Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Su “L’altra faccia del benessere” di Salvatore Romeo

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Recensione di Salvatore Romeo, L’altra faccia del benessere. Una storia ambientale dell’Italia contemporanea, (1950-1979), Carocci, Roma 2024.

Il lavoro di Salvatore Romeo risulta di grande utilità per la ricostruzione meticolosa del lungo e contrastato percorso delle nostre istituzioni nazionali e locali nel dotarsi di normative giuridiche, strutture tecniche di ricerca, monitoraggio e studio, nonché di organismi di tutela e programmazione del territorio, sfociati infine in riassetti istituzionali (ministero e assessori dell’ambiente) finalizzati ad arginare gli impatti distruttivi dello sviluppo industriale sui cicli naturali.

Nel primo capitolo si sofferma nel descrivere questi impatti nelle tre matrici su cui ricadono: l’aria ammorbata dai fumi delle ciminiere e dagli scarichi dei veicoli (pp. 39-51), l’acqua sporcata dalle tante sostanze tossiche (pp. 52-59) e infine il suolo sottoposto a reiterate inondazioni a causa del dissesto idrogeologico (pp. 60-72).

Il nostro, quindi, ci ragguaglia sul lungo iter delle prime leggi antismog (pp. 79-90) e per la tutela delle acque (90-91), tra gli anni Sessanta e Settanta, nonché sulle difficoltà e sui ritardi attuativi delle stesse. In quegli anni, nel quadro della cosiddetta programmazione economica, vengono avanzate anche le prime ipotesi di governo del territorio (pp. 73-78), come risposta alle contestazioni delle comunità, animate in particolare da Italia Nostra, – fonte privilegiata in questa ricerca -, che si opponevano alla localizzazione di determinati impianti ritenuti troppo impattanti.

Sarebbero questi, essenzialmente, secondo l’autore, i conflitti che animarono la contestazione ecologica di quegli anni (pp. 127-170) e che avrebbero trovato una positiva risposta nei disegni programmatori del governo di centro-sinistra dell’epoca in particolare nel cosiddetto Progetto 80 redatto tra il 1968 e 1969, che “recepiva e rielaborava in un disegno organico di riorganizzazione degli insediamenti abitativi e produttivi su scala nazionale alcune delle istanze che i settori più avanzati della società civile e delle forze politiche andavano manifestando da tempo: su tutte, la necessità di sottrarre le dinamiche di sviluppo territoriale agli interessi privatistici che fino ad allora le avevano informate” (p. 197). Non manca anche un accenno all’“ecologia dei padroni” con uno spazio importante dato alla Prima relazione sulla situazione ambientale del paese, pubblicata da Tecneco, agenzia ambientale dell’Eni (pp. 230-244). Forse, anche per chiarire come questa iniziativa dell’Eni si possa in realtà configurare come un’anticipazione del successivo greenwashing teorizzato ed esploso con la Conferenza dell’Onu di Rio, sarebbe stato opportuno accennare alle politiche industriali coeve dell’Eni, alla sciagurata partecipazione ai progetti nucleari con L’Agip nucleare e all’avvio a Sarroch del disastroso impianto per le bioproteine, nonché alle eredità di siti inquinati che la stessa Eni ci ha lasciato in giro per l’Italia.

Infine, per gli anni Settanta, non potevano non essere evocati il dibattito sul nucleare (pp. 247-254), le conseguenze dell’evento Seveso (pp. 255-262) e infine il parto, accompagnato da lunghe doglie, della Legge Merli sugli scarichi idrici industriali in corpi superficiali (pp. 263-275).

Dunque il libro ci offre un quadro abbastanza significativo degli strumenti messi in campo dal Paese nel tentativo di attrezzarsi per proteggere le proprie risorse naturali dall’aggressione della società del benessere. E in questo senso si potrebbe considerare che l’obiettivo sia stato in buona parte perseguito, anche se non si può non rilevare, tra altre lacune scusabili, un vuoto clamoroso, quello relativo alla complessa e fondamentale tematica dei rifiuti, in particolare di quelli speciali (industriali e di altre attività economiche), e della conseguente normativa per regolamentarne la gestione.

A ben vedere, sono proprio i rifiuti a rappresentare essenzialmente “l’altra faccia del benessere”. Giorgio Nebbia instancabilmente correggeva l’espressione “società dei consumi” in “società dei rifiuti”, perché, diceva, in realtà noi non consumiamo niente, ma preleviamo dei materiali dall’ambiente per produrre merci che usiamo e che poi si trasformano in materiali degradati e spesso tossici, sia già, in parte, nei processi produttivi, sia poi a fine uso, da scaricare in forma di rifiuti in ambiente, direttamente sui suoli innanzitutto, ma anche, indirettamente, attraverso l’acqua e l’aria. Cosicché prima della “società del benessere” i rifiuti praticamente non esistevano.

Per questo Giorgio Nebbia, all’inizio del suo itinerario scientifico, nella prolusione accademica del 13 novembre 19721, che traccia le motivazioni dell’istituzione del primo corso nazionale di ecologia un una Facoltà di economia, nell’università di Bari, si focalizza nel suo saggio su “rifiuti e inquinamento” e sulle “matrici dei rifiuti”, delineando i primi grafici, che verranno poi studiati nel mondo, le cosiddette piot o più generalmente le tavole intersettoriali dei flussi di materia ed energia in entrata nell’economia dall’ambiente e di quelli in uscita, sotto forma di rifiuti, restituiti all’ambiente. Un lavoro fondamentale per valutare il carico distruttivo nei confronti dell’ambiente di una merce, di un processo produttivo, di un sistema economico.

Ora, nel testo che stiamo commentando, come si è già accennato, il suolo viene considerato esclusivamente come vittima di inondazioni, a partire dalla “catastrofe del Polesine” del 1951. A parte la banale considerazione che quell’evento del 1951 forse è difficile considerarlo come conseguenza della “società del benessere”, a quella data ancora da venire, l’altra faccia del benessere nella matrice suolo ovviamente sono i rifiuti tossici, prodotti in particolare dalla nuova chimica, dispersi in ambiente senza alcun tipo di precauzione, almeno per il periodo considerato, sono gli anticrittogamici e i concimi di sintesi che cominciano a rendere sterili i nostri terreni agricoli con l’inizio della “rivoluzione verde”, sono le conseguenze dell’avvio della petrolchimica con l’immissione delle plastiche in ambiente, inquinanti persistenti che oggi ci ritroviamo persino nel sangue umano.

Insomma l’altra faccia del benessere è la crisi ecologica e la scienza che la studia, come ci ricordava Giorgio Nebbia, in uno dei primi suoi scritti a questo riguardo, del 1970, è “sovversiva”:

Perché sovversiva. […] la maggior parte dei cultori di ecologia è costituita da biologi, la cui attenzione, logicamente, è più rivolta ai continui pericolosi attentati al patrimonio della flora e della fauna che alle remote cause di tali attentati, la maggiore delle quali è nell’ormai diffusa mentalità che fa coincidere l’idea di progresso con quella di ‘società dei consumi’, per cui tutti devono essere sollecitati a consumare al massimo merci e servizi. […] L’ecologia è una scienza ‘sovversiva’ proprio per questo: perché è anticonsumistica e propone il soddisfacimento dei bisogni non mediante lo sfruttamento e la rapina, ma facendo un uso moderato e saggio delle risorse naturali a disposizione. Non c’è dubbio che la ‘destra economica’ trovi più comodo commuoversi per la scomparsa delle alghe rosse del lago di Tovel o degli orsi d’Abruzzo che affrontare una serie di modificazioni dei cicli di produzione e di riforme della politica dei consumi; che rinunciare alla speculazione edilizia; che generalizzare l’impiego dei depuratori di acque usate2.

Ciò rende particolarmente impegnativa la ricerca storica in ambito ambientale: per aggredire quei nodi critici cui accennava Nebbia gli storici, in generale con una formazione di tipo umanistico, hanno bisogno della collaborazione di esperti delle scienze dure, di chimici, di ingegneri, di tecnici dei processi produttivi, di medici del lavoro, di tossicologi, di epidemiologi, esperti che, ovviamente, associno rigore scientifico ad una postura attenta alla giustizia ambientale e umana.

A questo proposito, un’altra faccia del benessere del tutto ignorata, ma di eccezionale rilevanza, è il cambiamento epocale che nel periodo considerato si verifica nel profilo epidemiologico della popolazione italiana, nel bene, per la maggiore igiene e la migliore nutrizione, nel male, per la maggiore esposizione a inquinanti tossici. Dalle malattie infettive si passa al prevalere delle malattie cronico-degenerative, come i tumori, il diabete, le patologie cardiovascolari. Fondamentale, in questo senso, la ricerca storica di Saverio Luzzi, Il virus del benessere. Ambiente, salute e sviluppo nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 2009, che non risulterebbe neppure citata, come non viene citato l’oncologo ed epidemiologo italiano, di assoluta rilevanza internazionale, Lorenzo Tomatis, che già nel 1967, e per 25 anni, fu ricercatore di punta nell’appena costituita Agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC) di Lione dell’OMS, di cui sarebbe poi diventato direttore. A lui dobbiamo i primi importanti studi a livello internazionale sugli effetti cancerogeni di diversi composti chimici di sintesi. Una tematica, questa degli effetti boomerang sulla salute umana della società del benessere, che sfugge ovviamente ad un punto di vista prevalentemente conservazionista.

Mentre, d’altro canto, si enfatizza la portata innovativa della programmazione del centro sinistra dell’epoca e in particolare del Progetto 80. E’ vero che in questi materiali vi è una seconda parte in cui si delinea una possibile progettazione del governo del territorio secondo criteri urbanistici e paesaggistici condivisibili, ma non si può ignorare la parte centrale e più corposa che, assecondando le imprese private nell’illusione di poter perpetuare all’infinito il boom economico, propone un’espansione parossistica della petrolchimica, del nucleare e degli anticrittogamici e concimi di sintesi in agricoltura3. Con quell’impostazione apparentemente innovativa, in realtà, si inaugura una prassi che asseconderà l’attuale sfacelo ambientale: l’idea di delegare la questione al Ministero dell’Ambiente e alla sua capacità di tenere sotto controllo ex post gli effetti dello sviluppo, mentre la vera politica “anti-ecologica” la facevano e la fanno i ministeri dell’industria, dell’agricoltura, dei trasporti, laddove assecondano gli interessi privati delle grandi imprese. Dunque non la prevenzione, ovvero il principio “rivoluzionario” per la prima volta introdotto dall’ambientalismo operaio negli anni Sessanta, ma l’illusione di contenere con norme protezionistiche il danno all’ambiente naturale.

Questo emerge anche nella rassegna dei conflitti ambientali citati, in generale ricondotti ad opposizioni delle comunità locali a insediamenti industriali impattanti sul territorio. Intendiamoci, il tema della localizzazione non è irrilevante, tutt’altro, ma rimane comunque secondario rispetto al tema centrale delle caratteristiche e degli scopi dei cicli di produzione, ovvero se una determinata merce sia necessaria e utile e se il sistema produttivo possa e debba ridurre sia il prelievo dalla natura sia la dispersione di rifiuti e inquinanti. Riprendo a questo proposito un caso citato nel libro, peraltro di grande ed esemplare rilevanza per il periodo considerato, quello dell’impiantistica, ritenuta allora innovativa, finalizzata nei primi anni Settanta alla produzione delle bioproteine, le cosiddette “bistecche dal petrolio”, ovvero di mangimi per bestiame prodotti “senza terra” essendo derivati dalla coltivazione di microrganismi su normalparaffine, frazione del cracking del petrolio. A pagine 260 si dà conto dell’opposizione vincente della comunità di Pisticci in provincia di Matera all’insediamento della Liquifarm, una delle due imprese -l’altra è quella già citata dell’Eni a Sarroch presso Cagliari- che intendevano produrre le bioproteine. Ma purtroppo, nel testo, sulla vicenda che è stata al centro del dibattito economico ed ecologico degli anni Settanta non si dice più nulla. Rinviamo, anche in questo caso, alla ricerca esemplare di Paolo Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Milano, Feltrinelli 1980, che non ci risulta citato. In estrema sintesi l’impianto rifiutato a Pisticci trova ospitalità a Saline Joniche in provincia di Reggio Calabria, ma non entrerà mai in produzione a regime, come quello dell’Eni a Sarroch, per le critiche di merito nei confronti di quel processo produttivo manifestate con argomentazioni scientifiche inoppugnabili, tra gli altri, da Giorgio Nebbia e dal pool tecnico del giovane magistrato Gianfranco Amendola. Dopo aver richiamato la necessaria cautela sul tema della tossicità del processo industriale e dei prodotti, Nebbia svolgeva un’esemplare analisi merceologica ed ecologica, considerando in particolare il costo energetico delle nuove proteine ricavate dal petrolio, mettendo “in evidenza che la produzione di proteine dal petrolio costa, per unità di proteina, molta più energia rispetto alla produzione di proteine da altre fonti sia vegetali, sia animali”, fonti per di più rinnovabili. Quindi concludeva con una condanna senza appello: “Da quanto precede appare che la decisione di costruire gli stabilimenti di produzione di proteine dal petrolio è stata imprudente e sbagliata dal punto di vista economico, biologico, energetico – insomma dal punto di vista merceologico”.

Una lezione di scuola per come dovrebbe essere impostata “una storia ambientale dell’Italia contemporanea” capace di uno sguardo critico sui modelli di sviluppo, quindi di produzione e di “consumi”, che segnarono quel periodo cruciale dell’industrializzazione del nostro Paese e che hanno lasciato sul territorio profonde ferite mai risanate (migliaia di siti industriali abbandonati e inquinati, tra cui la zona di Saline Joniche, dove fino al 1972 fiorivano gli orti di bergamotto, estesa per due chilometri lungo la costa e per settecentomila metri quadri, e dove ora rimangono tra un’immensa colata di cemento i ruderi arrugginiti della fabbrica abbandonata con il camino alto 174 metri, simbolo di un passato nefasto).

Ma non si può caricare sulle spalle di un giovane e pur bravo ricercatore un compito che dovrebbe essere assunto dalla storiografia ambientale italiana, non ancora adeguatamente attrezzata per esprimere una critica puntuale, ecologica, tecnologica e merceologica, ai sistemi produttivi e ai modelli di consumo che hanno segnato la recente storia nazionale e che hanno molto a che fare con l’attuale declino e con la dirompente crisi ecologica e sociale che lo attanagliano.

1 G. Nebbia, Ecologia ed economia, “Giornale degli economisti e annali di economia”, luglio-agosto 1973, cedam, Padova 1973, pp. 445-453.

2 G. Nebbia, La crisi dei rapporti tra l’uomo e la biosfera, in“Le scelte del consumatore” anno VI, n. 1, gennaio 1970, Unione nazionale consumatori, Roma 1970, pp. 19-20

3 È antipatico citarsi: M. Ruzzenenti, Progetto 80. La programmazione alla prova mancata della crisi ecologica, Il Pnrr ripeterà gli stessi errori?, in “Altronovecento”, n. 44, 14 settembre 2021, https://altronovecento.fondazionemicheletti.eu/progetto-80-la-programmazione-alla-prova-mancata-della-crisi-ecologica-il-pnrr-ripetera-gli-stessi-errori/

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