che perergrina; E. Bernabei ne: L’uomo di fiducia, (1999)segnala più volte il peso avuto nell’industrializzazione dell’Italia del dopoguerra, dal basso costo dell’energia (petrolio sulla porta di casa) e l’importanza dell’opera di Mattei.