Rileggere Marx da un punto di vista ecologico

Giorgio Nebbia da sempre e caparbiamente ci spiegava che in Marx si trovavano elementi essenziali di analisi tesi a dimostrare come il modo di produzione capitalistico sia all’origine della rottura di un corretto rapporto tra uomo e natura, ponendo le basi teoriche per fronteggiare la moderna crisi ecologica. Esemplare e tuttora di grande attualità il suo saggio del 1994 in occasione dei 150 dalla stesura da parte del giovane Marx dei Manoscritti economici filosofici che qui abbiamo riproposto.

Nebbia si era avvicinato alla lettura di Marx tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, sulla spinta dei fermenti del Sessantotto studentesco. Una lettura originale, la sua, di un cattolico dalle profonde convinzioni ma anche di uno scienziato che aveva già maturato, attraverso l’originale visione della merceologia ereditata dal suo maestro Walter Ciusa e le sue ricerche sui distillatori solari, un punto di vista ecologico rispetto all’economia. Ed è da questo punto di vista che si avvicina a Marx, scoprendo lezioni che molti di noi, a quei tempi impegnati nella rivoluzione sociale, non abbiamo saputo cogliere.

Vien da pensare, retrospettivamente, che questo incontro con Marx sia stato per lui particolarmente fecondo, rafforzando la convinzione che la crisi ecologica poteva essere efficacemente affrontata solo se ci si emancipava dalla dittatura del PIL, ovvero del calcolo monetario dei fenomeni economici, dall’ossessione, connaturata al sistema capitalistico, di dover conseguire un continuo aumento del valore di mercato, dunque del profitto, e, a tal fine, di appropriarsi della natura. Tutti vincoli che impediscono anche la semplice valutazione della portata della crisi ecologica, quindi, ancor più, la possibilità di fronteggiarla.

Solo una contabilità biofisica, quantitativa e qualitativa, dei flussi di materia ed energia dalla natura all’economia e da questa di nuovo alla natura può obbligare l’economia a piegarsi ai vincoli ecologici, un compito che ha segnato profondamente la ricerca scientifica del tutto innovativa dello stesso Nebbia((M. Ruzzenenti, Giorgio Nebbia precursore della decrescita. L’ecologia comanda l’economia, Milano, Jaca Book, 2022.)).

Giorgio Nebbia concludeva il suo saggio facendo notare che “proprio alla nostra epoca è toccata la sorte di vedere attuata l’anticipazione di Marx”, sull’incoercibile pulsione distruttiva della natura propria del modo di produzione capitalista. Nebbia lo diceva nel 1994, dopo venti anni inconcludenti dalla “primavera ecologica”; lo possiamo a maggior ragione ribadire oggi dopo mezzo secolo del tutto fallimentare della gestione capitalistica della crisi ecologica.

Insomma sembrerebbe che il vecchio Marx meriti di essere riconsiderato anche da un punto di vista ecologico, a tal punto che questa riflessione ha trovato uno spazio persino nella prevista Conferenza internazionale sulla decrescita, che si terrà a Venezia tra il 7 ed il 9 settembre prossimo((Si veda: Decrescita e Marxismi – Verso Venezia 2022; https://venezia2022.it. Sempre qui pubblichiamo alcuni materiali preparatori.)).

Da questo stimolo, proveniente dall’inesauribile miniera dell’opera di Nebbia, nasce la curiosità di leggere due testi, pubblicati recentemente in Francia, che affrontano di petto il problema, due testi in qualche modo complementari e convergenti nel riconoscere a Marx, nella sua analisi critica del sistema capitalistico, un’attenzione centrale, non solo al processo di alienazione del lavoro salariato ad esso connaturato, ma anche alla distorsione potenzialmente distruttiva indotta nel rapporto con la natura. Ovviamente Marx non poteva profetizzare l’attuale crisi ecologica, né, probabilmente, riteneva che bastasse il superamento del capitalismo per ricostruire su basi corrette una relazione con la natura comunque problematica nella modernità industriale.

Tuttavia, alcune intuizioni sembrano di grande utilità per trovare il bandolo della matassa di un problema che sta lì di fronte all’umanità ormai da mezzo secolo, senza soluzioni apprezzabili, anzi incancrenendosi pericolosamente.

Oltre confine Marx negli ultimi anni è sempre più studiato. I due testi che qui consideriamo sono stati recentemente pubblicati in Francia, da importanti case editrici.

Henri Peña-Ruiz, Karl Marx penseur de l’écologie, Paris, Seuil, 2018.

È interessante la sottolineatura da parte di Peña-Ruiz della prima formazione filosofica del giovane Marx, con una tesi di laurea sull’epicureismo, secondo il quale “l’accordo dell’uomo con la natura […] è una regola di vita”((H. Peña-Ruiz, Karl Marx penseur de l’écologie, Paris, Seuil, 2018, p. 16.)). Una concezione che possiamo riassumere con i termini usati da Marx nei Manoscritti, un umanesimo naturalista o un naturalismo umanista((“Naturalismo e umanesimo”è il titolo del secondo capitolo, pp. 69-111.)), che in certo modo Marx non abbandonerà mai nel suo percorso teorico ed esistenziale e che noi oggi potremmo tradurre in ecoantropocentrismo, convenendo con Serge Latouche((S. Latouche, Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 82.)), e superando dialetticamente la contrapposizione oggi di moda tra l’antropocentrismo ed il presunto auspicabile biocentrismo od ecocentrismo. A questo proposito Peña-Ruiz si preoccupa di rivalutare il ricorrente ricorso in termini positivi da parte di Marx al mito di Prometeo come fondativo dell’unicità rispetto agli altri viventi della condizione umana. Scontata la storicizzazione per cui anche Marx non può essere avulso dallo spirito del tempo in generale fiducioso nelle possibilità dell’innovazione scientifica e tecnologica, Peña-Ruiz affronta il tema, sapendolo spinoso, essendo un luogo comune della narrazione ecologista la denuncia della “vocazione prometeica dell’uomo” come origine dell’attuale devastazione della natura. Marx al contrario considerava Prometeo un eroe dell’emancipazione umana. E rileggendo l’opera di Eschilo su Prometeo, non si potrebbe attribuirgli la responsabilità della distruzione della natura, ma al contrario ciò che dà il titano agli umani è l’insieme delle tecniche che gli permettono di sopravvivere, di prendere cura di sé in un contesto in cui la sua semplice e fragile forza fisica verrebbe sopraffatta da animali ben più potenti, di usare quindi bene la natura, senza sfruttamento e degradazione. Per questo Epicuro e Prometeo sarebbero figure fondamentali nella formazione di Marx e nella sua visone della storia umana: “Pensare la condizione umana a partire dall’idea che questo divenire cambia e oltrepassa l’evoluzione biologica, senza perciò far dimenticare l’inserzione dell’umanità nel mondo della natura. In questa prospettiva, Marx ed Engels se ne vengono di concerto ad una dialettica in cui si congiungono una storia naturale dell’uomo e una storia umana della natura”((H. Peña-Ruiz, op. cit., p. 88.)), una concezione che li porterà a prendere le distanze da concezioni materialistiche volgari, “scientifiche” nel senso di un riduzionismo biologico.

È, quindi, il lavoro tra l’uomo e la natura, inteso come progetto prima pensato e poi messo in opera, ovvero la cultura, il tratto caratterizzante e distintivo specifico dell’uomo che, grazie a Prometeo, oltrepassa il suo mero essere biologico. Da qui il percorso di Marx che, partito dalla filosofia, si svilupperà nella critica all’economia politica ma anche, necessariamente, negli studi delle scienze naturali, con un’attenzione privilegiata, come vedremo, a Justus von Liebig. Peña-Ruiz si sofferma su un altro classico ammirato da Marx, Aristotele, in particolare su quei passi della sua Politica in cui il grande filosofo critica la crematistica, come degenerazione degli scambi commerciali, cosicché la moneta da mezzo diventa fine e l’avidità di accumularla non conosce più alcun limite, deviazione malsana dell’economia umana intesa invece come organizzazione giusta e razionale di attività vitali per l’uomo. Da qui la consapevolezza di Marx che l’economia umana, fondata sui valori d’uso, deve porsi dei limiti, perché la quantità di cose che possono servire per rendere la vita felice non è illimitata. Sennonché lo stravolgimento del valore d’uso in valore di scambio, la riduzione del lavoro umano a lavoro salariato, la proprietà privata dei mezzi di produzione, e quindi anche della natura e dei lavoratori, insomma il modo di produzione capitalistico non può conoscere limiti, poiché “non ha per priorità la soddisfazione dei bisogni umani, ma la fabbricazione di una domanda destinata ad offrire degli sbocchi alle merci prodotte da cui si ricavano profitti importanti”((Ibid., p. 141.)), in un processo di accumulazione infinito. Ed il tema dei limiti, ritorna esplicitamente in Marx, nel primo libro del Capitale dove pone come indissociabili lo sfruttamento dell’essere umano e quello della terra, quindi della natura, di cui anche l’essere umano, peraltro, è parte. “Ogni progresso dell’agricoltura capitalista è un progresso non soltanto nell’arte di sfruttare il lavoratore ma ancora nell’arte di spogliare il suolo; ogni progresso nell’arte di accrescere la sua fertilità per un periodo è un progresso nella rovina delle sue risorse durevoli di fertilità,; […] La produzione capitalistica non sviluppa dunque la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale che esaurendone nello stesso tempo le risorse da cui trae ogni ricchezza: la terra e il lavoratore”((Ibid., p. 141.)). Qui Marx introduce chiaramente il tema dei limiti delle risorse naturali ed in particolare della fertilità del suolo, tema che verrà sviluppato ampiamente nel testo di Kohei Saïto. Infine, a proposito di questa attitudine distruttiva del capitalismo verso la natura riprendiamo un’ultima citazione eloquente del pensiero di Marx: “È solamente con esso che la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro affare di utilità; che essa cessa di essere riconosciuta come una potenza di per sé; e che la medesima non appare che un come un’astuzia finalizzata a sottomerla ai bisogni umani, sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di produzione”((Ibid., p. 182.)). Il testo infine offre alcune interessanti considerazioni sull’attualità del pensiero marxista come riferimento per una elaborazione di una prospettiva ecosocialista per fronteggiare efficacemente l’attuale crisi ecologica. Ma qui siamo su un terreno squisitamente politico, peraltro straordinariamente intricato e controverso, che in questa sede non si intende affrontare.

Kohei Saïto, La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital, Paris, Syllepse, 2021.

nche questo libro ci aiuta a smentire ciò che fino ad una ventina d’anni fa era considerato un ossimoro: Marx ecologista. Non si può negare che nella visione dialettica di Marx in alcuni suoi passi si ritrovi una sorta di esaltazione delle “forze produttive” messe in moto dal capitalismo e del loro sviluppo, che ha autorizzato la critica al suo presunto “prometeismo antropocentrico”, di cui sopra abbiamo trattato con Peña-Ruiz. Ma a Marx apparteneva la visione dialettica, evidentemente estranea ai suoi detrattori, che gli permetteva di cogliere anche il rovescio della medaglia di un modo di produzione capitalista connaturato con uno sguardo strumentale e un’attitudine dominatrice e distruttiva nei confronti della natura e dell’uomo. Anche Kohei Saïto ripercorre in particolare i Manoscritti economico-filosofici del 1844 ma vi aggiunge – e qui sta l’interesse per la sua opera – l’enorme massa degli appunti di letture di Marx dedicate alle scienze della natura (biologia, chimica, botanica, geologia, mineralogia) redatti in buona parte negli ultimi anni della sua vita e resi finalmente pubblici grazie alla nuova edizione delle opere complete di Marx ed Engels in corso, la cosiddetta. MEGA-2((MEGA: acronimo di Marx-Engels-Gesamtausgabe, cioè l’Edizione completa delle opere di Marx ed Engels. Un primo tentativo di tale edizione, la MEGA 1, fu avviato nel 1927 da David Riazanov, direttore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, che, come lo stesso Riazanov, cadde vittima della dittatura stalinista venendo interrotto alla fine del 1930. Il progetto di una MEGA 2 è stato lanciato alla fine degli anni ‘60 su iniziativa degli Istituti per il marxismo-leninismo con il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il Comitato Centrale del Partito Socialista Unificato di Germania allora al potere nella Repubblica Democratica Tedesca (di solito denominata Germania dell’Est). Interrotto dalla “caduta del muro di Berlino” e dal crollo dell’URSS, il progetto è stato ripreso e portato avanti dal 1990 dall’Internationale Marx-Engels Stiftung (IMES: International Marx-Engels Foundation) con sede ad Amsterdam. La pubblicazione è suddivisa in quattro sezioni. La sezione I comprende tutti gli scritti conservati di Marx ed Engels, pubblicati o meno durante la loro vita, ad eccezione dei manoscritti e delle pubblicazioni che hanno preparato e accompagnato l’edizione del Capitale. Questo insieme di materiali è l’oggetto della sezione II. La sezione III è occupata dalla corrispondenza di Marx ed Engels, sia tra loro che con altri. Infine, una quarta sezione raccoglie tutti i quaderni e le note di lettura di Marx ed Engels, nonché le note a margine delle opere da loro lette e giunte fino a noi. L’insieme si comporrà di 115 volumi, alcuni dei quali suddivisi in più volumi. Da notare che in Francia è in corso di pubblicazione anche una Grande Edition Marx-Engels (GEME): https://geme.hypotheses.org/)). Dunque la critica ecologica di Marx al capitalismo viene progressivamente affinata sulla base dei contributi di studiosi della natura, in particolare di Justus von Liebig, e diventa parte integrante della sua critica dell’economia politica e del modo di produzione capitalistico. Marx coglie così come sia la natura, come mondo biofisico e materiale, ad opporre una irriducibile resistenza al capitale, alla sua costitutiva pretesa di accumulare indefinitamente profitti saccheggiando al tempo stesso il lavoro vivo e la natura non umana. Da qui il titolo del libro La natura contro il capitale.

Come già si accennava, l’originalità dell’opera di Kohei Saïto risiede nelle fonti che utilizza. Egli non si accontenta, infatti, di rileggere come altri i testi canonici di Marx, ma, basandosi su tutti i volumi della MEGA 2 già pubblicati, amplia notevolmente i riferimento ad alcuni testi inediti di Marx, sia la cospicua mole di manoscritti che ha preparato o accompagnato l’elaborazione della sua critica dell’economia politica, lasciata alla fine in sospeso con Il Capitale, sia l’ancor maggiore numero di quaderni di appunti e di note a margine apposte da Marx sulle opere presenti nella sua biblioteca e ivi conservate. Queste nuove fonti consentono di comprendere meglio l’evoluzione del pensiero di Marx sui temi “ecologici” e ci mostrano come l’opera di Marx più che un monumento teorico definitivamente concluso debba essere considerata una sorta di cantiere aperto nel quale si può e si deve continuare a lavorare.

Per i Manoscritti ci limitiamo ad evidenziare come Saïto si soffermi, giustamente, sui passi in cui Marx si propone di esplicitare nei suoi taccuini la differenza tra proprietà fondiaria feudale e proprietà fondiaria capitalista((Kohei Saïto, La nature contre le capital. L’écologie de Marx dans sa critique inachevée du capital, Paris, Syllepse, 2021, pp. 33-44.)), passi il più delle volte sfuggiti ai commentatori. Qui Marx rimprovera fondamentalmente al capitalismo di aver rotto l’unità costitutiva tra l’umanità e il suo “corpo inorganico”, ovvero la natura, rendendo improvvisamente la prima estranea alla seconda e viceversa, ed introducendo così una dimensione di alienazione nei loro rapporti. Dunque una doppia alienazione: quella, da tutti considerata, del lavoro salariato, ma anche quella del rapporto con la natura, ovvero da quel legame primitivo con la terra che aveva contrassegnato la civilizzazione umana fino alla comparsa del capitalismo. Questa alienazione affonda le sue radici nell’espropriazione dei produttori da parte del capitale: la loro separazione de facto e de jure dai loro mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive di produzione dei loro mezzi di consumo, dalle condizioni materiali della loro sussistenza, la principale delle quali è la terra.

Nell’ambito della proprietà feudale, al di là del carattere brutale del rapporto di servitù, il punto importante qui è che il produttore diretto, il servo, rimane legato alla terra come mezzo di produzione; nella servitù, la terra rimane “il corpo inorganico” del produttore, così come lo è, del resto, per il suo stesso proprietario, il signore, che appartiene al suo fondo come i suoi servi. Questo è proprio ciò viene sottratto totalmente al lavoratore salariato, sia agricolo o industriale, che diventa, per definizione, un “lavoratore libero”, nel senso della rottura di ogni legame di dipendenza personale e comunitaria e del rapporto con ogni mezzo di produzione proprio e, quindi, con la terra. La sua unica proprietà resta la sua stessa persona, di cui può vendere sul mercato la forza lavoro. Sotto il regime capitalista, dunque, il produttore non ha più un rapporto diretto con la terra come mezzo di produzione e riproduzione della propria esistenza, come “corpo inorganico”, anche quando si tratta di un lavoratore agricolo.

Ma questo tema del rapporto alienato con la terra Marx non si accontenterà di riproporlo negli scritti successivi. Compredendone la centralità, in particolare negli ultimi anni, mentre lavora al Capitale, si preoccuperà di approfondirlo attingendo allo studio delle scienze naturaliche si stavano sviluppando nel suo tempo, come già si è detto, in particolare all’opera di Liebig.

Qui è d’obbligo una digressione che ci riporta a Giorgio Nebbia. Anch’egli fu un grande estimatore di Justus von Liebig (1803-1873) e dal saggio che gli ha dedicato in occasione del 200° anniversario della nascita riprendiamo alcuni passi che ci aiutano a capire il contributo del grande chimico ed agronomo che interessò così tanto Marx:

Liebig ha condotto le sue ricerche con grande attenzione per i problemi concreti, quotidiani, umani e sociali. Capì che la rivoluzione industriale stava portando ad un aumento della popolazione e che una parte delle classi povere avrebbero dovuto fare i conti con la scarsità degli alimenti. Non si dimentichi che le sue ricerche degli anni trenta si svolgono appena trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Malthus e nel pieno delle polemiche che tale saggio destò in tutto il mondo. Liebig pensò allora che sarebbe stato importante aumentare la produzione agricola. A tal fine si dedicò allo studio del meccanismo con cui i vegetali “si nutrono”. […] Capì che la crescita dei vegetali dipendeva dall’assorbimento dall’“ambiente” circostante dell’anidride carbonica, dell’acqua e di sostanze azotate […] e chiarì che le piante ricavano l’azoto da sostanze inorganiche presenti nel terreno e solubili in acqua, in particolare dai nitrati. E inoltre che le piante hanno bisogno di fosforo che pure assorbono dal terreno, a condizione che esso contenga fosfati solubili in acqua. L’aumento della produzione vegetale richiedeva quindi l’aggiunta al terreno di sali inorganici contenenti azoto e fosforo.

Fondamentale è l’osservazione secondo cui ogni pianta ha bisogno, ogni anno, di una certa quantità di vari composti nutritivi; la crescita è però impedita o rallentata se la concentrazione nel terreno di anche uno solo degli elementi nutritivi è inferiore alla soglia minima della necessità della pianta; è questa la “legge del minimo” che introduce, implicitamente, il concetto di “limite alla crescita”((G. Nebbia, “Ricordo di Liebig”, “Natura Capitalismo Socialismo”, n, 13, 2003.)).

Possiamo immaginare come sarebbe stato felice oggi Nebbia nello scoprire dagli appunti un tempo inediti quanto Liebig avesse pesato nel percorso teorico di Marx.

Da Liebig, anche se forse non fu il primo ad utilizzarlo, Marx avrebbe ricavato una nuova nozione, quella del metabolismo, ovvero dello scambio di sostanze tra uomo e natura. Sta di fatto che questo concetto era diventato di uso comune negli anni quaranta dell’Ottocento, in particolare in seguito alla pubblicazione di due grandi opere da parte del chimico tedesco: Die Chemie in ihrer Anwendung an Agriculturchemie und Physiologie (La chimica applicata all’agricoltura e alla fisiologia) del1840 e Die Chemie in ihrer Anwendung auf Physiologie und Pathologie (La chimica applicata alla fisiologia e alla patologia) del1842, che posero le basi per la chimica organica e la biochimica.

Ed è la scoperta del concetto di metabolismo che porta Marx ad interessarsi all’opera e alle pubblicazioni di Liebig. A partire da quel momento il concetto di metabolismo diventerà parte integrante del suo apparato categoriale, per designare sia gli scambi materiali interni alla società, metabolismo sociale, sia gli scambi materiali interni alla natura, metabolismo naturale, sia infine gli scambi materiali tra gli uomini e la natura((K. Saïto, op. cit., pp. 80-85.)). Ed è proprio quest’ultimo metabolismo che il capitale viene a sconvolgere, rompendo l’unità immediata tra l’umanità e il suo corpo inorganico, la natura.

Marx riprese a leggere Liebig, più precisamente Die Chemie, pubblicato nel 1862((Ibid., pp. 176-177 e pp. 181-184.)), tra la metà del 1863 e la metà del 1865 mentre scriveva una prima versione del Capitale, senza dubbio in connessione con la sua teoria della rendita fondiaria. E, questa volta, tale rilettura avrà un impatto decisivo, come cerchiamo di spiegare.

La cosiddetta legge del minimo, citata da Nebbia, sostiene che un terreno deve contenere una quantità minima di nutrienti, organici e inorganici, per essere fertile. Da cui deriva, secondo Liebig, una legge cosiddetta della restituzione: è necessario, in un modo o nell’altro, restituire al suolo questi nutrienti, di cui la crescita delle piante tende a privarlo, in modo che rimanga fertile e i suoi rendimenti rimangano durevoli; altrimenti, il suo sfruttamento non può che essere predatorio, condannando il suolo alla morte((Ibid., pp. 176-188.)). Ma, ciò sottende che un’agricoltura razionale – la pratica del maggese o della “rotazione”, con l’introduzione del trifoglio che cattura l’azoto atmosferico, l’uso di fertilizzanti naturali (cenere, ossa, escrementi animali) destinati a restituire al suolo i suoi nutrienti inorganici e organici – sarebbe in grado di conservare la fertilità del suolo senza depauperarla((Ibid., pp. 219-221. Nella seconda parte del suo testo Saïto tratta diffusamente e nel dettaglio il rapporto tra gli studi di Liebig ed il percorso teorico di Marx.)).

Sennonché Liebig nella settima edizione di Die Chemie proprio su questo punto operò una svolta radicale, di cui Marx venne a conoscenza tra il 1863 e il 1865, mentre lavorava alla prima stesura de Il Capitale. Questa svolta comportò una revisione delle sue precedenti conclusioni con una sorta di nuova legge del massimo che inficia la precedente del minimo: non sarebbe possibile aumentare indefinitamente i rendimenti di un terreno in proporzione agli apporti supplementari di lavoro (drenaggio, aratura del suolo, irrigazione, ecc.), acqua, luce solare, calore, fertilizzanti, che si possono aggiungere; in realtà c’è un limite a questa crescita, determinato dalla limitata quantità di questi apporti che le piante, per loro natura, sono in grado di assorbire in un dato tempo. Al di là di tale limite, ogni apporto supplementare potrà al massimo produrre dei risultati positivi temporanei, che andranno a scapito del successivo impoverimento del suolo, per il mancato rispetto della legge di restituzione((Ibid., pp. 230-239.)).

Questa sorta di terza legge di Liebig, porterà Marx ad aderire alla tesi dei rendimenti agricoli decrescenti,che prima aveva contrastato perché avrebbe portato acqua al mulino della teoria di David Ricardo, nel suo Principi di economia politica e dell’imposta (1815) dei rendimenti agricoli tendenzialmente decrescenti e ancor più a quella del suo nemico giurato, Thomas Malthus, e della sua legge della popolazione destinata ad aumentare ad un ritmo più elevato del possibile aumento della produzione agricola, con inevitabile crisi di penuria alimentare((Ibid., pp. 165-176.)).

Sarà la lettura della settima edizione del capolavoro di Liebig a convincerlo per un cambiamento di posizione, abbracciando le conclusioni della svolta di Liebig: infatti la tesi dei rendimenti decrescenti non poggia più sull’ideologia dell’economia politica, ma con Liebig è scientificamente fondata sulle leggi fisiologiche del regno vegetale, che né la meccanica né la chimica sono in grado di abolire o di superare.

Ciò spingerà Marx ad assumere il fatto che esistono limiti assoluti alla modificazione antropica, tecnica e scientifica, della natura da cui gli uomini non possono prescindere. Ciò implica il superamento di ogni culto della crescita cieca delle forze produttive, di ogni pulsione sconsiderata di dominare la natura, che, anzi, è proprio connaturata al sistema capitalistico. Ciò consolida in Marx la convinzione che l’alienazione del lavoro salariato (ovvero la rottura del metabolismo sociale) è intrinsecamente connessa all’alienazione del rapporto con la natura (ovvero del metabolismo tra uomo e natura).

Fulminante al riguardo la seguente citazione di un passo di Marx:

Esse si danno la mano l’una con l’altra: la grande industria e l’agricoltura sfruttata industrialmente. Se all’origine si distinguono l’una dall’altra per il fatto che la prima saccheggia e rovina di più la forza lavoro e dunque la forza naturale dell’essere umano, e la seconda più direttamente la forza naturale della terra, progredendo, in seguito, esse si danno la mano, il sistema industriale debilitando anche gli operai della campagna e l’industria ed il commercio procurando da parte loro all’agricoltura i mezzi per esaurire la fertilità del suolo((Ibid., p. 202.)).

Infatti “nel sistema della proprietà privata – conclude Saïto – una utilizzazione egoistica della fertilità del suolo che ha come fine la sua trasformazione in valore appare come un comportamento legittimo, poiché l’uso che ciascuno fa della sua proprietà privata è libero per principio. Per questo la proprietà privata è incompatibile con i presupposti materiali della realizzazione di una produzione durevole. Nelle condizioni di un mercato concorrenziale, chi vorrebbe, in nome delle generazioni future, rinunciare alla possibilità di un maggior guadagno, se non riceve alcuna compensazione di ritorno?((Ibid., p. 203.))

L’alternativa è ben descritta in un passo di Marx particolarmente efficace e profetico, con cui concludiamo questa breve recensione:

Dal punto di vista di un’organizzazione superiore della società [postcapitalista, potremmo dire. Ndr] il diritto di proprietà di certi individui su parti del globo apparirà tanto assurdo come la proprietà privata di un individuo sul suo prossimo. Una società intera, una nazione e anche tutte le società contemporanee riunite non sono proprietarie della terra. Esse non ne sono che titolari del possesso usufruttuario e la devono lasciare in eredità alle generazioni future dopo averla migliorata da boni patres familias((Ivi)).

Se ci guardiamo intorno, a distanza di oltre un secolo e mezzo, come non dare ragione a Marx e ringraziare ancora una volta Giorgio Nebbia che con insistenza ci ha sollecitati a porre attenzione a questo grande pensatore, mai invecchiato?