Serge Latouche, “La lezione decrescente dell’autarchia italiana”, introduzione a Marino Ruzzenenti e Giordano Mancini, “Ecologia e autarchia. 100 anni di genio italiano per la transizione ecologica”, Libreria editrice fiorentina, Firenze 2023

Paul Krugman dice che se ci fosse un credo per gli economisti, inizierebbe con Credo nel principio dei costi comparati[1].

È un’eccellente idea quella della Libreria editrice fiorentina di ripubblicare, in una versione più snella e aggiornata, L’autarchia verde di Marino Ruzzenenti[2]. La prima edizione del 2011 di questo importante libro è passata praticamente inosservata e, nonostante i miei sforzi, nemmeno i sostenitori della decrescita gli hanno dedicato l’attenzione che meritava. Forse l’autore, discepolo di Giorgio Nebbia e ricercatore presso la Fondazione Micheletti di Brescia, è troppo coscienzioso e troppo scomodo per attirare l’attenzione dei media… Tuttavia, i tempi sono cambiati per quanto riguarda il tema dell’autosufficienza, con la pandemia da Covid 19 e la guerra in Ucraina. La prima ha mostrato l’incredibile imprudenza di aver delocalizzato intere sezioni dell’industria farmaceutica, la seconda ha fatto emergere i rischi di perdita di sovranità non solo di alcuni Stati, ma dell’intero continente europeo, a causa della dipendenza energetica dalla Russia (e non solo). Entrambi hanno dimostrato l’enorme fragilità delle catene di produzione globalizzate. Le analisi sulla rivalutazione di una politica autarchica dovrebbero quindi ora raggiungere una parte significativa dell’opinione pubblica illuminata, anche al di fuori della cerchia di accademici e ricercatori specializzati in questi temi.

Questa riedizione è anche l’occasione per fare il punto sulla questione del protezionismo e dell’autonomia dal punto di vista della decrescita, che nel frattempo è diventata sempre più importante come progetto sociale alternativo al capitalismo termoindustriale. Il documentato studio storico di Marino Ruz-zenenti si propone innanzitutto di rivisitare le politiche e le realizzazioni del periodo fascista in Italia dal punto di vista della “crisi ecologica, dei limiti dello sviluppo, dell’impossibilità di una crescita economica infinita in un mondo finito”[3]. L’attualità dei problemi e la rilevanza di alcune soluzioni sono impressionanti. Se si può comprendere l’ostracismo a cui fu sottoposta l’autarchia di Mussolini per i suoi eccessi e il suo orientamento alla guerra, uno dei meriti del libro, e non il minore, è quello di ricordare che nella stessa epoca per le democrazie le stesse politiche, come il New Deal di Roosevelt, erano finalizzate a salvare la pace. Nel suo pamphlet, La fine del laissez-faire, Keynes è molto chiaro: “Sono propenso a credere che, una volta terminato il periodo di transizione, una certa quantità di autarchia e di isolamento economico tra le nazioni, maggiore di quella che esisteva nel 1914, possa piuttosto servire che danneggiare la causa della pace”[4].

Oltre all’accusa infondata di generare guerre, l’autarchia fu condannata per i suoi eccessi. Una vera e propria mistica del regime fascista, rivendicata come tale, ha certamente prodotto assurdità a volte ridicole, come l’“autarchia delle parole”. Più seriamente, però, la politica autarchica, sistematicamente perseguita in Italia a partire dal 1935, ha dato luogo allo sviluppo di molte “scoperte” che sono state disprezzate nel dopoguerra e che ora stanno riemergendo. Il Lanital, ad esempio, una fibra tessile ricavata dalla caseina, sta tornando di moda con il marchio Milky Wear, “un tipo di maglieria morbida come un abbraccio che dà una naturale sensazione di freschezza”, secondo la pubblicità. Questo fatto suggerisce che alcune valutazioni affrettate del Lanital sono viziate da un pregiudizio anti-autar-chico comune nella propaganda post-fascista[5]. I filobus furono sviluppati in questo periodo per utilizzare il carbone bianco e risparmiare benzina. “Resta da chiedersi perché questo mezzo di trasporto sia stato insensatamente smantellato dopo la guerra, così come gran parte della rete tranviaria”[6]. Lo stesso vale per l’abbigliamento. “Infine, una volta eliminata tutta l’enfasi retorica e il nazionalismo bellicoso (a parole), la moda autarchica riuscì probabilmente a spianare la strada a uno stile italiano libero dalla tutela parigina, uno stile che avrebbe dato ottimi frutti nel dopoguerra”[7]. Questa politica non convinse gli italiani dell’epoca, che avevano, certamente, la frugalità, ma non l’abbondanza, mentre le disuguaglianze e la guerra consumavano tutto. Va riconosciuto, tuttavia, che ha incoraggiato la lotta agli sprechi. Rifiuti zero era già all’ordine del giorno quando le famiglie producevano tre volte meno rifiuti di oggi. Era stata invocata una politica di riciclaggio sistematico e gli inceneritori erano stati banditi in quanto troppo costosi e irrazionali. Ci furono anche misure a favore dello sviluppo di energie alternative, con un dibattito sui biocarburanti, la propaganda per la dieta mediterranea, ecc. Insomma, molti degli ingredienti e delle misure suggerite dagli ecologisti, ma non solo, che entrano anche nel progetto di costruzione di una società post-crescita sostenibile.

Purtroppo, questa politica è stata sviluppata da un regime fascista, con tutto ciò che ne consegue e che è inaccettabile per un democratico eco-socialista. In particolare, questa politica non aveva un’ispirazione ecologica; non cercava di rompere con il produttivismo e la distruzione del pianeta, al contrario. Lo dimostra il desiderio di sfruttare gli scisti bituminosi (già allora!) o di introdurre specie invasive a rapida crescita come la pianta dell’ailanto. Il suo scopo era solo quello di ridurre la dipendenza dal mondo esterno per fare la guerra. L’autore, inoltre, lo riconosce esplicitamente: “E questo è forse il momento di sottolineare che, se l’autarchia è di interesse attuale sul versante dei limiti dello sviluppo, non lo è affatto sull’altro versante dell’odierna crisi ecologica, ossia l’inquinamento ambientale. È in questo periodo che, oltre al Pvc, sono stati sviluppati alcuni dei prodotti più tossici che hanno causato danni all’ambiente e alla salute, come i Pcb della Caffaro di Brescia o l’eternit di Casale Monferrato, considerati materiali autarchici per eccellenza”. Ma questa indifferenza ambientale la politica autarchica italiana la condivide con i suoi avversari liberali e socialdemocratici.

Purtroppo, nonostante il suo interesse, tutto ciò che non coincideva con l’ideologia produttivista, filobus, energia eolica e solare, fu abbandonato con la fine del regime fascista. Nel 1938, il fisico Antonino Lo Surdo aveva sviluppato un progetto per l’utilizzo dell’energia eolica, ma la guerra ne impedì lo sviluppo e, nonostante i suoi sforzi nel dopoguerra, non se ne fece nulla. Gaetano Vinaccia, architetto, ingegnere, artista e urbanista, ha pubblicato nel 1939 un manuale sull’edilizia solare. Per risparmiare energia, sono stati promossi sia il “ciclo combinato” che la “microcogenerazione”, oggi in voga, e sono stati depositati tutta una serie di brevetti[8]. Anche la festa dell’albero o degli alberi, introdotta nel 1923, fu abbandonata dopo la guerra[9]. In questo modo, gran parte degli sforzi e degli effetti positivi di questo esperimento di autosufficienza sono andati perduti. Gli italiani e i tedeschi – e, in misura minore, altri popoli europei -hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca. Questa reazione, incoraggiata dalla “rivoluzione” consumistica del dopoguerra, favorì notevolmente la propaganda a favore della controrivoluzione neoliberista, già presente dal 1948 nella politica di Ludwig Ehrard e, in una certa misura, di Luigi Einaudi. Questa ideologia, che si era fatta strada in modo sotterraneo durante i trent’anni di trionfo del keynesian-fordismo, pur continuando a fungere da base per la costruzione europea, si è infine affermata dopo la crisi degli anni Settanta[10].

Uno degli insegnamenti interessanti che si possono trarre dall’esperienza autarchica italiana è che la crescita verde e lo sviluppo sostenibile, di cui oggi si vantano gli Stati europei e Bruxelles, sono destinati a fallire per motivi tecnici come quelli che ha incontrato il progetto mussoliniano, nonostante la straordinaria ingegnosità degli scienziati. Tutte o quasi le difficoltà tecniche nel trovare sostituti per i prodotti mancanti erano state risolte, che si trattasse di petrolio, gomma, cotone o metalli rari. Tuttavia, nessuna produzione era sufficiente a soddisfare i bisogni. Il motivo è che non si può creare nulla dal nulla. Siamo riusciti a trasformare il carbone in petrolio, ma abbiamo ancora bisogno di carbone. È possibile sostituire il carbone con la legna, ma occorre comunque una quantità sufficiente di legna. È possibile sostituire la seta con il rayon, ma è sempre necessaria la cellulosa. Possiamo produrla trasformando il legno, ma poi con cosa ci riscalderemo? Con il carbone? Ma poi bisogna rinunciare a usarlo per produrre carburante. E così via. Poiché l’Italia è molto povera di risorse naturali, tutte le industrie hanno visto la loro crescita limitata dalla mancanza di materie prime. Come ha ben detto Marino Ruzzenenti: “Il gatto si mordeva la coda”[11].

In assenza di sfruttamento di risorse non rinnovabili (soprattutto carbone, gas e petrolio), il motore dei sistemi termoindustriali può girare solo a bassa velocità. Un’economia che non può contare sulla predazione della natura e deve vivere solo delle sue risorse rinnovabili è condannata a uno stato quasi stazionario, a meno che non si inventi il moto perpetuo… Questo è ciò che gli scienziati hanno cercato di fare, ma le loro fantasie si sono scontrate con la seconda legge della termodinamica, da cui vorrebbero tanto affrancarsi[12].

Contrariamente al famoso adagio, in questo sistema termoindustriale non basta avere idee, bisogna assolutamente avere il petrolio! La scienza può fare miracoli nella trasformazione, ma non ha il potere di creare ex nihilo. Questo sarebbe il miracolo! Ma se prendiamo in considerazione tutti i dati, il bilancio energetico delle conversioni è deludente. L’Italia fascista lo ha sperimentato dolorosamente. D’altra parte, nel dopoguerra, grazie a Enrico Mattei che fornì petrolio a basso costo, l’industria italiana poté sfruttare molte delle invenzioni dell’epoca mussoliniana e beneficiare del know-how acquisito sotto il regno dell’autarchia, pur negandone la saggezza. E questo è stato il “miracolo italiano”.

Il bel libro di Marino Ruzzenenti ci fornisce le chiavi e apre le strade per superare l’attuale impasse. Tuttavia, la lezione sarà ascoltata nonostante un contesto favorevole alla sua ricezione? Non ne sono sicuro, tanto è forte la dissonanza cognitiva su questo tema. Dopo aver proclamato a gran voce che, a seguito dei due eventi sopra citati della pandemia e della guerra in Ucraina, il neoliberismo e la globalizzazione erano morti e che era necessario rilocalizzare, reindustrializzare e garantire una maggiore indipendenza energetica attraverso lo sviluppo delle energie rinnovabili, tutte cose che vanno nella direzione dell’autarchia verde auspicata dal nostro autore, sembra ogni giorno di più che, sia a livello di Commissione europea che di governi nazionali, la logica non sia realmente cambiata. Mentre il libero scambio e la delocalizzazione non sono più così apertamente invocati, il protezionismo rimane una parola tabù, come se fosse possibile allontanarsi dal libero scambio come dogma senza introdurre una certa dose di protezionismo di sicurezza, sociale e ambientale. La competitività e la concorrenza libera e non falsata (un bell’ossimoro!) rimangono la legge e i profeti della doxa economica, anche se tutti cercano di imbrogliare con ogni mezzo. Se il protezionismo di fatto praticato attraverso enormi sussidi è in parte giustificato per uscire dal marasma causato dal confinamento, lo è ancora di più nella prospettiva di una transizione verso un’abbondanza frugale. La decrescita implica necessariamente una certa dose di protezionismo. Di fronte all’impero indecente del libero scambio sfrenato, il protezionismo selettivo, ragionevole, riconosciuto, discusso e legittimo, persino il protezionismo altruistico, e non il vergognoso protezionismo imposto dalle lobby, rimane, oggi come ai tempi di List, uno dei modi migliori per proteggere la società, cioè per limitare la distruzione dell’ambiente e le ingiustizie causate dal funzionamento del mercato[13]. Questo protezionismo non sarebbe diretto contro i Paesi sottosviluppati, ma mirerebbe a far uscire gli uni e gli altri dal gioco al massacro della mondializzazione. Questa è una condizione necessaria, ma ovviamente non sufficiente, per la realizzazione del programma di decrescita. L’attuale clima di competizione sfrenata, suicida per tutti e disastroso per gli ecosistemi, richiede la fine della competizione esacerbata tra persone e territori, per fermare la distruzione del tessuto economico e sociale e l’aumento della disoccupazione. Dobbiamo rilocalizzare e quindi de-glo-balizzare. Non si tratta più di cercare la competitività sacrificando il sociale e l’ambiente, né di resistere solo delocalizzando le attività economiche, ma di realizzare una società del benessere senza crescita e di proteggerla. Autarchia verde, pacifica e socialista. In questo caso l’esperienza italiana è istruttiva. È un caso (ma è un caso?) che questa ristampa venga pubblicata in un momento in cui l’Italia ha, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, un governo che dichiara apertamente di far parte dell’eredità del fascismo di Mussolini. È più che improbabile, tuttavia, che la signora Meloni rivendichi l’eredità autarchica nel bene o nel male. Tutto indica che la politica italiana rimarrà saggiamente nei limiti dell’ortodossia neoliberista ancora dominante. È quindi auspicabile che, con cinquant’anni di ritardo, la sinistra fossilizzata faccia propri gli avvertimenti del primo rapporto al Club di Roma, I limiti alla crescita[14], e si reinventi come eco-socialista ed eco-femminista, ispirandosi alle analisi, tra gli altri, di Marino Ruzzenenti.


[1] . Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008, p. 183.

[2] M. Ruzzenenti, L’autarchia verde, Jaca Book, Milano 2011. Questa versione è inoltre arricchita da una seconda parte di Giordano Mancini che attualizza la lezione storica misurandosi con le sfide del presente.

[3] M. Ruzzenenti, op. cit, p. 37.

[4] Citato da Ruzzenenti p. 13.

[5] Secondo alcuni critici, questa fase è stata caratterizzata da “iniziative imprenditoriali che sono riuscite a rimanere in vita solo grazie al clima socio-politico e non per il loro intrinseco valore tecnico-economico”. L’esempio più importante è quello della produzione di lanital: (…) la sua produzione è stata avviata e mantenuta per un certo periodo di tempo, nonostante la pessima qualità del prodotto, per la pura forza di una scelta politica”. Roberto Maiocchi, citato da Ruzzenenti, op. cit. p. 136.

[6] Ibidem, p. 191.

[7] Ibidem, p. 142.

[8] Ibidem, p. 219.

[9] È stato ripristinato con un decreto del 4 agosto 2000, ma senza grandi effetti. Ibidem, p. 229

[10] Cfr. P. Dardot e C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La découverte, Paris 2009.

[11] Ruzzenenti, op. cit., p. 162

[12] Questo era già il caso delle speranze riposte nell’idrogeno, “il gas elettrico” come veniva chiamato all’epoca, capace di ricombinarsi con l’ossigeno in una batteria senza subire perdite “eludendo il secondo principio della termodinamica”. Ibidem, p. 196

[13] Su questo protezionismo altruistico, si veda B. Cassen, “Inventer ensemble un protec-tionnisme altruiste”, “Le monde diplomatique”, febbraio 2000.

[14] In realtà, in Italia, il termine inglese Growth, crescita, fu maldestramente tradotto in sviluppo. D. Meadows et al., The Limits to Growth. A Report for Club of Rome’s Project, Universe Book, New York 1972 (trad. it. I limiti dello sviluppo, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, Milano 1972).