Scienza, salute e ambiente. L’esperienza di Giulio Maccacaro e di Medicina Democratica

La Classe Operaia è sempre stata troppo “pensata”, da chi ha finito per sorprendersi di trovarla così vigorosamente, originalmente, lucidamente “pensante” sul finire degli anni ’60. Oggi si può e si deve puntare su tutte le forme di appropriazione e di autogestione che possano mettere la classe a soggetto di una lotta per la salute che non cessi mai di essere, in quanto tale, una lotta contro il sistema”. (Giulio A. Maccacaro, Classe e salute, 1973).((Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute. Giulio A. Maccacaro, Classe e salute, Firenze 9-10 novembre 1973, La salute in fabbrica, volume 1, Savelli editore, Roma 1974, p. 32.))

“Il Capitale non ha riguardi per la salute e la vita dell’operaio, quando non ne sia costretto a tali riguardi dalla società”. (K. Marx – Il Capitale, 1867).

“Essi solo (gli operai delle città e delle campagne), e non dei salvatori provvidenziali, possono applicare energici rimedi alle miserie sociali di cui soffrono”. (K. Marx, La Revue Socialiste, 1880).

“L’operaio o proletario, non è specificatamente caratterizzato dal lavoro manuale o strumentale ma da questo lavoro in determinate condizioni e in determinati rapporti sociali (a parte la considerazione che non esiste lavoro puramente fisico e che anche l’espressione del Taylor di “gorilla ammaestrato” è una metafora per indicare un limite in una certa direzione: in qualsiasi lavoro fisico, anche il più meccanico e degradato, esiste un minimo di qualifica tecnica, cioè un minimo di attività creatrice). Non c’è attività umana di cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ciò significa che, se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non-intellettuali non esistono.

Ogni uomo – e donna, ndr – infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare”. (Antonio Gramsci in “La formazione degli intellettuali – Quaderni dal Carcere”, 1930).

“La massa dei lavoratori – e delle lavoratrici, ndr – non ha nulla da guadagnare dal fatto che il declino del loro controllo sul processo lavorativo sia più che compensato dall’aumento di quello esercitato dai dirigenti e dai tecnici. Al contrario, la loro qualificazione presenta una caduta non solo in senso assoluto (in quanto essi perdono le competenze tradizionali e di mestiere senza acquisirne altre che possano compensare la perdita), ma ancor più in senso relativo. … quanto più l’operaio ha bisogno di sapere per restare essere umano che lavora, tanto meno vi riesce … Nel modo capitalistico di produzione, il prolungamento di una istruzione sempre più vuota di contenuti, unito alla riduzione del lavoro a compiti sempre più semplici e dequalificati, rappresenta uno sperpero degli anni di scuola e un dispendio di energie umane negli anni successivi. Gli apologeti di questo sistema lo considerano un esempio dell’efficienza portata al suo punto più alto; essi sostengono che dove un ingegnere può dirigere cinquanta operai, non c’è bisogno di “sprecare” le risorse della società dando a tutti il livello di formazione dell’ingegnere. Così funziona la logica del modo capitalistico di produzione, che pur di non veder minacciati i rapporti sociali gerarchici mediante i quali accumula ricchezze nelle mani dei padroni della società, preferisce lasciare il lavoratore – e la lavoratrice, ndr – ignoranti nonostante gli anni di scuola e derubare l’umanità del suo diritto sacrosanto a un lavoro consapevole e ben padroneggiato”. (Harry Braverman, 1978).((Harry Braverman, Lavoro e Capitale Monopolistico, pp. 427, 449, 450, Einaudi Editore, 1978.))

“L’economia della scienza e dell’abilità delle forze produttive generali del cervello sociale rimane, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale e si presenta perciò come proprietà del capitale. Il pieno sviluppo del capitale ha quindi luogo solo quando l’intero processo di produzione non si presenta assunto sotto l’abilità immediata dell’operaio ma come impiego tecnologico della scienza. Tutti i processi scientifici della civiltà, o in altre parole, ogni incremento delle forze produttive sociali (se volete – aggiunge Giulio Maccacaro – delle forze produttive del lavoro stesso quali risultano dalla scienza della divisione e combinazione del lavoro), arricchiscono non l’operaio, ma il capitale, e poiché il capitale è l’antitesi dell’operaio, quei processi accrescono soltanto il potere oggettivo sul lavoro”. (K. Marx, nei Lineamenti fondamentali della critica della economia politica).

Quindi – continua Giulio Maccacaro – è chiaro che il riconoscimento della NON neutralità della scienza non potrebbe avere in Marx una espressione più precisa e più vigorosa di questa.

“La scienza dunque è null’altro che un modo di essere del potere o meglio è comprensibile e leggibile solo nell’ottica della dialettica dei poteri. La borghesia ha fondato a un certo punto della sua nascita, una nuova scienza per abbattere il potere feudale e la scienza è stata allora liberatrice nella misura in cui ha posto, nei confronti di un potere egemone (in quel momento storico era il potere feudale), la domanda di potere di un’altra componente sociale che veniva nascendo e che era la borghesia. La borghesia, naturalmente, ha poi utilizzato e continua più che mai a utilizzare la scienza come strumento della sua conservazione; così fa ogni potere che tende a conservare se stesso. Ora, se questa è l’operazione che ha fatto la borghesia, questa è l’operazione che dovrà fare il proletariato e cioè a sua volta il proletariato dovrà fondare una nuova scienza per abbattere il potere borghese”. (Giulio A. Maccacaro, in “L’uso di classe della medicina”, Modena, 25 febbraio 1972).((Giulio A. Maccacaro. “Per una medicina da rinnovare – Scritti 1966/76”, pagg. 408 – 409, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1979.))

Al di là delle peculiarità dei tempi – [ovvero delle molteplici difficoltà che oggi la classe operaia – intesa nella sua più estesa accezione, caratterizzazione e composizione sociale – deve affrontare nelle mutate e sfavorevoli condizioni sociali, culturali e politiche per perseguire e conseguire obiettivi di liberazione del lavoro dallo sfruttamento e, in primis, per affermare la salute, la sicurezza e l’igiene del lavoro, l’ambiente salubre, e cioè i diritti umani, nei luoghi di lavoro e in ogni altro dove] – qui si è insistito nel richiamare alcuni concetti, anche se più d’uno potrà considerarli datati, perché ci appaiono nel loro più profondo significato non meno attuali di allora. Infatti, nell’esperienza maturata tali concetti rappresentano, in una certa misura e schematizzazione, dei semi dai quali si sono sviluppate riflessioni che hanno così arricchito un percorso politico collettivo contribuendo a tracciare un orizzonte culturale nel quale i soggetti sociali hanno dato vita a Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute.

In altri termini, tali riflessioni si possono considerare parte di una “griglia culturale” attraverso la quale negli anni ’60 si muoveva non più su posizioni difensive il Movimento di lotta per la salute in fabbrica e in ogni dove della società.

Alla luce delle “nuove filosofie” dilaganti nelle cosiddette società post-industriali, e, segnatamente, in Italia a partire dagli ultimi anni ’70, tese ad offuscare (o addirittura a negare) esistenza, antagonismo e conflitti di classe fra capitale e lavoro, ci è sembrato utile richiamare alcuni concetti e discriminanti culturali e politiche, per contestualizzare e collocare questo contributo in un certo orizzonte.

Senza tacere che l’aggressività del padronato((Uno spaccato di questa aggressività padronale è ben rappresentato dalle dichiarazioni rilasciate a metà degli anni ’80 dal prof. Felice Mortillaro, allora consigliere delegato di Federmeccanica, l’associazione delle aziende metalmeccaniche italiane del settore privato, che, di fronte ad una scelta platea, composta da una cinquantina di dirigenti di azienda, ha affermato: “Nelle fabbriche italiane è stato finalmente reintrodotto quel sano strumento psicologico che è la paura”. E, andando oltre, questo paladino del padronato italiano, rincarava la dose: “Le epidemie furono provvidenziali per garantire lo sviluppo della nascente rivoluzione industriale. La peste ha eliminato i più deboli…” (cfr. il Manifesto, quotidiano del 24.05.1985). Ponendo mente che la moderna peste, oggi come allora, è la disoccupazione e che le epidemie italiane sono (state) gli accordi sindacali FIAT (1980), Montedison (1981), Alfa Romeo (1982) e via via quelli che sono seguiti, con i quali dalle fabbriche (e non solo da esse!) sono stati/e espulsi/e a migliaia e migliaia uomini e donne ammalati/e, anziani, nonché coloro che si erano impegnati/e sindacalmente e politicamente per affermare i diritti sanciti dalla Carta Costituzionale e dallo Statuto dei Diritti dei Lavoratori e delle Lavoratrici e, in primis, i diritti sindacali, al lavoro e alla salute, ci si rende conto del sinistro significato che il padronato dava e dà a “quel sano strumento psicologico che è la paura”. Se possibile, ciò è ancor più grave perché è avvenuto e avviene con il pratico consenso delle organizzazioni sindacali, le eccezioni confermano la regola. (Uno spaccato di questa repressione e discriminazione padronale attuate contro le lavoratrici ed i lavoratori attraverso gli accordi sindacali si può ricavare dalla lettura del Quaderno monografico n° 1 della rivista di Diritto “Lavoro ‘80”, che affronta il “Caso Alfa Romeo: sindacato e diritti individuali”, Milano 1982).)) – messa in campo ben prima della caduta del muro di Berlino e della cosiddetta globalizzazione della finanza e dei mercati – dalla seconda metà degli anni ’70, in un continuo crescendo ha portato la devastazione nelle fila della Classe Operaia della quale portano enormi responsabilità la sinistra sindacale e politica nostrana – [aggressività e devastazione che non sono oggetto di questo intervento, ma che chi scrive ha ben presente avendole vissute sulla propria pelle assieme ad altre centinaia di compagni/e della Montedison di Castellanza (VA)((Senza fare la storia, ci si limita a ricordare che dalla metà degli anni ’70 la realtà operaia della Montedison di Castellanza, e più in generale quella italiana, è stata sottoposta ad una continua e spietata aggressione padronale, sfociata all’inizio degli anni ’80 – in presenza di un governo che si proclamava a presidenza socialista! – in una decimazione dell’organizzazione operaia di fabbrica: una moltitudine, a migliaia per volta, di lavoratrici e di lavoratori è stata espulsa dai luoghi di lavoro ed in primis dalle fabbriche per rappresaglia politica e per discriminazione psico-fisica. Infatti, furono colpiti/e coloro che in quegli anni si erano impegnati/e in prima persona nelle lotte per affermare la dignità di ogni lavoratrice e di ogni lavoratore ed i loro diritti inviolabili al lavoro, alla salute, alla sicurezza e all’igiene del lavoro, a un ambiente salubre all’interno ed all’esterno della fabbrica; in altri termini per affermare il rigoroso rispetto dei diritti umani e la democrazia nella sua più estesa accezione.))].

Contrariamente alla vulgata corrente, l’esperienza che si illustrerà e le posizioni in essa maturate, a parere di chi scrive mantengono la loro validità di fondo, perché sono frutto della ricerca, dell’elaborazione, della proposta e della lotta praticata a livello di massa nell’arco di decenni dal Movimento operaio italiano in migliaia di realtà di fabbrica, seppur con diversi gradi di elaborazione e risultati conseguiti da realtà a realtà; qui si fa riferimento alla parte migliore di esse.

Superfluo dire, che le posizioni che esporremo, oggi come allora, debbono essere sottoposte continuamente a critica e verifica nella realtà data. Si tratta di un nodo cruciale ineludibile nella costruzione della scienza del lavoro attraverso la realizzazione del corretto rapporto fra Gruppo Operaio e Tecnici (qui si leggano: ricercatori e studiosi delle diverse discipline mediche, ambientali, sociali, scientifiche e tecniche): un terreno sul quale è maturata l’elaborazione e l’esperienza operaia di lotta per affermare la salute in fabbrica e nella società nella sua più estesa accezione. E qui è nato l’incontro fra la realtà operaia della Montedison di Castellanza e Giulio A. Maccacaro((Dalla fine degli anni ’60 e, soprattutto, negli anni ’70 sono state molteplici le iniziative sul campo, ovvero all’interno ed all’esterno della fabbrica, condotte da Giulio A. Maccacaro con il Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale del Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellanza (VA). Per brevità e per restare a questa realtà operaia, qui ci si limita ad accennare ad alcune indagini ambientali e sanitarie condotte con i lavoratori e le lavoratrici delle fabbriche dei diversi settori merceologici (es. industrie tintorie, meccaniche, chimiche, delle materie plastiche, calzaturiere), nonchè all’elaborazione di programmi e materiale “didattico” per “corsi” di informazione e formazione sui temi della prevenzione dei rischi e delle nocività presenti nei cicli produttivi e come prevenirli; corsi svolti per un triennio, con cadenza bisettimanale, alla sera, dopo l’orario di lavoro presso il Centro per la Salute di Castellanza autogestito dai lavoratori della Montedison, ai quali partecipavano operai/e di decine di Consigli di Fabbrica delle province di Varese, Milano e Como, nonchè studenti e cittadini interessati ai temi della salute e della prevenzione dei rischi in fabbrica e nel territorio.)), che, assieme a molti altri/e, hanno dato vita a Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute.((La mozione è stata pubblicata sul numero zero della omonima rivista Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute, pagg. 2 e 3, Aprile 1976.))

Difendere oggi – [in presenza di una profonda crisi socio-economica, culturale e politica e di un violento attacco al Movimento operaio e, in primis, nei confronti dei migranti, nonché allo stato di diritto ed ai fondamenti della stessa democrazia] – i capisaldi della elaborazione del Movimento di lotta per la salute nella sua espressione più matura, non significa riproporre meccanicamente categorie, analisi e strumenti di intervento di allora, ma, attraverso la loro attualizzazione, ribadire a chiare lettere il rifiuto di una pretesa neutralità della scienza e della tecnica, dei processi produttivi e dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della società da esse derivati.

Incontro e confronto fra protagonisti sociali diversi che fu lucidamente elaborato e praticato da Giulio A. Maccacaro assieme a un gruppo di studiosi e intellettuali che ne condividevano gli obiettivi di fondo di critica della scienza, attraverso analisi, riflessioni ed esperienze che, in particolare, troveranno espressione sulle pagine della rivista scientifica Sapere. Infatti, il progetto di questa rivista elaborato da Giulio Maccacaro prevedeva esplicitamente l’attivazione di fonti diverse da quelle tradizionali, attraverso il costante riferimento alla esperienza dei protagonisti delle realtà sociali e produttive (quelli che, nell’editoriale del primo numero della nuova serie di Sapere, venivano definiti “operai della scienza”), attraverso la contestazione di quelle spesse cortine di segreto che circondano i luoghi di produzione della scienza e i processi nei quali vengono utilizzati i prodotti della ricerca. Per esempio, è grazie a questo lavoro comune fra Gruppo operaio e Tecnici che, a fronte del crimine industriale di Seveso, si è riusciti a realizzare la ricostruzione del ciclo produttivo, l’organizzazione del lavoro che ad esso presiedeva, la caratterizzazione sociale degli operai addetti a quelle produzioni tossiche e pericolose (di Triclorofenolo con la sua intrinseca contaminazione di diossine, nonché di altre sostanze tossiche), ad evidenziare l’assenza sugli impianti dei più elementari sistemi di prevenzione dei rischi e di sicurezza, a focalizzare le modifiche di processo che erano state introdotte dalla multinazionale per aumentare la produttività specifica nel reattore adibito alla produzione di Triclorofenolo, il tutto a scapito della sicurezza del e nel lavoro e del processo… ad individuare cause e responsabilità (anche politiche, tecniche ed amministrative ad ogni livello) che, il 10 luglio 1976, avevano provocato il crimine industriale a Seveso presso lo stabilimento ICMESA della multinazionale svizzera Hoffmann La Roche: un lavoro rigoroso, che trova riscontro nella pregnante monografia “Seveso: un crimine di pace”, divenuta famosa anche a livello internazionale e pubblicata sul fascicolo di Novembre-Dicembre 1976 della rivista Sapere diretta da Giulio Maccacaro.((Per una visione approfondita di questa problematica, si veda la monografia: “SEVESO: un crimine di pace”, Sapere, n° 796, novembre-dicembre 1976, edizioni Dedalo. A proposito della costruzione del corretto rapporto fra Gruppo operaio e Tecnici, nell’introduzione a questa monografia, così scriveva Giulio A. Maccacaro: <<Il tempo e il colpevole. Se ciò che è accaduto all’ICMESA il 10 luglio 1976 fosse stato imprevedibile e, ove prevedibile, imprevenibile ma altamente improbabile, l’alibi dell’incidente potrebbe ancora essere giocato. Ma se l’evento era probabile, prevedibile e prevenibile e ha potuto verificarsi, cade l’alibi e il delitto si scopre. Per sciogliere questo dilemma bisogna conoscere bene che cosa si faceva all’ICMESA ed in particolare, ma non soltanto, nel reparto B dove è esploso il reattore. Bisogna andare ben oltre un trattato di chimica dove è impassibilmente descritta con rigore di conti e corredo di formule la sintesi dei triclorofenoli (TCF) per varcare la soglia della fabbrica e calarsi nella realtà della produzione, nelle mansioni dei lavoratori, nell’avvicendamento dei turni, nella struttura degli impianti, nella segnaletica dei controlli, riconoscendo il sibilo della nocività, il martellare dei rischi, le premesse dell’infortunio. Bisogna allora compiere l’invalutabile lavoro di cui è data relazione nel primo articolo, ad opera del Gruppo di prevenzione e igiene ambientale del Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellanza, con la collaborazione di Bruno MAZZA e Vladimiro SCATTURIN, per capire il modo di produzione ICMESA, anche rispetto ai brevetti onde derivava i suoi procedimenti, fosse connotato da una serie di varianti tutte rivolte ad accrescere la “produttività specifica” del sistema e, quindi, il profitto del capitale: ciò, mettendo cinicamente in essere una diminuzione del volano termico quando già inadeguato era il controllo strumentale, un incremento della produzione di diossina (TCDD) come contaminante del TCF, una aumentata probabilità di reazioni esotermiche incontrollabili fino all’esplosione. E per capire, anche, come quanto è accaduto fosse prevedibile e prevenibile ma non sia stato nè prevenuto nè previsto dai padroni intenti a spremere un’altra goccia di profitto e nemmeno dai lavoratori esclusi dalla conoscenza tecnica e scientifica che sta col capitale per consegnargli anche la salute loro e quella della popolazione sulle cui teste – estrema efferatezza del delitto – si apre infine una valvola che avrebbe dovuto scaricare in un contenitore di sicurezza. Per capire, ancora, come contro tutto ciò e tutto quanto è rapina di salute e di vita, in nome delle cosiddette esigenze della produzione capitalistica cui una scienza separata e asservita offre patenti di oggettività, non c’è che l’opposizione di una soggettività operaia e popolare capace di imporre la sua egemonia, in un nuovo modo di fare scienza e far tecnica, per quella autogestione delle condizioni di lavoro e di vita che è autogestione della salute. Perchè a noi sembra ben chiaro che ove questa manchi – come è mancata a Meda, a Seveso, e dintorni e in innumeri altri altrove – non ci sono garanzie legali e istituzionali poste a tutela della salute umana e ambientale che non si lascino curvare agli interessi del potere che, in una società come la nostra e in tutti i casi come questo, è una metafora del padronato. Per tale diagnosi c’è una lunga anamnesi: che annovera i silenzi, le omissioni, le latitanze, le diserzioni, le impassibili inerzie di quanti, lungo almeno un settennio – tale è il tempo di premeditazione del delitto ICMESA – potevano e dovevano ma non vollero o non seppero intervenire pur vestendo ruoli tecnici e scientifici, giudiziari e amministrativi.>> (Cfr. pagg. 5 e 6 della monografia cit.).))

A proposito di scienza, salute, ambiente e delle esperienze maturate con Giulio Maccacaro((Giulio A. Maccacaro è deceduto improvvisamente e prematuramente, all’età di 54 anni, sabato 15 gennaio 1977, presso l’Istituto di Biometria e Statistica Medica dell’Università degli Studi di Milano, da Lui fondato e diretto, mentre stava presentando il numero zero della Sua ultima fatica, la fondazione della rivista di Epidemiologia e Prevenzione. Giulio Maccacaro era sempre con i lavoratori e gli studenti, presenti anche quel tragico giorno, ed essi dando notizia della Sua scomparsa nei cartelli affissi nei corridoi dell’Istituto dei Tumori di Milano, che ospitava l’Istituto di Biometria, scrissero: <<Sabato mattina a seguito di infarto è morto il Prof. Giulio Maccacaro! Uomo di grande cultura e scienza, non utilizzò la posizione di docente, presso l’Istituto di Biometria, per conquistare facili privilegi. Mise invece la Sua grande intelligenza e conoscenza scientifica al servizio dell’interesse di tutti i lavoratori. Il Suo impegno sociale gli costò tempo, energie, denaro, che con estremo disinteresse metteva al servizio di iniziative sociali come l’impegno per la Medicina Sociale e Preventiva e la fondazione di autorevoli riviste. I lavoratori e le lavoratrici democratici Lo ricordano commossi e orgogliosi che un Uomo simile abbia scelto di stare con loro. Maccacaro vivrà nella nostra lotta!>>.)) e con molti/e altri/e nella fondazione di Medicina Democratica e nell’elaborazione del suo progetto di intervento, va ricordato che esso ha avuto ed ha come principali soggetti il Gruppo Operaio e i Tecnici nell’accezione sopra accennata: non a caso Medicina Democratica è nata da una mozione del Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale del Consiglio di Fabbrica della Montedison di Castellanza (VA)((La mozione in questione aveva significativamente al suo centro: la “non delega della salute ai tecnici”; la “preminenza della soggettività operaia”; la “validazione consensuale dei dati tecnici strumentali (ambientali e clinici) da parte del Gruppo Omogeneo di Lavorazione”; il “rifiuto della monetizzazione della nocività e del rischio, con la fermata degli impianti nocivi per la loro bonifica, mantenendo integra la retribuzione e l’occupazione operaia”; la “centralità e significatività politico-scientifica del Gruppo Operaio Omogeneo come unità di base per lo studio, la ricerca e la lotta contro la nocività dentro e fuori la fabbrica”… . Per il testo integrale della mozione si veda il numero zero della omonima rivista Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute, pagg. 2 e 3, Aprile 1976.)) presentata all’inizio degli anni ’70 in un memorabile convegno nazionale sui temi della prevenzione dei rischi e delle nocività in fabbrica, svoltosi nell’aula magna dell’Istituto di Biometria e Statistica Medica dell’Università degli Studi di Milano diretto da Giulio Maccacaro, con la partecipazione di centinaia di delegati di fabbrica, studenti, ricercatori, tecnici, operatori della sanità e dell’informazione, intellettuali, rappresentanti di comitati, associazioni e movimenti impegnati sul terreno della salute e dell’ambiente. Un progetto teso ad affermare la salute nella sua più estesa accezione dalla fabbrica ad ogni dove della società, da verificare e aggiornare continuamente nella realtà e che si è arricchito nel tempo attraverso l’attività concretamente svolta lungo un percorso snodatosi dalla fine degli anni Sessanta ai nostri giorni attraverso la promozione di ricerche, la conduzione di indagini sanitarie, ambientali, epidemiologiche e socio-culturali e con la definizione di obiettivi perseguiti e supportati dalla partecipazione diretta e dalle lotte dei soggetti dell’esperienza, i lavoratori e le lavoratrici in fabbrica e la popolazione autoorganizzata sul territorio; iniziative incentrate sulla prevenzione dei rischi e delle nocività lavorative ed extra-lavorative, e cioè finalizzate al miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita e, quindi, ad affermare la salute: uno spaccato di questo rinnovato progetto culturale, ancor prima che politico, lo si ritrova anche negli atti dell’ultimo Congresso nazionale di Medicina Democratica svoltosi nel 2008.((

11. Medicina Democratica è più che mai attiva; il suo ultimo Congresso nazionale, con una lucida scelta politica si è tenuto al sud, a Brindisi nei giorni 17, 18 e 19 ottobre 2008, sulle seguenti tematiche: <<La salute dell’uomo e il futuro del pianeta>> e <<Il lavoro uccide>>. Per informazioni e approfondimenti sul Congresso e sui temi affrontati nei Gruppi di lavoro, nonchè sugli impegni e gli obiettivi congressuali scaturiti da perseguire con le necessarie iniziative di mobilitazione e lotta, si vedano i fascicoli nn. 177/179 e 180/182 della rivista Medicina Democratica. Un dibattito congressuale che ha affrontato temi di fondo (qui solo accennati) quali: il Diritto alla Salute, che deve essere garantito ad ogni persona, migranti “clandestini” compresi, e che non può e non deve mai essere una merce; i Diritti senza barriere e la “Salute mentale”; la Salute della Donna, problematica affrontata naturalmente dal Gruppo di Lavoro delle Donne, a partire dal pensiero della differenza; il Lavoro, che – (non dovrebbe! ma) – continua ad uccidere con una terrificante cadenza quotidiana che pone la necessità inderogabile di promuovere iniziative e lotte a partire dalle fabbriche e dal territorio per spezzare questa nefasta catena, affermando nel concreto la prevenzione dei rischi e delle nocività in ogni dove; il Diritto all’Ambiente salubre contro l’inquinamento e la devastazione del territorio e dei suoi ecosistemi [temi che, nello specifico, hanno riguardato la laguna di Venezia e l’opposizione al M.O.S.E. per il suo pesante impatto ambientale; l’area di Taranto fortemente inquinata, diossine comprese, dalle emissioni, dai reflui e dalle scorie tossiche scaricati nell’ambiente dagli impianti dell’acciaieria ILVA/Riva]; il Diritto universale alla Pace, da costruire perseguendo obiettivi di lunga lena quali la drastica riduzione delle spese militari, sino al loro azzeramento, la netta opposizione all’ampliamento delle basi militari – [si ricordano per tutte le lotte dei movimenti popolari: No Dal Molin a Vicenza; No F35 a Cameri (NO); contro le basi di Aviano (PN), Ghedi (BS) e della Sardegna, nonché quelle per eliminare le servitù militari che gravano su vaste aree del Paese] – premessa per giungere alla loro chiusura, la riconversione dell’industria militare a produzioni civili e, soprattutto, il ripudio di ogni guerra come sancito dall’art. 11 della Costituzione; il rigoroso rispetto dei Diritti Umani, in primis dei migranti, ivi compreso il Diritto di asilo per gli esuli politici, la netta opposizione alle leggi Bossi/Fini e ai decreti razzisti sulla cosiddetta sicurezza; il Diritto di Informazione costituzionalmente tutelato, che non può e non deve essere limitato in quanto costituisce un elemento fondante di ogni democrazia degna di questo nome; il NO alla produzione di energia elettro-nucleare ed il pieno sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili; il Diritto all’Acqua e alla sua incontaminazione e la lotta per la ripubblicizzazione dei servizi di questo indispensabile bene comune; il ruolo dei Movimenti, che rappresentano l’ “ossigeno della democrazia” – [e il loro fondamentale rifiuto: del nucleare; degli OGM; dell’incenerimento di rifiuti, scorie e residui civili e industriali di ogni tipo; delle produzioni di morte e, in primis, le armi e le sostanze tossiche, cancerogene, mutagene, teratogene, per limitarci ad alcune lotte da tempo condotte in molteplici realtà) – per la promozione della partecipazione (e dell’autodeterminazione) dei singoli e della collettività alla vita pubblica ad ogni livello (culturale, sociale, politico), per il cambiamento generale della società.

Il dibattito non ha neppure eluso una delle domande fondamentali: Per un futuro sostenibile, quale crescita?

Infatti alla generale lamentela sul lungo periodo di ristagno o contrazione a livello del PIL che connota il dibattito del Paese, si è contrapposta la necessità di un diverso paradigma indicatore del “benessere”, che abbia al suo centro uno sviluppo “senza crescita” (*) di queste merci e di questi consumi (di questo PIL!), che privilegi la qualità (dell’ambiente e della vita) sulla quantità, finalizzando la produzione – (ed i servizi socio-sanitari-assistenziali e culturali) – primariamente al soddisfacimento dei bisogni fondamentali della persona e alla qualità dell’ambiente naturale e sociale.

Una svolta così radicale è imposta dai limiti che l’ambiente presenta al processo di crescita e di estensione all’intero globo terrestre del modello produzione/consumo che contrassegna le società capitalistiche occidentali. [(*) Per un inquadramento di questo concetto si invitano le lettrici ed i lettori a consultare le opere di Ivan Illich La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo (Red edizioni, Como, 1993: 1° ed. it. Mondatori, Milano, 1974) e di Wolfgang Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1998].)) Di qui la scelta di far ruotare queste note sul tema del corretto rapporto fra Gruppo Operaio e Tecnici di cui si è già accennato, nonché sul ruolo della soggettività e del sapere operaio nella costruzione della scienza del lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, a fronte di un’informazione negata, ma dovuta anche per legge alle operaie e agli operai (e non solo ad essi).((L’art. 4 del D.P.R. n° 547/1955 e l’art. 4 del D.P.R. n° 303/1956 prescrivono tassativamente che il datore di lavoro deve informare le lavoratrici ed i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e come prevenire i danni derivanti dagli stessi.)) Non v’è dubbio che di questa mancata informazione, così come dell’assenza di azioni atte a prevenire i rischi insiti nei cicli di produzione/lavorazione, così come in ogni altra attività lavorativa, portano totale e grave responsabilità le aziende, ma anche le istituzioni ad ogni livello, i medici, soprattutto quelli di fabbrica e i tecnici (le eccezioni, pur lodevoli, confermano la regola).

Non so se la trattazione di queste problematiche che, in particolare, sono state dibattute, elaborate e concretamente affrontate a suo tempo dalla realtà operaia della Montedison di Castellanza con Giulio Maccacaro e che fanno parte del patrimonio culturale di Medicina Democratica rispondano, in qualche misura, alle attese del Curatore di questa pregnante monografia di PRISTEM/STORIA – Note di Matematica, Storia, Cultura: una iniziativa culturale benvenuta, dato che da molto tempo è stata tolta la parola ai “protagonisti” dell’esperienza. Pertanto, queste note rappresentano un contributo teso a (ri)portare l’attenzione sulla condizione operaia, più che mai necessaria in tempi bui caratterizzati da un diffuso analfabetismo sociale, a tacer d’altro.

1. Attualita’ del corretto rapporto fra gruppo operaio e tecnici

La costruzione del corretto rapporto fra gruppo operaio e tecnici, secondo l’accezione data, è di estrema attualità, nonostante il tema sia ignorato dal dibattito politico-culturale in atto nel Paese. Non si pensi a forzature. Infatti, a parere di chi scrive, la (ri)costruzione di tale corretto rapporto oggi è ancor più necessaria di ieri, proprio alla luce delle mutate condizioni nelle quali versa la classe operaia, per molti aspetti disastrose e caratterizzate da continue aggressioni di padronato e governo ai diritti fondamentali – al lavoro, a un salario dignitoso, alla salute, alla sicurezza e all’igiene del lavoro, all’esercizio dei diritti sindacali, ovvero all’affermazione dei diritti umani.

Questa problematica, al centro dell’iniziativa, delle lotte e dell’elaborazione operaia della fine anni Sessanta e degli anni Settanta è stata, poi, osteggiata e rimossa sotto i venti di una “cultura” reazionaria e fortemente gerarchizzata: “Ognuno ritorni al suo posto”; l’operaio nella fabbrica frammentata e ristrutturata a fare l’operaio, il tecnico nella scuola e nella società a svolgere la propria professione all’interno dei margini angusti di una specializzazione sempre più parcellizzata: oggi entrambi i soggetti in gran parte sono costretti a svolgere un lavoro precario (stanno lì a ricordarcelo milioni di uomini e donne che svolgono lavori precari, con salari di fame, senza diritti, in fabbrica, nella scuola, università compresa, nella pubblica amministrazione, nei centri di ricerca e in molteplici altri settori).

Se possibile, tale rimozione è ancor più grave a livello scientifico, culturale e politico, se si pone mente al fatto che attraverso questa tematica e con le sue lotte il movimento operaio italiano aveva coinvolto, informato e formato un gran numero di tecnici (uso questo termine non in senso stretto e specialistico, ma in senso lato; per tecnici intendo tutti/e coloro che partecipano al processo di produzione e di trasmissione scientifica e tecnica).

Per esempio, mentre in Italia avveniva questa rimozione, paradossalmente, in altri Paesi tale materia diveniva oggetto di studi e ricerche.

Per tutti ricordo la rigorosa e documentata ricerca condotta da Michael R. Reich. PhD. and Rose H. Goldman. MD. MPH – “Italian Occupational Health: Concepts, Conflicts, Implications”, illustrata attraverso un ampio saggio pubblicato dall’autorevole “American Journal of Public Health” nel settembre 1984 (vol. 74, n° 9, pp. 1031 – 1041).

Questa esigenza di (ri)costruzione di un corretto rapporto fra gruppo operaio e tecnici, ovviamente, non va intesa o limitata ai soli soggetti che operano ed interagiscono direttamente con la fabbrica.(( I tecnici che si intendono coinvolgere nella costruzione del corretto rapporto con il Gruppo Omogeneo, non sono solo coloro che , come già detto operano nei campi della scienza e della tecnologia che hanno maggiori affinità e attinenza con i problemi della salute e dell’ambiente (medico, biologo, tossicologo, ingegnere sanitario, geologo, biostatistico, chimico— fisico del lavoro, igienista industriale, ergonomo, epidemiologo, ecologo, etc. ), ma anche studenti, operatori culturali e sociali. Al riguardo, fra i possibili esempi di costruzione di questo peculiare rapporto, ricordiamo, per esempio, i corsi svolti — come docente collettivo — dal “Gruppo di Prevenzione e Igiene Ambientale” (G.P.I.A.) delle Lavoratrici e dei Lavoratori della Montedison di Castellanza (VA) sui temi della prevenzione, della sicurezza e dell’igiene del lavoro, con gli studenti delle classi III, IV e V periti chimici dell’Istituto Tecnico Statale di Busto Arsizio, negli anni scolastici 1984—1985 e 1985—1986.

Tali corsi, oltre ad aver coinvolto attivamente gli studenti e i loro docenti , hanno inoltre chiarito che per affrontare i problemi della nocività e del rischio insiti nei cicli chimici, nella ricerca e sperimentazione, è indispensabile superare la didattica monodisciplinare.

La nocività e il rischio e le problematiche ambientali – (la prevenzione, ovvero la progettazione del NON—inquinamento, così come quelle per il disinquinamento/bonifica) – vanno affrontate in modo collettivo ed interdisciplinare. Nell’esperienza in oggetto le lezioni avevano al loro centro aspetti e problemi non previsti nei correnti programmi di chimica per istituiti tecnici superiori. Infatti sono stati affrontati quegli aspetti che caratterizzano e lo differenziano dal semplice studio di formule e schemi sui libri di testo, cosa utile anch’essa ma insufficiente a comprendere la realtà e la materialità con cui si realizza un processo chimico, le condizioni di lavoro di chi vi opera e quello della popolazione che attorno agli impianti vive.

I corsi hanno avuto un positivo e notevole impatto tra gli studenti ma anche fra il corpo insegnante. Quest’ultimo si è spaccato fra chi era favorevole e chi contrario all’iniziativa. Insomma si è realizzato un confronto vero e dialettico fra gruppo operaio “docente”, studenti e insegnanti tradizionali, cosa utile alla costruzione del corretto rapporto di cui si discorre. ))

In questa sede tratterò delle caratteristiche e delle peculiarità di questo rapporto, non solo per la sua originalità, le sue implicazioni scientifiche e culturali e per l’esperienza che ho direttamente maturato, ma, soprattutto, perchè attraverso di esso l’elaborazione e le lotte operaie (e dei tecnici) hanno tratto un fecondo alimento – frutto dell’affermarsi della soggettività operaia, delle sue nuove forme di autoorganizzazione e di pratica della democrazia diretta – riuscendo così ad individuare e a conseguire obiettivi che hanno messo concretamente in discussione i meccanismi e gli assetti di potere in fabbrica come nella società.

E, come è noto, la messa in discussione del potere produce cultura e alimenta conoscenze. Ad esempio, in Italia, nel decennio 1968 – 1977, il movimento operaio ha promosso e realizzato una vastissima ricerca “non disciplinare” sui temi della nocività e dei rischi insiti nell’ambiente di lavoro e nella sua organizzazione cosiddetta scientifica; sviluppando così un invalutabile patrimonio di conoscenze tecnico-scientifiche, e non solo di esse.

Solo in minima parte queste conoscenze hanno trovato una loro formalizzazione e socializzazione: ciò è avvenuto solo per l’impegno e le capacità profuse dai gruppi operai interessati e dai tecnici disponibili a sviluppare – attraverso il corretto rapporto – ricerche congiunte finalizzate all’affermazione della salute, della sicurezza e igiene del lavoro, nonchè dell’ambiente salubre. (Per tutti ricordo scienziati rigorosi e compagni a me carissimi come Giulio Maccacaro, Franco Basaglia, Hrayr Terzian, scomparsi prematuramente).

Al contrario l’accademia, le altre articolazioni del potere, le forze di governo e, duole dirlo, le forze della sinistra sindacale e politica, prima hanno osteggiato e boicottato in modo strisciante tale processo – di costruzione delle nuove scienze del lavoro, della salute, dell’ambiente salubre – poi, in forma sempre più scoperta, lo hanno impedito fino a sancirne la sua morte con la sconfitta operaia degli anni Ottanta. [Si leggano gli accordi sindacali FIAT 1980, Montedison 1981, Alfa Romeo 1982 e via via gli altri. Accordi attraverso i quali il padronato ha portato una violenta devastazione nelle fila della classe operaia, con l’espulsione dai luoghi di lavoro di migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori ammalate/i, anziane/i, invalide/i, nonchè attraverso una discriminazione “scientifica” politico-sindacale di altre migliaia di loro compagne/i di lavoro che si erano battute/i in prima fila per affermare la salute, migliori condizioni di vita e di lavoro contro ogni discriminazione, in una parola per affermare la democrazia nella sua più estesa accezione in fabbrica e nella società].

Va ancora sottolineato che il movimento operaio italiano nel decennio 1968 – 1977, attraverso le lotte, le esperienze e le conoscenze in esse maturate ha saputo elaborare e sviluppare una cultura radicalmente originale della prevenzione dei rischi e delle nocività tesa ad affermare la salute, che ha permeato gran parte della società, dalla scuola al Parlamento (si vedano, per esempio, l’esperienza delle “150 Ore” e, pur con tutti i limiti, i principi e gli obiettivi sanciti con la promulgazione della Legge 23 dicembre 1978, n° 833, la cosiddetta riforma sanitaria).

Una cultura della salute che aveva ed ha al suo centro l’affermazione del RISCHIO ZERO, e cioè l’esposizione nulla per l’uomo, la donna e l’ambiente ai rischi e agli agenti tossico-nocivi.

Nello stesso periodo questa cultura e lotta operaia hanno saputo tradursi in una concreta politica della prevenzione e della salute, fatta di interventi mirati di bonifica dei cicli produttivi, di risanamento dei luoghi di lavoro e dell’ambiente che, pur con gradi diversi, ha interessato la generalità delle fabbriche italiane.

Senza qui fare la storia, va altresì evidenziato che questo processo non lineare e percorso da contraddizioni politiche, ha investito in profondità non solo la fabbrica (gerarchie, condizioni e orario di lavoro, ritmi, carichi di lavoro e organici, mansioni, qualifiche e salario, servizi sociali, ecc.), ma anche la scuola, già percorsa da vaste lotte studentesche, così come gli altri comparti della società, provocando radicali cambiamenti; e ciò è stato caratterizzato dalla partecipazione di massa, come soggetti, di milioni di lavoratrici, di lavoratori e di studenti. Quindi un fatto enorme, di portata storica per la democrazia del Paese.

Al centro di tale processo il movimento operaio italiano ha posto discriminanti e valori nuovi, forme originali di autorganizzazione e di pratica della democrazia diretta come:

a) – l’espressione e l’affermazione — con la lotta — della soggettività operaia da parte del Gruppo Omogeneo di Lavorazione (G.O.L.).

b) – L’affermazione del principio della “non delega”.

c) – Il rifiuto di ogni forma di monetizzazione della nocività e del rischio e la lotta per la loro eliminazione.

d) – Il primato del giudizio soggettivo del Gruppo Operaio Omogeneo sulle proprie condizioni di lavoro (affermazione del rischio zero) e negazione della validità scientifica dei valori di esposizione MAC (Maximum Allowable Concentration) e TLV (Tehreshold Limit Value) stabiliti dagli igienisti per gli ambienti di lavoro.

e) – L’autoinchiesta come strumento di studio e ricerca, di iniziativa politico—sindacale e per l’individuazione dei fattori di rischio e di nocività dell’ambiente, laddove i tecnici vengono ad assumere un ruolo ben diverso rispetto al passato (da soggetti che predeterminano i parametri di riferimento a soggetti esperti che sono chiamati dal “gruppo omogeneo” le cui conoscenze specialistiche vengono messe in discussione e devono comunque trovare una validazione da parte degli interessati).

f) – La “validazione consensuale” dei dati tecnici e scientifici (ambientali, sanitari e socio—culturali) espressa soggettivamente da parte del Gruppo Omogeneo di Lavorazione partecipe di una data indagine.

g) – L’autoorganizzazione operaia fondata sui Consigli di Fabbrica (C.d.F.) articolati per Gruppi Omogenei di Lavorazione, in cui tutti i componenti sono elettori ed eleggibili su scheda bianca come delegati/e che, a loro volta, sono revocabili in qualsiasi momento dal 50% più uno da parte dei membri del Gruppo Omogeneo interessato.

h) – L’Assemblea di “Gruppo Omogeneo”, di reparto (costituita da uno o più gruppi) e di fabbrica, come organo sovrano e decisionale delle volontà delle lavoratrici e dei lavoratori di una data realtà.

i) – L’egualitarismo inteso sia come valore etico che come obiettivo da perseguire per realizzare una politica dinamica – non solo salariale e normativa – tesa a liberare il lavoro dallo sfruttamento e dall’alienazione. Spinta egualitaria che è stata il contenuto fondamentale di tutte le lotte dal ’68 studentesco e dal ’69 operaio in poi, senza limitarsi ad un egualitarismo salariale che è una vecchia aspirazione e sulla quale sono quasi sempre naufragate tutte le utopie; e che invece cercava di andare al fondo del modo di produrre, e di come sul lavoro si creano le disuguaglianze. Di qui è partita una feconda riflessione, che andava ben oltre la fabbrica e che è arrivata, nei suoi momenti migliori, a centrare il problema più generale dei ruoli e delle gerarchie nella società.

Quindi, non appiattimento verso il basso, come rozzamente sostenuto prima dal padronato e, poi, anche dai sindacati.

In materia di prevenzione dei rischi e delle nocività e di promozione della salute — temi sui quali incentrerò questo intervento — anche all’esterno della fabbrica, i concetti quali quelli del Gruppo Omogeneo, della “soggettività operaia”, della “non delega”, del rifiuto della monetizzazione della nocività e del rischio, del “rischio zero” e della non accettazione e negazione della scientificità dei MAC o TLV che dir si voglia, della “validazione consensuale”, dell’autoinchiesta rappresentano “nodi” centrali del dibattito e della riflessione degli anni Settanta e, soprattutto, di quelli a cavallo della legge n. 833/1978, cosiddetta di riforma sanitaria. Certo è che il movimento operaio, con l’approccio qui sintetizzato, rovesciò completamente i termini del problema in base ai quali si era tradizionalmente affrontato il rapporto ambiente/lavoro; avanzò alcune proposte “forti” anche dal punto di vista scientifico (pur se alcuni si ostinano tuttora a non riconoscerle come tali) che furono in seguito estese ad altri temi e problemi (si pensi all’utilizzo del concetto di gruppo omogeneo nell’affrontare i temi della prevenzione su base territoriale, nella definizione dei progetti-obiettivo, etc.; oppure al mutato ruolo dell’esperto che venne esteso alla ricerca in genere e alla ricerca-intervento in particolare) e rappresentò quindi un vero e proprio salto qualitativo e sostanziale che, oserei dire, segnò il “passaggio di un’epoca”.

Questo processo scaturito e alimentato dalle lotte operaie contro la nocività e il rischio avviò l’elaborazione e la sperimentazione di un modello basato sulla necessità di organizzare una nuova e diversa capacità di rappresentazione del rischio lavorativo e di organizzare il sapere sulla nocività del lavoro in modo che fosse valorizzata l’esperienza operaia, come categoria scientifica, nel senso di recuperarla, registrarla, formalizzarla e affermarla, per la conoscenza, il controllo, il cambiamento e la verifica dell’efficacia del cambiamento stesso.

Per tali fini, e attraverso la realizzazione di un corretto rapporto fra gruppo operaio omogeneo e tecnici, si sono elaborati: un modello di analisi del rischio e del danno da lavoro e un modello operativo legato all’esperienza operaia e si è proceduto alla sua sistemazione scientifica come condizione di socializzazione;(

14. Sul concetto di “rischio zero”, fra l’altro si rimanda a:

– Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale – (G.P.I.A.) del Coordinamento Lavoratrici e Lavoratori della Montedison di Castellanza (VA):

• «Lotta ai cancerogeni», Epidemiologia e Prevenzione, pp. 40 – 50, n. 23, 1985;

• «L’esposizione al rischio è un danno», Epidemiologia e Prevenzione, pp. 18 – 27 , n. 25, 1985;

– “Attualità del Pensiero e dell’opera di Giulio A. Maccacaro”, pp. 133 – 138, curato ed edito dal Centro per la Salute “Giulio A. Maccacaro”, Castellanza 1988.(( La documentazione tecnico—scientifica e culturale prodotta su questo terreno dalle diverse realtà operaie soprattutto dopo il 1968, è copiosa e rappresenta un vero e proprio universo scientifico—culturale in gran parte tuttora inesplorato. In questa sede, per brevità e comodità, ci limitiamo a rimandare alle annate delle riviste “Sapere” (1974-1982), “SE Scienza Esperienza”, “Medicina Democratica — Movimento di Lotta per la Salute”, “Inchiesta”, “Rassegna di Medicina dei Lavoratori”, e, a titolo di esempio, ad alcuni contributi del Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale – (G.P.I.A.) delle Lavoratrici e dei Lavoratori della Montedison di Castellanza, e precisamente:

– La Salute in Fabbrica, pp. 250 , vol. Il, 1° ed. 1974 (e pp. 264, 2° ed. 1977), Savelli Editore -Roma;

– La Soggettività Operaia Insegna due esperienze operaie in “Sapere”, pp.36+50, aprile 1977 Dedalo Editore Bari;

– Lotte e Sapere Operaio, pp.292 , Clup—Clued Editori, Milano 1979.

– “Fracture”, Santè/Critique/Pratique-Autogestion”: élements d’intervention pour una critique pratique des nuissances du travail – L’experienze du Conseil d’usine de la Montedison/Castellanza, pp.36+47, mars 1977, n.1 , Editions Savelli, Paris.

Inoltre del G.PI.A. del C.d.F. della Montedison di Castellana (VA), segnaliamo alcune opere di cui è coautore:

Tutela dell’ambiente e Parco del Ticino – Atti del seminario, editato dall’Amministrazione Provinciale di Novara;

Il problema delle scienze nella realtà contemporanea – Atti dei seminari varesini 1980/84, pp. 864, Franco Angeli Editore, Milano 1985;

Piacenza e i Tornado a San Damiano — un rapporto difficile, Atti del seminario di studi, pp. 149 editato dall’Amministrazione Provinciale di Piacenza;

Dove va la ricerca industriale in Italia Editori Stampatori, Torino 1979;

Nocività nell’industria chimica — Atti del del Politecnico di Torino, pp. 192, Libraria Universitaria Levrotto e Bella, Torino 1976;

Sicurezza e Prevenzione infortuni nell’industria chimica – Atti del seminario del Politecnico di Torino, pp. 649, Libraria Editrice Levrotto e Bella, Torino 1978;

L’industria chimica nella Valle Olona Comune di Olgiate Olona (VA) 1979;

La formazione e la cultura la fabbrica il quartiere, Quaderni di Agape , n. 5;

Revalorizacion Social de la Ciencia – Simposio Internacional de Ciencia y Sociedad, Universidad Nacional Autonoma de Mexico, Facultad de Ciencias, Dicembre 1979. A questo Simposio internazionale durato 15 giorni, ha partecipato anche Angelo Cova presentando la relazione del Gruppo P.I.A. del C.d.F. della Montedison di Castellanza: “La lucha de los obreros para la construccion de la ciencia obrera”, pagg. 269 – 283, Atti del Simposio – (al quale ha partecipato pure Marcello Cini) – pubblicati nel 1984 dalla stessa Università.

Contro la chimica di morte, Quaderni editati dall’“Assemblea Permanente” della popolazione di Massa Carrara e da Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute, 1984/1986.)) una modalità con percorsi e procedure, in sostanza una sequenza capace di dare efficacia alla partecipazione(( – V.Di Martino, W.O’Conghail – «Worker partecipation and the improvement of working conditions. A bibliographical analysis». A cura della Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, pp. 247, Dublino, 1985;

– G.P.I.A. delle Lavoratrici e Lavoratori della Montedison di Castellanza (VA):

«Autogestione Operaia della Salute», Sapere pp. 64 – 75, n. 771, aprile—maggio 1974, Dedalo Editore Bari;

«Esperienza, strumenti e metodi per la difesa della salute», Rassegna di Medicina dei Lavoratori, n. 5, 1972;

La Salute in Fabbrica opera cit., pp. 50 – 60 e 75 – 178, volume II, 2ed. , Savelli Editore, Roma 1977.))

e di verificare i risultati nel tempo da parte dei diretti interessati.

Con questi presupposti molto semplificati, qual era il disegno teorico e pratico? Contribuire a superare la incomunicabilità tra operai e tecnici e tra tecnici di diverse discipline (ricomposizione fra lavoro manuale e intellettuale attraverso un lavoro comune su determinati problemi); non solo, porre le basi per la costruzione di una scienza del lavoro con al centro l’uomo, la donna, l’ambiente e l’affermazione della loro salute.

Non c’è dubbio che per costruire una nuova cultura della salute e dell’ambiente, l’informazione è il punto di partenza. Pertanto, per chiudere il cerchio, è necessario un sistema informativo essenziale che funzioni da interfaccia tra l’uomo e la donna che lavorano e le immense possibilità offerte da un sapere sull’ambiente di lavoro e su quello relativo al restante territorio in maniera da rendere possibile il controllo dell’informazione, da cui dipende la possibilità di valutare, selezionare e utilizzare l’informazione stessa, eccessiva, ridondante e al tempo insufficiente (non sono oggetto di queste note l’analisi dei meccanismi di produzione dell’informazione, il suo controllo, la sua manipolazione e il suo uso strumentale da parte dei centri di potere, peraltro cosa che sarebbe estremamente utile fare). Infatti se un lavoratore o una lavoratrice — oppure un gruppo operaio o di popolazione – non sanno, non possono nè prendere coscienza, nè partecipare, nè lottare per eliminare il rischio e la nocività.

Al riguardo vanno ricordati alcuni strumenti utili alle lavoratrici e ai lavoratori per affermare i diritti a:

– essere «edotti dei rischi specifici cui sono esposte/i e ad essere a conoscenza dei modi di prevenire i danni dai rischi predetti» (Art. 4 D.P.R. n. 303/1956);

– «vietare le sostanze e gli agenti cancerogeni (…) e l’esposizione ad essi» (Art. 1 Convenzione OIL n. 139/1974, legge n°157, 10 aprile 1981);

– «controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica» (Art.9, legge n. 300, maggio 1970 — Statuto dei Diritti dei Lavoratori);

– « (la Repubblica deve) rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana …». (Art.3 – Costituzione della Repubblica Italiana).

Tali diritti all’informazione, alla salute, alla prevenzione dei rischi, delle nocività e delle malattie sono peraltro sanciti in modo inequivocabile dalla Carta Costituzionale:

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (Art. 32); «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» (Art.35);

«l’iniziativa economica privata (…). Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità-umana» (Art.41).

2. Richiami storici e concetti generali sulla prevenzione

Sulla base della ideologia dominante, la nocività è sempre stata considerata una prerogativa ineliminabile del lavoro e come tale indagata e anche denunciata.

Risalgono all’antichità studi, inchieste, ricerche e semplici descrizioni delle condizioni di minatori, vasai, muratori, tessitori, altri … sulla base delle quali si è affermata poi, come scienza, la Medicina del Lavoro.

E’ solo con la nascita e l’affermazione di un Movimento Operaio organizzato e forte di una propria teoria scientifica, rivoluzionaria, che la nocività viene riconosciuta come un aspetto caratteristico dell’organizzazione capitalistica del lavoro, cioè come un aspetto particolare dello sfruttamento contro il quale si deve impegnare la classe operaia in prima persona.

Il passaggio dalla fase conoscitiva a quella di proposta specifica e di iniziativa alternativa autonomamente gestita dalla classe operaia è avvenuto in un periodo recente, quando lo sviluppo della organizzazione politica e sindacale della classe operaia e lo sviluppo tecnologico, indotto dalla classe operaia stessa, hanno permesso di affrontare materialmente il problema in termini di controllo e di intervento operativo diretto. Individuare i motivi storici e politici per cui questo sviluppo non è stato più celere, non è il compito che ci si prefigge in questa sede.

Analogamente alle diverse considerazioni espresse storicamente sulla nocività, anche l’idea di prevenzione e gli interventi per la sua attuazione pratica – all’interno e all’esterno delle strutture sanitarie – sono andati mutando nel tempo in relazione alle trasformazioni generali della organizzazione economica, sociale e politica della società e dei sistemi di produzione.

Inizialmente, a partire dai primi decenni del secolo scorso, gli interventi preventivi erano riservati a malattie di larga diffusione e comportanti esiti mortali o pesantemente invalidanti, definite malattie sociali. L’esempio tipico è rappresentato da una malattia infettiva: la tubercolosi.

In questa situazione la prevenzione è stata considerata questione di stretta pertinenza sanitaria, diretta e gestita dal medico. Fa parte di questa concezione la suddivisione della prevenzione in tre tipi:

a) – la prevenzione primaria, intesa come azione di ricerca ed eliminazione delle cause delle malattie “socialmente rilevanti” e per lungo tempo identificata unicamente con l’allontanamento delle fonti di contagio. Gran parte della struttura igienista è basata tuttora su questo tipo di concezione della prevenzione.

b) – La prevenzione secondaria, intesa come l’insieme delle indagini atte a diagnosticare precocemente le manifestazioni di malattia nell’organismo, possibilmente prima che questa abbia dato sintomi di sè soggettivamente avvertiti.

A questo tipo di prevenzione, meglio definibile come “diagnosi precoce”, appartengono alcuni tipi di intervento particolare come gli “screenings” o “depistages di massa” che si rivolgono ad ampi gruppi di popolazione (fabbriche, scuole, comunità residenti ed altre) sottoponendone i componenti apparentemente sani ad accertamenti che, pur essendo di rapida, facile e poco costosa applicazione, sono in grado di filtrare i sospetti portatori della patologia in esame.

Esempi noti di indagini di questo genere sono rappresentati dagli “screenings” schermografici o radiografici per la ricerca di forme pre-cliniche di tubercolosi o altra patologia polmonare (es. pneumoconiosi da esposizioni a polveri sul luogo di lavoro, cancro polmonare), dalla esecuzione del pap-test sulla popolazione femminile per la diagnosi precoce del cancro del collo dell’utero, dagli esami della vista e dell’udito ai bambini delle scuole, etc.

c) – La prevenzione terziaria, che corrisponde alla cura e alla riabilitazione di coloro che già sono affetti da un processo morboso conclamato. Tale tipo di intervento non ha più nulla di preventivo in realtà, se non per l’arresto delle complicanze o della evoluzione dell’episodio acuto di malattia verso la forma cronica.

2.1 La concezione attuale della prevenzione

Il mutamento progressivo e marcato della organizzazione produttiva e sociale che ha avuto luogo nell’ultimo secolo, ha portato alla emergenza, a partire dai cicli produttivi e dalla organizzazione da essi imposta, di nuove cause di malattia, disturbo, malessere, estendendosi a larghissimi strati di popolazione dentro e fuori le fabbriche, siano esse a bassa concentrazione di agenti nocivi permanenti nel tempo, oppure legate a emissioni improvvise che liberano sul territorio altissime concentrazioni di tossici (si ricordano, a titolo di esempio, i crimini ambientali perpetrati nel 1976 a Seveso e Manfredonia rispettivamente dalla Icmesa/Hoffmann La Roche e dall’Anic; a Massa Carrara nel 1980, 1984, e 1988 rispettivamente dalla Montedison , dall’Anic e dalla Farmoplant/Montedison. Per non parlare del genocidio di Bhopal, in India, causato nel dicembre del 1984 dalla Union Carbide).

In seguito a questo attacco generalizzato proveniente da un elevato numero di fattori causali e concausali ed in seguito alle lotte sviluppate dal Movimento Operaio per affermare la salute, la sicurezza e l’ambiente salubre in ogni dove, il concetto di prevenzione si è trasformato, andando ad assumere come punto di riferimento non più la malattia, ma la salute e la sua conservazione.

In effetti, l’O.M.S. (Organizzazione Mondiale della Sanità) considera la salute non come la semplice assenza di malattia, ma come lo stato di benessere psicofisico-sociale della persona.

Tale nuovo concetto di salute pone in campo aspetti che nulla hanno a che vedere con l’intervento medico, ma molto invece con la qualità della vita e la possibilità di viverla in benessere sia fisico sia psichico che socio-culturale: condizione che è in stretta relazione con la organizzazione economico-sociale generale. Ne deriva che, attualmente, per prevenzione si intende esclusivamente la prevenzione primaria, i cui interventi diretti contro le cause di malattia, di malessere e disagio, agiscono nella direzione del mantenimento dello stato di salute.

Il primo atto di questo tipo di approccio non è più pertanto, la ricerca dei malati, ma la identificazione dei gruppi sani di popolazione esposti a rischio di malattia.

Sotto questo angolo di visuale si comprende come l’intervento preventivo sia molto più ampio e si estenda a tutta una serie di rischi che vanno al di là di quelli abitualmente riconosciuti per le cosiddette “malattie di rilevanza sociale”, anche se appare giustificato rivolgere lo sforzo maggiore prioritariamente verso alcuni settori di patologia, caratterizzata dalla ampia e crescente diffusione, oltre che dalla gravità dei sintomi: malattie infettive – per mantenerle sotto controllo -, tumori (del polmone, del tubo digerente, dei genitali femminili e della mammella), broncopatie croniche (da esposizione negli ambienti di lavoro a polveri, gas, fumi e vapori, sbalzi termici, nonchè da inquinamento atmosferico, da fumo di tabacco, etc.), infortuni sul lavoro e sulla strada, cardiovasculopatie (infarto miocardico, angina-pectoris, ipertensione arteriosa), anomalie congenite o ritardi e difetti della evoluzione nell’infanzia (difetti della vista, dell’udito, alterazioni scheletriche, malattie dei denti, turbe psichiche reattive o meno a situazioni nocive o sfavorevoli), traumatismi nella scuola. Questo elenco è, tuttavia, indicativo. Infatti è sempre più sentita l’esigenza di passare dal soddisfare il “diritto alla salute” al rispondere ai “bisogni di salute”, concetto ben più ampio che comprende la piena fruizione del bene ambiente, il bisogno di cultura, di capacità di governare, di aggregazione sociale, di attività creative, di attività fisica, di sport e di spazi per poterlo praticare, di quartieri migliori ove abitare e svolgere attività di relazione con le altre persone, di lavoro umano e soddisfacente, di occasioni espressive artistiche, teatrali, musicali, di capire fino in fondo ciò che avviene, etc. in una parola l’aumento del «prodotto generale lordo di felicità».

Questa analisi fa capire che il problema della salute è solo in parte di pertinenza medica; in realtà esso dipende in misura ragguardevole dalla organizzazione della produzione e dall’assetto sociale che ne consegue, cioè dalle scelte in materia ambientale e dalle realizzazioni urbanistiche, dagli interventi sul territorio, dal tipo e dalla quantità delle industrie presenti e dalle modalità di gestione di queste ultime, dal reddito dei cittadini, dal tipo di scuole presenti e dal tipo di insegnamento che in esse viene impartito, etc. Addirittura, la risposta medica o medicalizzante ai bisogni di salute che nascono dalle contraddizioni di ordine sociale può essere in molte occasioni controproducente in quanto, mascherando e mistificando problemi reali (spacciati per “medici” quando tali non sono) ne impedisce o ritarda la soluzione, peggiorando le condizioni generali di salute. Facciamo due esempi (schematicamente teorici per necessità di esemplificazione espositiva, mentre la realtà è naturalmente più complessa, sfumata e piena di sfaccettature):

2.1.a) — Un bambino che a causa della sua sensibilità, o a causa di difficoltà di vario genere, si ribella alla scuola che tende a “livellarlo” allo standard precostituito, vede calare su di sè l’intervento del medico (dello psicologo o dello psichiatra) che lo “etichetta” come “caratteriale” o “difficile” emarginandolo ulteriormente.

Si maschera così il vero problema, che spesso è la iniziale disuguaglianza tra alunni, determinata da motivi sociali (immigrazione, livello culturale dei genitori e loro lavoro, tipo di abitazione, scarsità di mezzi economici, etc.).

Occorre allora intervenire, non tanto sul bambino, ma sulla scuola per renderla capace di accettare e valorizzare chi è in difficoltà, il che la stimola alla innovazione e al miglioramento delle sue funzioni e dei contenuti didattici e di socializzazione a tutto vantaggio della totalità degli alunni, col risultato di ridurre, anzichè ulteriormente accentuare (ad es. con le bocciature), gli squilibri di partenza.

2.1.b) — In una fabbrica ove i lavoratori siano esposti a polveri silicogene e si ammalino di silicosi con una certa incidenza annuale, l’intervento medico (es. la visita periodica, o l’esecuzione periodica di esami radiografici o schermografici), di per sè inefficace a prevenire nuovi casi di malattia (ma unicamente in grado di diagnosticare più o meno precocemente i soggetti già malati), può indurre nei lavoratori un falso senso di sicurezza, mascherando in tal modo la vera causa dei loro disturbi che è legata al ciclo produttivo e all’organizzazione del lavoro, distogliendoli così dall’impegno per ottenere la vera soluzione del problema: la bonifica dell’ambiente eliminando (dentro e fuori la fabbrica) le polveri di silice e/o gli altri agenti tossici responsabili del problema. Sulla scorta di queste considerazioni occorre riflettere sul ruolo che l’intervento medico e la struttura sanitaria realmente svolgono nei confronti della salute della popolazione: ruolo che non sempre va nel senso della prevenzione e della conservazione dello stato di benessere, ma può, addirittura, andare nel senso opposto, rispondendo ad interessi e condizionamenti che, per ragioni di carattere economico generale, sono persino contrari alla salute della popolazione.

L’insistenza qui posta nel cercare di chiarire natura e termini del momento preventivo che presiede al bene salute senz’altro non è pari alla persistente diffusione fatta dai mass-media circa il ruolo quasi esclusivo che svolgerebbe il medico per raggiungere tale obiettivo (sia chiaro, non si nega l’utilità dell’intervento sanitario, ma altro è il problema di cui si discorre).

Non va taciuto che una corretta impostazione dell’iniziativa in materia di salute e di ambiente non può prescindere da una attenta analisi del patrimonio di esperienze maturato nel nostro Paese fra gli anni ‘60 e ‘70 in quell’invalutabile crogiolo sociale—politico—culturale rappresentato dal Movimento Operaio italiano. In esso maturarono e si svilupparono esperienze, ricerche ed elaborazioni sorrette dalle lotte incentrate sul concetto di inalienabilità della salute.

Ciò comporta la coscienza che:

– il modello produttivo non è dato in assoluto, ma è legato alle condizioni storiche e politiche;

– l’incompatibilità tra modello produttivo e difesa della salute implica il superamento del modello di produzione storicamente determinato e la non accettazione dei costi umani ed ambientali che esso impone.

In altri termini: è la coscienza della non neutralità della scienza e della tecnica, del ciclo produttivo da esse derivato e delle istituzioni.

Ciò significa che risanamento e tutela dell’ambiente e della salute possono trovare una positiva soluzione solo con interventi che vadano alla radice del problema: la fabbrica; ovvero con interventi che puntino alla profonda trasformazione (e se necessario, come nel caso delle produzioni di morte, alla soppressione) dei suoi cicli produttivi.

Nel dibattito ambientalista stenta ancora a emergere questo nodo centrale, così come il nesso inscindibile che lega le condizioni di lavoro in fabbrica e l’ambiente esterno ad essa. Sono infatti le prime che dilatano i loro malefici effetti, determinando la natura dell’inquinamento e dell’avvelenamento dell’ambiente e della popolazione.

Per eliminare la nocività e il rischio non bastano le buone leggi – per altro utili — ma è indispensabile un possente e articolato movimento di lotta che, nel perseguire i suoi obiettivi di salute e di ambiente salubre, non prescinda mai dalle concrete condizioni di fabbrica.

Diciamo ciò non per astratte ideologie, ma perchè, com’è facilmente comprensibile, non esiste una ipotetica fabbrica dove i cicli produttivi nocivi e pericolosi danneggiano solo i lavoratori e le lavoratrici.

E’ bene quindi sottolineare che la prevenzione si attua con l’impiantistica, con la bonifica ambientale per l’eliminazione di ogni nocività e rischio, con la ricerca, la progettazione, l’installazione e la gestione di macchine e processi lavorativi a rischio zero per la donna, l’uomo e l’ambiente.

Per conseguire questi obiettivi di salute e di ambiente salubre e per affermare il rischio zero è indispensabile la partecipazione diretta degli esposti ai rischi e alle nocività (le lavoratrici e i lavoratori in fabbrica, la popolazione sul territorio) alle diverse fasi dell’iniziativa.

Occorre, per dirla con Giulio Maccacaro, «lottare contro la malattia come perdita di partecipazione e rifiutare la perdita di partecipazione come malattia».

3. Il gruppo operaio omogeneo e la produzione di sapere

E’ attraverso questo processo e con questo orizzonte che il movimento operaio italiano dal 1968 in poi, per la prima volta a livello di massa, prende coscienza del fatto che non è accettabile l’impostazione tradizionale che fa riferimento alla “neutralità”, “oggettività”, “univocità” del ciclo produttivo, della tecnica e della scienza che ad esso presiedono.

Non interessa infatti avere un quadro astratto della produzione, ma serve il quadro concreto fornito da ciò che ogni componente del gruppo operaio vive come propria condizione.

Naturalmente tale quadro non è la visione individualistica, ma è frutto del confronto e del dibattito delle diverse individualità che concorrono con la propria soggettività a costituire il Gruppo Operaio Omogeneo e la propria soggettività collettiva.

Per fare ciò, bisogna conoscere l’organizzazione del lavoro che vive nel concreto e sulla propria pelle il Gruppo Operaio Omogeneo assieme alla sua storia lavorativa e sociale, alle condizioni materiali di lavoro, alla sofferenza e alla morte operaia, alle esperienze, alle conoscenze, al sapere operaio che si è accumulato, maturato e arricchito nel tempo dall’evolversi e dal mutarsi dei componenti e delle condizioni di lavoro del “gruppo omogeneo” e, come quest’ultimo ha ricercato, sperimentato, sviluppato, generalizzato lotte sempre più incisive per la trasformazione positiva e radicale della realtà dentro e fuori la fabbrica. E come tutto ciò nel vivo dell’esperienza è diventato materia di confronto politico, culturale e scientifico. Insomma, come questo enorme patrimonio insito nel gruppo omogeneo si è liberato con la lotta ed è stato messo a disposizione di tutti, fatto circolare fuori dalla fabbrica e, in primis, nella scuola, perchè trasformi e si trasformi; come è stato comunicato ad altri soggetti sociali, i tecnici, gli studenti, gli intellettuali, perchè anche loro trasformino e si trasformino.

La capacità di uscire dalla fabbrica significa anche la capacità di arricchire questo patrimonio potenziando quindi la capacità di critica e la conoscenza del gruppo operaio: il sapere operaio alimentato dalla coscienza di classe.

Di questo organismo è importante cogliere, non staticamente ma dinamicamente, ciò che manifestamente emerge ma soprattutto le potenzialità che racchiude e che si liberano in modo dirompente e positivo attraverso l’espressione e l’affermazione della propria soggettività. Infatti, nel concreto, ad esempio, la realizzazione di un corretto rapporto tra gruppo operaio e tecnici passa attraverso l’affermazione della soggettività e del sapere del Gruppo Omogéneo come strumento per i tecnici di conoscenza e di apprendimento dalla realtà, per superare la separatezza imposta dal capitale borghese (e, sin che ha retto, dal cosiddetto “socialismo” reale storicamente e politicamente fallito): solo il Gruppo Omogeneo con la diretta conoscenza della realtà in cui vive e opera unitamente ai tecnici, che mettono a disposizione le loro conoscenze e capacità, possono gestire positivamente il problema della conoscenza e della trasformazione della realtà.((Superamento della separatezza, una esigenza che, in una certa misura, è stata sottolineata di recente anche dal filosofo della <<complessità>> Edgar Morin nel corso di una partecipata conferenza tenuta al Teatro dal Verme di Milano l’11 novembre 2009. Infatti, il filosofo nell’affrontare il tema della complessità, un concetto che declinato in modo antropologico comprende sia la dimensione culturale che quella biologica dell’essere umano, ha affermato: “parlare della complessità significa anche parlare di etica, della necessità di una nuova etica”. E l’elemento portante dell’analisi svolta da Morin si è incentrato proprio sulla frantumazione dei saperi e dell’individuo: <<Il tema dell’identità, della condizione umana è sempre più assente dalle nostre vite. Non se ne parla nelle scuole, tanto meno nelle università. Si assiste invece ad una continua dispersione della conoscenza, divisa in tanti pezzettini all’interno delle varie discipline settoriali. In questo modo svanisce la coscienza di sè, come individuo, ma anche la coscienza di essere parte della specie umana>>. E nello sviluppare questa ampia riflessione Morin, fra l’altro, ha delineato uno scenario raggelante: <<La frantumazione del sapere, la mancata percezione della complessità umana lascia spazio alla barbarie. Ma attenzione, perchè alla barbarie a noi più nota, che è quella della guerra, delle torture, della fame, se ne aggiunge un’altra fatta dal calcolo, dal profitto, dalla tecnologia al servizio dell’economia. Sono due demoni fra loro alleati, anche se si manifestano in modo differente nei vari luoghi del pianeta>>.)) Altro esempio, la medicina del lavoro – (alla luce di quanto esposto sul concetto di prevenzione, deve far riflettere il fatto che non esista, come branca scientifica, “la salute delle lavoratrici e dei lavoratori”) – non può essere campo d’intervento esclusivo del medico, ma deve diventare terreno di confronto e lavoro di un gruppo interdisciplinare (gruppo operaio, biologo, fisico-chimico, igienista del lavoro, ergonomo, tossicologo, ecologo, epidemiologo, ingegnere, etc.) dove il gruppo operaio, con le sue peculiarità, non è qualcosa da usare anche se democraticamente, ma è egemone, non in funzione coercitiva ma dirigente.

Un elemento da non dimenticare quando si parla di “Gruppo Omogeneo” è rispetto a cosa e a chi esiste l’omogeneità.

Infatti, il “Gruppo Omogeneo” è di lavorazione in fabbrica, di popolazione nel quartiere, di ragazzi/e o bambini/e nella scuola, di contadini nell’azienda agricola, di soldati in caserma, etc.

Questa crediamo sia l’impostazione politico—scientifica su cui si fonda la nuova scienza (della salute e del lavoro nel nostro caso) delle lavoratrici e dei lavoratori.

C’è in questo discorso una tentazione luddista, o addirittura antiscientifica? Si tratta, al contrario, della proposizione di un altro modo di fare scienza e cultura, che rifonda la stessa professionalità. E’ un modo tanto diverso che rovescia un concetto comune, secondo il quale dalla professionalità, dal ruolo specializzato, può venire la soluzione di problemi determinati. Al contrario, i problemi non possono trovare risposta alcuna, se non passano attraverso una nuova scienza collettiva.

Ben altro meriterebbe un discorso approfondito sul e con il Gruppo Omogeneo; queste brevi considerazioni vogliono essere un modo di approccio, per dire del Gruppo Omogeneo, fuori da una visione statica e dalla semplice e arida descrizione del Gruppo Omogeneo come se si trattasse di una macchina o di una parte di essa.((

18. – Cfr. “La Salute in Fabbrica” cit., pp. 63-64 ;

– cfr. “Attualità del Pensiero e dell’Opera di Giulio A.Maccacaro” cit., pp. 144-148.))

Non vi è dubbio che il grande impulso che ha avuto nel nostro Paese, soprattutto a partire dal 1968/69, la lotta operaia contro la nocività per il superamento dell’organizzazione padronale del lavoro e per l’affermazione e la promozione della salute, ha come base l’identificazione del Gruppo Operaio Omogeneo di Lavorazione come cellula fondamentale della classe operaia, protagonista di conoscenza e di lotta.

E’ nell’organizzazione del lavoro storicamente determinata, fondata sulla rigida divisione delle funzioni, la base materiale di esistenza ed identificazione del Gruppo Operaio Omogeneo di Lavorazione. In questo senso il Gruppo Omogeneo è un frammento di classe operaia strutturata.

Proprio perchè la “esistenza oggettiva” del Gruppo Omogeneo dipende dal ciclo produttivo determinato e dall’organizzazione della produzione, il singolo gruppo operaio di una fabbrica può essere “confrontato” tanto con gruppi omogenei di altre fabbriche che hanno la stessa collocazione nel ciclo produttivo, quanto con gruppi omogenei che nel passato hanno avuto la stessa collocazione. Ciò va tenuto ben presente, ad esempio, quando si promuovono indagini epidemiologiche retrospettive e/o prospettiche in fabbrica. [A chi scrive non sfugge che oggi la fabbrica e la sua filiera produttiva sono state in gran parte frammentate: esse sono caratterizzate dalla rilevante presenza di lavoro atomizzato, precario e disperso in molteplici rivoli e, che, le lavoratrici ed i lavoratori sono state/i private/i dei diritti fondamentali. Per esempio, in molti casi, essi non dispongono neppure della sala mensa, come è noto luogo di incontro e di socializzazione collettiva: chi conosce la fabbrica sa che qui, oltre a consumare il pasto, i lavoratori si scambiano vicendevolmente le informazioni sulla loro condizione lavorativa, e, per restare al tema che ci occupa, sui problemi della nocività e dei rischi presenti nel ciclo produttivo e come eliminarli con le conseguenti iniziative di lotta. Inoltre, questo è il luogo per eccellenza ove si svolgono le assemblee in fabbrica e si dibattono e affrontano tali temi, definendo poi le piattaforme rivendicative aziendali e sindacali, con l’assunzione delle decisioni collettive, compresa la proclamazione dello sciopero. Nei fatti, in molte realtà, un padronato famelico non ha solo cancellato il luogo di consumazione del pasto, ma quello dove le lavoratrici ed i lavoratori esercitano la democrazia diretta partecipando all’Assemblea sindacale di fabbrica. Pertanto, non c’è dubbio che a fronte di questa difficile condizione lavorativa, qui solo accennata, molto schematizzata e semplificata, il problema di fondo è quello della ricomposizione della forza lavoro lungo i segmenti del ciclo produttivo, attraverso concrete iniziative sindacali che sappiano mettere in relazione tali lavoratrici e lavoratori, affinchè prendano collettivamente coscienza della loro realtà lavorativa e sappiano elaborare e promuovere forme di organizzazione e lotta in grado di conseguire obiettivi tangibili di prevenzione delle nocività e dei rischi lavorativi, nonchè di miglioramento delle loro condizioni di lavoro (a tempo indeterminato e con salari dignitosi, con il pieno esercizio dei diritti sindacali, nonché, in primis, quelli alla salute e sicurezza del lavoro). Una enorme problematica: un obiettivo di lunga lena che in questa sede non affrontiamo, ma che è bene aver presente, pena parlare astrattamente di prevenzione, salute, ambiente, diritti umani e costruzione delle nuove scienze del lavoro, della salute e dell’ambiente salubre].

Pertanto nella fase di analisi del ciclo produttivo che serve a costruire il quadro dei rischi e delle condizioni di lavoro, è il Gruppo Omogeneo a fornire quella che è la sua visione del lavoro.

Infatti, il sapere del Gruppo Operaio Omogeneo di Lavorazione è tanto ampio quanto sconosciuto ai tecnici ed ai ricercatori: esso spazia dall’organizzazione del lavoro al ciclo produttivo con le sue fasi di lavorazione oggi (ieri, come vissuto e storia lavorativa), con le sue modificazioni e/o cambiamenti tecnologici e di processo (uso di materie prime e/o intermedi diversi in condizioni chimico—fisiche di manipolazione e/o contatto mutevoli, stato delle manutenzioni, dei sistemi di prevenzione e sicurezza, della strumentazione, etc.) avvenuti nel tempo che hanno determinato e determinano il modo, a volte anche il tipo di produzioni, con le relative condizioni di sfruttamento operaio, di “sicurezza” e nocività del lavoro in fabbrica e della vita all’esterno.

Si può affermare, senza miti e falsi pudori, che il Gruppo Operaio Omogeneo è un organismo interdisciplinare di produzione del sapere che sa affermare, o comunque ne ha in generale tutte le potenzialità, il suo punto di vista di classe (soggettività attraverso la lotta permanente all’organizzazione capitalistica del lavoro o più in generale allo sfruttamento come prodotto dei rapporti di produzione esistenti). Quindi produzione del sapere realizzata attraverso l’esperienza lavorativa (nel nostro caso di fabbrica).

Prima della rivoluzione industriale, tale sapere veniva cercato, recuperato e valorizzato dagli scienziati come un fecondo contributo allo sviluppo scientifico.

Al riguardo, Gabriel Harvey scrisse nel 1593 che qualsiasi <<esperto artigiano o qualsiasi persona assennata e industriosa, per quanto sfornita di educazione scolastica o illetterata in fatto di libri» poteva apportare contributi allo sviluppo della scienza.((Citazione di Carlo M. Cipolla in “Tecnica , Società e Cultura . Alle origini della supremazia tecnologica dell’Europa (XIV — XVII secolo)”, p. 20 , Società Editrice il Mulino 1989.)) Non è infatti difficile citare casi in cui scienziati e artigiani specializzati (come orologiai, tagliatori di lenti e fabbricanti di strumenti di precisione) si scambiarono idee e suggestioni.

Ovviamente tali rapporti e scambi di conoscenze furono influenzati e resi possibili dalle dinamiche e dai movimenti sociali.

Needham è sostanzialmente nel vero quando, paragonando la situazione europea con quella cinese, scrive che «in Europa, a differenza di quanto capitava in Cina, operarono fattori (…) che favorirono l’incontro tra il sapere pratico e le formulazioni matematiche (…). Indubbiamente parte della questione riguarda i movimenti sociali che resero rispettabile in Europa l’associazione tra il tecnico (in questo contesto, leggi l’operaio artigiano, n.d.r.) e il gentiluomo» (leggi lo scienziato).((Needham, Science and Civilization in China, vol. Il, pp. 154 – 155.))

Insomma, in epoca più recente, tale incontro si potrebbe configurare come un rapporto — uno scambio di conoscenze — fra l’operaio di mestiere di epoca pre-tayloristica e lo scienziato; quindi uno scambio tra singoli detentori di sapere: uno pratico e non formalizzato, l’altro ufficiale, gratificante e socialmente riconosciuto, acquisito attraverso lo studio dei testi nei luoghi deputati alla produzione e trasmissione scientifica (università, accademie, abbazie, “salotti scientifici”, etc.).

Per rendersi conto dell’importanza e dei frutti di questo fecondo rapporto fra detentori di un sapere non formalizzato e possessori di un sapere accademico, «è sufficiente passare in rassegna i sempre più numerosi brevetti concessi in Inghilterra, Olanda e Francia nel corso del Seicento e relativi a nuove macchine, strumenti di misura e per la navigazione, barometri, termometri, microscopi, telescopi, orologi e marchingegni di ogni genere e specie. Fu in questo clima che nacque la pompa pneumatica di Von Guericke, l’antenata della macchina a vapore».((Cfr. Carlo M. Cipolla, opera cit., p. 21.))

Mentre l’odierno scambio di conoscenze cui facciamo riferimento è quello che si realizza fra un soggetto collettivo, il Gruppo Operaio Omogeneo di Lavorazione — e cioè, gli operai/e di processo, di ciclo produttivo, quasi tutti acculturati e non degli “illetterati in fatto di libri” come ai tempi di Harvey — e i tecnici (non il singolo) che nella moderna società operano nei diversi campi della produzione e della trasmissione tecnico— scientifica.

Questo processo di costruzione di nuove conoscenze scaturisce nel 1968/69 dalle lotte e dall’affermarsi della soggettività operaia in fabbrica e nella società. Si afferma cioè, come già detto, per la prima volta a livello di massa, la consapevolezza della non neutralità della scienza e della tecnica che presiedono al ciclo produttivo con il suo portato di nocività, disagio, sofferenza, malattia e morte dentro e fuori la fabbrica.

E’ sull’onda di questo movimento di lotta nella fabbrica, nella scuola e nella società che si levano voci nitide come quelle di Giulio A. Maccacaro, Marcello Cini, Franco Basaglia, Hayr Terzian, Dario Paccino e tanti altri/e che denunciano con forza le complessive “insufficienze” della critica marxista della scienza, e cioè del perpetuarsi, anche in seno al movimento operaio, di una visione assolutamente neutralistica e mistificante del processo scientifico, come graduale cammino dell’umanità dal “regno della necessità” al “regno della libertà”.(( Marcello Cini, Introduzione a (AA.VV.) “L’Ape e l’architetto”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1976, pp.9-15.))

E non è allora un caso che proprio dalle esperienze concrete del lavoro di fabbrica si sia sviluppata, pur con tutti i suoi limiti, una critica di classe del modello tradizionale di “razionalità scientifica”, attraverso la rilettura delle pagine marxiane sul rapporto tra macchine e grande industria. ((Qui si fa qui riferimento alle posizioni di Raniero Panzieri e alla sua polemica contro il “marxismo oggettivistico”. Cfr. R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976, pp. 3—23.))

In altri termini, nel movimento operaio, nell’ambito del mondo tecnico—scientifico e della scuola si prende coscienza che la funzionalità della scienza nel suo stesso momento conoscitivo, alla riproduzione dei rapporti sociali capitalistici indica semplicemente che anche il momento conoscitivo è radicato nei bisogni e negli interessi del soggetto conoscitivo.

Ed è proprio sulla problematica del soggetto che la critica di classe della scienza incide in profondità.

La critica materialistica della scienza, demistificando ogni concezione riduzionistica del sapere scientifico, rivela altresì la falsità dell’identificazione esaustiva tra conoscenza scientifica e conoscenza tout—court. L’analisi dei processi di produzione e in primis dei processi lavorativi di fabbrica, mostra che ogni lavoro è attività conoscitiva, che ogni lavoratore, mentre partecipa al processo di produzione, ha in sè la potenzialità per contribuire coscientemente allo sviluppo delle forme produttive. (Lo si ricorda: “In qualsiasi lavoro fisico, anche il più meccanico e degradato, esiste un minimo di qualifica tecnica, cioè un minimo di attività creatrice (…). Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ciò significa che, se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non—intellettuali, perchè i non intellettuali non esistono”. Antonio Gramsci in «La formazione degli intellettuali —Quaderni dal carcere», 1930). Ogni lavoratore nella sua prassi verifica, accumula e trasmette conoscenza; questa, attraverso un confronto dialettico nel Gruppo Operaio Omogeneo di Lavorazione, si sedimenta arricchendo il sapere del gruppo e le sue capacità collettive di critica, di elaborazione e di intervento (affermazione della soggettività) per la trasformazione positiva della realtà.

E’ evidente che una prassi nuova, per fini nuovi e con contenuti nuovi tesi alla costruzione della scienza del lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, è solo possibile con l’assunzione in prima persona, da parte della classe operaia, di una simile problematica: la classe operaia, attraverso le lotte e la realizzazione di un corretto rapporto con i tecnici e realizzando sugli specifici problemi gruppi di lavoro operai/e—tecnici, pone infatti le basi per la costruzione di una nuova scienza, all’interno della quale — come anzidetto — l’informazione non è problema secondario.

Per quanto concerne la produzione scientifica e tecnica, in particolare ricordiamo che – «l’apprendimento istituzionalizzato da parte dell’individuo singolo delle conoscenze ritenute necessarie al suo inserimento nella società, cioè alla sua partecipazione al lavoro e alla convivenza sociale, è, nella società contemporanea, un momento distinto non solo da quello della formazione e della elaborazione di nuove conoscenze, ma anche da quello della loro pratica attuazione.

Non che non ci siano anche momenti informali di apprendimento legati alla partecipazione diretta alle attività produttive, ma questi momenti hanno scarsissima peso ai fini della collocazione dell’individuo ai vari gradini della scala sociale. Il processo di trasmissione del sapere sociale avviene dunque attraverso un’attività separata nel tempo (cioè di scolarità che precede l’età del lavoro e che, con la disoccupazione dilagante, viene sempre più spostata in là negli anni, n.d.r.) e nello spazio (la scuola come luogo specifico distinto dalla fabbrica o in generale dalle altre sedi dell’attività produttiva e della vita associativa). Questo processo avviene inoltre per mezzo di un meccanismo di appropriazione rigorosamente individuale, che ha lo scopo di garantire che il singolo individuo è diventato possessore di un certo bagaglio di conoscenze che gli sono state trasferite, in modo unidirezionale, da qualcuno — il docente — che le detiene, istituzionalmente riconosciute idonee a tale scopo. Da questo punto di vista è chiaro che la dimensione comunitaria dell’insieme dei discenti è del tutto irrilevante. Ognuno è un recipiente individuale entro il quale viene travasato un contenuto di informazione già preparata e confezionata da altri, che diventa, una volta formalizzato l’atto di trasferimento, una “cosa” che viene incorporata nella merce forza—lavoro che egli possiede». ((Marcello Cini, “Sapere”, n. 817, 1979, Dedalo Editore, Bari.))

Egli si presenta così sul mercato del lavoro come legittimo possessore di una merce dì maggior valore, che gli permette di entrare in concorrenza con gli altri possessori di forza – lavoro.

Questa schematizzazione mostra che le modalità del processo di apprendimento riflettono aspetti essenziali dei rapporti sociali di produzione capitalistici. In particolare la separatezza spaziale e temporale è funzionale in primo luogo alla generalizzazione della divisione sociale del lavoro. A ciò si contrappone quel soggetto collettivo che è il Gruppo Operaio Omogeneo con il suo modello di apprendimento e produzione di conoscenza – il sapere operaio – e la sua capacità di lotta per la trasformazione della realtà. Infatti il Gruppo Operaio Omogeneo rappresenta un modello interessante di produzione e trasmissione delle conoscenze perchè in esso si verificano condizioni che normalmente — ad esempio nella scuola — non si verificano: la coincidenza del soggetto e dell’ “oggetto” dell’indagine.

Il gruppo operaio è colui che porta avanti un certo processo di ricerca (ad esempio, studia l’ambiente in rapporto ai suoi effetti nocivi sul corpo); inoltre, cosa che non va mai dimenticata, è il soggetto che direttamente lotta per la trasformazione radicale della realtà indagata.

Al riguardo ci sembra utile la domanda: a quali condizioni la cultura è trasformazione dell’esistente ed è segnata nel senso della liberazione dell’uomo e della donna dal lavoro alienato e dallo sfruttamento?

Indichiamo tre condizioni nelle quali è trasformazione:

a)- quando un processo di produzione del sapere diventa collettivo;

b)- quando produciamo un sapere diverso, che non c’è sui libri

di scuola, riusciamo a produrre un potere o un contropotere (se produciamo solo un sapere migliore difficilmente produciamo un potere: il potere costituito produce sempre determinate forme di sapere, non è che escluda in assoluto l’individuo — anche se seleziona l’accesso, e senza dimenticare che gran parte dell’umanità è ancora privata dei mezzi più elementari di sussistenza — ma divide e seleziona il sapere per renderlo innocuo e funzionale al suo sistema);

c)- quando c’è comunicazione corporea (cioè quando ciò che prima veniva ricacciato come inessenziale nella sfera di ciò che è fastidiosamente soggettivo, acquista dignità nel corpo—coscienza di chi lavora) e appropriazione della manualità come espressioni della soggettività: forme di arricchimento della conoscenza individuale e collettiva. E’ il rigetto cosciente del taylorismo e del suo “gorilla ammaestrato”. Parafrasando Gramsci possiamo dire: non si può separare il proprio corpo dalla propria coscienza, così come non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.

Con riferimento alla fabbrica e alla necessità qui sostenuta che il Gruppo Omogeneo di Lavorazione sviluppi un corretto rapporto con i tecnici, per conseguire concreti e positivi obiettivi di trasformazione della realtà e per porre le basi di una nuova scienza e di una nuova didattica del Lavoro, della Salute, dell’Ambiente salubre va precisato, per sgombrare il campo da possibili equivoci, che non si tratta della riproposizione meccanica di esperienze passate; un guardare la realtà con “gli occhi del passato”, anzi!

E’ proprio alla luce di questa nuova realtà, caratterizzata dall’estremo degrado culturale prima ancora che ambientale, dai rischi e dalle nocività presenti dentro e fuori la fabbrica, e tenendo ben presenti i profondi mutamenti socio— culturali, politici ed economici intervenuti nella società negli ultimi tre decenni, che, paradossalmente, tale proposta acquista maggiore attualità. C’è insomma, per restare alla fabbrica, la consapevolezza che i processi di ristrutturazione imposti dal padronato hanno cambiato le fabbriche e i processi lavorativi; il ciclo produttivo e la forza—lavoro sono stati frammentati e diffusi sul territorio, sia attraverso il massimo ricorso alle nuove tecnologie – (quindi anche con massiccia sostituzione del lavoro vivo con lavoro morto: i milioni di disoccupati e di lavoratori e lavoratrici precari sono una conferma di questo) – che con il tradizionale decentramento produttivo e, dopo il 1989, anche con una corposa delocalizzazione delle produzioni più mature. Per non parlare dell’ampliamento a dismisura dell’area del lavoro in appalto, in sub-appalto, a cottimo che hanno provocato la nascita di una moltitudine di micro-pseudo- imprese e di “cooperative” che, nei fatti, svolgono attività – illegali – di interposizione ed appalto di manodopera, quando non di racket delle braccia. In una parola, il “caporalato” – (purtroppo, reso legale con il primo governo Prodi attraverso l’introduzione nei contratti del cosiddetto lavoro interinale, nonché una miriade di contratti tutti caratterizzati da salari di fame e dall’assenza dei diritti fondamentali per la lavoratrice e il lavoratore) – più che mai attivo nelle campagne e, nell’ultimo decennio, entrato massicciamente anche nelle fabbriche ove convive con i computer, con tutto quello che ciò significa e comporta (ricordiamo per tutti i tredici operai bruciati vivi nel 1987, nel fondo della stiva di una nave in manutenzione, presso i cantieri Mecnavi di Ravenna).

Avendo presente tutto questo assieme alle difficoltà che comporta la conduzione di indagini su un simile universo, ma anche senza scordarsi che esso è il prodotto delle scelte fatte dalla grande e media industria nazionale e multinazionale, è possibile – indispensabile – rilevarne la natura e le caratteristiche; e cioè giungere alla ricostruzione e ricomposizione delle diverse fasi del ciclo produttivo, evidenziandone l’intrinseca nocività.

Attraverso tale analisi si arriva, quindi, a ricomporre la forza—lavoro che nelle diverse articolazioni del ciclo realizza quelle fasi del processo produttivo – (per esempio, con le modalità di intervento sopra descritte, aggiornate ed adattate alle specifiche realtà lavorative: chi scrive, assieme ad altri ed ai lavoratori interessati, ha recentemente partecipato nei processi penali nei quali Medicina Democratica si è costituita parte civile, per chiedere verità e giustizia per le Vittime operaie e i Loro Famigliari, anche attraverso la ricostruzione dei cicli produttivi, l’individuazione delle nocività e dei rischi in essi presenti, nonchè delle cause che hanno determinato la morte di molti lavoratori; per tutti ricordo gli operai del petrolchimico di Porto Marghera e i sette operai che hanno trovato la morte, bruciati vivi, presso le acciaierie ThyssenKrupp di Torino nella notte del 6.12.2007, il cui processo è tuttora in corso avanti la Corte di Assise del Tribunale di Torino). Perciò niente paraocchi verso questa realtà e senza nostalgie del passato, ma traendo dalle esperienze maturate indicazioni e linfa per meglio cogliere la realtà attuale e, quindi, per sviluppare un’analisi conseguente alla realizzazione degli obiettivi sopra enunciati.

Il Gruppo Operaio Omogeneo così come l’abbiamo individuato e caratterizzato è quindi produttore – o ne ha le potenzialità – di una cultura di trasformazione radicale dell’esistente, segnata dalla liberazione dell’uomo dallo sfruttamento.

4. Dalla soggettivita’ operaia alla soggettivita’ popolare

Questo grande patrimonio culturale, che sgorga inesauribilmente dal lavoro umano, va perduto, anzi è compresso e cancellato dalla stessa organizzazione del lavoro. Solo un particolare tipo di lavoro è abilitato a diventare scienza. E’ avendo ben chiaro ciò, che si coglie fino in fondo la portata culturale, scientifica, sociale e politica dell’obiettivo della costruzione del corretto rapporto fra gruppo operaio e tecnici, secondo l’accezione data a questi soggetti.

Infatti, è da qui, allora, che, quando la critica politica della scienza approda al legame tra scienza (come conoscenza scientifica) e prassi lavorativa umana, si coglie il soggetto concreto che è effettivamente alla base della scienza, ma che, proprio dall’organizzazione capitalistica della scienza è espropriato delle sue possibilità conoscitive. La distorsione programmatica che la società capitalistica – (così come quella dell’allora “socialismo reale”, oramai fallito) – attua delle potenzialità conoscitive dell’operaio/a, del tecnico, del/la ricercatore/trice, accogliendo come “scienza” solo ciò che è direttamente funzionale alla propria conservazione, specifica i termini nei quali si può parlare di razionalità scientifica nella società divisa in classi.

I casi di distorsione programmatica delle potenzialità conoscitive che la società capitalistica attua nei diversi campi della scienza sono immensi. Ad esempio: decenni di medicina del lavoro all’interno delle cliniche universitarie non hanno saputo prevenire o fare eliminare dalle fabbriche un solo agente tossico—nocivo mentre, in pochi anni, le lotte operaie alimentate e arricchite anche attraverso il corretto rapporto realizzato con i tecnici, hanno cambiato radicalmente e positivamente la loro condizione di lavoro (eliminazione delle nocività e dei rischi, eliminazione del cottimo, riduzione dei ritmi e carichi di lavoro e dell’orario di lavoro, bonifica degli impianti e dei luoghi di lavoro, etc.) e di vita (aumento del reddito, del tempo libero, maggiori possibilità per affermare il diritto allo studio, etc.).

Ciononostante, questo enorme patrimonio culturale e scientifico nel nostro Paese sembra non interessare più nè i tecnici, nè i ricercatori, nè i sindacati, nè i partiti che si richiamano alla classe operaia, nè gli storici indipendenti e, men che meno, le forze di governo.

Eppure, nel parlare di tecnica, scienza e ricerca in questo paese tutto ciò dovrebbe far riflettere. Una così macroscopica rimozione ha molteplici cause che non è compito di queste note indagare, peraltro sarebbe cosa utile da fare.

Segni tangibili, seppur indirettamente, della necessità di (ri)costruire un corretto rapporto fra gruppo operaio in fabbrica, di popolazione sul territorio e tecnici ci giungono direttamente dal mondo scientifico più impegnato che pone l’accento sulla priorità da accordare alla ricomposizione delle conoscenze.

Al riguardo, di notevole interesse è il pensiero di Pierre Calame, presidente della Fondazione per il Progresso dell’Uomo – Parigi: «Le conoscenze sono prodotte ora secondo una logica di specializzazione crescente. Questo certamente offre i vantaggi propri della ricerca “mirata”, ma si assiste a causa di questo a una babelisation (confusione di linguaggi) delle conoscenze.

Sarebbe opportuno, negli anni a venire, mettere l’accento (…) di più sulla ricomposizione delle conoscenze, sulla loro assimilazione da parte del maggior numero possibile di persone, sulla ricerca di risultati efficaci nuovi derivanti dalle conoscenze già esistenti ( … ).

L’utilizzazione effettiva delle ricerche dipende sia dal modo di dirigerle sia dal loro contenuto.

Contenuto e metodo sono per di più inseparabili.

Nella maggior parte delle discipline, la sequenza: “ricerca fondamentale, ricerca applicata, applicazione concreta dei risultati”, non funziona affatto in questo ordine.

Le conoscenze prodotte devono permettere ad ogni gruppo umano, a ciascuna società, di essere un po’ meglio soggetti della propria storia.

Questo è possibile solo nella misura in cui ciò è effettivamente associato alla produzione di conoscenze che li riguardano.

Vi è una qualche contraddizione nel volere che gli oggetti della ricerca si trasformino in soggetti nel momento della messa in opera delle conoscenze prodotte.

E’ necessario che essi siano già stati soggetti nel momento della enunciazione dei quesiti della ricerca, che essi possano contribuire attivamente, coscientemente della loro propria situazione.

Questo principio non è circoscrivibile alle scienze sociali, esso si estende all’economia, all’agricoltura, alle problematiche della salute, all’habitat…».((Pierre Calame, in “Terminal” n. 47, rivista del bimestre novembre – dicembre 1989.))

E, a proposito di salute e ambiente, queste proposte che ci vengono dal mondo della scienza d’oltralpe altro non sono che una indicazione a perseguire obiettivi ampiamente praticati dalla classe operaia italiana negli anni Settanta con la produzione di un invalutabile patrimonio di conoscenze, vera scienza promossa e prodotta da soggetti non tradizionali, esterni all’accademia, gli operai, sui quali in molti, troppi, hanno posto frettolosamente una pietra.

Gli anni Ottanta e, men che meno quelli successivi, non sono corsi in modo neutro e asettico, ma come già sottolineato sono stati segnati da una violenta devastazione del soggetto operaio sui luoghi di lavoro e nella società. Non è il tema di questo intervento, ma ciò va tenuto presente, per meglio cogliere la valenza di tutta una serie di problemi che il potere costituito nelle sue espressioni economiche, politiche, culturali, sindacali, sociali, istituzionali pensava di aver liquidato una volta per tutte. Tant’è che i suoi cantori, proprio in questi anni, hanno teorizzato e teorizzano che le classi sono scomparse nella società cosiddetta post—industriale, post—moderna; che la classe operaia come soggetto sociale, culturale e politico si è dissolta, non c’è più, etc. etc.

L’angustia di queste posizioni, ad esempio, è bene illuminata dall’analisi attraverso cui la “soggettività operaia” prima tacitata, poi repressa e dispersa e quindi cacciata dalle fabbriche (secondo i dati ufficiali nel solo periodo dal 1981 al 1987 sono stati espulsi 905.000 tra operai/e su circa 6 milioni di addetti all’industria) è rispuntata nel sociale con nuove sensibilità e sotto forma di “soggettività popolare”; proprio sul terreno delle lotte per la salute, l’ambiente salubre e contro le produzioni e le industrie di morte.

«La soggettività è la base di quel ritiro della delega – scriveva Giulio A. Maccacaro nella relazione introduttiva al Primo Congresso nazionale di “Medicina Democratica Movimento di Lotta per la Salute”, Bologna, Palazzo del Podestà, 15 e 16 maggio 1976 – lungamente rilasciata al tecnico quale verificatore e falsificatore di una sofferenza soggettivamente patita e dunque reale ma che poteva essere negata, in conto di una pretesa obiettività di una scienza che non è retorico chiamare padronale». E’ da questa rivendicata soggettività che <<… è nata una ridefinizione del benessere/malessere non più come conformità-difformità a modelli espressi ed imposti dalla logica della produzione per il profitto, ma come vissuto individuale e di gruppo del rapporto con le condizioni di lavoro e di vita».((Giulio A. Maccacaro, in “Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute”, n. 2, 1976.))

Questa soggettività non capita e non prevista, nemmeno un minuto prima del 1968 dai partiti della sinistra e dai sindacati, rispunta verso la metà degli anni Ottanta e si manifesta sempre più sotto forma di “soggettività popolare” senza che, ancora una volta, il potere ne prevedesse e ne comprendesse i percorsi socio – culturali e politici, le potenzialità e le capacità di trasformazione ad opera di nuovi soggetti sociali. Mi riferisco, per restare ad alcune delle fabbriche più tristemente note, alle popolazioni autorganizzate – con proprie “assemblee permanenti”, movimenti e comitati – che hanno lottato per anni, con successo, a Massa, a Carrara, in Valle Bormida, a Manfredonia per la chiusura delle produzioni tossiche e cancerogene, per lo smantellamento in sicurezza degli impianti e per la bonifica dei siti industriali, rispettivamente della Farmoplant/Montedison, compreso il suo impianto di incenerimento per rifiuti tossici, dell’ANIC/Eni, dell’ACNA/Montedison e dell’Enichem/Eni, nonchè delle popolazioni che tuttora lottano con analoghi obiettivi. Per tutte ricordo la popolazione di Porto Marghera che si batte da anni per la chiusura delle produzioni cancerogene di cloruro di vinile monomero e policloruro di vinile (CVM/PVC) e per la bonifica della laguna di Venezia e del suo entroterra gravemente inquinati da milioni di tonnellate di rifiuti tossici sversati nell’ambiente dagli scarichi di quel petrolchimico.

Mi riferisco anche alle lotte per la salute e contro l’inquinamento degli operai delle ferrovie che negli anni ’80 e ‘90 hanno saputo coinvolgere in modo partecipato vasti strati di popolazione. In particolare, ricordo le lotte degli operai dell’Isochimica di Avellino e delle Officine Grandi Riparazioni delle FF.SS. di Santa Maria La Bruna (Napoli) e di Firenze che si sono battuti con successo – anche per l’utenza e quindi per la popolazione – per l’eliminazione dell’amianto, noto cancerogeno, dalle vetture ferroviarie e dai locomotori, e, che, assieme a molte altre realtà operaie hanno lottato per imporre il divieto totale di estrazione del minerale [a Balangero (TO) ove era attiva la più grande miniera di amianto d’Europa], nonchè delle relative produzioni/lavorazioni derivate, del suo commercio ed uso. Infatti, la Legge n. 257/1992 con la quale in Italia è stato messo al bando ogni tipo di amianto, non è caduta dal cielo ma è il frutto di anni di lotte operaie e popolari, da Casale Monferrato a molte altre realtà; in tutto questo è stato rilevante l’impegno profuso e l’apporto di conoscenze dato da Medicina Democratica alle realtà operaie e ai movimenti popolari per conseguire tale obiettivo. Basti qui ricordare che l’Associazione Esposti Amianto, fondata a metà degli anni ’80 a Casale Monferrato (ove fino al 1986 era in funzione il più grande stabilimento della multinazionale svizzera Eternit per la produzione di manufatti in cemento-amianto), è stata costituita su iniziativa di Medicina Democratica assieme a quella popolazione, tuttora gravemente colpita da malattie amianto-correlate, neoplastiche (mesoteliomi della pleura, carcinomi polmonari e in altre sedi) e non neoplastiche (asbestosi e altre patologie).((Il 6 aprile 2009 avanti al Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) del Tribunale di Torino Dr.ssa Cristina Palmesino, si è aperto il procedimento penale con la richiesta formulata dai pubblici ministeri (Dr. Raffaele Guariniello, Sara Panelli e Gianfranco Colace) di rinvio a giudizio dei vertici del gruppo Eternit S.p.A. per le morti e le malattie causate ad oltre 3.000 persone a seguito dell’esposizioni alle fibre/polveri di amianto all’interno ed all’esterno degli stabilimenti di Casale Monferrato (AL), Cavagnolo (TO), Rubiera (RE) e Bagnoli (NA). Con ordinanza del 01.06.2009, il GUP accoglieva le costituzioni di parte civile dei Famigliari delle Vittime, nonché quelle di Medicina Democratica, dell’Associazione Italiana Esposto Amianto, dei sindacati: dei chimici A.LL.C.A.- C.U.B., della CGIL, della CISL e di altri soggetti persone giuridiche. Con ordinanza 22.07.2009, lo stesso GUP rinviava a giudizio gli imputati, lo svizzero Schmidheiny Stephan Ernest e il belga De Cartier De Marchienne Louis, ovvero il vertice della multinazionale Eternit S.p.A.; la prima udienza del processo è stata fissata per il 10.12.2009.))

Questa nuova “soggettività popolare”, nella misura in cui i ricercatori, gli studenti, gli operatori culturali riscopriranno il gusto dell’inchiesta e della ricerca sul campo, attraverso la realizzazione di un corretto rapporto con i soggetti sociali che la esprimono, può divenire un comune terreno di lavoro e un valido strumento di analisi e di elaborazione di proposte rispondenti al soddisfacimento dei bisogni di salute espressi dalla popolazione, pena l’ulteriore degrado di cui innanzi si è detto.

Questa soggettività popolare e operaia ha posto e pone con determinazione il problema dell’affermazione della salute e dell’ambiente salubre ma, di volta in volta, è stata (ed è) ignorata, sbeffeggiata e tacitata dai pubblici poteri (i crimini industriali di Seveso, Manfredonia, Massa Carrara, della Val Bormida, di Spinetta Marengo, Porto Marghera, Mantova, Brindisi, Gela, Priolo, Porto Torres, Portoscuso e tanti altri stanno lì a ricordarcelo), quando non brutalmente repressa (per tutte valgano le cariche della polizia attuate, a 48 ore dalla nube tossica sprigionatasi il 17 luglio 1988 dalla Farmoplant, contro la popolazione di Massa Carrara, in sit in, in piazza Aranci, davanti alla Prefettura, mentre chiedeva informazioni per la propria salute così gravemente colpita. In questo caso, si badi bene, cariche ordinate per consentire ai ministri dell’Ambiente e della Protezione Civile, Ruffolo e Lattanzio, di lasciare il palazzo, dal portone principale, sull’auto governativa!).

Al contrario, questa soggettività va promossa, compresa e sempre più aiutata ad esprimersi e ad affermarsi; di qui l’attualità della costruzione di un corretto rapporto tra i nuovi soggetti sociali e i tecnici (secondo l’accezione data) e, di qui, ancora una volta, per i tecnici la possibilità di partecipare attivamente, da soggetti, al processo di ricerca e sperimentazione teso a rispondere ai problemi, non più rinviabili, posti dal grave stato di degrado e inquinamento in cui versa l’ambiente; quindi per partecipare alla costruzione delle scienze della salute e dell’ambiente salubre, al cui interno rifondare anche un’attività lavorativa creativa liberata dallo sfruttamento e dall’alienazione.((Temi affrontati con pregnanti contributi nel Convegno Internazionale su “Conoscenze scientifiche, saperi popolari e società umana alle soglie del duemila: attualità del pensiero di Giulio A. Maccacaro”, promosso da Medicina Democratica Movimento di Lotta per la Salute con l’Università Statale degli Studi di Milano, tenutosi presso l’Aula Magna della stessa università, nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 1997. Atti pubblicati nei Quaderni di Medicina Democratica, come supplemento ai numeri 114 – 118 della omonima Rivista, pp. 365, ottobre 1998.))

Capire questa soggettività popolare vuole anche dire indagare, ricercare e cogliere i nessi (e le differenze, alla luce delle nuove sensibilità sociali), a volte sfumati o sotterranei, fra valori, discriminanti e obiettivi da essa messi al centro rispetto a quelli allora espressi attraverso la soggettività operaia. Ad esempio, da questo punto di vista, è interessante rilevare lo stretto nesso che intercorre fra l’obiettivo operaio del “rischio zero” e quello rivendicato dalle popolazioni esposte di “autotutela” contro i rischi, gli agenti tossico – nocivi, le produzioni e le fabbriche di morte, ivi comprese le produzioni e le installazioni militari. Quindi, parafrasando l’O.M.S., vanno costruite le scienze della pace, intese come strumenti non solo per l’assenza della guerra, ma per la liberazione dei popoli (e dei singoli) dai bisogni, dallo sfruttamento, dal lavoro nocivo e alienato, per affermare le libertà e il benessere psico-fisico, sociale e culturale; in una parola, tese alla felicità individuale e collettiva.

Ritornando al nesso che intercorre fra il “rischio zero” (rivendicazione operaia) e l’“autotutela” dai rischi e dalle nocività (rivendicazione delle popolazioni esposte), è interessante notare come la soggettività operaia e quella popolare esprimano la medesima posizione: l’affermazione della salute, costituzionalmente garantita, come fattore indipendente e non subordinabile a nessun interesse economico, politico o di altra natura; e come ciò rappresenti una insanabile contraddizione rispetto ai comportamenti istituzionali giuridicamente regolati.

Vediamo perchè.

Controllo dei rischi e delle industrie a rischio o loro eliminazione?

La domanda non è oziosa. Infatti, l’informazione circa l’esposizione al rischio delle popolazioni e dell’ambiente porta generalmente a due sbocchi: uno — tuttora fortemente prevalente — finalizzato al controllo del rischio secondo tempi, modalità e protocolli fissati nelle leggi e definiti dalla Pubblica Amministrazione che, nei fatti, perpetua l’esistenza del rischio; l’altro, viceversa, che utilizza il momento del controllo per verificare (e confermare) la natura del rischio, al fine di meglio focalizzare l’intervento per la sua immediata e totale eliminazione.

Come si vede, due approcci e due posizioni radicalmente diverse.

La prima si affida alla “bontà”, alla “oggettività” e alla “neutralità” della scienza e della tecnica per controllare il rischio assunto come un dato “inevitabile” del processo produttivo o come il “male minore” da subire in quanto scaturito da una “analisi” di “costi—benefici” (la perdita della salute e della vita di alcuni per il “bene” della collettività); la seconda, al contrario, vede nell’individuazione del rischio la condizione di per sè sufficiente per la sua immediata e totale eliminazione (affermazione del rischio zero, cioè esposizione nulla per la donna, l’uomo e l’ambiente ai rischi e agli agenti tossico— nocivi).

Anche per questo vanno rifiutate nettamente quelle ipotesi che dietro teorie più o meno subdole e raffinate di “costi-benefici”, nei fatti, hanno l’unico obiettivo di imporre e perpetuare gli attuali rapporti di produzione, con il loro portato di malattia e morte in ogni realtà lavorativa, sociale e di vita. Per questo — come richiesto dalle popolazioni interessate — sono decisamente favorevole alla chiusura e allo smantellamento di ogni produzione di morte, ovviamente ivi comprese quelle delle armi e le installazioni militari. Superfluo ricordare che la quasi totalità della legislazione attuale, al più è funzionale al solo controllo del rischio nel tempo. E’ il caso, ad esempio, della direttiva comunitaria cosiddetta post-Seveso (CEE 82/501 e relativo D.P.R. n. 175/88 di recepimento nella legislazione italiana e sue successive modificazioni).

Per questo mi guardo bene dall’enfatizzare i suoi contenuti, anche se, come molti altri, ne chiedo la rigorosa applicazione, soprattutto in materia di informazione verso le popolazioni a rischio.

Va pure osservato che questa legislazione — al di là dei suoi limiti intrinseci — a causa della mancanza di volontà politica e quindi di un efficace sistema (strutture, mezzi, tecnici) di interventi e controlli per la sua applicazione, risulta completamente inefficace rispetto alle scelte produttive di fondo dei grandi gruppi industriali.

Da questo punto di vista, il caso a suo tempo affrontato dal presidente della Montedison, relativo al Petrolchimico di Mantova è di una evidenza solare. Nel “quadrilatero” Mantova, Ferrara, Venezia, Ravenna «la presenza della petrolchimica Montedison—Enimont rappresenta il 47% dell’intera capacità produttiva italiana (…). La mia opinione — affermava Raul Gardini — è che Mantova debba rafforzare la propria posizione tra le capitali europee del polistirolo>> (intervento all’assemblea degli industriali di Ravenna, 16 marzo 1989). La traduzione cruda di queste parole ha significato per l’area “Padano—Adriatica”, come amava definirla l’allora presidente della Montedison, l’ulteriore nefasto sviluppo di uno dei suoi quattro mostri inquinanti, il Petrolchimico di Mantova.

Infatti, l’allora presidente, nonostante i suoi sforzi per accreditarsi come un manager attento ai problemi ambientali, non era sfiorato dal dubbio che il problema dell’inquinamento (e delle scorie derivanti dai cicli produttivi) è legato anche ai crescenti livelli produttivi e quindi di consumo.

Risultato: le indagini epidemiologiche e ambientali condotte sul campo – che hanno visto la fattiva partecipazione di Medicina Democratica – hanno riscontrato, sia il notevole inquinamento del territorio e, segnatamente, quello del fiume Mincio e dei laghi di Mantova, sia la morte di decine di operai (e di persone che risiedevano nei pressi dello stesso polo chimico) colpiti da patologie neoplastiche causate dall’esposizione a quelle sostanze tossiche e cancerogene (in primis il benzene, nonchè le diossine sversate nell’ambiente con i fumi emessi dall’impianto di incenerimento!) impiegate come materie prime nella produzione dello stirene/polistirene, invocata dall’allora presidente Montedison. ((Sulle morti operaie causate per l’esposizione ad agenti tossici e cancerogeni presso il petrolchimico di Mantova, nonché per l’inquinamento ambientale provocato dagli scarichi degli impianti dello stesso polo chimico, la Procura della Repubblica di questa città ha condotto una vasta indagine istruttoria chiedendo al GIP il rinvio a giudizio degli imputati. Il procedimento penale in questione dovrebbe iniziare nella primavera del 2010.))

Che dire poi della Montedison S.p.A. (oggi non più esistente perchè incorporata nella Edison S.p.A.), delle istituzioni e dei sindacati che sulla testa della popolazione a rischio e in violazione della legge (senza realizzare la necessaria valutazione di impatto ambientale), il primo giugno del 1989 decidevano di realizzare un “piano di sviluppo dello stabilimento” di Mantova? Sviluppo che interessava produzioni altamente tossiche (fenolo, stirolo monomero e derivati, cloro-soda, dicloroetano e altri) in una fabbrica ad alto rischio e in un territorio già fortemente degradato e inquinato dagli scarichi tossici delle medesime produzioni. Tanta arroganza acceca.

Con buona pace dell’allora presidente Montedison e amici, la “Talpa Verde” ha scavato: infatti, dal primo gennaio 1990 la città di Portland (Oregon, USA) vietava l’uso di polistirolo espanso nei contenitori per dettaglianti, mentre la società canadese Cascade Douiinion da allora avviò un progettato per l’abbandono del polistirolo a favore della carta a causa della pericolosità delle materie plastiche per l’ambiente.((Plastics Recycling , p. 6, n.1, 1989.))

Al riguardo, l’insensibilità dei dirigenti di fabbrica non è stata da meno. A fronte del sequestro disposto dal Pretore degli scarichi illegali dello stabilimento, “acidi”-e “oleosi”, non trovarono di meglio che incolpare il Mincio di alzare il suo livello senza preavvertirli, impedendo così all’azienda la “tradizionale” (e illecita) diluizione dei veleni nelle sue acque. Per questo è importante demistificare certa retorica imposta dalla classe dominante, sulla ineluttabilità di un certo rischio individuale e collettivo, da sopportare come “male minore”.

E’ poi sconcertante il coraggio con il quale da anni si pontifica sulla “total quality” nel lavoro quando questo è ancora fonte di migliaia di morti e di milioni di feriti all’anno a causa degli infortuni e delle malattie professionali; e quando i cicli produttivi continuano a sversare nell’ambiente milioni di tonnellate di sostanze tossiche, mettendo a repentaglio la stessa vita sul Pianeta.

Noi di Medicina Democratica la qualità la intendiamo in modo diverso e siamo convinti che in fabbrica non possa esistere qualità totale senza che questa sia innanzitutto intesa come qualità di vita per chi lavora, per chi risiede e vive attorno agli impianti produttivi, nonchè per l’ambiente.

Circa la “qualità della vita”, va anche detto che essa non migliora proporzionalmente alla crescita economica.

C’è anzi chi ritiene che con la crescita questa “qualità della vita” invece peggiori. (( Cfr. Luigi Mara, Marco Caldiroli, Roberto Carrara, Paolo Crosignani, Bruno Thieme, “Per un futuro sostenibile quale crescita?” in Clima e Salute, pagg. 123 – 150, Roma, 5 giugno 2006 – Atti dei convegni Lincei, XXIV Giornata dell’Ambiente. Accademia Nazionale dei Lincei, Bardi Editore 2007. Sul punto, fra l’altro gli Autori mettono radicalmente in discussione l’attuale vulgata sulla crescita economica basata sull’aumento del PIL, sottolineando che <<Alla generale lamentela sul lungo periodo di ristagno o contrazione del livello del PIL che connota il dibattito nel nostro Paese, vogliamo contrapporre la necessità di un diverso paradigma indicatore del “benessere”, che abbia al suo centro uno sviluppo “senza crescita” di queste merci e di questi consumi (di questo PIL!), che privilegi la qualità (dell’ambiente e della vita) sulla quantità, finalizzando la produzione primariamente al soddisfacimento dei bisogni fondamentali della persona e alla qualità dell’ambiente naturale e sociale.

Una svolta così radicale è imposta dai limiti che si presentano al processo produttivo globalizzato. Gli osservatori più acuti hanno da tempo individuato questo nuovo limite all’orizzonte del “modello di sviluppo” dominante; dopo gli allarmi generati all’inizio degli anni ’70 dalla scarsità di materie prime energetiche, esso ha ottenuto una nuova formalizzazione nella seconda metà degli anni ’90 come Limite della capacità di sopportazione “carrying capacity” degli ecosistemi o dello “spazio ambientale” del pianeta Terra. Questo limite, riconosciuto dagli ecologisti come una crisi ambientale globale, non si è ancora diffuso significativamente nella percezione della popolazione generale non per carenza di conferme ma per una ostilità dei media popolari e anche scientifici che riteniamo debba essere contrastata.

La Natura nel pianeta Terra non è una merce gratuita, ma una “merce posizionale”: più viene consumata e più la sua qualità e capacità di fruizione, si deteriora per tutti.

Questo confligge con i diritti umani della cosiddetta “terza generazione” ovvero dei diritti umani che comprendono i diritti individuali (e dei popoli) riguardanti l’integrità della natura, ovvero dell’ambiente in cui vivono gli esseri umani, che si aggiungono al diritto allo sviluppo, alla giustizia sociale, alla disponibilità della ricchezza naturale; in altri termini la integrità ambientale è diventata una questione topica a causa della acutezza della crisi ambientale.

Non va taciuto che, continuando a sottrarre risorse naturali dall’ambiente e ad immettervi scorie, si arrivi ad un esaurimento di queste risorse o ad un livello di scarsità che causerà conflitti per la loro conquista. Per alcune di queste risorse fondamentali, quali i combustibili fossili e l’acqua, siamo già a questo punto e le guerre nel medio oriente – e non solo – stanno a testimoniarlo>>.))

Pertanto, da dove partire per individuare un’alternativa di vita e di lavoro, ivi compreso quello tecnico-scientifico? E la risposta che io darei a questo punto, e che sottopongo alla discussione di chi avrà avuto la pazienza di leggere queste note, è la seguente:

– si deve partire dai contenuti di fondo delle lotte del decennio 1968-77 senza

ricorrere (o ricorrendo il meno possibile) a categorie economiche (la salute e l’ambiente non sono merci!), che rinchiudono rapidamente il discorso nella logica dello sviluppo che si è avuto finora e che è la causa prima del drammatico stato di degrado e di inquinamento ambientale che oggi tocchiamo con mano.

D’altra parte questo è l’unico modo per collegarsi con le nuove lotte, a quelle della fine degli anni ‘70 e degli anni ‘80.

Che cosa sono gran parte dei movimenti “Verdi”, ecologisti e “No-global” se non una critica alle conseguenze a valle, sull’ambiente e sulle persone, della crescita capitalistica e della mercificazione di tutti i rapporti umani? Ma non c’è dubbio che una sinistra che ha rinunciato a criticare la crescita indiscriminata e la produzione di merci, armi comprese, ha su questo ben poco da dire, e non può che trovare questi nuovi movimenti — soggetti sociali — diversi e strani.

Va pure osservato che nei complessi e variegati movimenti dei “Verdi”, vi è chi sostiene e idealizza lo sviluppo di una scienza <<che dovrebbe affrancarsi in assoluto dai condizionamenti sociali per rispecchiare davvero solo la natura».((Si tratta di una critica condivisa da questo autore formulata da Angelo Baracca in (Bozza di) — “Dieci tesi per un Convegno sulla Scienza”, Firenze 1990.))

E’ una posizione errata e speculare a quelle posizioni – pre ’68 – dominanti della sinistra che sostenevano il carattere intrinsecamente progressivo delle forze produttive, della scienza, della tecnologia.

Al contrario, sono sostanzialmente – da condividere quelle posizioni che mettono sotto accusa scienza e tecnologia <<in quanto sono prodotte da un duplice rapporto di sfruttamento, dell’uomo sull’uomo da un lato, dell’uomo nei confronti della natura dall’altro.

Non si può pensare di eliminare una delle due contraddizioni senza eliminare anche l’altra. Finchè il lavoro umano sarà fondato su un rapporto di sfruttamento, esso avrà anche un atteggiamento di rapina e sfruttamento verso la natura».((Angelo Baracca, ibidem opera cit.))

In altri termini, l’attuale teoria ecologica ha introdotto il conflitto internamente alla scienza della natura (es. così come ha fatto per il problema energetico Amory B. Lovins, presidente e direttore scientifico del Rocky Mountain Institute, USA); ma ancora deve scoprire il conflitto interno alla società.

Conclusivamente mi preme attirare l’attenzione su un punto fin qui solo accennato: quello della inesistenza — del mancato sviluppo — delle scienze della salute e dell’ambiente salubre. Si tratta di un fatto di enorme portata ed emblematicità. Ciò pone molte domande e le possibili risposte sono tutt’altro che semplici. Esse, comunque, richiedono ben altri mezzi, assieme a un vasto lavoro di ricerca, e un’analisi dello sviluppo (o del suo mancato) delle scienze nei diversi contesti e periodi storici, accompagnati da una approfondita riflessione al fine di formulare adeguate linee interpretative della complessa problematica.

Pur con un certo grado di genericità e approssimazione, è possibile formulare una prima risposta: questo mancato sviluppo scientifico è riconducibile, come già detto, a una clamorosa distorsione programmatica delle potenzialità conoscitive che la società capitalistica attua nei diversi campi della scienza. Qui, però, interessa sottolineare che il disvelamento e la messa in luce di tale fatto sono stati possibili solo quando, in seno al movimento operaio (nei “gruppi omogenei di lavorazione”), è maturata e si è affermata una soggettività originale e la dirompente intuizione della richiesta-obiettivo del rischio zero, nell’accezione data a questo concetto. E’ qui che la scienza ufficiale non ha saputo e non sa rispondere; è sempre da qui che bisogna partire per rispondere positivamente alla richiesta operaia (e delle popolazioni a rischio) della costruzione delle scienze della salute e dell’ambiente salubre.

Scienze che sono letteralmente da fondare: non esiste infatti una loro versione ufficiale; pertanto, non si può neppure parlare in senso stretto della realizzazione di alternative.

I temi della salute umana vanno molto più in là.

Il concetto di prevenzione come massima possibilità di incidere per migliorare lo stato di salute, intesa come benessere psico—fisico, sociale e culturale del singolo e della collettività, porta l’ambito della scienza della salute a sconfinare molto al di fuori della scienza medica e di tutte le scienze accademiche. [Non sono infatti scambiabili le scienze mediche attuali con le scienze della salute secondo la richiesta operaia e popolare; così come non lo sono le tecniche disinquinanti con quelle dell’ambiente salubre. Ciò è tanto vero che, mentre la cura della malattia((Per esempio, in Italia il Servizio Sanitario Nazionale ha pagato nel 2008 20 miliardi di euro per le prestazioni rese in strutture sanitarie private convenzionate, facenti capo a una decina di società.)) e il disinquinamento sono dei business e sono compatibili con l’attuale sistema produttivo, viceversa, l’affermazione della salute e del Non-inquinamento sono nettamente incompatibili con tale sistema. Beninteso, non si intende qui sottovalutare l’importanza dell’intervento medico nei confronti della persona ammalata, così come quello disinquinante per bonificare l’ambiente, ma altro è il tema di cui si discorre].

Da parte del movimento operaio, l’aver evidenziato in questi campi, l’inesistenza di una scienza ufficiale (anche solo nominalistica), da un lato rende più consapevoli delle grosse difficoltà teoriche e pratiche che si devono superare nel processo di costruzione delle scienze della salute e dell’ambiente salubre, dall’altro fa emergere le maggiori possibilità (intese come minori vincoli, rigidità e condizionamenti a livello scientifico) di ricerca e sperimentazione per realizzare tale processo, e dall’altro ancora pone al (o ai) potere maggiori problemi e difficoltà nei suoi continui tentativi di inglobare le scienze nuove e alternative nella scienza dominante. In proposito, occorre constatare come «in qualsiasi scienza è nata una (o più) alternativa alla teoria dominante (questo vale con l’eccezione parziale della fisica di questo secolo; nella quale comunque sono nate due teorie incompatibili tra loro; nella fisica classica la termodinamica è tornata ad essere l’alternativa alla meccanica). In più la linea di tendenza generale è quella della crescita (in numero e importanza) delle alternative.

La ideologia dei gruppi dominanti vuole negare tutto ciò svalutando a priori ogni alternativa come sicuramente arretrata, caso mai insufficiente, in tutti i casi transitoria.

Per riuscire a dimostrarlo, la scienza dominante dovrebbe inglobare le alternative già nate in un nuovo schema scientifico (che superi anche tutte le difficoltà interne).

Allora per mantenere un’immagine della scienza unica, oggettiva, sicura, la teoria scientifica odierna si proietta sul futuro ed esalta ogni tendenza all’unificazione, scommettendo sulla sicura riuscita di ogni nuovo tentativo. Con ciò la scienza ufficiale giunge al paradosso che, presentandosi come massimamente sicura nei risultati, deve proporsi socialmente come una grande promessa teorica che si sta realizzando, o che sicuramente si realizzerà nel prossimo futuro. Con ciò essa necessariamente assume un aspetto mitico e quindi oscura la sua stessa base che è la sperimentazione e la verificabilità».((Antonino Drago, Relazione su “Quindici tesi sulla scienza alternativa”, Istituto di Fisica Teorica dell’Università degli Studi di Napoli, Maggio 1983.))

Da quanto sin qui detto deriva l’impossibilità di sostenere l’idea di una neutralità della scienza vista come un susseguirsi lineare di scoperte, di idee che si concatenano l’una all’altra concepite in maniera “evoluzionistica” (per passare dal “regno della necessità” al “regno della libertà”) senza comprendere che esse sono inerenti alla formazione sociale, al modo e al tipo di produzione (ai rapporti di produzione storicamente determinati).

Parafrasando le parole di Giovanni Serravalle – (docente del Politecnico di Milano, ad un convegno del 1989 – presso l’Università – sul tema “L’attualità del pensiero di Giulio A. Maccacaro”) – si deve sottolineare che “non è ammissibile che una scienza e una cultura siano private “di una loro metà”, cioè siano private dell’apporto del sapere e della cultura operaia e popolare”.((Convegno promosso dal Gruppo di Prevenzione ed Igiene Ambientale dei Lavoratori e delle Lavoratrici della Montedison di Castellanza assieme a Medicina Democratica, con la partecipazione di studenti e docenti dell’Università degli Studi di Milano, su L’attualità del pensiero di Giulio A. Maccacaro”, svoltosi il 24 maggio 1989, presso l’aula 208 – Settore Didattico della stessa Università, via Celoria, 20 Milano.)) Per questo la prevenzione di cui abbiamo parlato va intesa anche come approccio ecologico che pensa alla storia, al potere, alla progettazione del futuro in modo radicalmente diverso. Perciò la prevenzione non va intesa come qualcosa di settoriale, specialistico e tecnico: una coazione a ripetere di asserzioni e di postulati cui credere come a una fede. Al contrario, essa va promossa e realizzata attraverso un processo dialettico con la partecipazione dei soggetti interessati alla soluzione di un (o più) determinato problema di prevenzione.

Va quindi ribadito che non è data prevenzione, e cioè salute e ambiente salubre, senza partecipazione!

Agire da preventori significa più che mai agire criticamente – affermando la soggettività -, non accettare lo stato di cose esistente come il migliore possibile.

Di qui la necessità e l’attualità della partecipazione alla costruzione di un corretto rapporto tra gruppo operaio (e di popolazione) e tecnici secondo l’accezione data, come momento e processo dialettico di ricomposizione di diversi saperi e come premessa e strumento per la fondazione delle scienze della salute e dell’ambiente salubre.

Partecipazione di reciproca utilità per tutti/e coloro che sono interessati/e a una positiva trasformazione della società, al cui interno la produzione e la trasmissione scientifica e tecnica non sono problemi secondari.

In altri termini, per dirla con Giulio Maccacaro: le ipotesi e le proposte qui formulate «hanno bisogno di nuove verifiche, ulteriori ricerche, più ampie ricognizioni che attraversino le mappe della cittadella scientifica. Il potere che le appartiene, così come quello cui appartiene, può celarsi in ogni punto ma estinguersi in nessuno: cercarlo e scoprirlo è già sfidarlo».((Giulio A. Maccacaro, presentazione della collana da Lui fondata “Medicina e Potere” – GianGiacomo Feltrinelli Editore, Milano))

Pur con molti limiti, questo intervento vuole essere un contributo in tale direzione.

Note al testo

1. Medicina Democratica – Movimento di Lotta per la Salute. Giulio A. Maccacaro, Classe e salute, Firenze 9-10 novembre 1973, La salute in fabbrica, volume 1, Savelli editore, Roma 1974, p. 32.

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