Ristrutturazione e trasformazioni del lavoro nelle campagne lombarde

Dal sistema agro-zootecnico all’agricoltura industrializzata.

1.1. Il nodo esistenziale di metà secolo. 
Tra gli anni 1946 e 1953 vengono a maturazione le condizioni e gli strumenti che determineranno nel giro di un decennio o poco più una trasformazione dell’agricoltura lombarda che non ha precedenti storici confrontabili. Per la radicalità dei cambiamenti intervenuti negli assetti paesistici e sociali si dovrebbe ricordare l’epoca dei dissodamenti e delle colonizzazioni, che dette l’avvio alla diffusione generalizzata dell’agricoltura medievale nella pianura lombarda; ma quella fu opera pluricentenaria, lenta e aperta ai successivi graduali adattamenti delle popolazioni e delle istituzioni sociali. 
Le premesse tecniche del grande mutamento furono indotte pressoché totalmente dall’esterno, universale punto d’arrivo del gran salto tecnologico propiziato dalla rivoluzione scientifica del secolo precedente, dalle crisi e dalle guerre mondiali che ne esasperarono gli effetti durante i primi decenni del Novecento. Le necessarie pre-condizioni sociali si realizzarono invece negli sbocchi della vasta conflittualità tra classi e ceti che era stato un segno distintivo del trentennio di guerre europee che corre tra 1914 e 1945. 
Nelle campagne furono determinanti le lotte che videro contrapposti braccianti e salariati, mezzadri e coloni alla maggiore imprenditoria agraria, risoltesi nel diffuso esodo rurale che specialmente andò a colpire le province di pianura dell’intera Padana. Parte di quel più ampio travaso di popolazione, che avrebbe portato nel ventennio 1951-1971 al dimezzamento della popolazione lombarda residente in piccoli nuclei abitati o in case sparse (da 1.138.756 a 623.408 unità), contro una crescita degli abitanti nei maggiori centri industrializzati dell’ordine di quasi il 50%. Con il rilevantissimo apporto degli immigrati dalle altre regioni d’Italia, richiamati dal processo prorompente dell’industrializzazione di tipo fordista. 
Al centro dello scontro di classe nelle campagne era stato esplicitamente il lavoro, più preciasamente l’affermazione di un “diritto al lavoro”, per tutti e per l’intero arco della vita produttiva di ciascuno, troppo a lungo negato nei sistemi agricoli della Bassa lombarda. Gli obiettivi delle categorie in lotta non tanto furono rivolti al miglioramento delle condizioni di vita immediate, quanto ad ottenere normative certe in materia d’impiego del lavoro nelle campagne, d’intervento dei lavoratori nelle scelte d’impresa – dagli ordinamenti produttivi ai modi di coltivazione – e nella distribuzione del lavoro, di assistenza e di previdenza. 
Le piattaforme contrattuali di quegli anni cercarono di porre le basi di questo diritto al lavoro attraverso una coerente articolazione di istituti, da gestire direttamente, come il tradizionale imponibile di mano d’opera, una disciplina del collocamento sottratta all’arbitrio dei padroni, i consigli di cascina, le compartecipazioni. Che avrebbero comportato indubbiamente una riduzione drastica dei margini di autonomia delle imprese agricole. Per le quali rimaneva vitale al contrario mantenere mano libera nella conduzione delle aziende, poter assumere senza limitazioni ogni decisione ritenuta più conveniente su indirizzi e organizzazione della produzione. 
Le parti in conflitto si disputarono insomma la disponibilità piena e più ampia delle risorse agricole presenti sul territorio, la facoltà di usarne nei modi ritenuti più rispondenti ai propri interessi di classe, oggettivamente divergenti quando non contrapposti. Dal punto di vista dei subalterni assumeva valenza esistenziale la possibilità di spingere al massimo l’intensità dell’occupazione, l’assorbimento di forza lavoro per unità di superficie, e di conseguenza il volume della produzione da ripartire fra i fattori del processo produttivo. Il padronato si poneva al contrario come fine la massimizzazione del profitto d’impresa, che comportava in primo luogo il contenimento più spinto della spesa salariale, l’onere storicamente maggiore e più facilmente comprimibile che le conduzioni agricole dovevano iscrivere nei loro bilanci. Operazione possibile solo a patto di poter scegliere senza condizionamenti tra le opzioni più favorevoli, sia in termini di prodotto (colture, allevamenti, trasformazioni) che di processo (impiego di lavoro manuale o meccanico, ricorso a collaboratori esterni, ecc.).   
Questa fu senza dubbio anche una aspirazione fortemente sentita dalla compagine variegata dei coltivatori autonomi, medi e piccoli proprietari conduttori o fittavoli, già allora il gruppo di imprese maggiormente presente nell’agricoltura lombarda, che li spinse a sentire come propria la causa dei maggiori imprenditori capitalisti. Un atteggiamento che nelle province più interessate dalle lotte ebbe un peso politico non lieve e venne ad anticipare, in qualche misura, la centralità che nella fase nuova verso cui si avviava il settore primario sarebbe stata assunta dall’azienda familiare. 
Gli esiti di maggiore rilevanza dello scontro di classe del dopoguerra non stanno infatti solamente nella rimozione generalizzata del proletariato agricolo, storicamente organico alla grande azienda, ma nella pesante riduzione che le stesse imprese uscite apparentemente vittoriose dalle lotte vanno subendo nei decenni successivi. 

1.2. Esodo rurale e crepuscolo dell’azienda a salariati. 
Tra 1961 e 1990 le conduzioni in economia con salariati passano nella regione da 19.704 a 7.329 in numero, con una contrazione della superficie agraria dominata corrispondente da 750.000 ha. (erano intorno a 790.000 nel dopoguerra immediato) a poco più di 400.000, con un cospicuo ampliamento della dimensione media. La loro incidenza sulla superficie agraria regionale scende dal 39,3% al 26,7%, lasciando più largo spazio alla conduzione diretta dei coltivatori. Di contro il gruppo dei lavoratori agricoli dipendenti (salariati fissi e avventizi) subisce nel medesimo arco di tempo una riduzione dell’ordine del 75%; rimane cioè un salariato su quattro. 
Il tradizionale modello dualistico di uno sviluppo agricolo, formato da un settore capitalistico dinamico e trainante contrapposto a un settore contadino arretrato e subalterno, figura contraddetto nei fatti. Karl Kautsky, uno tra i maggiori teorici della superiorità delle aziende capitalistiche, nel 1899 aveva pur scritto: “Possono anche sussistere tutte le altre condizioni, ma dove mancano forze-lavoro prive di proprietà, che debbono vendersi al capitalista, una azienda capitalistica è impossibile”. Ma una così fatta affermazione voleva piuttosto enunciare il limite fisiologico posto alla normale espansione delle conduzioni a salariato, dal momento che “assorbendo i poderi contadini, la grande azienda ingrandisce il suo territorio, ma diminuisce il numero delle persone destinate a coltivarlo”; mentre specifica, se non esclusiva, funzione della piccola azienda non tanto sarebbe stata una insostenibile concorrenza nei confronti della grande, quanto quella di produrre in eccedenza “quel mezzo di produzione di cui la grande azienda ha assoluto bisogno: la merce forza-lavoro”. Per concludere che “nel modo di produzione capitalistico non dobbiamo aspettarci né la fine della grande azienda agricola né quella della piccola”, ma piuttosto una coesistenza fatta di reciproci adattamenti in perenne squilibrio . 
Erano considerazioni dettate da una visione teorica che pur non escludendo una transizione tecnologica indefinita la immaginava possibile entro un quadro noto e coerente rispetto alle condizioni economiche e sociali in atto, considerazioni pregiudiziali che oggi servono a sottolineare meglio il salto di continuità avvenuto specialmente per via tecnologica nella seconda metà del Novecento. Tale da avviare un profondo imprevedibile mutamento nei modi di erogazione del lavoro agricolo, quindi dei rapporti tra settore primario e complesso delle attività economiche e, all’interno del mondo agricolo, degli equilibri tradizionali fra tipi d’impresa, non più necessariamente legati alle modalità di comando e alle dimensioni delle aziende. 
Se da una parte l’esodo rurale ha comportato l’eliminazione di larghi strati di piccole aziende contadine povere (solo tra 1970 e 1990 in Lombardia le aziende con meno di 20 ettari di superficie risultano quasi dimezzate, mentre nelle fascie superiori si ha solo un lieve aumento di numero – da 15.181 a 15.331 – e di superficie – 3,8% in più), si è contestualmente sviluppato un settore contadino emergente, forte e dinamico al punto da erodere le superfici storicamente occupate dalle tradizionali aziende condotte in economia, ribaltando le premesse del vecchio ragionamento kautskiano. Quando non sono state le stesse conduzioni capitalistiche a farsi contadine, allorché le famiglie dei proprietari e dei grandi fittavoli seppero sostituire i dipendenti salariati con propri componenti. 
Il connotato di fondo che pare maggiormente caratterizzare la fase iniziata dopo le grandi lotte agrarie va colto insomma nella centralità del lavoro autonomo, che del resto emerge come modello di riferimento in tutta l’agricoltura europea e anticipa per molti aspetti tendenze oggi assai evidenti anche in comparti produttivi ben diversi (economia periferica e indotto industriale). Alle schiere di faticatori contadini che popolavano le campagne lombarde fino ai primi decenni del secolo si è andata sostituendo la figura tipica del coltivatore diretto montato sulla trattrice, che percorre in solitudine i campi di cui è sempre più spesso il proprietario. 
Dietro questo cambiamento si pone un dato strutturale che la cultura economica non specialistica e la cultura politica hanno faticato ad assumere (se mai l’han fatto): la semplificazione e la differenziazione degli assetti aziendali tradizionali. Alle unità multicolturali complesse, quasi sempre d’indirizzo agro-zootecnico, è subentrata nel giro di un paio di decenni una galassia di organismi specializzati, sorta di laboratori parcellari, orientati alla monocoltura vegetale o zootecnica, segmenti di processo inseriti in più estese catene produttive eterodirette. Attraverso un travaglio molteplice e spesso contraddittorio, suscettivo di numerose varianti, di volta in volta descritto come segmentazione, quando l’appropriazione di talune fasi delle sequenze produttive storiche da parte di operatori esterni (dalla produzione-manutenzione di attrezzature alle forniture di fertilizzanti, sementi elette, riproduttori, mangimi) promuove la rottura dei cicli fisiologici aziendali e mette in crisi il recupero e la ricomposizione delle risorse originarie, naturali e antropiche, o destrutturazione, con il trasferimento a imprese specializzate di componenti dell’azienda (l’agribusiness, che arriva a coprire, oltre l’approvvigionamento di ogni sorta di mezzi di produzione, lavori di campagna, ristalli, conservazione e trasformazione dei prodotti vegetali, ecc.) o disattivazione, allorquando interi comparti aziendali vengono chiusi (come nel caso di numerose coltivazioni o delle stesse attività zootecniche) . 

1.3. Le aziende familiari fra destrutturazione e subalternità. 
Da una cosiffatta evoluzione sono le modalità quantitative e qualitative attraverso le quali si esprime il lavoro agricolo a subire le trasformazioni più profonde. Dapprima – tra anni Sessanta e Settanta – è l’azienda familiare coltivatrice ad emergere come luogo economico ottimale, deputato all’assorbimento dei mezzi di produzione offerti dall’industria, per esserne in seguito sempre più condizionata. 
In un’ampia ricerca campionaria, condotta sui materiali raccolti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla disoccupazione, Gian Giacomo dell’Angelo stimava che agli inizi degli anni Cinquanta rimanesse stagnante nelle aziende contadine italiane una sottoccupazione complessiva di circa il 30% rispetto alle capacità potenziali di lavoro delle famiglie. Nelle aziende dell’Italia settentrionale il lavoro non prestato scendeva alla media generale del 16,94%, con particolare coinvolgimento delle donne e dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni; ma anche il 13% del potenziale offerto dai maschi adulti (da 18 a 65 anni) rimaneva inutilizzato. L’offerta di nuovi mezzi tecnici – soprattutto meccanici e chimici – andava in primo luogo ad incontrare le opportunità di valorizzazione di queste risorse familiari emarginate, sia rendendo meno faticosa tutta una serie di prestazioni ausiliarie (dai trasporti alle operazioni colturali consecutive o di completamento), sia favorendo la surroga di mansioni prima affidate a operai salariati, fissi o avventizi.  
Trattrici e altre operatrici semoventi, attrezzature portate, concimi composti, sementi selezionate, diserbanti chimici e antiparassitari si dimostravano funzionali e poi rapidamente indispensabili nella organizzazione familiare del lavoro. Di cui andavano ad esaltare proprio la peculiare caratteristica, quella che costituiva da sempre l’elemento distintivo del lavoro autonomo rispetto alla qualità del lavoro salariato: l’elasticità, la flessibilità si direbbe oggi, la capacità di aderire alle mutevoli esigenze del calendario delle operazioni agricole, variando durata e intensità delle prestazioni all’interno della giornata, non meno che dall’una all’altra stagione. Ossia quelle forme di adattamento che nell’azienda a salariato si scontrano di regola con una naturale rigidità del fattore lavoro, per ripercuotersi direttamente in aumento dei costi di gestione. 
 A rimuovere i limiti di convenienza imposti, per altro verso, dalla dimensione ridotta delle unità aziendali dei coltivatori diretti e dalla conseguente parziale utilizzazione dei mezzi meccanici, interveniva l’energica politica di incentivi, volta specialmente alla dotazione di nuovi capitali fondiari e di esercizio, attuata dallo stato attraverso i due successivi piani verdi, succedutisi fra 1961 e 1970 a prevalente beneficio delle aziende medio-grandi, specie se a conduzione familiare. 
Le trasformazioni dei modi di erogazione del lavoro nelle campagne vengono veicolate da questa somma di condizioni e subiscono una accelerazione continua per effetto della sempre rinnovata offerta tecnologica, che spinge – almeno sul piano degli indirizzi produttivi e dei modi d’esercizio – ad una omologazione tra aziende ex-contadine e ex-capitalistiche, egualmente proiettate a perseguire una intensità crescente di capitale e il minimo impiego di lavoro vivo. Un modello che comporta la lievitazione inarrestabile dei costi di produzione esterni – quali rinnovo e manutenzione dei capitali fissi o approvvigionamento annuale di materie prime circolanti e servizi – e una tendenziale erosione dei margini di redditività, resi via via più ristretti sul versante dei ricavi dalla presenza delle grandi concentrazioni industriali-commerciali, che vanno occupando l’intero campo della domanda di prodotti agricoli e confinano in ambiti del tutto irrilevanti i mercati locali. Così il peso contrattuale dei produttori diventa pressoché irrilevante. Alle imprese agricole rimane l’alternativa di comprimere i costi dei fattori interni, attraverso gli acquisti di terra (nel 1990 in Lombardia rimanevano affittati solo 300.000 ettari, ossia il 20% della superficie agraria disponibile, contro 531.852 di solo affitto e 334.152 di conduzioni miste in proprietà e affitto del 1961), l’autofinanziamento, la ricerca di combinazioni ottimali nell’organizzazione del lavoro. 
Per le famiglie coltivatrici non si tratta ora solamente di intensificare gli sforzi e prolungare la giornata di lavoro (“il contadino non condanna al lavoro solo sé stesso, bensì anche la famiglia”, aveva scritto Kautsky) . Il passo successivo viene compiuto con la realizzazione delle economie miste, decentrate, già storicamente presenti nella Lombardia alta, che si sviluppano durante gli ultimi decenni, specie nelle province orientali. Vi trovano posto forme di pluriattività e di lavoro a tempo parziale che danno modo ai nuclei rurali di elaborare complesse politiche familiari, avvicendando i propri componenti, forti o deboli, negli impieghi ritenuti volta per volta più idonei e convenienti, dentro e fuori il podere, dentro e fuori il settore agricolo. Secondo la logica della “famiglia-impresa”, che persegue la formazione del reddito in stretta relazione con le necessità di consumo. 
Ancora una volta, riflettendo su quest’ordine di fenomeni, riesce difficile non confrontare questi esiti con la più generale evoluzione del lavoro avvenuta nel contesto economico attuale, di constatare la singolare aderenza di questo modello agricolo padano ai princìpi informatori della comunità produttiva “unificata e omologata” che, secondo gli studiosi del lavoro industriale si pone in alternativa al modello fordista, per diversi aspetti interpretato in agricoltura – mutatis mutandis – dall’azienda a salariati. Nella famiglia-impresa di origine contadina non è difficile riscontrare un organismo nel quale è possibile “realizzare una ‘mobilitazione totale’ della forza-lavoro, che ne attivi le capacità intellettive, i residui di creatività”, fino a “identificare la soggettività del lavoro con la soggettività del capitale. Anzi: di fare dell’appartenenza all’Impresa l’unica soggettività possibile” . 

1.4. Capitalizzazione del sapere, dequalificazione del lavoro. 
Alla frantumazione della vecchia struttura aziendale si accompagna quella delle attività di lavoro. La semplificazione degli ordinamenti produttivi implica la scomparsa della vecchia divisione del lavoro per mansioni all’interno delle aziende. Ancora negli anni Sessanta Pietro Nervi e Amos Zanibelli  distinguevano tra il personale agricolo dipendente nelle regioni padane gli addetti ai servizi (sorveglianza, trasformazione dei prodotti, irrigazione, manutenzione delle attrezzature), gli addetti alle macchine, alle coltivazioni, agli allevamenti (a loro volta suddivisi per tipo di bestiame: da latte, da allevamento, da lavoro). Nelle stesse aziende contadine si ripetevano spesso similari ripartizioni per competenze, trasmesse di padre in figlio, attraverso la pratica dell’educazione familiare al lavoro. Fino a creare delle gerarchie interne alle famiglie, legate a precise vocazioni e sensibilità, nutrite di memorie non scritte e arricchite di osservazioni empiriche, da una generazione all’altra. 
Pur avendo già attinto in misura non marginale alle risorse della meccanizzazione, l’organizzazione del lavoro che dominava nella Padana all’epoca delle ultime lotte agrarie e nel decennio che immediatamente le segue figurava ancora strettamente condizionata dal volgere delle stagioni, dalle esigenze naturali del terreno e delle piante, nutrita di antico sapere contadino e di fatica umana. L’aspetto fisico dei lavoranti ne conservava l’impronta. “Fin quando non si è pienamente imposta la meccanizzazione, il loro corpo ha funzionato come una macchina energetica … “, osserva Renato Rozzi, che ricorda le forme travagliate e rugose, la complessione bassa e larga dei gelsi, perché “essi rappresentavano i contadini nella loro corporeità”. 
La prima fase della meccanizzazione agricola aveva infatti privilegiato, con l’introduzione del trattore e il traino di attrezzi generalmente simili a quelli tradizionali, la riduzione dei tempi di esecuzione e – indirettamente – della penosità fisica delle principali lavorazioni. Il disegno complessivo delle operazioni di campagna, nonostante l’indubbia accelerazione dei ritmi e la complementare riduzione degli addetti, non veniva sostanzialmente mutato. Avviene solo in un secondo tempo, con l’introduzione di attrezzature polivalenti, capaci di molteplici operazioni tuttavia azionate dal trattore (dalle arature ed erpicature alle lavorazioni consecutive del terreno, dalle semine alle concimazioni, ai trattamenti antiparassitari, a tutta la fienagione), poi di macchine indipendenti, operatrici dirette fortemente specializzate e svincolate dal trattore (macchine per la semina, per l’irrigazione, per la raccolta, per l’alimentazione del bestiame), che interi segmenti di lavorazione siano non solo sottratti alla manualità contadina ma rendano inutile la presenza stessa di ulteriori importanti aliquote di mano d’opera aziendale, liberandone la disponibilità verso altre applicazioni . Secondo le incisive espressioni di Friedland, Furnari e Pugliese, le più recenti applicazioni tecnologiche hanno favorito “l’incorporarsi nella macchina” di tutta una serie di mansioni prima affidate all’esecuzione dei lavoratori, della cui abilità il capitale ora si impossessa per accrescere la propria capacità di accumulazione. Allorquando interviene l’opera di macchine come gli irrigatori semoventi o le falciacondizionatrici, le trinciasilatrici, le mietitrebbiatrici, il carro miscelatore divengono inutili intere sequenze di lavoro umano; è anzi quest’ultimo a perdere la propria centralità per divenire servente subalterno rispetto alla macchina. 
Nella condizione lavorativa agricola si estendono quei processi di dequalificazione che si estrinsecano in parcellizzazioni e “routinizzazioni” delle vecchie mansioni, e la assimilano sempre più al lavoro di tipo industriale. Alla cura, e al controllo, dell’intero ciclo lavorativo subentrano cioè prestazioni parziali e limitate nei momenti e nei modi imposti, oltre che dalle condizioni naturali non rimovibili, dalle caratteristiche del mezzo meccanico o chimico o, più recentemente, informatico. Con effetti rinnovati di accelerazione e nuove forme di logorìo psico-fisico, che prendono il posto dell’antica fatica muscolare. La disaggregazione delle antiche professionalità è bene rappresentata dalla figura del coltivatore che, dotato di una gamma variata e sovrabbondante di mezzi tecnici, trascorre la sua giornata attiva passando da una macchina all’altra per coprire ogni sorta di lavorazioni, sollecitato diversamente e contraddittoriamente dall’ora, dal clima, dalle scadenze esterne. 
L’ecletticità richiesta al lavoratore autonomo si traduce, nell’area del lavoro dipendente, in una sorta di adattamento dell’offerta ai livelli più bassi. Il lavoratore si rende cioé disponibile a fornire prestazioni frammentate, variabili secondo le differenti fasi dell’anno agrario, distribuite all’occorrenza tra diverse aziende. Ciò che favorisce entro il quadro generale di una complessiva caduta della domanda di lavoro salariato la relativa contrazione del lavoro fisso, a tempo indeterminato, il quale cede il passo al lavoro avventizio o stagionale, non di rado nascosto nelle pieghe del sommerso. 
Le mutata qualità del lavoro in agricoltura sembra implicare un certo ampliamento delle conoscenze tecniche richieste all’operatore, anche al livello manuale: per esempio di ordine meccanico e chimico. Tuttavia sempre in dipendenza stretta, immediata, dal servizio dovuto alla macchina. Non si scorge la formazione di nuove mansioni, se non in figure che rimangono esterne all’azienda, quali il contoterzista, il manutentore, il tecnico alle dipendenze dell’industria. Il salto culturale sostanziale che deriva dal passaggio che si è cercato di descrivere consiste nel degrado progressivo delle conoscenze legate ai cicli dell’attività agricola e zootecnica, nell’impoverimento delle nozioni agronomiche, biologiche, naturalistiche da cui derivava una consapevolezza, sia pure empirica, del processo produttivo. Il che consentiva al lavoratore di essere partecipe attivo all’interno dell’azienda, talora creativo, di dominare l’intero arco della gestione se era coltivatore autonomo, di integrarsi in qualche misura nelle vicende dell’impresa se dipendente, di divenirne interlocutore competente e responsabile nella dialettica sindacale. Quando si parla di dequalificazione del lavoro agricolo si vuole soprattutto sottolineare questa sorta di indebolimento delle attitudini culturali del lavoro vivo, che accompagna senza dubbio il processo di industrializzazione nelle campagne, in tutte le sue manifestazioni. 
Non deve infatti ingannare la condizione di imprenditori che continua a distinguere il settore degli autonomi, i coltivatori diretti, da quello dei dipendenti. Se gli effetti connessi ai modi di erogazione del lavoro rimangono immutati, pesano su queste categorie le destrutturazioni aziendali avvenute nel passato recente, l’esternizzazione di fasi dei processi produttivi passate nell’area dell’agribusiness e, ancora, le limitazioni nella scelta degli indirizzi colturali, imposte dalle logiche non controllabili del complesso agro-alimentare internazionale, ossia le conseguenze di quella che si dice da qualche tempo globalizzazione. Semplificazione delle lavorazioni e specializzazione degli ordinamenti produttivi concorrono insomma a circoscrivere e ridurre l’ambito delle conoscenze necessarie agli imprenditori nell’immediato e contribuiscono ad allontanare, specie nelle generazioni nuove, quella visione complessiva del processo agricolo che era stata alla base della tradizione culturale del medio-piccolo coltivatore storico. 
In luogo di quella che un tempo poteva presentarsi come una distesa uniforme di attività agricole, egualmente ispirate e sollecitate da bisogni locali e comuni vocazioni, almeno per ambienti omogenei (collina e montagna, pianura asciutta e irrigua, ecc.), il quadro dell’agricoltura lombarda figura contrassegnato attualmente da nuove diversità, che spesso rendono non più confrontabili unità produttive confinanti o vicine. Non si tratta solamente della principale e più nota dicotomia tra aziende a indirizzo vegetale e aziende agro-zootecniche. Composizione familiare, occasioni offerte dal sistema delle pubbliche contribuzioni, o dallo sviluppo delle iniziative agribusiness hanno stimolato la formazione di entità variamente indirizzate in forme prevalentemente monocolturali: alla viticoltura o alle coltivazioni arboree da frutto, all’orticoltura di pieno campo o alla vivaistica, o all’allevamento da carne nelle diverse specializzazioni possibili. Cui dunque si devono accompagnare culture tecniche egualmente specializzate, volte all’applicazione immediata, sempre più lontane dall’impostazione unitaria che la cultura agronomica tradizionale, non senza una fondamentale partecipazione lombarda, aveva identificato con l’azienda. 
Si vuole insomma osservare come i fenomeni di dequalificazione e parcellizzazione non solo riguardino il fattore lavoro, ma si estendano alla cultura d’impresa, ai comportamenti delle imprese, forse impedendo o ritardando una più esauriente presa di coscienza del nuovo che percorre il settore agricolo e dei problemi che quel nuovo comporta. Mantenendo da questa parte ferma – e ben chiara – la consapevolezza che i vecchi strumenti, di lavoro non meno che culturali, non servono più; che occorre ritornare alle inchieste sul campo, cercare rinnovate interpretazioni, trovare sintesi più avanzate. 
Si può studiare, scrivere, fotografare, organizzare mostre per cercare risposte a tutto questo. 
  

 2. Le nuove stagioni del lavoro agricolo. 

 
2.1. L’inverno della preparazione. 
“Nell’ottobre del 1922 – racconta Gianni Bosio – Vasco Grazioli portava ad Acquanegra il primo trattore che era poi il secondo della provincia di Mantova … La prima volta che portò il trattore sui campi c’era molta gente a vedere se voltava bene la terra. Grazioli era lì a spiegare che questo non dipendeva dal trattore, ma dal piò, cioè dall’aratro. La gente non era molto convinta e allora tirava fuori una nuova obiezione, che cioè dove passava il trattore l’erba rimaneva pesta e le stradine e le cavedagne rovinate. Si trattava di obiezioni credute, tanto che si trascinarono per vent’anni, ma anche volute, volute dai contadini che preferivano rimandare una decisione che era troppo grossa o troppo gravosa”. Ma a conti fatti si accorsero presto che, bene o male, l’aratura per mezzo del trattore richiedeva un quarto del tempo di lavoro occorrente con i buoi, che pure costavano, a mantenerli.  
Cominciava l’avventura della meccanizzazione, che oltre a segnare la scomparsa degli spettacolari attacchi di quattro, sei o otto bestie – e dell’umana pena che richiedevano ai bifolchi conduttori – avrebbe propiziato una più vasta solitudine dei campi durante i mesi invernali. 
Angelo Majoli, fattore nel Mantovano e autore nel secolo scorso di un manoscritto di “Istruzioni ed Avertimenti per un Fattore di Campagna” , ammoniva a non lasciar passare i mesi invernali senza provvedere al rinnovo delle piantagioni arboree (“fare bucche e banche pei piantamenti di qualunque specie”) o allo scalvo di ceppaie e capitozze, possibilmente “in tempo che la Luna sia buona tanto per aiutare le piante, quanto per conservare il legnamme” da fuoco e da opera, sempre utile per le innumerevoli occorrenze aziendali. Se la stagione si presentava favorevole si doveva far arare il terreno per la seconda volta, ossia “rettaiare”, e portare il letame nei campi “a ciò che gli Buoi, ed i Bovari non perdono tempo, ma che gli Buoi siano sempre in occupazione, e fuori della stalla”; il letame doveva essere poi disteso a mano “con raschi” sui prati e sulle terre destinate al formentone. Bisognava pulire i condotti d’acqua e metter mano al rinnovo delle viti. Un fervore di opere, una vivace e rumorosa umanità riempivano gli spazi rurali, solo che le giornate non fossero del tutto inclementi. 
Scomparsi ai nostri giorni, per la maggior parte, piantagioni e vigneti, la campagna invernale si offre per intero alle macchine maestose (e minacciose) fotografate da Morandi, che paiono dominare (e domare) una campagna uniforme e nuda, appiattita dalle mutate sistemazioni idraulico-agrarie che tendono ad allungarsi a perdita d’occhio, per togliere impacci alla libera corsa dei motori, rigate da solchi tutti uguali. La solitudine dell’operatore attuale sembra meno sopportabile, più triste durante questa stagione, quando uomini e animali e piante disertano i campi aperti, il freddo è stringente, la luce attenuata. 
Forse per questo la tecnologia si è fatta più attenta a confortare il tempo di lavoro sulle macchine prevalentemente impiegate nelle lavorazioni invernali. In ispecie i grandi trattori cabinati, modellati da astuti designer, sui quali l’operatore sta come un cavaliere catafratto, isolato dall’esterno, riscaldato e supportato dalla strumentazione informatica, capace di assicurare uniformità alle prestazioni, anche quando l’attenzione dell’uomo declina. 
Il lavoro fondamentale, quello di aratura, viene anticipato per quanto possibile già in autunno, per metter mano alla terra quando “sia in buono statto”, come diceva il Maioli, ovvero quando si trova in tempera, secondo i vecchi agronomi, con il giusto grado di umidità. Tuttavia l’inverno rimane la stagione dei lavori più pesanti, mirati alla preparazione del terreno che dovrà ricevere il seme e accogliere al meglio le piante. Via via meno frequente è lo spargimento del letame, al di fuori delle non molte aziende agro-zootecniche. Nei casi migliori si è passati ai liquami di varia estrazione, che però si smaltiscono in ogni tempo e in ogni luogo possibile, per mezzo di grosse botti malodoranti. Nel che gli esperti scorgono una causa del generale decadimento strutturale dei suoli, meno dotati di sostanze umifere e perciò meno soffici, più tenaci e resistenti alle lavorazioni. Condizione dalla quale deriverebbe la tendenziale crescita di potenza, di volume, di costi della macchina e fattore non ultimo, in una spirale presto incontrollabile di cause-effetti, di allargamento della presenza dei contoterzisti in questo settore strategico della produzione agricola. 
Per certi aspetti la campagna invernale è il dominio degli operai terzisti, soldati di ventura estranei alle aziende per cui lavorano, quando non estranei alle campagne stesse, che ai loro occhi sono come la fabbrica per l’operaio, il luogo di lavoro. Separato dal luogo della vita domestica, come prima non era mai accaduto nell’ambiente rurale. 

2.2. La primavera delle promesse. 
La naturalità, ineliminabile, dell’agricoltura fa sì che ogni anno i primi tepori primaverili richiamino sui campi più fitte presenze e crescente intensità di lavoro. I coltivatori sono tutti fuori e trafelati, incombono gli ultimi interventi preparatori rimasti indietro, le semine hanno da essere sollecite. Compaiono anche fornitori e consulenti, a dare una mano per accelerare i tempi. Le macchine si moltiplicano: trattori di media e piccola potenza si aggiungono ai più grossi, accanto alle nuove operatrici semoventi ricompaiono gli attrezzi più elementari, portati o da traino, buoni ancora per le rifiniture e i completamenti, adatti al lavoro dei ragazzi e delle donne. 
Certo, anche in questa fase si riproducono le semplificazioni ben note: la gente è sempre meno numerosa, non c’è tempo per i lavori meno redditizi. Chi diserba più le ripe o raccoglie le fascine? Dove sono le piantate di viti, da vangare? E i gelsi, da educare e poi sfogliare? 
Nel manuale di Angelo Maioli comparivano le raccomandazioni per la semina del formentone, da affidare a “donne capaci … di tenere la regola di non gettarlo (il seme) né troppo spesso né troppo raro”, assistite da un “Biffolco (che) dovrà regolarsi nel far i cavalletti relativamente alla larghezza”. Successivamente si dovevano “consegnare alli spesiati la sua partita di Formentone da zappare”, che si compensava in forma di compartecipazione al prodotto finale, come avveniva ancora nell’immediato secondo dopoguerra un po’ in tutte le province lombarde, sotto diverse denominazioni: perticato, zappa. La preoccupazione del bravo fattore doveva essere far eseguire le lavorazioni a regola d’arte: “dargli terra per indi poi dar principio ad incalzarlo coll’aratro, tanto che è giovine, ma non aspettare che venga troppo alto allora facilmente il formentone sofre moltissimo nelle radici e non riessirà tanto bello quantunque fosse in buon terreno”. C’era poi il primo sfalcio dei prati, l’impegno di sorvegliare gli uomini “se segano bene cioè se tagliano bene l’erba, e che per far presto a segare li prati, e per aver dopio guadagno lassiassero indietro l’erba a danno del suo Padrone … come pure osservare la sua gente che lavorano adietro al fieno non ne lassiano indietro coi loro rastelli … e che il fieno non possa prendere pioggia, e procurare che possa prendere meno guazza che sia possibile”. 
Le nuove macchine avrebbero dato sollievo al Majoli, per la maggior esattezza che sono in grado di garantire in questo tipo di lavori. Anche se non sarebbe stato soddisfatto della completezza della loro opera: non avrebbe ottenuto che “adietro ai rivali dei fossi” si lasciasse erba non tagliata. La macchina razionalizza le principali operazioni, ma comporta perdite di lavorazione che nelle mutate condizioni non è più economico rincorrere. Anche se là dove non può l’attrezzo meccanico, come nella zappatura, si può fare in modo che arrivi il diserbante chimico. O se ai materiali di scarto, come legne, carte, involucri si può provvedere con il fuoco.  
Ultime erpicature, concimazioni, semine, diserbi interessano oggi un ventaglio circoscritto di colture: il mais, la soia, le barbabietole, qualche volta il riso o il pomodoro. Frumento e orzo sono già avanti nel loro ciclo, iniziato in autunno e interessano superfici non tanto estese; impegnano di meno. 
Dove rimangono i prati si rinnova il rito dello sfalcio e della fienagione, ma senza le schiere dei seganti e dei rastrellanti d’un tempo. Falciatrici, girelli, ranghinatori realizzano una catena di produzione che conduce il fieno fin dentro le bocche delle rotoimballatrici, per restituirlo imprigionato dai fogli di plastica in botoloni, che saranno ben scaffalati sotto i barchessali. 
Come osserva, forse perplesso, l’obiettivo di Giuseppe Morandi. Il quale indugia più da vicino quando ritrova volti contadini e i gesti del lavoro di braccia e di mano, dove la macchina rimane defilata o non arriva, come sotto i tunnel di plastica. Macchine anch’essi, per la verità, ma per ora appena capaci di correggere la durata dei cicli colturali, senza variare di molto la successione degli interventi manuali e le fatiche di cui sono alimentati. Siamo nella sfera delle colture specializzate, in quel novero limitato di aziende che ancora interpretano la voglia individualistica di indipendenza, che è pure stato un connotato dell’agricoltura lombarda, con fantasia e intelligenza imprenditoriale. Si cercano qui vie alternative, si tenta di scavare nicchie di mercato, tuttora sottratte in qualche misura all’intrusione delle grandi reti agro-alimentari e all’appiattimento dei gusti; si mira ad intercettare le capacità di acquisto e la simmetrica voglia di liberazione che il consumatore urbano comincia a provare verso la grande distribuzione commerciale. 
E’ significativo che spesso queste isole di produzioni diverse coincidano con la sopravvivenza di segmenti più lunghi di lavoro contadino e di tecniche antiche. Ancora la capacità di assorbire sacrifici e fatiche, ove soccorra la disponibilità di mano d’opera familiare o poco qualificata, sostiene così fatte esperienze e può assicurare loro qualche possibilità di successo. Ma ne segna per altro verso i limiti, organizzativi e fisici, quanto meno in mancanza di una politica attiva e illuminata della mano pubblica, interessata a rendere remunerative e comparabili queste prestazioni nelle quali si conserva o si tramanda una cultura professionale che le forme nuove di lavoro hanno perduto. 

2.3. L’estate delle fatiche. 
Quando l’estate esplode incombe l’affanno delle irrigazioni. La selezione genetica ha spinto le varietà coltivate verso livelli di produttività prima sconosciuti, caricando tuttavia sugli agricoltori le apprensioni e i maggiori costi derivanti da organismi delicati e fragili. Le cui esigenze alimentari devono essere attentamente rispettate, a cominciare appunto dai bisogni idrici. 
In Lombardia la pratica di irrigare i campi è antica, specialmente localizzata nella pianura centrale e occidentale, dove aveva costituito premessa indispensabile alla coltura dei prati stabili e alla straordinaria valorizzazione di suoli naturalmente poveri, che poteva essere realizzata con il prato, piuttosto che con l’aratro. Si trattava di sistemi di distribuzione per scorrimento, o a gravità, articolati in reti complesse di derivazione, disposte a quote opportunamente elevate, che andavano a servire campi dotati di sapienti pendenze, tenuti ben livellati con cura metodica. Frutto di investimenti di capitale e di lavoro prolungati nel tempo e dei privilegi ecclesiastici e nobiliari, che avevano consentito il consolidamento degli indispensabili diritti d’acqua. 
Corrisponde invece all’epoca della meccanizzazione la diffusione su quasi tutto il territorio, comprese le aree declive, specie collinari, delle irrigazioni cosiddette a pioggia, o per aspersione, quasi sempre azionate mediante sollevamento delle acque sotterranee o correnti nei fossati, con mezzi aziendali. È una sorta di rivoluzione idro-meccanica che viene a rovesciare, sostanzialmente, i vecchi rapporti tra aree irrigue e aree asciutte, tra proprietari e fittavoli, tra diverse categorie di prestazioni di lavoro. Si osserva sempre più frequente, nella realtà attuale, l’abbandono dei sistemi a scorrimento e la loro sostituzione con le aspersioni, per una serie di ragioni collegate alle disponibilità di acqua, alla tempestività degli interventi, ai costi di gestione. 
Scompare l’antica figura dell’acquaiolo, camparo o irrigatore, addetto alla manovra delle paratoie e alla sorveglianza dei deflussi delle acque nelle canalette adacquatrici e sui campi. Con l’avvento della nuova combinazione trattrice-pompa-tubazioni mobili-irrigatori si manifesta, almeno nei primi decenni del secondo dopoguerra, un sovrappiù di tempo-lavoro, a carico delle famiglie coltivatrici e dei salariati, che nella calura estiva si muovevano da un appezzamento all’altro, carichi di tubi e di “getti”, di giorno e di notte. Fin tanto che i costi delle reti fisse sotterranee o dei grandi rocchettoni semoventi non sono diventati accessibili alle imprese singole o ai contoterzisti, in modo da tagliare anche questa domanda di lavoro; peraltro non dappertutto e senza escludere completamente la partecipazione dell’uomo, negli indispensabili momenti di servizio alla macchina. Che le figure umane fissate da Giuseppe Morandi restituiscono in atteggiamenti da flagellanti, marcate dalla plasticità dei corpi nudi e dal peso degli oggetti meccanici che paiono opprimerli. 
Con l’estate arrivano i primi raccolti, di frumento e orzo, ma quasi confinati oramai al rango di episodi marginali; per effetto dei prezzi bassi dei cereali e della meccanizzazione quasi integrale raggiunta in questo settore. Fanno adesso la loro entrata trionfale nelle aziende le macchine più grandi fra tutte, quelle a cui si affida l’apoteosi dell’immaginario agricolo contemporaneo: le mietitrebbiatrici, nate nelle grandi pianure e da noi patrimonio pressoché esclusivo dei terzisti. Il conduttore di questi monumentali parallelepipedi montati su ruote esegue la mietitura in solitudine e riversa le granelle già trebbiate e ripulite nei rimorchi in attesa, ai margini del campo. L’agricoltore li va a controllare e li ritira una volta colmi, per portarli ai magazzini, senza tralasciare del tutto i lavori richiesti dalle altre colture in corso. Un uomo e mezzo possono liquidare in un sol giorno l’opera che un tempo obbligava alla mobilitazione di cento, per il solo taglio e accumulo del cereale in covoni; cui doveva seguire il trasporto nelle corti e alla fine la trebbiatura, che si ripeteva di cascina in cascina all’arrivo della macchina fissa e dei suoi serventi. Con il contorno di una festa paesana, rito di ringraziamento e di propiziazione, bisognoso del concorso dei vicini e di quanta più gente possibile, per accelerare i tempi e mettere prima al sicuro il faticato prodotto. 
Quando Angelo Majoli esercitava la sua professione di fattore erano invece i cavalli a battere sull’aia i covoni per svestire la granella di frumento, che poi gli uomini dovevano separare dalla paglia con le forche, stando attenti “che galeggiano bene per aria la paglia, che così facendo il grano sortirà benissimo dalla paglia medesima”. Il momento andava gestito con cura “perché in forza del caldo e della fatica (la gente) è manco ragionevole, quindi è bene quello che conduce l’aja comanda la sua gente con buona maniera”; in ispecie era meglio “accarezzare gli Cavalari col tratarli bene acciò si prendano da sé stessi una buona solecitudine … e dargli del buon vino”, “perché non ci vol guerra in questi giorni”. Erano questi cavallari dei prestatori d’opera esterni, noleggiatori o contoterzisti veri e propri, chiamati nelle varie aziende con le loro bestie a svolgere un lavoro che richiedeva particolare abilità e senso di responsabilità. 
Del riguardo loro dovuto rimaneva traccia, fino a poco tempo fa, nella consuetudine di offrire il pranzo o la merenda al contoterzista e ai suoi operai. Un’altra occasione di socializzazione oramai in via di estinzione, per la fretta imposta dai tempi stretti stagionali non meno che per il costo elevato di gestione della macchina, che mal sopporta i tempi morti. O spesso perché in cascina non c’è più nessuno, nemmeno a far da mangiare per sé. 
Le raccomandazioni dell’antico fattore rimandano a quella che è stata indicata come una storica funzione del padronato agrario, almeno fino alla metà del Novecento: “la società ha affidato loro, oltre alla produzione agricola, il compito del controllo sociale dei contadini, di cui la chiave del portone (della cascina) è soltanto un aspetto espressivo. È un controllo che si esplica giudicando senz’appello … non solo il comportamento lavorativo dei dipendenti, ma anche il loro comportamento personale nella 
vita quotidiana in cascina” ha scritto Renato Rozzi. Non è in questa sede che si possono individuare i nuovi strumenti del controllo sociale, ma non v’ha dubbio che quanto meno nella sfera aziendale la macchina assolve a questa funzione in maniera anche più esauriente e totalitaria di quel che padrone e fattore sapessero fare un tempo. 
Nelle mutate condizioni non paiono tuttavia scomparsi gli impulsi alla trasgressione e alle feste: la gente di campagna non ha perso la voglia di celebrare l’estate a proprio modo, sia pure solo per cercar sollievo alle fatiche delle lunghe giornate di afa e di affanno – dentro o fuori le aziende agricole – riappropriandosi delle poche ore di frescura concesse dalle serate. Le feste di partito, di frazione, di quartiere che pullulano un po’ ovunque hanno preso il posto delle celebrazioni campestri di mezz’estate e ne recuperano la funzione di compensazione, rispetto ai risvolti meno lieti dell’esistenza. 

2.4. L’autunno dei raccolti e dei mercati. 
Una volta finita l’estate, gli agricoltori si apprestano a concludere la loro avventura annuale. I giochi son fatti, gli esiti produttivi si trovano già nel mare di piante che, sui campi, aspettano solo la raccolta. L’autunno è la stagione di passaggio nella quale si salda il ciclo agrario che sta per finire al prossimo. Si liberano i campi dalle coltivazioni mature e si aprono le opere preparatorie, da concludere entro l’inverno che verrà. È anche l’epoca nella quale si celebrano i cambi di conduzione da un titolare all’altro. S. Michele (29 Settembre) e S. Martino (11 Novembre) erano – sono ancor oggi in parte – i giorni deputati per i traslochi dei dipendenti. 
A tempo debito le grandi macchine riprendono a divorare vegetali. Il granoturco è il maggior protagonista di questa fase, con i prodotti diversi che può dare: la granella e gli stocchi o le pannocchie o la pianta intera trinciata. Quest’ultima comporta l’accumulo e la compressione nei grandi sili, per mezzo dei trattori più pesanti e degli uomini più spericolati. Degli stocchi si fanno ancora le grosse botole cilindriche, compresse e impaccate, che l’occhio fotografico vede occupare l’orizzonte campestre o formare monumenti provvisori e instabili, sui terreni denudati e dentro le corti. La barbabietola mette in campo una catena di montaggio mobile, estesa nello spazio: scavatrici e svallatrici, pale meccaniche e autocarri collegano materialmente campagna e fabbrica, lo zuccherificio, in una successione ininterrotta e frenetica che invade anche le strade pubbliche e impegna l’intera stagione. Si raccolgono soia e pomodoro, risoni e girasoli, gli ultimi sfalci dei prati. 
Dove rimangono i vigneti, nelle zone a vocazione tipica, la vendemmia chiede tuttora il soccorso delle mani dei raccoglitori e la campagna si ripopola, per qualche giorno risuona di voci e qualche volta di canti, l’atmosfera si fa nuovamente festosa. Come non avviene nelle zone di orticoltura, pure bisognose di braccia nude, chiamate a una fatica meno naturale, più cupa e intensa, spesso data stando carponi sul terreno, col respiro compresso. 
Questi mesi sono anche tempo di contratti e di incassi, di conti da chiudere e saldare, si rinnovano le attrezzature e si fanno provviste, c’è margine per le spese di casa e di famiglia. I rustici personaggi che Morandi vede aggirarsi per i mercati di paese, tra vetrine e banchetti, ben vestiti e soddisfatti, si atteggiano come chi ha adesso buon tempo da perdere. 
Si sente in giro l’annuncio di fiere e sagre, che nelle comunità rurali mantengono una ritualità nutrita di  ricordi e usanze indimenticate, valori comunitari e consuetudini preziose specialmente coltivate nelle cucine familiari, occasioni d’incontro e di gioco, di vanità e di piccole dissipatezze. “La sagra era … il trionfo dei ragazzi: l’imminente chiusura della stagione rendeva accaniti i ragazzi nei loro giochi”, ricorda Gianni Bosio. “Il giorno della sagra si rizzavano i banchi sui sagrati per vendere confetti, liquori, frutta ed altre cose; arrivavano gli orsi che ballavano, i giochi d’azzardo … e anche i suonatori che rallegravano il ballo …”. L’eco non spento di queste tradizioni si colgono nella lieta disponibilità a offrirsi all’occhio curioso del fotografo. 
Tra autunno e inverno la maggior parte dei mezzi meccanici attraversa un periodo di stasi. Le macchine vengono allora avviate alle rimesse, per essere riposte e – ad opera dei contadini più accorti – ripulite, smontate, revisionate, lubrificate. Piace pensare che questo sia un momento nel quale l’uomo si prende la sua rivincita, mentre spalanca e vuota le prepotenti strutture, ne estrae i contenuti per pezzi, priva il mostro di una vita che è solo in facoltà sua di ridare, ricomponendo le parti separate con l’arte che lui possiede. In officina la tecnologia si conferma retaggio dell’uomo, la macchina rivela la sua natura di utensile inerte. 

2.5. I tempi della stalla. 
Le forme dell’agricoltura industrializzata hanno determinato, per la maggior parte delle campagne lombarde, una diffusa separazione delle coltivazioni dagli allevamenti, della terra dal bestiame. Nel 1990 solo il 54,6% delle aziende conservava allevamenti, quelle con vacche da latte erano assai meno, il 18,7%, in tutto 24.668. Il conclamato progresso delle tecniche di gestione dell’agricoltura ha prodotto – paradossalmente – un ritorno a ordinamenti colturali premoderni, riproponendo quello che era stato un carattere specifico dell’agricoltura medievale, nella quale si conosceva solo il bestiame da lavoro, malnutrito e sfruttato come “male necessario”, e si lasciava alla pastorizia l’allevamento da carne. L’azienda agro-zootecnica, che della pianura lombarda era stata per un paio di secoli l’emblema, con il trionfo del “bestiame gaudente” salutato da Carlo Cattaneo, si trova ora circoscritta in aree di pronunciata vocazione, nelle quali assicurano peraltro la sopravvivenza delle classiche pratiche agronomiche finalizzate alla conservazione della fertilità e di organismi aziendali integrati nell’ambiente. 
Sono aspetti, questi, cui l’opinione pubblica e i programmi di governo dovrebbero riservare una attenzione meno distratta, cercando di cogliere nelle frequenti agitazioni dei produttori di latte anche i risvolti meno corporativi. Le stesse imprese lattiere non sembrano apprezzare la valenza moltiplicata che da questo punto di vista assume il regime delle quote latte, spesso genericamente deprecato. 
La macchina ha largamente contribuito a modificare le tecniche di lavoro anche nel comparto zootecnico. La stalla medesima non è che una macchina fissa, ora profondamente mutata rispetto al passato. Alle fabbriche vetuste e monumentali, costruite specialmente nel XIX secolo, con mattoni laterizi e legname – i materiali poveri che l’ambiente poteva offrire – si sono andate sostituendo, a partire dagli anni Cinquanta, strutture basate sul principio della libera circolazione del bestiame bovino all’interno di aree controllate, le cosiddette stalle all’aperto. È un capitolo di storia agraria recente che fin qui ha ottenuto l’attenzione di solo pochi cronisti: il passaggio dalle vecchie stalle alle nuove è avvenuto agli inizi per merito di alcuni pratici pionieri. Costoro hanno saputo innescare, con i loro esempi, un’autentica sperimentazione di massa mobilitando, lungo l’arco di qualche decennio, centinaia di allevatori i quali si posero direttamente a provare sul vivo la realizzazione delle nuove soluzioni, assumendo su di sé i costi delle opere e non di rado i danni degli errori compiuti, spesso guidando il lavoro dei progettisti con le proprie personali considerazioni. L’idea di base era che le vacche da latte si dovessero sottrarre alle costrizioni della stalla chiusa, per essere sciolte dalle catene che le vincolavano in perpetuo alla mangiatoia e mantenute libere all’aperto o in locali aperti. Per conseguire il doppio obiettivo del migliore rendimento degli animali e di una radicale semplificazione dei movimenti richiesti al personale addetto, così da ridurre sensibilmente il rapporto tra capi da accudire e salariati occupati. 
Una concezione dell’allevamento che venne realizzata attraverso la sperimentazione di svariati modelli e differenti combinazioni, via via modificati, rinnovati, perfezionati fino a raggiungere lo schema ottimale oggi generalmente accettato. Gli operatori agricoli sono stati lasciati a lungo soli in questa ricerca. Gli apporti degli ambienti scientifici sono quasi sempre arrivati a posteriori; anche la pubblica amministrazione dell’agricoltura (quelli che erano gli Ispettorati provinciali dell’agricoltura, di appartenenza statale) ebbe sostanzialmente ad inseguire l’iniziativa degli allevatori, che non sempre furono sostenuti con orientamenti tecnici tempestivi e finanziamenti proporzionati. L’industria privata si dimostrò più pronta e capace di comprendere i bisogni dei produttori, e fu in grado di mettere in circolazione alcuni tipi basati sull’impiego dei prefabbricati che divennero in breve il materiale di base per queste nuove strutture e per altre. Non senza forti impatti sul paesaggio tradizionale della cascina; cemento armato e ferro ridussero a impieghi marginali le collaudate materie prime autoctone, al pari dei vecchi salariati. 
La meccanizzazione all’interno della stalla da latte ha trovato nella mungitrice – mobile dapprima, a vacche legate, poi fissa, nella sala di mungitura, centro pulsante della nuova stalla aperta – l’espressione più raffinata e pervasiva, non solamente suscettiva di sostituire sequenze di gesti e di operazioni che erano del mungitore manuale, ma di imporre i tempi di esecuzione sia all’uomo che agli animali. I quali finirono, per parte loro, selezionati in funzione delle attitudini alla mungitura meccanica. Il mutato sistema di stabulazione ha spinto in avanti ulteriori elementi di razionalizzazione, nel settore della alimentazione, più recentemente integrato dalla strumentazione informatica, e negli impianti di lavaggio e di sgombero dei reflui organici. Ai quali ultimi si deve la sostituzione della concimaia – una delle invenzioni agronomiche fondamentali per l’agricoltura occidentale – con le vasche dei liquami, il fatto tecnico che si è visto segnare il netto degrado qualitativo delle restituzioni umiche al terreno. 
Nella stalla la macchina ha soprattutto esaltato l’accelerazione nei ritmi delle prestazioni, senza indurre lo snaturamento avanzato delle caratteristiche del lavoro di tradizione avvenuto per altri comparti dell’azienda. Il carico di bestiame, che nel primo dopoguerra era di 14-15 capi da latte per salariato, è adesso un parametro di scarso significato; è determinante il tempo impiegato nella mungitura, condizionato a sua volta dalle poste di cui l’impianto è dotato. L’apporto dato alla zootecnia dalla scienza dell’alimentazione e dal miglioramento genealogico ha forse concorso ad esaltare le rese del bestiame da latte in misura maggiore della razionalizzazione dei ricoveri e della meccanizzazione delle operazioni. Per misurare il percorso compiuto è possibile ricordare che Matilde Ferretto calcola nel 1985, per l’area lombarda, un medio assorbimento di 8,5 giornate dell’unità lavorativa di stalla per vacca nell’arco dell’anno (erano 13,1 nel 1975); per la produzione di un quintale di latte occorrevano 0,12 giornate (0,26 dieci anni prima). Una verifica analoga, sia pur meno approssimata, porta a ricostruire per il decennio Cinquanta i dati corrispondenti di 26 giornate per lattifera e 0,87 per quintale di latte.  
 A rendere relativamente meno alienante l’ambiente di lavoro nella stalla concorrono, assieme alla componente naturale costituita dal contatto con gli animali, uno spazio d’intervento consentito alla manualità che rimane relativamente elevato, e in special modo la persistenza di una connessione stretta fra conduzione aziendale e amministrazione domestica, che Kautsky constatava perduta nell’industria moderna ma riteneva uno specifico dell’agricoltura. E noi sappiamo oggi superata anche in vasti ambiti dell’agricoltura industrializzata. Questo stretto legame, fisico, tra casa e lavoro è condiviso dal salariato di stalla, il quale per le particolari prestazioni di sorveglianza e cura che rientrano nei suoi compiti e per gli orari cui è chiamato mantiene il diritto, o meglio l’opportunità, di abitare in azienda. Discende da questa contiguità un intreccio residuo fra tempo di lavoro e tempo della famiglia, che non si ritrova nel caso degli addetti alla campagna, favorevole ad un allentamento delle tensioni e delle asprezze che accompagnano altri momenti e altre immagini. 
Così l’occhio fotografico coglie qui figure di familiari, di cui non v’è traccia nelle altre situazioni rappresentate, e personaggi nuovi: la donna addetta ai vitelli, la ragazza sul trattore, il salariato indiano consolato dalla vicinanza della moglie e del bimbo, che proprio la sua condizione di bergamino gli lascia godere. Espressioni, portamenti, fisionomie che sembrano meno lontane da quelli dei paisàn d’un tempo, documentati nelle prime opere di Giuseppe Morandi. 

 3. La nuova agricoltura tra deriva entropica e difesa ambientale. 

Uno studio circoscritto alla provincia di Mantova, quella in Lombardia dove l’agricoltura mantiene il peso maggiore, pone in rilievo che nel 1961 la coltivazione di un ettaro richiedeva mediamente 107 giornate-uomo, con l’ausilio di 2 Cv di potenza meccanica. A quell’epoca si poteva considerare oramai del tutto surrogato il lavoro animale. Nel 1991, trent’anni dopo, bastavano per il medesimo scopo 34 giornate-uomo, ma integrate dalla disponibilità di 11 Cv meccanici. Nel medesimo arco di tempo la quantità di nuova sostanza organica vegetale prodotta nella provincia, per effetto dell’energia solare e della fertilità dei suoli, misurata in cereali equivalenti, raddoppia. Non è inclusa la produzione animale, frutto della trasformazione di materiali organici parzialmente computati nella massa precedente, o di altre materie prime del tutto estranee al territorio e alle sue risorse, come avviene in misura preponderante nelle condizioni attuali. 
Il dato trova sostanziale conferma in sede nazionale, là dove il bilancio energetico elaborato dal Ministero dell’industria per il periodo 1955-1989 determinava una crescita della produzione agricola – espressa in grano equivalente – da 25 milioni a 65 milioni di tonnellate, ossia da 1 a 2,6. La medesima fonte calcolava che, nei 35 anni esaminati, l’energia assorbita complessivamente dalle operazioni colturali e nei prodotti impiegati nell’agricoltura risultava moltiplicata per più di 11 volte. I due andamenti, così sommariamente delineati, appaiono sensibilmente sfasati: all’enorme sforzo di capitalizzazione compiuto corrisponde in termini energetici una perdita secca. 
La constatazione può essere solo limitatamente temperata se si considera il lavoro vivo sostituito. Nelle aziende agricole lombarde, tra 1961 e 1991, si passa da un impiego di 1.090.640 Cv meccanici a 10.696.231, quasi 10 volte tanto. Nel contempo la complessiva forza di lavoro occupata si poteva stimare, rispettivamente, di 400.000 e 120.000 unità, pari a una disponibilità di 2.800.000 e 840.000 Cv nelle due epoche. Se ne può dedurre, con discreta approssimazione, che nel trentennio considerato la potenza complessiva impegnata nelle campagne lombarde sarebbe più o meno triplicata (da 3.900.000 a 11.500.000 Cv), in forza dell’impiego crescente di combustibili fossili, contro una quota di energie non rinnovabili, fornite del lavoro umano, in caduta verticale, dal 72% al 7%. Senza dimenticare che questo confronto rimane parziale, perché non tiene conto dei consumi elettrici e dell’imput energetico indiretto, incluso nei concimi di sintesi, nei pesticidi, specialmente diserbanti nel caso lombardo, e nelle plastiche di cui l’agricoltura attuale fa largo uso. Il cui ammontare, stando al bilancio energetico prima citato, sarebbe stato nel 1989 pari, pressappoco, ai consumi diretti di elettricità e derivati del petrolio. 
Si compone insomma il quadro di una accelerazione geometrica del consumo di risorse energetiche, peraltro iscritto nella storia intera dell’agricoltura, e si può verificare la fondatezza dell’osservazione oramai classica di N. Georgescu-Roegen, secondo cui la sostituzione degli animali da lavoro e delle pratiche fertilizzanti naturali “rimpiazza l’elemento più abbondante, la radiazione solare, con altri più scarsi … con uno sperpero di bassa entropia terrestre”. Infatti: “quel che fa la moderna tecnica agricola è aumentare la quantità di fotosintesi su un dato pezzo di terreno coltivato. Ma è un aumento che si ottiene con un aumento più che proporzionale del consumo di bassa entropia di origine terrestre, la sola risorsa criticamente scarsa”. Analisi senza dubbio radicale che non lascia spazio a programmi di medio termine; pure, come sempre avviene per le provocazioni saldamente fondate su una cultura scientifica, in grado di sollevare un problema reale e di imporre risposte. 
La grande valenza umanitaria che viene comunemente attribuita al sistema di agricoltura industrializzata consiste da una parte nell’avere rimosso enormi domande di fatica fisica e di sofferenza per i lavoratori dei campi, dall’altra nell’aver assicurato le basi del generale abbassamento relativo dei costi alimentari, da cui ha preso avvio la crescita del benessere nei paesi industriali. Un salto qualitativo senza confronti nel cammino storico dell’uomo, anche se riservato a una parte solamente della specie. Sui costi, umani specialmente, di questa straordinaria operazione si è tuttavia riflettuto poco: quali e quante forme di usura della macchina-uomo si sono sostituite all’antica condanna a faticare? Quale uso del benessere è consentito nel tempo vitale recuperato, ai cittadini dei fortunati paesi nei quali il miracolo è avvenuto? La dispersione delle antiche culture rese obsolete dal sistema agricolo-industriale è stata ripagata dal nuovo sapere tecnologico che le dovrebbe sostituire? 
Nell’ultimo decennio sono mutate parecchie delle condizioni nelle quali avevano potuto manifestarsi il grande esodo dalle campagne e le corrispondenti surrogazioni meccaniche e chimiche del lavoro umano e animale. La scomparsa della fame contadina di terra e il venir meno di presìdi antropici sul territorio hanno favorito la diffusione di usi impropri delle risorse naturali, dalle cave alle discariche, dai prelievi energetici allo sversamento incontrollato di rifiuti sopra e sotto il suolo. La protezione generalizzata dei redditi agricoli da parte della Comunità europea moltiplica le aree di agricoltura parassitaria o, comunque, senza stimoli all’innovazione. Nella società la domanda tumultuosa di lavoro ha lasciato il posto ad una disoccupazione giovanile e istruita giunta a livelli prima sconosciuti, paradossalmente accanto all’immigrazione di braccia disposte ai lavori più umili. I bisogni alimentari sono sempre più percepiti sotto il profilo della salute e della qualità. All’interno del mondo agricolo si fa strada, sia pure in ambiti limitati ed elitari, una ricerca di produzioni tipizzate o di tradizione. 
Par di capire che sotto l’onda della grande trasformazione avvenuta e tuttora in corso si stiano delineando situazioni nuove, possibilità, forze, idee gravide di altri mutamenti, forse di diverso segno. 
Il dibattito degli specialisti non è andato, per ora, molto al di là delle previsioni a breve o a medio termine. Nel riconoscere che è “caduta la motivazione del sostegno dello sviluppo produttivo” indiscriminato, i settori più attenti dell’opinione scientifica avvertono che l’esigenza dell’intervento pubblico dev’essere tenuta ferma, anche per il futuro, purché giustificata da “obbiettivi di produzione di beni ‘pubblici’, che si possono individuare in un definito livello di autosufficienza alimentare di carattere strategico e nella protezione territoriale e ambientale”. Dove si intende il taglio difensivo e in qualche modo subordinato del rilievo che viene pur dato alla questione ambientale. In coerenza, del resto, con la parola d’ordine internazionale dello “sviluppo sostenibile”, che nella sua formulazione originaria – e più ancora nelle interpretazioni correnti – pare anteporre il fine di soddisfare “i bisogni del presente”, ai livelli fino ad ora raggiunti, alla opportunità di conservare la “capacità ambientale di soddisfare esigenze presenti e future”. 
Rimane così aggiornata a tempi lunghi la questione esistenziale della irreversibilità dell’impoverimento delle risorse naturali, da cui dipende la riduzione “della futura quantità di vita”, che ancora Georgescu-Roegen solleva, quando introduce nella disputa collegata “all’eterno interrogativo sul numero massimo di persone che possono vivere sulla Terra” la dimensione temporale. Resa più stringente dai “giganteschi organi esosomatici”  , le macchine appunto, che l’occhio fotografico di Giuseppe Morandi drammaticamente racconta, a suo modo spingendo alla riflessione critica.