Scienza, tecnologia e alienazione. Ivan Illich per un nuovo inizio
Senza speranza non è la realtà, ma il sapere che – nel simbolo fantastico o matematico – si appropria la realtà come schema e così la perpetua
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, 1946
Introduzione
Le note che seguono, dedicate al tema “Scienza, tecnologia e alienazione”, sono state preparate per l’incontro Un nuovo inizio. Ivan Illich, una guida per ripensare ai modelli di sviluppo: economia e ambiente, tecnologia e scuola, svoltosi a Venezia-Mestre il 21 maggio 2011, in occasione della presentazione del volume di Martina Kaller-Dietrich, Vita di Ivan Illich, pp. 225, Euro 12, Edizioni dell’Asino Roma 2011 (Ed. originale Ivan Illich (1926-2002), sein Leben, sein Denken, traduzione dal tedesco di Maria Giovanna Zini, revisione di Giovanna Morelli. La traduzione in italiano della biografia di Ivan Illich, e le riflessioni svolte attorno a essa, possono tornare utili non solo ai lettori interessati alla storia personale del sociologo e antropologo austriaco, dal pensiero difficilmente classificabile, ma anche a chi intende ricostruire l’origine di idee che dagli anni sessanta del novecento hanno portato a declinare una critica radicale delle istituzioni moderne, che ancora anima le riflessioni sui temi della decrescita, della sostenibilità e della nonviolenza. Dopo Jacques Ellul, prima di Serge Latouche, le opere di Illich – come Descolarizzare la società (1971), La convivialità (1973), Energia ed equità (1974), Nemesi medica (1975), Per una storia dei bisogni (1977), Il genere e il sesso (1982) – testimoniarono in modo corrosivo le storture della modernità. Il loro contenuto, però, se non correlato con eventi come la contestazione del 1968, gli sviluppi del Concilio Vaticano II, il fiorire della Teologia della liberazione, e con le reti di amicizie che Illich seppe tessere in Sud America ed Europa, può apparire slegato da ogni riferimento: una forma di pensiero affascinante ma isolata, unica. Non a caso obiettivo di Martina Kaller-Dietrich, docente di Storia moderna all’Università di Vienna, è stato facilitare l’accesso a un autore che unendo fortemente pratica e teoria va letto conoscendo almeno le tappe principali della sua vita. L’infanzia a Vienna, la fuga dal nazismo, gli studi in Vaticano, il sacerdozio, la fondazione a Cuernavaca (Messico) del Centro interculturale di documentazione per la formazione dei missionari in Sud America, il ritorno allo stato laico nel 1969 dopo l’interdizione papale del Centro di Cuernavaca, la permanenza in Messico fino al 1976, sono ricostruite dall’autrice attraverso interviste con amici e coetanei di Illich, corredate da una vasta bibliografia tratta dalla documentazione conservata a Vienna presso l’Istituto austriaco dell’America Latina.
L’opera di Illich è stata definita come un grande necrologio per quel mondo di culture non industriali che sta scomparendo, combinato con la demitizzazione dell’idea di progresso e dei riti sociali, sanitari ed educativi. Senza rivendicazioni populistiche, appellandosi alla coscienza personale Illich puntava a far maturare l’etica della consapevolezza in una società libera ed equa, capace di riportare i modi di produzione e consumo entro l’orizzonte dei bisogni umani. È paradossale, osserva Martina Kaller-Dietrich, che quasi ogni nota biografica su Illich sia associata alla fondazione di un istituto educativo nel quale egli è ora noto come critico radicale delle istituzioni e della scuola. Leggendo Illich, tuttavia, non è questa la contraddizione che più emerge, quanto piuttosto il travisamento dei bisogni e dell’equità nel loro soddisfacimento da parte delle istituzioni, per perpetuare in molti casi ormai solo se stesse.
Una prospettiva scientifica
L’analisi del pensiero di Ivan Illich secondo una prospettiva scientifica non è attuabile per via convenzionale, a causa del netto rifiuto che Illich manifestò di ogni atteggiamento culturale inteso come edificazione della verità e perché l’opera di Illich risulta estranea a ogni impostazione riduzionista – presupposto originario del metodo scientifico – orientata piuttosto a comprendere l’insieme umano biologico, sociologico e culturale, pur analizzando e valorizzando il comportamento individuale. L’inquadramento del pensiero di Illich è problematico anche perché, come alcuni critici sostengono, i suoi scritti sono basati essenzialmente sull’intuizione e pertanto le sue valutazioni dal punto di vista scientifico risulterebbero formulate in una sorta di vuoto teorico (M. Gajardo, Ivan Illich, Prospects, vol. XXIII, n. 3/4, 1993, p. 711-720). Non è, infatti, comune trovare i lavori di Illich citati dalle riviste di scienza. Alcune analisi tendono a ridurre l’importanza che Illich diede alle istituzioni tecniche, altre ritengono la sua critica ormai superata dai cambiamenti intercorsi nei campi del sapere scientifico; Illich stesso tendeva a contestualizzare i propri lavori rispetto ai periodi in cui erano stati realizzati, ritenendoli “una risposta a una determinata situazione” del tempo (D. Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, Eléuthera, Milano 1992, p. 77). In aggiunta, la forma di ragionamento prediletta da Illich, utilizzata per esempio in “Descolarizzare la società” (1971), deriva dall’apofatica, una forma di pensiero teologico confutativa, tesa a esprimersi per viam negationis (L. Hoinacki, Reading Ivan Illich, in L. Hoinacki, C. Mitcham, a cura di, The challenges of Ivan Illich, State University New York Press, 2002). In campo scientifico un tale sviluppo del ragionamento è provocatorio: equivale a un rovesciamento del metodo convenzionale, positivista, che si propone come costruzione lineare del sapere e, attraverso gli sviluppi scientifici e tecnologici, anche del progresso economico e sociale. L’analisi potrebbe chiudersi considerando il pensiero di Illich, già privo di riferimenti fondanti ai principi primi e alle pubblicazioni di settore, pari a quello di un luddista scientifico o di un nichilista, com’egli stesso si definiva di fronte alla pretesa di rigore razionale.
Tuttavia, la scienza è enormemente importante come istituzione perché stabilisce l’orizzonte del possibile e seleziona quel che può o non può essere argomento oggettivo di dibattito. Va inoltre considerato che il vero merito della scienza è la capacità di portare a riflettere sui limiti delle conoscenze e delle potenzialità dell’uomo; ogni grande avanzamento scientifico ha coinciso con il superamento di superstizioni e pregiudizi che sempre condizionano l’intelletto. Il paleontologo Stephen Jay Gould spiegava che “tutte le più importanti rivoluzioni della scienza hanno avuto come risultato comune lo spodestamento dell’arroganza umana, un piedistallo dietro l’altro, rispetto alle precedenti convinzioni sulla nostra centralità nel cosmo” (S. J. Gould, L’evoluzione della vita sulla terra, Le scienze 316, Milano, 1994, p. 31). Il fisico Freeman Dyson ha aggiunto: “non esiste una visione scientifica unica come non esiste una visione poetica unica. La scienza è un mosaico di visioni parziali e conflittuali. In tutte queste visioni c’è però un elemento comune: la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura localmente dominante” (F. Dyson, Lo scienziato come ribelle, Longanesi, Milano 2009, p. 16). Non si intende, quindi, suggerire di sfogliare gli scritti di Illich per impostare un progetto di ricerca sperimentale, né di studiare trattati di energetica per interpretare Illich; non ce n’è bisogno. Non è però fuori luogo provare a seguire i ragionamenti di Illich per verificare che i progetti scientifici perseguiti con politiche pubbliche siano sostenibili e proporzionati alle necessità umane e che gli obiettivi dell’innovazione tecnologica abbiano adesione al mondo del reale e non dell’impossibile – come le idee di accelerare senza fine i trasporti, le comunicazioni, la produzione e i consumi o prolungare la durata della vita umana oltre ogni limite biologico.
Rimandi e relazioni
Le osservazioni di Illich, anche se sovente prive di rimandi alla letteratura di settore, sono in ogni caso pertinenti rispetto ai problemi di uso delle tecnologie moderne, la cui sostenibilità è ormai messa in discussione apertamente. “Il dubbio che nel concetto di homo faber vi sia qualcosa di strutturalmente sbagliato si va sempre più diffondendo in una minoranza sparsa in tutti i paesi, comunisti, capitalisti e sottosviluppati” (I. Illich, Rinascita dell’uomo epimeteico, in Descolarizzare la società). Va però notato che Illich pone l’accento non sui limiti delle risorse economiche o naturali, come accade con maggior frequenza, ma su quelli delle risorse umane individuali e collettive. Nei suoi richiami contro “la minaccia rappresentata dall’estrema diffusione e onnipresenza di prodotti e servizi standardizzati – di mercato o istituzionali – per l’iniziativa personale, le capacità individuali e dei sensi di creare il proprio ambiente, la propria cultura” (I. Illich , Nemesi Medica. L’espropriazione della salute, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 9) echeggiano comunque riflessioni di uomini di diversa formazione ed epoca.
Sul tema delle scelte tecnocratiche, l’accostamento ad Aldous Huxley è diretto: “L’uomo come essere morale, sociale e politico è sacrificato all’homo faber, inventore e forgiatore di nuovi strumenti (…). Le società occidentali rimangono alla mercé del progresso e delle loro tecniche, con profondo sconforto di tutti gli interessati (…). La principale conseguenza del progresso della scienza è una cronica insicurezza sociale ed economica” (A. L. Huxley, Scienza, libertà e pace, Medusa, Milano 2002, pp. 37-38).
Sulla superiorità della scienza per spiegare il mondo, Philip Anderson – Nobel per la fisica nel 1977 – svolse una nota critica alla gerarchia dei saperi: “La capacità di ridurre ogni cosa a semplici leggi fondamentali non implica la capacità di ricostruire l’universo a partire da quelle leggi (…). Il comportamento di aggregati grandi e complessi di particelle elementari non si spiega in termini di una semplice estrapolazione delle proprietà di poche particelle. Al contrario, a ogni livello di complessità compaiono proprietà interamente nuove” (P. Anderson, More is different, Science, vol. 177, 4 agosto 1972, pp. 393-396). Infatti, la logica scientifica adatta per descrivere un certo ambito fenomenologico è inadatta o perfino fuorviante per la descrizione di fenomeni più complessi: la chimica trascende i limiti della fisica, la biologia eccede la chimica, l’auto-coscienza sorge dalla biologia, la coscienza sociale emerge dalla coscienza individuale, l’economia si manifesta nella vita comunitaria. I saperi nei diversi ambiti non sono compartimentali, anzi si integrano a vicenda, ma c’è il rischio di fare confusione nel loro uso: occorre servirsi di strumenti di analisi e intervento adeguati a ogni livello e bisogna avere chiaro che al crescere della complessità la certezza del sapere sfuma perché a ogni passaggio l’intero si rivela diverso dalla semplice somma delle sue parti. Riferendosi all’uomo, Illich notava: “Nessuno potrà negare che la sua esistenza sociale si sviluppa su diverse scale, in diversi ambienti concentrici: la cellula di base, l’unità di produzione, la città, lo Stato, infine la Terra. Ognuno di questi ambienti ha il suo spazio e il suo tempo, i suoi livelli di popolazione e le sue risorse energetiche. C’è disfunzione dello strumento in uno di questi ambienti quando lo spazio, il tempo e l’energia richiesti dall’insieme degli strumenti eccedono la scala naturale corrispondente” (I. Illich, La convivialità, RED, Como 1993, p. 104).
Sulla formalità del sapere moderno, John Stuart Mill, teorico dell’individualismo liberale, osservò: “Quando la fede è diventata ereditaria, ricevuta passivamente e non attivamente (…) vi è una tendenza progressiva a dimenticarne tutto salvo le formule, o a tributarle un consenso fiacco e torpido (…) finché la fede non ha quasi più rapporto con la vita interiore dell’individuo. Allora compaiono i casi, ormai così frequenti da costituire quasi la maggioranza, in cui la fede resta per così dire esterna alla mente, ma la incrosta e la calcifica contro tutte le altre influenze che si rivolgono agli aspetti più elevati della nostra natura; e manifesta il suo potere sbarrando l’accesso a tutto ciò che è nuovo e vivo, ma non facendo nulla per la mente e il cuore, salvo che starvi da sentinella per tenerli vuoti” (J. S. Mill, Saggio sulla libertà, 1859). Sulle istituzioni, Mill aggiunse: “A lungo termine, il valore di uno Stato è il valore degli individui che lo compongono; e uno Stato che agli interessi del loro sviluppo e miglioramento intellettuale antepone una capacità amministrativa lievemente maggiore, o quella sua parvenza conferita dalla pratica minuta; uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini benefici, scoprirà che con dei piccoli uomini non si possono compiere cose veramente grandi; e che la perfezione meccanica cui ha tutto sacrificato alla fine non gli servirà a nulla, perché mancherà la forza vitale che, per far funzionare meglio la macchina, ha preferito bandire”.
La scienza è in crisi anche perché affida la lettura del mondo alla sola dimensione materiale, appiattendosi sul piano fenomenologico. È la denuncia fatta da Edmund Husserl in La crisi delle scienze europee (1938), contro la deriva oggettivistica della razionalità moderna. La stessa crisi, è descritta da Robert Musil nella stessa epoca e nello stesso luogo, Vienna: “L’intima sterilità, il mostruoso miscuglio di rigore nelle minuzie e d’indifferenza per l’insieme, la desolata solitudine dell’uomo in un groviglio di particolari (…) Ci si chiede senza pregiudizi come la scienza abbia assunto il suo aspetto attuale (…) s’è incominciato nel XVI secolo, un periodo di fortissimo movimento spirituale, a non più sforzarsi di penetrare i segreti della natura, com’era successo fino allora in due millenni di speculazione religiosa e filosofica, bensì ad accontentarsi di esplorarne la superficie, in un modo che non si può fare a meno di chiamare superficiale” (R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996, pp. 40 e 341).
Sui temi dell’efficienza delle strutture tecniche, l’antropologo Joseph Tainter, sulla traccia dei Limiti dello sviluppo denunciati dal Club di Roma nel 1972, presagì l’inevitabilità del crollo strutturale al crescere della quantità di servizi messi in piedi per il sostentamento di una società (J. Tainter, The collapse of complex societies, Cambridge University Press 1990). Le forme complesse di organizzazione sociale, notò Tainter, sono emerse in tempi relativamente recenti e costituiscono un’anomalia nel percorso dell’umanità perché a ogni accrescimento di complessità i vantaggi per la società si fanno sempre più marginali; molto più a lungo le comunità umane sono state costituite da piccoli gruppi autonomi e indipendenti. Le cause del collasso finale – la cui inesorabilità è forse l’unica certezza della storia – possono risiedere in fattori che vanno dalle catastrofi naturali, ai conflitti sociali, all’esaurimento delle risorse. Principalmente, comunque, le società si avviano al fallimento quando gli investimenti nelle istituzioni, nelle organizzazioni o nelle infrastrutture smettono di produrre risultati utili o addirittura danno risultati negativi (controproduttivi).
Con la fantasia, infine, hanno descritto la totalizzazione tecnologica Edgar M. Forster, disincantato narratore dell’Inghilterra vittoriana, con La macchina si ferma (1909) – un racconto in cui i sensi e la psiche sono mediati dalle tecnologie fino a inibire la creatività, i sogni, le emozioni e le relazioni sociali – e Stanislaw Lem, investigatore dei limiti umani conoscitivi e comunicativi, con i racconti ironici di Cyberiade (1965), una raccolta sull’eccessiva creatività tecnica di due robot ingegneri.
Nemesi
Illich si inserì nella lunga linea del pensiero critico verso il positivismo in modo autorevole e originale con la metafora di Nemesi, la dea della vendetta, utilizzata in particolare (ma non solo) per svelare le disfunzioni della medicina moderna. “L’impresa medica minaccia la salute” è l’inatteso esordio di Nemesi medica, un libro portante del filone di pubblicazioni che negli anni settanta dello scorso secolo misero in crisi gli schemi della medicina tradizionale, impostata in forma gerarchica, con il paziente assoggettato al medico (T. McKeown, La medicina : sogno, miraggio o nemesi?, Sellerio, Palermo 1978; A. L. Cochrane, L’inflazione medica. Efficacia ed efficienza della medicina, Feltrinelli, Milano 1978; M. H. Pappworth, Cavie Umane, Feltrinelli, Milano 1971). Illich scelse di discutere la medicina anche per il suo valore simbolico e il ruolo guida nel presupposto successo della razionalità moderna, ma va detto che non vi è dottrina moderna meno oggettivabile della medicina, tuttora priva di un paradigma unificante per la protezione e la cura della salute. Quel che vale per un organismo può valere per il sistema sociale, e viceversa. Così come le strutture di servizio realizzate per risolvere i problemi creati dallo sviluppo – il degrado ambientale, l’inquinamento, la dipendenza energetica – generano spese e complessità aggiuntive, costringendo il sistema a svilupparsi ulteriormente in un circolo vizioso di rafforzamento fra cause ed effetti della crescita, la medicalizzazione in difesa della salute sembra destinata ad auto-accrescersi indefinitamente a detrimento della salute stessa. L’analisi di Illich non è dissimile dalle osservazioni sul crollo delle civiltà complesse, né da considerazioni marxiste sulla caduta dei sistemi per progressiva riduzione delle utilità, se non per la radicalizzazione del concetto di collasso sulla dimensione umana. La capacità di conservazione degli equilibri naturali senza inficiare il patrimonio di capacità e risorse della collettività e la complessità di servizi sostitutivi offerti dalla società tecnologica crescono in modo inversamente proporzionale l’una all’altra e si condizionano ostacolandosi reciprocamente.
La metafora di Nemesi, tratta dalla cultura ellenica, si dimostrò efficace, ma va sottolineato che per chiarire i suoi ragionamenti Illich preferì un riferimento culturale diverso, corrispondente al fiorire della Scolastica, la filosofia cristiana medievale sorta nell’Alto medioevo, che vide la sua maggiore diffusione nel secolo XIII. Un periodo antecedente il secolo XVII di Galileo, Copernico e Bacone, addirittura pre-elisabettiano, pre-luterano, pre-rinascimentale, genuinamente non tecnologico. In quell’epoca, la tecnica rimandava alle arti e ai mestieri, non a un ordinamento scientifico e sociale interamente rivolto allo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro. L’epoca individuata da Illich per riflettere, per esempio, sulla lettura come meditazione in Nella vigna del testo (Cortina, Milano 1994), richiama un modo di pensare in cui al centro del mondo vi erano concezioni del tempo e dello spazio non ancora deformate da necessità eccedenti i bisogni umani. Le distorsioni sarebbero seguite a breve con forme apodittiche di interpretazione della realtà, propinate attraverso il perfezionamento delle liturgie e le graduatorie di sacralità – le gerarchie degli angeli e perfino dei demoni – e con l’ordinamento utilitarista delle teorie e pratiche tecniche, assieme a un innalzamento della figura umana rispetto alla natura, in posizione dominante.
Mito e tecnologia
Il periodo centrale della Scolastica (sec. XII-XIII) vide assieme la nascita dell’umanesimo e l’alba della scienza occidentale: la prima scuola di medicina sorta nel X secolo a Salerno, crocevia greco, latino, arabo ed ebraico; il primo grande scienziato europeo riconosciuto nel mercante Leonardo Pisano, vissuto poco prima di Dante. Le due culture erano allora inscindibili, esisteva fra mestieri, arti e pensiero un rapporto di complementarietà che perdurò fino al Rinascimento unendo artisti e artigiani a studiosi e mercanti. Questi ultimi, incrociandolo, recuperavano dal mondo arabo traduzioni delle antiche opere in greco. Da questa integrazione nacquero la prospettiva così come l’ottica e l’anatomia che interessavano pittori e scultori, o la statica che richiamava gli architetti.
Per confronto, i rimandi di Illich al mondo greco – per esempio l’ultimo capitolo di Descolarizzare la società, intitolato “Rinascita dell’uomo epimeteico” – più che alla storicità del classicismo si indirizzano alla sua dimensione mitologica. Questa marginalizzazione del pensiero ellenico, accostata al riconoscimento del rapporto dialettico esistente tra mito e rappresentazione scientifica, rimanda all’anti illuminismo della Scuola di Francoforte. Max Horkheimer e Theodor Adorno, membri dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, elaborarono la Dialettica dell’illuminismo (1946) negli Stati Uniti, in esilio dopo l’ascesa del nazismo, avendo ancora sotto gli occhi la barbarie della dittatura hitleriana, il conflitto mondiale e anche la società americana; tre esempi che prefigurano un’integrazione ideologica delle masse nel sistema. Secondo Adorno e Horkheimer la stessa ragione scientifica procede dal mito: la genesi del pensiero speculativo affonda le radici nei racconti mitici sulla creazione, che rappresentano il primo tentativo di interpretazione della realtà e di riduzione della complessità a un numero limitato di principi esplicativi. Illich riprese questa tesi: “A partire dall’Illuminismo, la scienza è un’attività umana volta alla naturalizzazione dell’esperienza e dell’ideologia, al fine di esprimerla nel linguaggio (…) ciò che il mondo (o l’insieme di dati empirici) conferisce al mito (o alla scienza) è una realtà storica definita dal modo in cui gli uomini l’hanno prodotta o usata; e ciò che il mito (o, in questo caso, la scienza) dà in cambio è un’immagine naturale di questa realtà; ne consegue che la ‘natura’ studiata diventa mitica (scientificamente neutra) come le categorie neutre utilizzate nello studiarla” (I. Illich, Il genere e il sesso, Mondadori, Milano 1984, p. 90).
Limiti e confini
La contestazione di Illich non nega le potenzialità della tecnologia: se ogni giorno si estraggono dalla crosta terrestre 80 milioni di barili di petrolio è anche perché un barile fornisce energia pari a 25mila ore di lavoro umano, tredici anni della vita di una persona. Ma nelle forme di razionalismo si osserva in genere un contrasto fra la spinta illuministica, fiduciosa che ogni liberazione dal dogma sia di per sé un acquisto di felicità, e l’affiorare dei motivi pessimistici che inevitabilmente risultano da una visione smitizzata della condizione umana. Invece, l’attuale parcellizzazione della conoscenza in ambiti specialistici comporta una visione a corto raggio del sapere e, come conseguenza, un eccesso di fiducia nel potere salvifico delle tecnologie e la rimozione del senso di limite e di tragicità dall’ambito scientifico. Illich attacca non la tecnologia ma la sua idealizzazione, non la medicina ma la medicalizzazione. Quel che più deve preoccupare, insomma, non è che nel mondo vivano milioni di persone che guadagnano meno di un dollaro al giorno, quanto il fatto che ovunque diventi sempre più difficile sopravvivere senza guadagnare dollari.
Le esortazioni di Illich al contenimento della proliferazione tecnologica sono fortemente legate agli insegnamenti di Jacques Ellul che Illich riconobbe pubblicamente come maestro, avendone scoperto l’opera grazie a La technique ou l’enjeu du siècle (1954), tradotto in inglese su suggerimento di Aldous Huxley (I. Illich, To honor Jaques Ellul, intervento a Bordeaux 13 novembre 1993). Diversamente da altri ma similmente a Ellul, Illich denunciò l’eccessiva dipendenza dalla tecnologia non tanto per rivendicare interventi di carattere solidaristico quanto per tornare a percepire la condizione umana entro una prospettiva meno mediata da dispositivi e più vissuta intimamente e socialmente. Ciò che risulta intollerabile a Illich come a Ellul è la subordinazione al sistema tecnologico e l’assenza di ribellione contro le condizioni che lo assolutizzano minando la pienezza e la libertà della vita, l’autostima, la fiducia nei propri mezzi. In campo medico, un tale atteggiamento corrisponde all’accettazione della malattia come esito del sistema, alla cura dei sintomi senza percezione delle cause che producono il male. “Tutti i provvedimenti ad hoc non sono in grado di correggere le più profonde cause delle difficoltà – ribadiva Gregory Bateson – e, peggio ancora, permettono di solito alle cause di rafforzarsi e allearsi. In medicina alleviare i sintomi senza curare la malattia è ragionevole se e solo se la malattia avrà sicuramente esito mortale, oppure guarirà da sé” (G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000, p. 533). Sotto questa prospettiva, la critica di Illich scaturisce da un’analisi più sovra-scientifica che anti-scientifica e la sua ricusazione nell’ambito tecnico dipende soprattutto dall’incapacità di questo ambito di cogliere e integrare quel che sfugge ai suoi lacunosi criteri di normalizzazione.
Alienazione
La pretesa della scienza di operare per il bene comune, definito oggettivamente a nome di tutti è un primo indizio di operosità deviante. Il tema è approfondito da Illich nella Tecnosofia di Ugo di San Vittore (Research by People, in I. Illich, Shadow Work, Marion Boyars, Londra 1981) un testo che delinea un modello di scienza come rimedio ai danni causati dall’uomo, da contrapporre al modello di scienza come dominio della natura. “L’espressione science by people (scienza della gente) è contrapposta a science for people (la scienza per la gente). Quest’ultima designa ciò che si è soliti chiamare ricerca e sviluppo o più semplicemente, dopo la seconda guerra mondiale, R&D”. La R&D è promossa da istituzioni, industrie, università, ospedali, eserciti, fondazioni o da privati che ambiscono a vendere i risultati dei loro studi a questi apparati; Illich considera questa attività di grande prestigio, esercitata in funzione dell’interesse generale, ma anche dispendiosa, esente da imposte e in grado di assicurare posti fissi ben remunerati ad accademici bardati di titoli. “La R&D può vertere sulla società o sulla natura, essere fondamentale o applicata, specializzata o interdisciplinare – conclude Illich – chiamare scienza per la gente la R&D non implica affatto disprezzo né comporta una pregiudiziale disapprovazione di questa impresa. Ciò significa solo che i risultati della ricerca non hanno alcuna relazione diretta con la vita quotidiana di chi la pratica“. E i suoi esiti non sono del tutto sotto controllo.
Tecnologia e dimensione umana
Una forma di inibizione diretta delle abilità è svolta dalle tecnologie sul piano fisiologico. Nel capitolo di Energia ed equità intitolato “L’industrializzazione del traffico”, Illich spiegò: “La gente si muove bene con le proprie gambe. Questo mezzo primitivo per spostarsi apparirà, a un’analisi appena attenta, assai efficace se si fa un confronto con la sorte di chi vive nelle città moderne o nelle campagne industrializzate. E riuscirà particolarmente suggestivo quando ci si renda conto che l’americano d’oggi, in media, percorre a piedi, per lo più in tunnel, corridoi, parcheggi e supermercati, tanti chilometri quanti ne percorrevano i suoi antenati. Coloro che vanno a piedi sono più o meno uguali (…). [Invece] lo sviluppo dell’industria del trasporto (…) ha diminuito l’eguaglianza tra gli uomini, ha vincolato la loro mobilità a una rete di percorsi disegnata con criteri industriali e ha creato una penuria di tempo d’una gravità senza precedenti”. Illich pose l’accento sulle diseguaglianze, ma l’eccesso di trasporto motorizzato causa problemi di salute anche ai privilegiati a causa degli incidenti, dell’inquinamento e favorendo, attraverso la sedentarietà, l’obesità, il diabete e le malattie cardiocircolatorie. Sempre in Energia ed equità, nel paragrafo “Crisi Energetica” Illich aveva annotato: “Parlo del traffico al fine di illustrare il più generale tema dell’impiego socialmente ottimale dell’energia, e mi limito alla locomozione delle persone (…). Mi astengo volutamente dal considerare altri due tipi di traffico: quello delle merci e quello dei messaggi. Per entrambi, si potrebbe fare un discorso analogo”. Si potrebbe, infatti, discutere sull’inibizione delle capacità mnemoniche indotta dai dispositivi audiovisivi, dai calcolatori e perfino dai libri – pochi scrivono e fanno calcoli ancora a mano, nessuno più pratica l’arte della memoria secondo il metodo di Simonide di Ceo, usato anche dopo l’invenzione della stampa per memorizzare opere intere – o sulla ridotta capacità di organizzazione della vita sociale dei più, ossessivamente legati ai dispositivi di telecomunicazione (telefonini, SMS, e-mail) che utilizzano senza discrezione, banalizzando ogni avvenimento e dando risalto a ogni banalità.
Oltretutto, i processi di discriminazione su base tecnologica, emersi a partire dalla rivoluzione industriale, si sono aggiunti a quelli di ordine biologico e culturale rafforzandoli e offrendo un nuovo livello di giustificazione della diversità oggettivamente percepita attraverso l’uso di strumenti e misure. Ai sottouomini sono stati aggiunti i sottosviluppati e gli arretrati, arrivando a considerare diversi tutti coloro che testimoniano un’anomalia, un’irregolarità del sistema tecnico. Questo accade anche perché la deriva verso la specializzazione tecnologica – il progresso – va affrontata in modo compatto. La comunità che progredisce deve essere un monoblocco, non si possono proporre eterogeneità che non consentano il massimo dell’efficienza. Le parole più associate al termine progresso sono, infatti, unione, ordine, alleanza – l’Alleanza per il progresso fu ideata da John F. Kennedy nel 1961, anno di fondazione del Centro Intercultural de Documentación a Cuernavaca (M. Kaller-Dietrich, Vita di Ivan Illich, Edizioni dell’Asino, Roma 2011, p. 57-60).
Per la percezione tecnologica, le incongruenze sono come impurità e le contraddizioni di solito si palesano lontano, specialmente dove le risorse, tecnologiche e no, sono più scarse. Un esempio di discriminazione odierna è l’umiliazione di chi subisce un disastro tecnologico – l’inondazione del Vajont, la diossina a Seveso, l’amianto a Casale Monferrato – e si deve battere per recuperare dignità. È una vera e propria sindrome (S. Astori, La memoria di una catastrofe e la credibilità ferita del sopravvissuto, L’arco di Giano, n. 48, 2006, pp. 69-77). Il progresso sacrifica, eliminandola, ogni diversità e quando colpisce anche chi diverso non è scattano meccanismi collettivi di rimozione, emarginazione e indifferenza. Invece di rivedere lo stile di vita, è più rassicurante commiserare le vittime offrendo loro supporto medico e psichiatrico, derubricando le tragedie in patologie. “Niente di nuovo, per carità: ben altre inquisizioni hanno coltivato l’arte di punire nelle vittime l’assoluzione dei colpevoli”, scriveva il direttore dell’Istituto di biometria dove Illich tradusse in italiano Nemesi Medica: se la diversità è elevata a rango di malattia la sua accettabilità pubblica diventa plausibile, così come l’utilizzo di psicofarmaci è acconsentito se indotto dalla medicalizzazione ma è represso se svolto volontariamente al di fuori delle regole (G. A. Maccacaro, Nuovi untori per la nuova peste, Se n. 1, suppl. Abitare, n. 100, nov. 1971, p. 27).
Diniego e introiezione tecnologica
Dalla massificazione deriva il livello di alienazione più profondo: la perdita di significato dell’esperienza personale già sancita dalla rivoluzione industriale e ribadita nella specializzazione e separatezza delle competenze, fino alla riduzione dell’esistenza in comparti separati. Secondo Umberto Galimberti, “la maggior parte degli uomini, immersi nell’apparato tecnico, non sono consapevoli della scarsissima libertà della propria esistenza avendo assimilato la propria vita a quella dell’apparato stesso. Chi invece continua a denunciare l’assoluta mancanza di senso di un’esistenza costretta ad esprimersi in un semplice universo di mezzi, viene invitato da più parti a curare la sua demotivazione” (U. Galimberti, L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000, p. 690). L’emotività è volontariamente disgiunta dal lavoro e dalla professionalità, il piacere coincide con la sregolatezza, il sapere è merce e il riduzionismo la sua forma meglio spendibile, le visioni unitarie mettono disagio. È ciò che Jacques Ellul aveva paventato: “Quando le persone perdono motivazione per la propria vita, possono accadere due cose: raramente accettano che questo sia vero, in questo caso sviluppano tendenze suicide e cominciano a ingoiare medicinali; oppure cercano una via di fuga nella dimensione del divertimento. Gli uomini, anziché prendere coscienza della situazione fingono di non vederla per evitare di deprimersi; preferiscono andare più e più velocemente per non preoccuparsi del problema e non dover rifletterci sopra” (J. Van Boeckel, The Betrayal by Technology: A Portrait of Jacques Ellul, 1992). In una situazione di diniego diffusa, la percezione dei tratti alienanti tipici del tempo della tecnica, invece che come un segno di lucidità viene derubricato come un sintomo patologico: il segno di una malattia da cui occorre guarire.
La propensione al diniego è accompagnata dall’introiezione della dimensione tecnologica sul piano culturale e perfino sul piano biologico. Questa deriva non è specifica della modernità, l’adesione alle prassi tecniche è un istinto atavico tipico dell’evoluzione culturale. L’integrazione fra elementi tecnici e biologici è rintracciabile nell’etimologia attraverso l’identità di termini indicanti gli arti e i primi rudimentali strumenti (ramo e braccio corrispondono all’inglese branch e arm), una sintesi bio-tecnica primordiale di cui il linguaggio stesso è espressione. Contare, cento, hundred, tracciare, catturare, gettare, stringere, get, brandire, tre, three, tree, sono vocaboli tutti riconducibili a braccio, mano, dita (G. Semerano, Le Origini della Cultura Europea, Leo Olschki, Firenze 1984-1994). Si tratta di un processo di integrazione, o esclusione, in atto da diecimila anni. Il termine barbaro, emblema della differenziazione antropologica, rimanda alla percezione nell’antica Grecia della diversità linguistica come balbuzie: una differenza culturale, resa come variante dell’abilità comunicativa, percepita come difetto. Per i processi di specializzazione tecnologica, ogni nuovo sviluppo porta a una maggiore funzionalità, raggiunta anche grazie a codificazioni e uniformità procedurali e simboliche, ma assieme comporta una diminuzione della varietà di strumenti disponibili per compiere una certa operazione e un impoverimento del patrimonio emotivo legato all’uso degli strumenti. Nella comunicazione, per esempio, si è passati dall’universo di intonazioni e cadenze ad alcune centinaia di lingue, a poche decine di forme di scrittura, fino a un piccolo numero di sistemi informatici, di cui uno usato nella quasi totalità dei computer. L’omologazione è una necessità del sistema tecnico.
Perdita di autonomia
Quale sia il limite dell’integrazione fra biologico e tecnologico è una questione aperta. Vi sono situazioni estreme. Kevin Warwick, il ricercatore che nel 1998 impiantò nel proprio avambraccio un microchip per attivare porte, luci e altri dispositivi senza, letteralmente, muovere un dito, ha affermato: “Non sarà necessario per tutti diventare dei cyborg. Alcuni potranno scegliere di restare umani. Se siete felici di quel che avete, bene, rimanete umani; è una vostra scelta. Ma ricordate: come gli umani si sono separati dai nostri cugini scimpanzé molti anni fa, così i cyborg si separeranno dagli umani. Coloro che sceglieranno di restare umani diverranno una mera sottospecie” (K. Warwick, Intelligent Robots or Cyborgs, in Writing the future, MIT press, 2004). Secondo Jacques Ellul, però, l’uomo moderno s’inganna; emula Esaù, che rinunciò al diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie, ma fa uno scambio ancor meno conveniente: crede di abdicare alla libertà per la sicurezza, in realtà riceve in cambio solo una menzogna collettiva. Così, uno dei risvolti più inquietanti del regime tecnocratico è che un gran numero di cittadini non sa o non può più fare nulla in autonomia. La libertà personale e i diritti politici e civili in queste condizioni dipendono dalla buona grazia di proprietari capitalisti e dirigenti nazionali, e i mezzi di produzione e distribuzione dalla loro buona volontà di tenere fede al mandato democratico (L. Gallino, Tecnologia e Democrazia, Einaudi, Torino 2007). L’autonomia, essenza della libertà, è pressoché assente nella realtà occidentale che vive assieme una crisi ecologica, economica e umanitaria. Mantenendo i ritmi di crescita attuali, nel 2050 avremo bisogno di un’efficienza nell’impiego di risorse 130 volte superiore rispetto al presente; se l’India raggiungesse i consumi occidentali, per sostenerli occorrerebbe decuplicare la produzione di acciaio, quadruplicare quella di petrolio; i cambiamenti del clima potrebbero portare all’estinzione di un milione di specie nei prossimi 50 anni e comportare esodi migratori, lotte sociali, conflitti – come sostengono le analisi militari, ben più realistiche di quelle politiche. Non avendo a disposizione neppure gli strumenti dell’immaginazione, non stupisce che le risposte a fenomeni globali così tragici siano populistiche e demagogiche, schiacciate sul quotidiano. Anche il rischio sugli esiti di ogni possibile nuova soluzione tecnologica – il rilancio del nucleare, il recupero di gas naturale da scisti bituminosi, l’estrazione di petrolio da giacimenti artici, la genetica applicata alla produzione agroalimentare – è troppo elevato. Gli effetti provocati dai congegni che costruiamo sono così sproporzionati che non siamo attrezzati nemmeno per immaginarli. Ma invece di ridurre le proprie mire e contornare di precauzione il proprio agire, la ragione tecno-scientifica accentua la tensione unificatrice a partire da presupposti assolutistici rivendicando se non la manomissione, il diritto di controllo sulla natura. “L’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un’umanità da buttar via”, osservava Günther Anders ( L’uomo è antiquato, vol. II, in Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 35).
Alienazione e asimmetria
Vi è un aspetto particolarmente drammatico del processo di straniamento indotto per via tecnologica, che passa per la costruzione della ghigliottina, la sedia elettrica, l’uso dell’aviazione in guerra, la bomba atomica. Nelle cosiddette guerre umanitarie, la discriminante fra civiltà e barbarie sembra non stare più nella scelta di uccidere, ma nella modalità tecnologica o no dell’uccisione. “Forse per questo l’aggettivo barbaro è stato usato molto di meno a proposito dell’11 settembre – ha scritto Alessandro Portelli – dove pure i nemici dell’Occidente hanno ammazzato quasi tremila persone: hanno usato l’aereo, non il coltello; e ne hanno ammazzati tremila in massa, impersonalmente. Proprio come facciamo noi. Nelle guerre antiche, chi uccideva si caricava direttamente dell’impurità della morte; nelle asettiche guerre in cui ammazziamo a distanza, questa impurità resta sospesa, avvelena l’aria e ne genera altre” (Asimmetria di un omicidio, Il Manifesto, 1 sett. 2004). Sono le stesse conclusioni raggiunte da Günther Anders nel carteggio tenuto con Claude Etherly, radarista dell’aereo che sganciò la bomba su Hiroshima, i cui incubi e attacchi di panico dopo la fine della guerra venivano letti come segni di squilibrio. “Il modo in cui lei verrà (o non verrà) a capo delle sue sventure, è seguito da tutti noi (…) perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi. La tecnicizzazione del sistema: il fatto che indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La tecnica ha fatto sì che si possa diventare inconsapevolmente colpevoli, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri” (G. Anders, Il pilota di Hiroshima, Gli asini, n. 4, 2011).
La tecnologia aiuta ad accantonare la consapevolezza. Quando le nostre bombe cadono su città e villaggi, non è perché odiamo i loro abitanti: consideriamo questo un atto dovuto, impersonale. “Civiltà è uccidere senza odiare, senza sentirsi contaminati – aggiunge Portelli – continuando a sentirci buoni perché non odiamo nessuno, perché quelli che uccidiamo sono meno umani di noi. C’è in queste guerre una straordinaria doppia asimmetria: all’asimmetria del potere militare corrisponde un’asimmetria dei sentimenti. Un potere moderno e schiacciante può uccidere asetticamente, e non ha bisogno di odiare (i soldati americani dicono sempre che è un lavoro da fare); un potere inferiore, dotato di armi più primitive, elabora la logica di queste armi, uccide personalmente e gli riesce meglio se lo fa odiando.”
Per un nuovo inizio
Viviamo in una continua pretesa di accelerazione dei ritmi produttivi, economici, vitali, scandita da sviluppi tecnici insostenibili per i progetti umani, che svuotano di significato l’esistenza. La rappresentanza democratica, già carente di legittimità, è priva della sensibilità necessaria per intendere la portata di questi processi, così come dell’autorevolezza che le competerebbe per attuare scelte di cambiamento, seppure tardive. Ma non è ad essa che Illich si rivolgeva; la sua proposta era indirizzata a una collettività coscienziosa e cosciente. Mantenendosi sempre distante da elaborazioni politico-economiche inclusive, invece di elaborare nuove regole di partecipazione e cambiamento, Illich si sforzò di rendere le persone consapevoli delle condizioni che impediscono a principi e precetti umani di ricrearsi spontaneamente su scala adeguata alla comunità. In questo senso l’approccio di Illich è negativo: svelare l’assurdità del sistema tecnico in cui si è chiusa la modernità è un passaggio doloroso ma necessario per promuovere un nuovo inizio. Questo vale anche se non ci sono troppe speranze di successo. “Quand’anche un insieme di riflessioni così orientate non avesse alcun influsso sull’evoluzione ulteriore dell’organizzazione sociale, non per questo perderebbe il suo valore; – scriveva Simone Weil – i destini futuri dell’umanità non sono l’unico oggetto degno di considerazione. Soltanto dei fanatici possono attribuire valore alla propria esistenza unicamente in rapporto a quanto essa serve una causa collettiva.” (S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 130).
Anche se i rapporti fra modernità e tecnologia resteranno in larga parte inalterati, il fondamento del messaggio di Illich è che gli individui e le comunità possono recuperare da soli autonomia e senso quando i meccanismi che inibiscono l’iniziativa personale e favoriscono la dissonanza cognitiva sono svelati. Non a caso, gli strumenti tecnologici informativi e comunicativi – a dispetto o a ragione del loro eccessivo impiego e delle possibili manipolazioni – sono oggi il fulcro del dibattito politico popolare mondiale. “Reagire contro la subordinazione dell’individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia – concludeva Simone Weil – Per risolversi a un simile sforzo di analisi critica basta aver compreso che esso permetterebbe a chi vi si impegnasse di sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo”.
Controproduttività specifica
Il tema dei rapporti tra scienza, tecnica e alienazione può essere affrontato più esplicitamente a partire dalla descrizione di quella condizione del tutto particolare che si può instaurare nella relazione tra persona e strumenti tecnologici cui Ivan Illich ha dato il nome di controproduttività specifica, riconoscendo in essa l’aspetto maggiormente saliente della tecnologia ad alta intensità industriale. è possibile identificare alcune caratteristiche comuni di questa condizione nei diversi ambiti in cui si manifesta a partire dall’illustrazione di un certo numero di esempi ed evidenziando come questa condizione sia osservabile in rapporto alle soluzioni messe in campo per rimediare alla penuria di risorse energetiche industriali cui l’intenso sviluppo tecnologico in corso da una serie di decenni sembra averci destinato.
Scriveva Illich: “La soglia oltre la quale la medicina, l’istruzione e i trasporti diventano strumenti controproducenti è stata raggiunta in tutti i paesi del mondo che abbiano un livello di reddito pro capite almeno pari a quello di Cuba. In tutti questi paesi, contrariamente alle illusioni diffuse dalle ideologie ortodosse, vuoi d’Occidente vuoi d’Oriente, tale controproduttività specifica non ha nulla a che fare con il tipo di scuola, di veicolo o di organizzazione sanitaria attualmente in uso si sviluppa infatti ogni volta che, nel processo di produzione, l’intensità di capitale supera una certa soglia critica” (I. Illich, Per una storia dei bisogni, Arnoldo Mondadori, Milano 1981, p. 22).
Sempre in riferimento al concetto di controproduttività specifica, durante le sue conversazioni con David Cayley, Illich ribadiva che quando l’intensità della produzione industriale di un dato strumento supera una certa soglia critica, quello strumento diviene il maggiore ostacolo al raggiungimento dello scopo per cui era stato creato, allontanando da questo scopo più persone di quante invece non riescano ad approfittare dei suoi vantaggi (D. Cayley, Conversazioni con Ivan Illich, op. cit., p. 68).
In virtù di questa trasformazione la produzione su larga scala di automobili può divenire il principale ostacolo alla mobilità delle persone, l’elevata diffusione di prodotti curativi e per l’assistenza medica può divenire causa di malattie iatrogene, l’ampia diffusione di servizi informativi ed educativi può diventare una minaccia per l’apprendimento e la conoscenza, l’intensa attività industriale nel campo dell’edilizia può mettere a rischio le capacità e le possibilità dei singoli di costruire da sé le proprie abitazioni, l’utilizzo esteso di mezzi di comunicazione può divenire causa di isolamento e di incapacità di stabilire relazioni personali significative. Ogni strumento, prodotto, o servizio standardizzato che industrie, istituzioni politiche, religiose e di assistenza in genere possono pensare di fornire ai consumatori, ai cittadini, ai fedeli, ai malati e ai bisognosi finiscono per produrre gli effetti che dovrebbero servire a scongiurare nel momento in cui la loro intensità di diffusione supera una data soglia.
Come già osservato, per Illich gli effetti di questa trasformazione sono pari a quelli di una vendetta cosmica: il castigo che Nemesi infligge a Prometeo per la presunzione di poter rubare agli dei il fuoco della conoscenza (I. Illich, Nemesi Medica, l’espropriazione della salute, op. cit., pp. 280-281). Si tratta di una trasformazione del tutto distinta e non riconducibile a possibili esternalità negative o effetti di utilità marginale decrescente collegati all’impiego degli strumenti tecnologici. Taluni dispositivi arrivano a costituire il principale ostacolo al raggiungimento del fine che dovrebbero consentire di perseguire, a prescindere dal fatto che al loro diffuso impiego possano essere attribuiti, ad esempio, effetti di inquinamento ambientale o una sensibile diminuzione o un impiego non etico delle limitate risorse materiali e energetiche disponibili. Le manifestazioni della controproduttività specifica, insomma, vanno principalmente se non esclusivamente ricercate laddove si assista alla riproduzione tecnologica su larga scala di oggetti e dispositivi standardizzati. Tutti i possibili effetti di questa riproduzione sull’ambiente o sulle persone che non rappresentano un impedimento al raggiungimento attraverso l’impiego di questi dispositivi degli scopi cui questi stessi dispositivi sono preposti, sono irrilevanti dal punto di vista della comprensione della trasformazione controproduttiva.
Illich fa osservare che la controproduttività specifica si manifesta su tre dimensioni: tecnica, sociale e culturale o strutturale (J. P. Dupuy e J. Robert, La Trahison de l’Opulance, Presse Universitarie de France, pp. 33-39; I. Illich, Nemesi Medica, op. cit. pp. 47-145). Queste tre dimensioni sono strettamente collegate le une alle altre, la controproduttività specifica esiste in ognuna e si alimenta grazie alla coesistenza di ognuna di esse.
La dimensione tecnica della controproduttività specifica è quella più direttamente identificabile e può essere rilevata attraverso gli indicatori quantitativi che vengono tipicamente messi a punto per verificare l’efficacia di un dato strumento prodotto industrialmente. Nel caso della medicina, ad esempio, essa può essere messa in evidenza considerando l’andamento dei consumi di taluni prodotti medici in funzione del tasso di mortalità e dell’aspettativa di vita delle persone che ne fanno uso; nel caso degli autoveicoli può essere considerata la velocità media pro-capite in funzione del numero di veicoli in circolazione, nel caso dei sistemi educativi si può considerare la percentuale di laureati che trova un lavoro nel proprio ambito di studio in funzione del numero totale di laureati o la correlazione tra le materie che gli individui hanno studiato a scuola e l’efficienza degli stessi nei lavori che richiedono una preparazione in quelle materie (I. Berg, The Great Training Robbery, Percheron Press, 2003).
La dimensione sociale della controproduttività specifica riguarda invece gli effetti della produzione industriale sulle possibilità di espressione delle capacità personali degli individui e dei loro corpi; la sua causa va ricercata in un errore epistemologico che porta a confondere una variabile di flusso (bene di scambio) come i prodotti industriali di un dato genere, con una variabile di stato (una qualità) come una particolare capacità personale (J. P. Dupuy e J. Robert, La Trahison de l’Opulance op. cit., p. 55). Questo errore porterebbe, infatti, a ritenere che capacità non misurabili in termini di grandezze economiche – che non possono risultare da un’attività produttiva e di cui gli economisti non possono quindi parlare – quali ad esempio, le capacità spontanee degli individui e dei loro corpi di mantenersi in condizione di salute, di apprendere, di rapportarsi a certi luoghi, possano essere favorite o identificate con la presenza diffusa di prodotti e cure mediche, di istituti per l’educazione, di mezzi di trasporto.
Secondo Illich, la messa in campo di prodotti e servizi per la cura medica, l’educazione e il trasporto crea le condizioni per lo sviluppo e l’espressione di capacità personali relative alla cura di sé, all’apprendimento, alla creazione di relazioni significative col proprio ambiente solo fino a che l’intensità di produzione industriale di tali prodotti e servizi non supera una certa soglia critica. Oltrepassata questa soglia si manifesta una controproduttività specifica rispetto alla possibilità di generare o esprimere tali capacità nei diversi ambiti sociali e relazionali in cui esse tipicamente si sviluppano. Questo tipo di controproduttività corrisponde, in sostanza, a una riduzione delle possibilità di espressione delle possibilità personali di far fronte al proprio ambiente, di adattarsi al suo cambiamento o di rifiutare ambienti intollerabili; fatto questo che si traduce, tra le altre cose, in un condizionamento “a ricevere le cose anziché farle, in un’educazione ad apprezzare ciò che si può comprare e non ciò che si può creare”(I. Illich, Nemesi Medica, op. cit., p. 36 e p. 309).
Infine, la dimensione culturale della controproduttività degli strumenti riguarda i miti e le metafore che accompagnano l’esteso utilizzo dei prodotti industriali. Per Illich, il diffuso impiego di determinati strumenti proposto dalle istituzioni moderne e dall’attuale sistema industriale rappresenta un insieme di fatti rituali, di cerimonie mitopoietiche, di liturgie sociali che generano un insieme di certezze accettate senza riserve, equivalenti a veri e propri idoli che estinguono la valenza del soggetto. Secondo Illich, insomma, gli strumenti tecnologici, oltre a svolgere le funzioni per cui sono stati concepiti, quando diffusamente impiegati dicono qualcosa che la società finisce per accettare come certezza (D. Cayley,Conversazioni con Ivan Illich, op. cit., p. 69). Le verità che essi propongono possono tuttavia non essere esperite, possono essere astratte e disincarnate, in quanto il soggetto che partecipa al rituale tecnologico non ri-vive queste verità attraverso il corpo ma subordina il proprio sentire a un significato attribuito da terzi (M. Berman, Coming to Our Senses; Body and History in the Hidden Story of the West, Seattle Writers Guild, pp. 136-155).
Anziché essere una esperienza somatica attraversocui la persona partecipa fisicamente, attivamente e intenzionalmente alla relazione con lo strumento, i rituali che gli strumenti tecnologici propongono possono ridursi a una rappresentazione formale e simbolica di una verità e di un senso decretati dai suoi amministratori che, comunque, gli utilizzatori non necessariamente ricostruiscono; una verità e un senso di cui gli utilizzatori potrebbero anche essere all’oscuro senza che la valenza della funzione rituale che gli strumenti determinano ne risulti inficiata 1. La forma astratta e disincarnata delle certezze che i dispositivi tecnologici possono finire con il proporre rinforza la necessità della loro onnipresenza, rende conto della dipendenza da questi e dell’impossibilità di coglierne i principi di funzionamento da parte dei più, della necessità di un loro continuo rinnovamento, di una costante ed estesa opera di educazione al loro utilizzo svolta da appositi “sacerdoti” (gli esperti), della progressiva scomparsa e svalutazione delle capacità e delle iniziative individuali che potrebbero eventualmente consentire di assolvere autonomamente alle funzioni a cui questi sono delegati, della negazione del ruolo attivo che l’esperienza personale, il corpo e i sensi possono avere nel loro impiego, la loro creazione e la loro selezione 2.
Alcune caratteristiche generali della controproduttività tecnica dal punto di vista della teoria dei sistemi
A partire dai tre esempi qui di seguito illustrati è possibile arrivare a una descrizione di alcune caratteristiche generali della controproduttività tecnica degli strumenti tecnologici facendo riferimento ad alcuni principi esplicativi derivati dalla teoria dei sistemi 3.
1) In ogni grande città dell’occidente l’automobile ha rappresentato un effettivo vantaggio per i pochi che ne hanno fatto uso fino agli anni ’50-’60 del secolo passato. Quando il suo impiego ha iniziato a diffondersi è tuttavia cambiata la distribuzione dei punti di fornitura di servizi presenti sul territorio, è cambiata l’organizzazione delle attività lavorative; così il suo impiego è divenuto una necessità per i più, l’intensità di utilizzo da parte dei singoli è aumentata per il fatto che attraverso essa sono risultati realizzabili un numero crescente di compiti, il ricorso a modalità di azione differenti per avere accesso a determinati servizi è divenuto sempre più difficoltoso e oggi il diffuso impiego di questo strumento è divenuto un ostacolo alla mobilità in molte città.
2) Si immagini che i responsabili del sistema sanitario di un paese decidano di introdurre una serie di norme igieniche per evitare il diffondersi di agenti patogeni in specie animali e scongiurare il pericolo di malattie tra le persone che si nutrono di tali specie o dei loro derivati. Queste norme prevedono l’osservanza di una serie di procedure relative all’allevamento delle specie in questione e la messa in atto di queste procedure comporta costi che tipicamente pesano sull’economia degli allevatori in modo inversamente proporzionale al numero di capi trattati. L’applicazione di queste norme comporta inizialmente un innegabile beneficio e un’effettiva diminuzione dei casi di comparsa degli agenti patogeni in questione, ma allo stesso tempo è causa della scomparsa di piccoli allevatori e di una centralizzazione dei sistemi di allevamento in misura proporzionale al numero di norme che si richiede di osservare e ai costi delle misure che è necessario mettere in atto. Può accadere a questo punto che i sistemi di allevamento su larga scala diventino causa dell’insorgere di nuove patologie nelle specie allevate, patologie rispetto alle quali le norme in questione non costituiscono un rimedio. Oppure accade che nuove patologie, rispetto a cui queste norme sono inefficaci, insorgano per cause non imputabili ai sistemi di allevamento ma amplificate dal loro carattere intensivo. Comunque sia, la trasformazione in senso centralistico indotta dalle norme igieniche renderà più difficoltosa la possibilità di sviluppo di adeguate contromisure e faciliterà nei fatti la diffusione di queste nuove patologie.
3) Un numero crescente di giovani ha avuto la possibilità di accedere al sistema educativo italiano a partire dagli anni ’50-’60 del secolo passato a causa di un generale incremento del benessere economico, ha potuto godere dei benefici derivanti dall’acquisizione di un più elevato livello d’istruzione e ha potuto allo stesso tempo contribuire alla crescita del sistema industriale del proprio paese. L’espansione del sistema dell’educazione formale e l’incremento della produzione industriale si sono tuttavia autoalimentati, determinando col tempo una trasformazione per cui la scuola è diventata il generatore delle risorse intellettuali necessarie al mantenimento e allo sviluppo del sistema industriale, mentre l’espansione del sistema industriale ha reso necessario che un numero crescente di persone ricevesse un’educazione sempre più standardizzata e funzionale al suo mantenimento. Nel contempo, la formazione educativa ha dovuto rendersi disponibile a un continuo processo di aggiornamento e adeguamento alla sempre più rapida evoluzione tecnologica – la stessa che ha trasformato la maggior parte dei beni e delle relazioni che le persone sono in grado di generare spontaneamente in prodotti e servizi standardizzati offerti da soggetti con competenze specializzate e certificate.
D’altro canto gli automatismi che oggi muovono la riproduzione tecnologica hanno determinato una drastica riduzione della necessità di personale addetto al mantenimento del sistema industriale e con essa l’interruzione del feedback positivo tra produzione e consumo di beni e servizi. Se da una parte le persone non sono più in grado di assorbire l’eccesso di offerta di beni e servizi del sistema industriale, dall’altra il sistema industriale non è più in grado di assorbire l’offerta di personale formato al suo mantenimento. Così come l’esteso ricorso ad automobili può cambiare la topografia dei paesaggi, può cancellare la possibilità di far ricorso a modalità di trasporto alternative, può determinare una scarsità di spazi per il trasporto su gomma e situazioni di congestione del traffico, divenendo nei fatti un impedimento alla mobilità, l’estensione dei metodi della produzione industriale a tutti gli ambiti del vivere quotidiano ha fatto della possibilità di accesso a ogni ambito una questione di acquisizione di competenze specializzate e certificate determinando una situazione di scarsità di posizioni disponibili, riducendo fortemente la possibilità di far ricorso a sistemi di vita alternativi e creando nei fatti la figura del “disoccupato”. Un numero sempre crescente di persone ha speso e continua così a spendere molti anni della propria esistenza all’interno dei sistemi dell’educazione formale per munirsi di un bagaglio di competenze ormai altamente inflazionate che non consentono più di inserirsi nel proprio contesto sociale; inoltre, proprio a causa delle trasformazioni operate in tale contesto dall’espansione dei sistemi di produzione standardizzata di beni e servizi, non si può più sviluppare e impiegare in maniera autonoma quell’insieme di conoscenze informali e di pratiche legate al territorio che potrebbero permettere una partecipazione attiva alla vita della comunità di appartenenza e alla creazione di alternative al modello di sviluppo industriale ormai in crisi. L’espansione industrializzata di educazione formale e di beni e servizi in generale, ha fatto sì che il benessere di un paese potesse essere concepito in termini di un aumento dei consumi di beni e servizi e di un arruolamento di un numero crescente di persone nei ranghi del sistema di produzione industriale. Avvenuta questa ridefinizione del concetto di benessere, i cambiamenti intervenuti all’interno del sistema industriale l’hanno trasformato in un gigantesco meccanismo di esclusione divenuto oggi il principale impedimento a che una persona possa sviluppare doti specifiche e originali da impiegare per condurre la propria esistenza.
Gli esempi sopra descritti illustrano a) come le condizioni che possono portare a uno stato di controproduttività specifica siano il risultato dell’estesa diffusione di pratiche standardizzate per il raggiungimento di determinati scopi; b) come in generale l’elevata diffusione di queste pratiche rappresenti in una prima fase un aumento dell’efficacia e dell’efficienza con cui gli scopi a cui esse sono preposte vengono conseguiti – almeno fino a quando all’interno del sistema nel quale vengono messe in atto persiste una certa abbondanza del tipo di risorsa necessaria alla loro riproduzione; c) come l’elevata diffusione di queste pratiche standardizzate generi una serie di trasformazioni (tipicamente irreversibili) all’interno del sistema in cui sono riprodotte che rende sempre più difficile (se non impossibile) il ricorso a pratiche alternative per il raggiungimento dello stesso scopo, comportando una perdita di flessibilità del sistema, intesa come perdita delle capacità e delle possibilità di far ricorso a modalità non standard per raggiungere questo scopo. Quando quest’ultima condizione si verifica, un qualsiasi cambiamento interno o esterno al sistema (legato per esempio, ma non solo, a una sensibile riduzione della risorsa necessaria alla riproduzione della pratica standard in questione) può non soltanto rendere inefficace e controproduttivo il ricorso alla pratica standard, ma può mettere in crisi la possibilità di esistenza del sistema stesso se il raggiungimento dello scopo cui la pratica è preposta è di importanza vitale.
Produzione industriale del risparmio
Il tema della controproduttività specifica ha risvolti importanti in campo energetico. Il titolo di questa sezione, in buona sostanza un ossimoro, può ben rappresentare l’insieme di misure messe in campo dai paesi occidentali come reazione ai possibili effetti dell’intenso uso delle risorse energetiche convenzionali, che hanno cominciato a manifestarsi a partire dagli anni settanta dello scorso secolo. La risposta di industria e mercato a quanti imputano la responsabilità di una possibile crisi energetica e di un sempre maggiore degrado ambientale all’estesa produzione e utilizzo di dispositivi tecnologici è stata, nella pratica, un cambio d’abito: la proposta o l’imposizione di una sostituzione di prodotti e servizi energivori e inquinanti con prodotti e servizi ad alta efficienza energetica e con minori ricadute sull’ambiente e sulla salute delle persone. Si è pensato e si pensa tuttora che la diminuzione dell’input di energia non rinnovabile per unità di output della produzione industriale sia la soluzione del problema, senza ritenere che il miglioramento dell’efficienza dei dispositivi tecnologici possa essere la causa di un generale aumento di prodotti e servizi industriali superflui a disposizione dei singoli o, in ogni caso, possa produrre effetti vanificati nella sostanza dall’incremento dell’intensità di produzione di questi dispositivi.
Risparmiare energia significa oggi sostituire un prodotto o un servizio esistente con un prodotto o un servizio analogo ma che, a parità di output, consuma minori quantità di energia non rinnovabile; oppure, nel caso di nuovi prodotti e servizi, essere in grado di dimostrare di avere applicato misure aggiuntive che consentono di consumare una quantità di energia non rinnovabile inferiore a quella che si consumerebbe in assenza di queste misure. Non potendo mettere in questione la necessità di mantenere o accrescere l’intensità dei suoi output, la sola concezione di risparmio energetico che il sistema industriale è in grado di proporre e il solo obiettivo che le attività di ricerca e sviluppo possono cercare di conseguire per ridurre i consumi energetici è quello di un aumento nella produzione di soluzioni efficienti. Anche l’idea di risparmio energetico che dovrebbe essere intimamente collegata a quelle di sobrietà, rinuncia, astensione, sta divenendo un concetto industriale e il grado di avanzamento di questa trasformazione è direttamente proporzionale al livello di standardizzazione raggiunto dai prodotti per il risparmio energetico.
Allo stesso tempo, la diffusione capillare di prodotti e servizi industriali resa possibile dall’economia di mercato ha fatto sì che grandissima parte delle nostre relazioni col mondo siano oggi mediate da strumenti tecnologici che funzionano, vengono costruiti e smaltiti attraverso il consumo di quantità misurabili di energia prodotta in diverse forme standard (elettricità, gas, benzina, ecc.) e venduta all’interno di un mercato regolato dalle leggi della domanda e dell’offerta. In questo modo, la maggior parte delle attività che oggi svolgiamo viene a dipendere dall’uso di queste forme standard di energia genericamente indicata con il termine di energie industriali(inclusa anche l’energia prodotta da fonti rinnovabili: sole, biomasse, acqua, ecc.) che, per definizione, sono scarse.
Si noti che prima che da un’effettiva scarsità di risorse energetiche sul nostro pianeta, la scarsa disponibilità delle energie industriali dipende da svariati altri fattori. La legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato dei prezzi dell’energia è uno di questi; questa legge e i presupposti creati per la sua applicazione consentono, infatti, di mantenere il regime di scarsità necessario al funzionamento del mercato anche quando la risorsa scambiata non è scarsa di per sé. Uno dei presupposti per l’applicabilità della legge della domanda e dell’offerta in campo energetico è dato dalla misurabilità della quantità di energia che viene prodotta e consumata e dalla conseguente possibilità di definire un tasso di cambio per la sua vendita sul mercato, nonché dalla definizione di diritti di proprietà. Un secondo fattore che determina una situazione di scarsità è l’impossibilità di fare a meno degli strumenti tecnologici che fanno uso di energie industriali nello svolgimento della maggior parte delle attività quotidiane.
I diversi compiti e le diverse mansioni assolti dalle persone hanno sempre avuto una varietà di valenze, come pure hanno avuto una varietà di valenze e significati i materiali e gli alimenti di cui le persone si sono servite. Le forme di energia a cui queste hanno fatto ricorso sono sempre state tra le più diversificate e non sono mai state esclusivamente “forme di energia”. Il livello di attività personale non è mai stato percepito come principalmente dipendente dal consumo di una qualche forma standard di energia e si è sempre pensato che quello che per alcuni è scarto per altri potesse rappresentare una importante fonte di sostentamento – così il letame, uno scarto animale, rappresenta una risorsa preziosa in agricoltura. È solo in seguito all’intenso e diffuso utilizzo di prodotti e di servizi industriali e alla conseguente scarsità di risorse energetiche standard percepita che ciascun compito e mansione assolti vengono ridotti al massimo comun divisore dell’energia industriale spesa per il loro svolgimento e alla necessità di una ottimizzazione del suo impiego.
La messa in atto di azioni educative su larga scala volte a stimolare comportamenti individuali sostenibili non ha fatto che rafforzare la convinzione che ogni nostro atto comporti il consumo di una risorsa scarsa chiamata energia a cui solo pochi soggetti industriali sono in grado di dare accesso attraverso complicati meccanismi di trasformazione della materia. Questa mistificazione è servita a legittimare la conversione di quantità crescenti di beni naturali in risorse energetiche e la continua sostituzione di dispositivi tecnologi che richiedono il consumo di energia per il loro funzionamento con modelli equivalenti più efficienti e ha anche reso sempre più difficile non fare ricorso all’uso di questi nello svolgimento di ogni mansione assolta nella vita quotidiana.
In questo clima culturale mangiare, giocare, camminare, apprendere, curarsi sono azioni rispetto alle quali la mediazione tecnologica suggerisce una rappresentazione in termini di meccanismi caratterizzabili essenzialmente attraverso un consumo di energia industriale. Prigioniere di questa visione, le persone non potranno che elaborare soluzioni per affrontare la scarsità di risorse avvertita in termini di ottimizzazione e miglioramento del rendimento. Se l’uomo e gli oggetti di cui egli si serve sono percepiti in termini di macchine o sistemi che consumano energia, che hanno un fabbisogno energetico, l’unica possibilità di cui questo uomo-macchina, questo uomo-sistema dispone per far fronte alla scarsità di risorse determinata dalla sua visione del mondo è quella di ottimizzare i processi che stanno alla base del suo funzionamento e dei suoi rapporti con il mondo in termini di una maggiore efficienza, di una riduzione dei costi collegati ai prodotti e servizi di cui si serve, di una riduzione degli input energetici e di materia necessari alla produzione, all’impiego e allo smaltimento di predeterminate articoli. L’unico rimedio che l’uomo meccanizzato può trovare alla scarsità di risorse determinata dalla produzione industriale su larga scala di prodotti e servizi standardizzati è quello di aumentare l’efficienza energetica legata a questa produzione, di produrre industrialmente risparmio energetico oltre che manufatti e servizi. Dal momento che la maggior parte delle relazioni che oggi stabiliamo con il mondo è mediata da prodotti e servizi che consumano energia, il carattere paradossale e controproduttivo di questo comportamento è tuttavia palese: cosa potremo fare dell’energia risparmiata grazie a una produzione più efficiente se non impiegarla per l’uso di altri prodotti e servizi? Come non sospettare che la sempre maggiore scarsità di forme di energia industriale a cui sembra siamo destinati possa, ad esempio sotto lo stimolo di un aumento dei prezzi di queste forme di energia, determinare una moltiplicazione di nuovi prodotti e servizi “efficienti” che da sola causa più consumi che risparmi di energia industriale? Come non osservare che la serie infinita di attività innescate dai soli scambi commerciali dovuti all’intensa produzione, all’utilizzo e allo smaltimento di questi prodotti e servizi efficienti non possa da sola essere causa di un consumo di energia industriale superiore a quello che questi prodotti e servizi efficienti dovrebbero consentire di evitare?
In ogni caso, quello che deve maggiormente preoccupare è il fatto che l’estrema diffusione di dispositivi tecnologici di ogni genere rende oggi sempre più difficile ricavare spazi di vita che a tali dispositivi non facciano ricorso. Quando ogni attività dipende dall’impiego di prodotti e servizi industriali che fanno uso di risorse che sono scarse per definizione, poco importa che questi prodotti e servizi svolgano più o meno efficientemente la loro funzione. Se il rapporto con il mondo si esplica quasi esclusivamente attraverso la produzione e l’utilizzo di strumenti tecnologici, ogni attività non potrà che essere la fonte di consumi di energia nelle forme convenzionalmente prodotte dall’industria, non potrà che rendere ancora più scarse queste risorse e sottrarre ad altri la possibilità di farne uso. Quando non sarà più possibile avere accesso a queste risorse, le persone saranno più che povere, saranno in uno stato di miseria essendo loro negate tutte le relazioni col mondo che ormai necessitano dell’uso di quelle risorse per essere instaurate, sulle quali, invece, i poveri di ogni tempo hanno sempre potuto contare.
C’è una crudeltà immensa in tutto questo, una crudeltà che paradossalmente può essere animata dalle migliori intenzioni. Poco importa che certi strumenti siano nominalmente messi in campo a fin di “bene”, sia questo “bene” la possibilità di accesso alle risorse energetiche, la salute delle persone, la loro educazione.
Nel caso di intensa attività industriale nel campo dei prodotti e dei servizi a basso consumo di risorse energetiche, la controproduttività specifica, già messa in evidenza per i prodotti e i servizi per la formazione, il trasporto e l’assistenza medica, si manifesta a livello tecnico, sociale e culturale 1) generando più consumi di quanti dovrebbe servire a evitarne, ((Anche Giorgio Agamben coglie il parallelo tra il rituale proposto dai dispositivi tecnologici e il rituale di consacrazione della religione cristiana. È interessante riportare il suo pensiero, presumibilmente non condizionato da Illich né da studiosi che Illich frequentava o da cui traeva ispirazione. In Che cos’è un dispositivo? (Nottetempo, Roma 2006, pp. 25-26) Agamben attribuisce ai dispositivi tecnologici la capacità di catturare un desiderio di felicità trasferendo in una sfera separata funzioni e comportamenti umani automatici. Prendendo a prestito due termini provenienti dalla religione e dal diritto romano Agamben riferisce ai dispositivi la facoltà di sottrarre all’uso comune cose, luoghi, animali e persone per trasferirle in una sfera separata in una sorta di sacrificio o consacrazione religiosa a cui contrappone la necessità di una profanazione, cioè di una restituzione al libero uso degli uomini di ciò che i dispositivi hanno sottratto. A questo proposito egli sostiene la necessità di una trasformazione nella relazione tra viventi e dispositivi tecnologici che riporti all’uso comune ciò che è stato catturato e separato in questi ultimi.))) determinando una diminuzione delle capacità e delle possibilità da parte delle persone di far ricorso a soluzioni che non facciano uso di forme di energia prodotte industrialmente nello svolgimento delle loro attività quotidiane, ((Può essere interessante osservare che la teoria dei sistemi consente di spiegare, e probabilmente ormai anche di gestire, la contro produttività tecnica degli strumenti tecnologici intesi come oggetti caratterizzati da una distalità dai loro utilizzatori e dal fatto che questi utilizzatori possano esprimere una intenzionalità attraverso il loro impiego (possano ciò definire uno scopo e pensare di impiegare tali strumenti per il raggiungimento di questo scopo). Queste due caratteristiche degli strumenti tecnologici vanno tuttavia perdute nell’era dei sistemi i quali integrano gli utilizzatori al loro interno (e comportano quindi una perdita di distalità) e non consentono di esprimere un’intenzionalità (in quanto i soggetti integrati all’interno del sistema agiscono e allo stesso tempo re-agiscono agli stimoli che sono trasmessi all’interno del sistema). Il fatto che la teoria dei sistemi consenta di spiegare la contro produttività tecnica di strumenti tecnologici con le suddette proprietà non implica tuttavia che lo stesso nuovo paradigma proposto dal modello epistemologico della teoria dei sistemi non sia a sua volta esposto ai rischi di effetti contro produttivi (il primo passo da compiere per comprendere come, ad esempio, possa manifestarsi la controproduttività tecnica della teoria dei sistemi consiste nel cercare di individuare quale sia lo scopo che attraverso l’esistenza del sistema – ad esempio un ecosistema, la rete internet o una qualsiasi rete cibernetica – viene conseguito).))) generando un’idea e una percezione del proprio agire e del vivere quotidiano basate sull’idea che ogni azione comporti il consumo di una qualche forma astratta di energia.
Ciò premesso, bisogna domandarsi come gli effetti controproduttivi fin qui menzionati possano essere messi chiaramente in evidenza. Nonostante la controproduttività culturale modifichi la percezione che abbiamo di questi prodotti, dovremmo almeno essere in grado di verificare gli effetti di controproduttività tecnica. Questo significa che dovrebbe ad esempio essere possibile verificare che quando taluni modelli di dispositivi più efficienti sostituiscono modelli equivalenti diffusamente impiegati, i consumi energetici complessivi collegati all’utilizzo dell’insieme di dispositivi in questione possono aumentare anziché diminuire.
La causa di questo aumento di consumi, quando questo effettivamente si verifica, va ricercata e osservata principalmente nei cambiamenti che il nuovo dispositivo tecnologico più efficiente può indurre nel sistema in cui viene impiegato e prodotto. La valutazione della variazione dei consumi energetici dovuti alla diffusione su larga scala di qualunque tipo di soluzione innovativa deve imprescindibilmente riguardare una valutazione di sistema. Infatti, al crescere del livello di diffusione e dell’intensità di produzione della soluzione efficiente cresce il numero di processi e fenomeni che è necessario includere nella valutazione, come pure cresce l’area geografica coinvolta. Oggi la stima dei consumi energetici indotti da alcuni dispositivi (frigoriferi, lavatrici, computer, ma anche prodotti finanziari) richiede di considerare processi di produzione e distribuzione così estesi e ramificati da far sì che l’area geografica interessata possa essere considerata in pratica l’intero pianeta.
I cambiamenti controproduttivi indotti da una nuova tecnologia energeticamente efficiente sono facilmente individuabili quando il mercato collegato al settore in questione non è saturo. Si pensi, ad esempio, al mercato italiano degli asciuga biancheria. Nel caso in cui venissero promossi nuovi modelli a basso costo le cui prestazioni energetiche risultassero tali da rendere poco importante il peso degli asciuga biancheria sulla bolletta energetica, non è da escludersi che una parte considerevole degli italiani potrebbe decidere di ricorrere a questi modelli anziché asciugare la propria biancheria attraverso la luce del sole, determinando così un aumento dei consumi elettrici complessivi di questo settore tecnologico che supererebbe di gran lunga i risparmi derivanti dai nuovi modelli più efficienti. La commercializzazione di asciuga biancheria più efficienti potrebbe quindi provocare un aumento dei consumi nella nostra penisola modificando le abitudini delle persone ed essere così motivo d’ingresso di nuovi acquirenti nel mercato in questione.
Si pensi poi ai condizionatori in paesi come la Francia, l’Italia, la Spagna o il Portogallo dove il mercato di questi elettrodomestici non è ancora saturo. Il rischio in questi casi è non solo che politiche per il miglioramento dell’efficienza energetica dei condizionatori determinino un aumento della loro presenza nelle abitazioni e un conseguente aumento dei consumi energetici legati al loro utilizzo, ma che l’aumentata diffusione dei condizionatori divenga la causa di un’estesa diffusione di tecniche e materiali da costruzione più economici che non garantiscono livelli di comfort accettabili nelle abitazioni durante i mesi estivi senza l’installazione di condizionatori e che rendono quindi indispensabile la presenza dei condizionatori nelle abitazioni.
Si pensi ancora al caso in cui una generica autorità responsabile di un territorio percorribile solo con mezzi di trasporto motorizzati di grosse dimensioni e di elevati consumi di carburante decida di migliorare la rete stradale per consentire agli abitanti di questo territorio di utilizzare mezzi motorizzati di più piccole dimensioni con consumi ridotti e meno inquinanti. Questa decisione avrebbe sicuramente conseguenze positive per gli utilizzatori dei grossi mezzi di trasporto che potrebbero risparmiare denaro e carburante ricorrendo ad autoveicoli di dimensioni inferiori, ma potrebbe anche indurre all’acquisto di mezzi motorizzati chi normalmente impiega sistemi di mobilità alternativa (piedi, bicicletta, ecc.) e questo acquisto potrebbe divenire una scelta obbligata quando la nuova rete stradale fosse causa di altri cambiamenti strutturali sul territorio (quali, ad esempio, la concentrazione dei punti di fornitura di determinati servizi). Si potrebbe obiettare che a una maggiore diffusione di prodotti sul mercato corrisponda in genere un miglioramento delle condizioni di vita e che quindi questa maggiore presenza sia da auspicare, a prescindere dall’aumento dei consumi di energia. Esiste in realtà una soglia nel livello di diffusione di prodotti industriali superata la quale questa tesi non è più sostenibile; questa viene raggiunta nel momento in cui dei prodotti industriali non si può più fare a meno.
Complessivamente, quindi, anche in questo esempio la creazione delle condizioni che rendono possibile la diffusione di mezzi di trasporto efficienti si potrebbe tradurre in un aumento dei consumi legati a questo settore poiché un consistente numero di nuovi consumatori entrerebbe in questo mercato.
Un ulteriore e importante esempio può essere infine quello dei sistemi per il recupero di energia e di materiali nello smaltimento dei rifiuti. Premesso che la quantità di energia e materiali necessari alla fabbricazione di un prodotto non possono mai essere interamente recuperati e che quindi il recupero di energia e di materiale durante lo smaltimento dei rifiuti non rappresentano mai una produzione di energia e di materia, ma una riduzione della perdita di energia e materia, il raggiungimento di un determinato livello di efficienza nel riciclaggio e nello smaltimento rappresenta una condizione fondamentale a che nuovi prodotti possano continuare a essere fabbricati e immessi sul mercato quando il volume di rifiuti generati supera una determinata soglia critica. Varrebbe quindi almeno la pena chiedersi se l’aumento di efficienza nello smaltimento e riciclaggio dei rifiuti, che fino a quando l’intensità di produzione industriale non supera un dato livello è certamente sinonimo di comportamento ecologico e rispettoso dell’ambiente, non rappresenti già in molte realtà un presupposto indispensabile per l’espansione del sistema di produzione industriale e un aumento dei consumi energetici.
Nel caso di prodotti che hanno saturato il mercato (frigoriferi e lavatrici, per esempio) la messa in campo di soluzioni sostitutive ad alta efficienza energetica può originare una controproduttività tecnica per ragioni forse meno evidenti, ma non per questo meno importanti, valide anche per prodotti che non hanno saturato il mercato. Queste ragioni possono essere fatte risalire in generale alla capacità degli strumenti tecnologici, quando prodotti industrialmente su larga scala, di generare nuovi atti e nuove pratiche nel contesto socio-culturale in cui si diffondono (H. Wilhite, New thinking on the agentive relationship between end-use technologies and energy-using practices, Energy Efficiency, 1, 2008, pp. 121-130)
I frigoriferi, ad esempio, non rappresentano soltanto degli strumenti che le persone impiegano in sostituzione di pratiche pre-esistenti per la conservazione del cibo. A essi può essere imputata la possibilità di generare continuamente nuove pratiche e nuove idee relative alla gestione del tempo nelle famiglie, alla garanzia della sicurezza dei cibi, alla dieta, ai modi di fare la spesa, alla distribuzione dei punti vendita degli alimenti. La presenza dei frigoriferi in tutte le abitazioni fa sì che siano continuamente creati nuovi prodotti e nuove tecnologie che si basano sulla loro esistenza. La presenza dei frigoriferi insomma ha modificato e continua a modificare le modalità di produzione della maggior parte dei cibi che consumiamo, il modo in cui facciamo la spesa, il modo in cui cuciniamo e tutti questi cambiamenti vanno nella direzione di una nostra maggiore dipendenza da questi apparecchi e di un loro uso più intensivo.
Lo stesso discorso potrebbe ovviamente essere ripetuto mutatis mutandis per moltissimi altri dispositivi, quali, ad esempio, i forni a microonde, le automobili, i computer, i telefoni cellulari, i condizionatori e altri strumenti ancora.
Tecnicamente l’aumento dell’efficienza energetica che caratterizza le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento dello strumento tecnologico non può che aumentare le possibilità di generare nuove pratiche collegate direttamente o indirettamente alla produzione, all’impiego e allo smaltimento dello strumento stesso e, come tale, rappresenta una sorgente potenziale di consumi addizionali che possono essere superiori a quelli che l’aumento delle sue prestazioni energetiche dovrebbe servire a scongiurare. L’esempio più noto questo proposito è quello dell’evoluzione dei rendimenti dei motori a vapore fornito da William Stanley Jevons nel 1865 (The Coal Question). Jevons racconta di come i miglioramenti apportati da Watt e altri ai motori a vapore fecero sì che questi venissero impiegati diffusamente per l’estrazione di carbone e in una serie numerosa di altre applicazioni. Tra queste, particolarmente importante era l’applicazione dei motori a vapore ai sistemi di pompaggio di aria nelle fornaci per la produzione di ferro. Questa applicazione rese più efficiente la produzione degli stessi motori a vapore, la costruzione di ferrovie e, quindi, anche il trasporto di ferro e carbone necessari alla fabbricazione dei motori. Il miglioramento iniziale dell’efficienza termodinamica dei motori a vapore accompagnato a miglioramenti tecnici dei meccanismi di regolazione e trasmissione della potenza determinarono quindi una sorta di feedback positivo per cui questi miglioramenti causarono un generale aumento della disponibilità dei materiali costituenti e un aumento delle applicazioni di questi motori che fu a sua volta causa di un loro maggiore impiego e di un aumento generale delle attività produttive e dei consumi a queste collegati.
Un tipo particolare di atti determinati dagli strumenti tecnologici sono infine quelli causati dagli scambi commerciali generati dalla loro produzione, vendita, utilizzo e smaltimento, pure essi fonte di consumi energetici molto elevati. Diversamente dagli atti e le pratiche a cui si è fatto riferimento in precedenza, questi ultimi non sono tipicamente in alcuna relazione con la funzione assolta dallo strumento tecnologico.
In generale la definizione di valori di scambio per un manufatto, per i suoi componenti e le risorse umane, energetiche e materiali impiegate per la sua produzione comporta che chi partecipa direttamente o indirettamente alla produzione del manufatto possa, grazie a questo fatto, soddisfare i bisogni più disparati e svolgere le attività più varie. Se l’intensità di produzione industriale di un dato dispositivo raggiunge valori sufficientemente elevati può persino accadere che l’economia di un’intera nazione, e quindi tutte le attività svolte dai cittadini di questa nazione, vengano a dipendere dal mantenimento di un determinato livello di output di produzione di questo dispositivo (oggi più che mai questo è quanto accade in molti paesi in relazione alla produzione di automobili).
Quando questo si verifica, quando cioè l’intensità e il processo di produzione industriale di determinati dispositivi tecnologici sono tali che la sopravvivenza di un intero sistema economico dipende dall’immissione sul mercato di un numero minimo di unità ogni anno, il processo industriale e i dispositivi tecnologici in questione sono responsabili (oltreché dei consumi energetici direttamente legati alla produzione, all’impiego e allo smaltimento degli output di produzione) di tutti i consumi indiretti causati dalle attività che vengono svolte dai consumatori di questo sistema economico per assorbire quel numero minimo di output attraverso gli scambi commerciali, attività queste che non sono in generale in relazione con la natura dei prodotti in questione. In una situazione di questo genere, il ricorso a misure per il miglioramento dell’efficienza energetica durante la produzione e l’utilizzo di particolari strumenti può essere realmente controproduttivo ai fini di una riduzione complessiva dei consumi energetici attribuibili a questi strumenti.
Supponiamo, ad esempio, che l’importanza dell’industria automobilistica per l’Italia sia tale che una diminuzione del 70% della produzione annuale di automobili possa mettere a rischio buona parte dell’economia italiana e che la messa sul mercato di un determinato modello di automobile a basso consumo energetico possa servire a evitarlo. In questa ipotesi sembrerebbe legittimo attribuire a questa misura non soltanto i risparmi energetici dovuti alla sostituzione dei modelli meno efficienti con i modelli a basso consumo ma anche i consumi energetici indiretti legati a tutte quelle svariatissime attività innescate dagli scambi commerciali legati alla produzione, dall’utilizzo e dallo smaltimento delle automobili a basso consumo che servono a mantenere in vita il sistema economico. L’inserimento di queste attività nella stima di un bilancio energetico complessivo mostrerebbe che i risparmi di energia causati dall’introduzione sul mercato del modello di automobile efficiente sono ben poca cosa rispetto ai consumi che questa introduzione consentirebbe di “sostenere”.
Bisogna inoltre osservare che l’incremento dell’efficienza energetica di un processo industriale e dei relativi prodotti può non solo rappresentare, come nell’esempio appena descritto, il fattore che consente di mantenere nel tempo un dato regime di output industriale, ma può anche essere il motivo di una crescita, di un’intensificazione e di una centralizzazione di uno specifico processo industriale tale da trasformarlo in un fattore di notevole rilevanza strategica per le economie di intere nazioni. La standardizzazione dei processi industriali presuppone sempre un centralismo, un’organizzazione centralizzata della produzione. In questo senso l’idea di decentramento è pura utopia. Anche la produzione decentralizzata di energia presuppone un centralismo, non fosse altro che per la fabbricazione degli apparati tecnologici necessari a tale produzione.
Perché questo avvenga basta che sia sviluppata una nuova tecnologia di uso finale le cui prestazioni energetiche siano tali da stimolare una domanda e una conseguente intensità produttiva in grado di determinare ad esempio quanto accaduto nel caso dei miglioramenti delle prestazioni dei motori a vapore precedentemente descritto.
In sostanza, l’efficienza energetica può rappresentare un vantaggio competitivo, determinando un accentramento e accrescimento delle attività produttive in alcuni settori industriali e diventando causa di cambiamenti strutturali((I cambiamenti strutturali intervengono nel sistema per il mantenimento dell’accresciuto rate di output industriali. L’accrescersi del numero di automobili in circolazione in una data area rende, ad esempio, necessaria la creazione di una adeguata rete autostradale e di enti assicurativi e rende possibile e necessario un cambiamento nell’organizzazione delle attività lavorative, nel modo di fare la spesa ecc. Le parti del sistema necessarie al mantenimento degli output industriali sono a volte indicate con il termine di “stocks”, mentre gli output industriali sono indicati in termini di “flussi” (N. Georgescu-Roegen, Energia e Miti Economici, Boringhieri, Torino 1982). Non è difficile immaginare che possano determinarsi situazioni in cui un aumento delle prestazioni energetiche degli output industriali durante la loro fase d’uso possa divenire la causa di un aumento del rate di questi output e di un conseguente aumento dei consumi energetici degli “stock” associati che è superiore al risparmio complessivo attribuibile al miglioramento delle prestazioni energetiche dei flussi.)) irreversibili del sistema costituito dai settori industriali e dall’economia su cui questi insistono (si veda l’esempio delle trasformazioni indotte dai miglioramenti dei motori a vapore nel diciannovesimo secolo), sia rappresentare la soluzione per il mantenimento degli output di questi settori quando i cambiamenti strutturali sono già intervenuti (si veda l’esempio ipotetico dell’industria automobilistica italiana). Quando queste dinamiche sono in corso i consumi energetici indiretti attribuibili a determinate soluzioni tecnologiche efficienti prodotte su larga scala sono potenzialmente enormi, ma diviene anche evidente che l’utilità di queste soluzioni per le singole persone viene messa in subordine rispetto alla necessità di mantenere in vita determinati processi produttivi e il sistema economico che da questi dipende.
Con l’intensificazione e la centralizzazione di determinati processi produttivi si assiste a una sorta di “autonomizzazione” di questi rispetto agli scopi dell’utilizzo dei loro prodotti. Questa autonomizzazione impone l’adattamento al processo produttivo del sistema e dell’ambiente in cui questo si realizza e fa sì che sempre più parti di tale sistema diventino funzionali a questo processo e, come tali, si trasformino anch’esse a tutti gli effetti in mezzi per mantenere la produzione. Le persone e il sistema in cui il processo è inserito diventano le variabili dipendenti che devono sostenere i livelli di consumo necessari al mantenimento dell’intensità di output del processo da cui dipende la loro esistenza.
Occorre specificare che gli atti determinati dalla produzione di strumenti tecnologici cui si è appena fatto riferimento rappresentano atti non gratuiti di produzione eteronoma contrassegnati da un valore monetario. È questa specifica caratteristica a rendere questi atti potenzialmente in grado di innescare una serie infinita di conseguenze della stessa natura nelle moderne economie di mercato. Ogni nuova attività non gratuita di produzione eteronoma genera scambi commerciali che servano a loro volta a generare altre attività. In questo modo nuovi consumi energetici generano altri consumi energetici secondo una concatenazione infinita di relazioni di causa e di effetto, rendendo le moderne economie di mercato particolarmente esposte ai fenomeni di controproduttività specifica. In queste economie gli effetti moltiplicatori generati dall’intensificazione di atti non gratuiti di produzione eteronoma sono spesso ritenuti un bene in sé a prescindere dalla natura specifica degli atti che li generano e, al contrario, la diffusione di atti gratuiti di produzione autonoma non remunerati attraverso la moneta sono frequentemente considerati una minaccia per la sopravvivenza del sistema.
Il fatto che nell’attuale periodo di crisi intere nazioni scommettano su questi effetti moltiplicatori per incrementare o mantenere l’intensità produttiva dei settori industriali che più si sono accresciuti negli anni passati (come ad esempio il più volte citato settore della produzione di automobili) e far così ripartire la loro macchina economica e che gli Stati Uniti in particolar modo vedano nell’efficienza energetica il volano in grado di innescare una ripresa della loro economia senza aumentare la loro dipendenza energetica dall’estero stanno a indicare che l’influenza dei settori produttivi a più alta intensità sono rilevantissimi sui livelli generali di attività e di “benessere” delle economie mondiali. Questi stessi fatti dovrebbero però far emergere un importante considerazione. Esistono, infatti, i presupposti per cui si determini, su una scala sinora mai raggiunta, la situazione paradossale più volte menzionata per cui il crescere oltre misura della produzione industriale di soluzioni tecnologiche più efficienti dal punto di vista dei consumi energetici può essere causa di una crescita dei consumi energetici stessi.
Allo stesso tempo deve destare allarme e attenzione la possibilità che gli effetti controproduttivi dell’eccessivo intensificarsi della produzione industriale efficiente possano essere determinati dall’aumento di atti non gratuiti di produzione eteronoma contrassegnati dal valore monetario che ne consegue. Produzione dell’efficienza energetica su piccola scala, atti di produzione autonoma, azioni gratuite o non remunerate attraverso la moneta sembrano essere gli ingredienti necessari (ma non sufficienti) per una effettiva riduzione dei consumi energetici su larga scala e per un recupero delle capacità delle persone di creare un proprio ambiente, una propria cultura. Purtroppo questi ingredienti sono esattamente l’opposto di quanto sembra oggi possibile mettere in atto per risollevare molti paesi del mondo dallo stato di crisi in cui versano.
Che ci si indirizzi al risparmio energetico, alla fornitura di assistenza medica, all’educazione o alla fornitura di alloggi, la crescita oltre misura della macchina della produzione industriale determina il manifestarsi di una nemesi. La megamacchina è un problema in sé. Pensare che le devastazioni di cui è causa possano essere scongiurate grazie a un sistema di nuove regole, pensare che il suo malfunzionamento sia da attribuirsi a un suo non corretto uso da parte di alcuni rappresenta un vero e proprio atto di fede rispetto alla imprevedibilità intrinseca dei suoi effetti, significa implicitamente assumere, avendone la possibilità, che sia meglio rimettere il destino di un’umanità all’irrazionalità di un meccanismo anziché alla capacità di ricreare un proprio ambiente che è innata nelle persone che l’umanità compongono.