Su Aurelio Peccei

Paccino e Peccei: una relazione lasca col ‘68

Questo seminario della Fondazione Micheletti è incentrato sugli aspetti culturali e intellettuali del ’68, ma bisogna premettere che la relazione di Dario Paccino e di Aurelio Peccei con il ’68 fu una relazione un po’ lasca, indiretta. Soprattutto per due motivi.

Il primo e più banale motivo è che i loro sforzi di riflessione più maturi sono di qualche anno dopo e più precisamente del 1972 quando nel giro di poche settimane – tra febbraio e giugno – furono pubblicati tanto L’imbroglio ecologico ((Dario Paccino, L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, Torino, Einaudi, 1972.))quanto I limiti dello sviluppo ((Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III, The Limits to Growth. A Report to the Club of Rome’s Project on the Predicament of Mankind, New York, Universe Books, 1972 (traduzione italiana col titolo I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachussets Institute of Technology per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Milano, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, 1972).)).

Il secondo e più strutturale motivo è che fu anzitutto il ’68 europeo ad avere una relazione labile e contraddittoria con l’ecologia ((Per il caso francese, d’altra parte cruciale a causa della centralità del Maggio, si vedano Philippe Buton, “L’extrême gauche française et l’écologie. Une rencontre difficile (1968-78)”, “Vingtième Siècle. Revue d’histoire”, XIX (2012), n. 113, pp. 191-203, e Alexis Vrignon, La naissance de l’écologie politique en France. Une nébuleuse au cœur des années 68, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2017, in particolare pp. 48.))

Infatti, a differenza che negli Stati Uniti, dove la questione ecologica era esplosa a livello di massa già alla metà del decennio, dopo la pubblicazione di Primavera silenziosa di Rachel Carson ((Rachel Carson, Silent Spring, Boston, Houghton Mifflin, 1962 (trad. it. Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1963).)), in Europa una effettiva svolta nella sensibilità pubblica e istituzionale si verifica soltanto nel corso del 1970((Nel suo The Age of Ecology (Cambridge, Polity Press, 2014, edizione originale tedesca del 2011) Joachim Radkau sottolinea il valore di tornante storico del 1970 intitolando il secondo capitolo “The Great Chain Reaction: The “Ecological Revolution’ in and around 1970”.)). Certo, anche qui esisteva da decenni un associazionismo protezionista in qualche caso molto ben strutturato((Il radicamento storico dell’associazionismo protezionista nei principali paesi europei è ben documentato da sintesi nazionali quali quelle di David Evans, A History of Nature Conservation in Britain, New York, Routledge, 1992, di Frank Uekötter, Am Ende der Gewissheiten. Die ökologische Frage im 21. Jahrhundert, Frankfurt, Campus, 2011, e di Roger Cans, Petite historie du mouvement écolo en France, Paris, Delachaux et Niestlé, 2006. Per l’Italia si possono vedere Luigi Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento italiano per la tutela della natura (1883-1934), Camerino, Università degli Studi di Camerino, 1999 (2 ed. Trento, Temi, 2014); Franco Pedrotti, Il fervore dei pochi. Il movimento protezionistico italiano dal 1943 a oggi, Trento, Temi, 1998; Edgar Meyer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano. Cento anni di storia, Milano, Carabà, 1995.)), ma per la gran parte dell’opinione pubblica, della stampa, delle forze politiche e sindacali l’esaurimento delle risorse globali, gli inquinamenti, la cattiva qualità della vita urbana e la distruzione della natura e del paesaggio non costituivano questioni realmente cruciali. Gran parte dell’opinione pubblica, anzi, ne ignorava del tutto l’esistenza. Nel 1970, al contrario, verso di esse si verificò un’ondata di interesse che si raccolse sotto il termine sintetico e un po’ improprio di “ecologia”. La stampa cominciò ad occuparsene sistematicamente nei termini nuovi in cui se ne discuteva da qualche anno negli Stati Uniti(( La parola “ecologia” nel suo significato di problematica ecologica compare in modo sistematico su “La stampa” soltanto dal febbraio 1970 finché il 12 agosto Alberto Ronchey vi dedica un editoriale. Su “l’Unità” essa compare per la prima volta in un articolo il 25 agosto dello stesso anno. Il numero di settembre della rivista “I problemi di Ulisse” è integralmente dedicato a un dossier su I guastatori della natura.)), partiti politici e governi iniziarono promuovere studi e incontri e a costituire per la prima volta uffici appositi((Si può ricordare in proprosito come il Consiglio d’Europa dichiari il 1970 “anno europeo dell’ambiente” e come nello stesso anno venga istituito in Gran Bretagna il primo ministero europeo per l’ambiente.)). Un deciso impulso in questa direzione venne ancora dagli Stati Uniti perché l’indizione del primo Earth Day e la “svolta” ecologista di Richard Nixon ebbero visibilità planetaria e influenzarono opinione pubblica e istituzioni((Per quanto riguarda il Nixon “ambientalista” si veda J. Brooks Flippen, Nixon and the Environment, Albuquerque (Nm), University of Mexico Press, 2000; per quanto riguarda l’Earth Day si veda invece Adam Rome, “The Genius of Earth Day”, “Environmental History”, 2010, n. 2, pp. 194-205. Un’importante riprova del successo planetario del primo Earth Day fu il pionieristico convegno “L’uomo e l’ambiente” organizzato dalla Fast-Federazione delle associazioni scientifiche e tecniche e tenutosi proprio il 22 e 23 aprile 1970 a Milano. Giorgio Nebbia ne fu uno degli animatori e ne curò gli atti: L’uomo e l’ambiente: una inchiesta internazionale, a cura di Giorgio Nebbia, Milano, Tamburini, 1971.)).

Nel corso del ’68, invece – e per quanto riguarda l’Italia anche nel corso del ’69 operaio – le problematiche ecologiche in senso ampio((Diverso fu il caso di tematiche in qualche misura analoghe e che negli anni successivi si sarebbero spesso intrecciate con quelle ambientali, come nel caso della questione della salute sui luoghi di lavoro. Si veda al riguardo Michele Citoni e Catia Papa, Sinistra ed ecologia in Italia 1968-74, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2017 (“Quaderni di Altronovecento”, n. 8).)) non trovarono posto né nelle culture né nelle rivendicazioni dei vari movimenti studenteschi, giovanili e del lavoro. Scrive in modo reciso Philippe Buton a proposito della culla del ’68, cioè la Francia:

Dans les années 1960, l’extrême gauche française s’était révélée totalement hermétique aux préoccupations écologistes et les événements de Mai 68 n’avaient signifié, sur ce point, aucune rupture((Buton, “L’extrême gauche française”, cit., p. 191. Analisi confermata da un più recente e approfondito studio: “Le lien direct entre Mai 1968 et les mouvements écologistes semble trop ténu pour être considéré comme véritablement central”. Vrignon, La naissance, cit., p. 48.)).

Inquinamenti, degrado delle risorse, qualità della vita e ancor peggio distruzione del paesaggio e della natura apparvero ai più come problematiche “sovrastrutturali” in senso marxista: patologie del modo di produzione capitalista che si sarebbero spontaneamente risolte nell’agognato passaggio a un’organizzazione diversa dell’economia e della società, principale obiettivo su cui concentrare l’attenzione e gli sforzi((Per quanto plasmata sul caso statunitense l’osservazione di Christopher Rootes secondo cui “As the student and anti-war movements progressed rapidly from civil libertarianism and anti-militarism to Marxism, the celebration of the (mostly imagined) proletariat was widely accompanied by a materialist version of Marxism that had little time for the niceties of aesthetics, let alone the interests of non-human species” si applica ancor meglio al caso europeo. Christopher Rootes, “The Environmental Movement”, in 1968 in Europe. A History of Protest and Activism, 1956-77, a cura di Martin Klimke e Joachim Scharloth, New York, Palgrave Macmillan, 2008, p. 296.)). Inoltre, la difesa del paesaggio e della natura vennero per lo più considerate come lussi da ricchi praticati da borghesi o aristocratici del tutto indifferenti alle piaghe sociali e agli squilibri indotti dal capitale e persino come ostacolo allo sviluppo delle forze di produzione.

Un’eco fedele di questa ostilità la si trova proprio in alcune delle pagine più pungenti de L’imbroglio ecologico. Paccino scrive infatti:

Sono questi personaggi, apparentemente diversi, che riflettono l’immagine dello schieramento ecologico, in tutto simile a quello della realtà politica, con un suo centro, una sua destra, una sua sinistra. (…) A destra troviamo Uicn e Wwf con relative teste coronate e intellettuali cosmopoliti tipo Max Nicholson. (…) Loro punti di forza: la necessità di costituire dappertutto dei “santuari”; ostentato disprezzo per il liberalismo e marxismo, nei quali andrebbe ricercata l’origine dell’odiato consumismo, che consente alla plebe di andare in automobile dove un tempo entravano solo Boleslao e Ladislao e i loro fidi; priorità dell’orso sull’uomo, essendo il primo naturalmente ecologico, mentre il secondo è un dannato distruttore((Paccino, L’imbroglio ecologico, cit., pp. 92-93.)).

1970, l’arrivo dell’“ecologia” (o delle ecologie)

Se questo fu – molto all’ingrosso – il rapporto tra il ’68 giovanile e operaio e l’ecologia, di lì ad appena due anni la questione ambientale sarebbe divenuta bruciante anche in Europa, contribuendo alla creazione di culture e di movimenti destinati negli anni successivi a scontrarsi ma anche a incontrarsi e a fertilizzarsi con le varie eredità del ’68((I citati testi di Vrignon, Rootes e Citoni e Papa sono tutti buoni esempi di analisi di questo incontro tra eredità del ’68 e ambientalismo nel corso degli anni Settanta.)).

E’ necessario però a questo punto osservare come la questione ambientale – e lo abbiamo appena visto nella critica di un’ecologista marxista come Paccino all’ecologia “borghese” – può essere agitata e affrontata da angolature molto diverse, anche apertamente confliggenti.

Un esempio caratteristico è quello dello scontro tra paesi del Nord e del Sud del mondo in occasione della grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel giugno 1972, prima grande assise mondiale sulle questioni ecologiche((Numerosi riferimenti, anche bibliografici, alla conferenza di Stoccolma e al suo significato storico si trovano in Luigi Piccioni, Chiesa ed ecologia1970-72: un dialogo interrotto, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2018 (“Quaderni di Altronovecento”, n. 10).)). La conferenza era stata richiesta nel 1967 dal governo svedese e approvata dall’assemblea generale dell’Onu nel 1968 con lo scopo di individuare le principali minacce all’ambiente su scala planetaria e di definire delle strategie condivise per allontanare tali minacce.

Nel corso della preparazione della conferenza diversi paesi del Sud del mondo avevano accusato i promotori di voler approfittare della crisi ecologica e soprattutto della minaccia di esaurimento delle risorse per sterilizzare la loro crescita e assicurare così il mantenimento nel lungo periodo dei propri scandalosamente elevati standard di vita. Questa accusa non era rimasta sul piano puramente argomentativo e nel corso del 1970 la conferenza rischiava seriamente di naufragare. Ciò fu evitato grazie al coinvolgimento di un abile negoziatore, il canadese Maurice Strong, nominato segretario della conferenza, il quale a sua volta ricorse all’aiuto di una figura di prima grandezza nel panorama degli economisti dello sviluppo: Barbara Ward. Fu la Ward a guidare un ampio reindirizzamento della conferenza capace di coniugare le esigenze di conservazione della biosfera e le domande di crescita dei paesi poveri((Iris Borowy, Defining Sustainable Development for Our Common Future. A History of the World Commission on Environment and Development (Bruntland Commission), Abingdon, Routledge, 2014, p. 32.)).

Lo svolgimento della conferenza di Stoccolma, peraltro uno degli eventi più globalmente spettacolari e seguiti degli anni Settanta, fu caratterizzato da scontri plateali, tanto più che per la prima volta le sessioni ufficiali erano affiancate da affollatissimi forum sociali globali, ma la mediazione sostanzialmente resse e oggi gli studiosi concordano sul fatto che i documenti approvati nel corso delle sedute plenarie finali rappresentano la nascita di quello che noi oggi chiamiamo “sviluppo sostenibile”((L’opera di Iris Borowy appena citata è finalizzata appunto a illustrare questa genesi.)).

Ne L’imbroglio ecologico Dario Paccino interpretò in buona sostanza l’affermarsi della questione ambientale in modo analogo a come l’interpretarono i paesi del Sud del mondo a Stoccolma: una grande manovra o meglio un complotto volto a sollevare in modo strumentale una questione reale per farne il grimaldello che consentisse ai paesi ricchi di continuare ad espandere i propri consumi senza doversi troppo preoccupare del progressivo rarefarsi delle risorse((Paccino, L’imbroglio ecologico, cit., pp. 88-90.)).

Protagonisti di Stoccolma: Aurelio Peccei e I limiti dello sviluppo

Aurelio Peccei fu una delle stelle di prima grandezza dei forum della società civile di Stoccolma.

Nel corso del 1968 egli aveva promosso la creazione un centro di studi e di proposta globale denominato Club di Roma e con esso aveva lanciato l’iniziativa di una pubblicazione che individuasse con chiarezza l’intreccio dei problemi critici a livello planetario e avanzasse delle proposte di loro soluzione((Oltre a quella di Peccei ne La qualità umana, sulla nascita del Club di Roma esistono un paio di altre interessanti testimonianze: Rennie J. Whitehead, Memoirs of a Boffin. A personal account of life in the 20th Century, www3.sympatico.ca/drrennie/memoirs.html, capitolo 13; Alexander King, “The Club of Rome. A Case Study of Institutional Innovation”, “Interdisciplinary Science Review”, IV (1979), n. 1, pp. 54-64.)). Tra le varie metodologie di analisi disponibili era stata scelta quella della “dinamica dei sistemi” di Jay Forrester del Massachussets Institute of Technology e un apposito gruppo di lavoro era stato incaricato di stendere un rapporto per il Club di Roma((Una ricostruzione di dettaglio della genesi de I limiti dello sviluppo è in Peter Moll, From Scarcity to Sustainability. Futures Studies and the Environment: the Role of the Club of Rome, Ben, Peter Lang, 1991, la miglior opera finora pubblicata sull’argomento.)). Alcune anticipazioni avevano ampiamente circolato già nel corso del 1970 e del 1971 ed erano state discusse in varie sedi((Già nell’ottobre del 1970 Jay Forrester aveva presentato alcuni grafici in un’audizione al sottocomitato sulla crescita urbana del Congresso degli Stati Uniti sotto il titolo “Conterintuitive Behavior of Social Systems”; nei primi mesi del 1971 alcune anticipazioni della ricerca circolavano fuori degli Stati Uniti e poterono essere utilizzate nel corso dell’indagine del Senato italiano sui problemi dell’ecologia conclusasi nel mese di maggio. Giorgio Nebbia, “Mi ricordo di Aurelio”, “.eco”, XXI (2009), n. 155, pp. 10-13.)), ma il rapporto venne pubblicato negli Stati Uniti soltanto alla vigilia della conferenza di Stoccolma e quasi contemporaneamente tradotto in molte lingue. Scritto in modo tale che la complessa materia potesse risultare immediatamente comprensibile, costituì sicuramente il testo più importante e popolare della conferenza insieme a Only One Earth, curato da Barbara Ward per conto di Maurice Strong22.

La tesi di fondo dell’opera è stata efficacemente sintetizzata da Giorgio Nebbia in questo modo:

se aumenta la popolazione aumenta la richiesta di cibo e di beni materiali, di merci;

se aumenta la richiesta di alimenti deve aumentare la produzione agricola;

se aumenta la produzione agricola deve aumentare l’uso di concimi e pesticidi e aumenta l’impoverimento e l’erosione dei suoli coltivabili;

se aumenta l’impoverimento della fertilità dei suoli diminuisce la produzione agricola e quindi la disponibilità di alimenti;

se diminuisce la disponibilità di cibo aumenta il numero di persone sottoalimentate e che muoiono per malattie o per fame;

se aumenta la richiesta di beni materiali, di energia e di merci aumenta la produzione industriale e la sottrazione di minerali, di acqua e di combustibili dalle riserve naturali;

se aumenta l’impoverimento delle riserve di risorse naturali economiche aumenteranno le guerre e i conflitti per la conquista delle risorse scarse;

se aumenta la produzione industriale aumentano l’inquinamento e la contaminazione dell’ambiente;

se aumenta la contaminazione ambientale peggiora la salute umana;

per farla breve, se continua l’aumento della popolazione mondiale (allora, nel 1970, era di 3.700 milioni di persone e da allora ha continuato ad aumentare in ragione di 70-80 milioni all’anno; oggi nel 2008 è di 6.700 milioni), aumentano le condizioni – malattie, epidemie, fame, guerre e conflitti – che portano ad una diminuzione, anche traumatica, del tasso di crescita della popolazione umana((Giorgio Nebbia, Luigi Piccioni, I limiti dello sviluppo in Italia. Cronache di un dibattito 1971-1974, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 2011 (“Quaderni di altronovecento”, n. 1), pp. 9-10.)).

Paccino legge il Club di Roma: ecofascismo

Nonostante le linee generali dell’analisi e della proposta del gruppo di ricerca del Mit e quindi del Club di Roma circolassero già da tempo, ne L’imbroglio ecologico non vennero menzionati né il libro né Peccei né il Club di Roma, né poi Paccino recensì I limiti – come pure aveva promesso di fare – nella rivista “Natura e società” di cui era direttore((Dario Paccino, “Ecologia e sviluppo”, “Natura e società”, III (1972), n. 5, p. 16.)).

In un libro del 1979 sulla questione nucleare La trappola della scienza. Tutti vivi ad Harrisburg Paccino riuscì invece a trattare in modo piuttosto ampio de I limiti collocando senz’altro Peccei e il Club di Roma all’interno della strategia capitalista e imperialista di soluzione della crisi ambientale grazie alla compressione dei consumi della maggioranza povera dell’umanità. Paccino così concludeva:

Questo lo stile di Aurelio Peccei, in perfetta sintonia con quello del suo Club, che indica, per la salvezza del mondo, un’austerità di massa, sostanzialmente non diversa da quella che Hitler riservava ai vinti, salvo che qui si postula una prassi fondata sul consenso, chiesto in nome della ratio ecologica del dominio. L’ecologia, si sa, è liberazione finché parte dal principio che al banchetto della vita debbano partecipare tutti, con gli stessi diritti e gli stessi limiti. Ma che porta necessariamente a un universo concentrazionario se l’imperativo per scongiura­re l’ecocatastrofe diventa quello di riservare le risorse terrestri pressoché esclusivamente ai privilegiati. […] L’ecofascismo non è un paradosso((Dario Paccino, La trappola della scienza. Tutti vivi ad Harrisburg, Milano, La Salamandra, 1979, pp. 70-71.)).

Paccino basava la sua analisi su una lettura parziale e in qualche caso distorta degli scritti del Club di Roma e di quelli di Peccei, anche se a differenza di altri critici di sinistra dell’epoca cercava di affrontare direttamente i testi non si limitava a poche semplici equazioni liquidatorie. Nonostante questa indubbia serietà di fondo, anche per lui la prova del nove del significato e delle reali finalità de I limiti dello sviluppo si potevano desumere già a partire dai finanziatori e dai coordinatori dell’operazione:

Finanziano il Club, fra gli altri, “la fondazione Agnelli, la fondazione Volkswagen, l’International Development Research Council canadese, il governo della Germania Federale”. Fra i dirigenti più noti e rappresentativi del Club, Aurelio Peccei, del Gotha delle multinazionali((Ivi, p. 69.)).

Oggi, a distanza di quarant’anni, approcci critici di questo genere possono apparire datati e anche moltodatati ma all’epoca essi ebbero grande diffusione e favorirono una paradossale convergenza tra mondo dell’impresa e della finanza preoccupato delle possibili conseguenze dell’adozione delle misure proposte dal Club di Roma((Nebbia e Piccioni, I limiti dello sviluppo in Italia, cit., p. 23.)) e gran parte della sinistra, convinta al contrario che il Club di Roma fosse proprio una specie di cavallo di Troia del padronato globale e dell’imperialismo. Una convergenza che finì col relegare presto le proposte del Club di Roma ai margini del dibattito politico, all’opposto di quanto avevano sperato Peccei e i suoi collaboratori.

Aurelio Peccei dalla caricatura alla biografia

Mi pare che oggi si possa serenamente dire che la denuncia di Paccino, almeno per quanto riguarda Peccei, delineava un quadro del tutto immaginario. Se dovessimo infatti racchiudere in una semplice formula la parabola di Aurelio Peccei direi che siamo di fronte a una manifestazione molto particolare del riformismo novecentesco.

Ma procediamo con ordine, notando anzitutto come il Club di Roma si identificasse in larghissima parte col suo ideatore e coordinatore e come quindi tanto la visione quanto la missione e l’operato del Club devono essere ricostruite analizzando il profilo politico-culturale di Aurelio Peccei e gli obiettivi che egli si era posto alla fine degli anni Cinquanta e che avrebbe poi perseguito fino alla morte nel 1984.

Ciò ci costringe a scavare in profondità nella storia personale di Peccei((Per quanto approssimativa nell’uso delle fonti e priva di apparato critico, la biografia ancor oggi più ampia e utile resta quella di Gunter A. Pauli, Crusader for the future. A portrait of Aurelio Peccei, founder of the Club of Rome, Oxford, Pergamon Press, 1987. Molti spunti autobiografici sono contenuti nell’opera di Peccei La qualità umana, Milano, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, 1976, mentre una sintesi più recente è costituita dal saggio di Roberto D. Peccei, “Aurelio Peccei e i limiti dello sviluppo”, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava Appendice. Tecnica, Roma 2013, pp. 652-66, anche qui. Salvo ove diversamente indicato, le notizie che seguono provengono soprattutto dai primi due saggi e dallo spoglio di un gran numero di articoli de “La Stampa” che solo in qualche caso particolare si è ritenuto necessario citare.)), esercizio interessante e affascinante ma utile soprattutto a smentire la visione che di lui ebbe gran parte della sinistra degli anni Settanta e Ottanta.

Radici socialiste, esperienze internazionali, Resistenza

Peccei, classe 1908, era figlio di un piccolo avvocato socialista che si industriava in iniziative di tipo commerciale e che dai primi anni ’20 era finito col gravitare nell’universo Fiat in qualità di talent scout per la Juventus da poco acquistata da Edoardo Agnelli.

Studente brillante, al momento di iscriversi all’università scelse gli studi economici e iniziò una fase particolarmente intensa e felice della sua vita, caratterizzata soprattutto da tre aspetti. Il primo fu l’intensa attività sportiva. Molto prestante, Peccei praticava altrettanto bene l’atletica leggera, la pallacanestro e il calcio e fece parte di squadre sia dell’ateneo torinese che della Fiat impegnate in tornei nazionali. Ciò non gli impedì – e questo è il secondo aspetto – di iniziare a svolgere grazie alle relazioni del padre una sorta di praticantato di alto livello in Fiat. Vista la sua buona conoscenza delle lingue straniere fu infatti inserito nella “Direzione affari speciali”, una sezione speciale dedicata ai progetti esteri più delicati della casa torinese. Infine, il suo anticonformismo culturale e politico si manifestò già in occasione della tesi di laurea. L’argomento della tesi fu infatti la Nep leniniana e Peccei si permise di discuterla senza indossare la camicia nera. Tutto questo non per suggerire o addirittura indicare precise affiliazioni politiche, ma piuttosto per dare un segnale di quella libertà e curiosità intellettuale che sarebbero poi stati marchi inconfondibili di tutta la sua vita.

La laurea, nel 1931, gli dischiuse immediatamente l’ingresso stabile in Fiat dove però visse qualche anno di incertezza sentendo compresse le proprie potenzialità, finché nel 1934 Vittorio Valletta – che ne aveva intuito le grandi potenzialità e che lo avrebbe protetto e promosso fino alla fine – gli propose un incarico delicato e stimolante: seguire una joint-venture aeronautica in Cina. Grazie a questa straordinaria esperienza Peccei divenne definitivamente un “uomo-Fiat”: si appassionò all’incarico, abbandonò i propositi di andare alla ricerca di un lavoro più gratificante, iniziò una lunga carriera di manager e di fedele dirigente della casa torinese, prese le prime misure dei mercati e delle problematiche globali ma soprattutto mise a segno alcune brillanti operazioni commerciali che lo proiettarono al vertice dell’azienda dove sarebbe poi rimasto fino al pensionamento, nei primi anni Settanta.

L’antifascismo appena suggerito durante la discussione della tesi di laurea ebbe modo di concretizzarsi al ritorno in Italia nel 1939, quando Peccei prese contatto con i circoli di Giustizia e libertà e iniziò una militanza che ne fece uno dei principali esponenti della rete clandestina torinese. Fu in questi anni – tra il 1940, quando aveva 32 anni, e il 1946 – che si consumò il suo periodo di militanza politico più “tradizionale”, senza però mai venir meno alle numerose incombenze di manager Fiat.

Di questi anni di militanza è interessante ripercorrere alcuni momenti salienti. A parte la pur intensa attività clandestina dei primi anni di guerra, ad esempio, sono cruciali i mesi successivi alla caduta del fascismo((Al riguardo si possono vedere Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma. Diario di un uomo nella guerra di un popolo, Firenze, La nuova Italia, 1947, pp. 229; Ada Gobetti, Diario partigiano, Torino, Einaudi, 1956, pp. 16 e 78; Giorgio Agosti, Livio Bianco, Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-45, Torino, Albert Meynier, 1990, pp. 80 e 344; Giovanni De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-47, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 68, 85 e 96.)). Quando ad esempio il 9 settembre 1943, coi tedeschi alle porte di Torino, si formò una delegazione per convincere alla resistenza il capo della piazza militare di Torino fu Peccei a rappresentare al suo interno Giustizia e libertà; il giorno successivo egli fece parte insieme ad altre cinque persone del “consiglio di guerra” che stabilì la strategia clandestina del Partito d’Azione; nei giorni ancora successivi fu nominato, con Mario Andreis e Vittorio Foa, a capo della segreteria regionale del Partito e in tale veste entrò a far parte del vertice del Comitato di Liberazione Nazionale del Piemonte.

Dopo aver svolto, anche approfittando della sua libertà di movimento come dirigente Fiat, diverse delicate missioni di collegamento in Italia e in Svizzera, nel febbraio 1944 Peccei fu arrestato, torturato ferocemente e a lungo ma senza risultati e infine condannato a morte finché non fu fatto fuggire pochi mesi prima della Liberazione. Al momento dell’arrivo degli americani – e con Agnelli e Valletta epurati – Peccei venne chiamato a far parte dei quattro amministratori provvisori della Fiat assieme a due ingegneri e a un sindacalista comunista((Giorgio Bocca, “Da tenere a memoria”, “il venerdì di repubblica” 25.4.2005 ; Donato Antoniello, Da Mirafiori alla SALL. Una storia operaia, Milano, Jaca Book, 2004, p. 74; Luigi Einaudi, Diario 1945-47, Bari-Roma, Laterza, 1993, pp. 434-35.)). Nel febbraio del 1946, infine, venne indicato dal Partito d’Azione per la poltrona di ministro del commercio estero, ma la sua nomina viene bloccata da opposizioni interne alla Democrazia Cristiana(( “La Stampa” 12 e 15.2.1946.)).

Il laboratorio argentino e la svolta della maturità

Nella seconda metà degli anni Quaranta, insomma, Peccei aveva tutti i numeri per divenire – col ritorno di Valletta – una figura apicale dell’intero universo Fiat essendo tra l’altro l’unico economista del top management. In anni di crescente guerra fredda il suo impegno politico e la sua posizione nei giorni della Liberazione finirono tuttavia con l’essere malvisti sia dalla famiglia Agnelli sia dal resto del management, con l’eccezione appunto di Vittorio Valletta(( “L’ex-Commissario della Fiat liberata non era stato estromesso dall’azienda, come più volte lo ‘stato maggiore’ aveva preteso. Valletta, anzi, gli diede fiducia, lo difese e volle continuare ad avvalersi della sua esperienza internazionale”. Pietro Bairati, Valletta, Torino, UTET, 1983, p. 220.)). E fu proprio con Valletta che Peccei concordò nel 1948 una via d’uscita tutto sommato soddisfacente: la direzione degli affari latino americani del gruppo, che terrà per fino alla pensione nel 1973, uno dei quattro più importanti avamposti esteri del gruppo Fiat(( “La Fiat aveva affidato a quattro “proconsoli” la sovrintendenza dei suoi più importanti avamposti all’estero: Enrico Pigozzi in Francia, Spartaco Baldori in Spagna, Piero Bonelli in Germania e Aurelio Peccei in Argentina. A essi spettava il compito di curare la gestione industriale degli stabilimenti controllati dal gruppo torinese nelle rispettive aree di loro competenza, di provvedere alle relazioni con le autorità locali e i mezzi d’informazione, nonché di fornire le indicazioni necessarie per l’elaborazione del budget annuale. (…) Solo in Argentina la Fiat contava un avamposto dalle potenzialità pari a quelle delle teste di ponte create nell’Europa dell’Est. Con più di 20.000 dipendenti in due fabbriche a Caseros e a Cordoba, la Concord produceva autovetture, autocarri, trattori agricoli, macchine movimento terra, motori marini, turbine a gas e materiale ferroviario. Il suo peso nell’economia argentina era paragonabile a quello della Fiat in Italia”. Valerio Castronovo, Fiat 1899-1999. Cento anni di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999, pp. 1164 e 1243.)).

Insediato a Buenos Aires Peccei si dimostrò ancora una volta dirigente di primissimo ordine, capace di potenziare adeguatamente sia gli aspetti produttivi sia quelli commerciali, ma dimostrò ancora una volta anche di essere un manager atipico: curioso e di ampie prospettive, moltro oltre il semplice orizzonte degli interessi dell’azienda.

Sin dalla metà degli anni Cinquanta organizzò infatti all’interno della Fiat un centro studi economici e sociali (Oecei)((Per un profilo del centro di ricerca e delle sue attività successive alla metà degli anni Cinquanta si veda Diez años de labor de Oecei, Buenos Aires, Oecei, 1967.)) destinato a realizzare e a pubblicare analisi socio-economiche non solo sull’Argentina ma su tutta l’America Latina. Nel corso di una ventina d’anni l’Oecei pubblicò saggi e riviste e a partire dal 1959 iniziò anche a organizzare convegni e conferenze su spinose questioni globali come quella del sottosviluppo. Tra il 1959 e il 1971, in particolare, l’Oecei pubblicò una trentina di rapporti e due serie periodiche sull’economia argentina e dei singoli paesi latino-americani dedicando particolare attenzione all’analisi dei principali indicatori economici, ai problemi dell’agricoltura e dell’allevamento, a quelli dei trasporti e alle prospettive di industrializzazione locale in un’ottica di cooperazione internazionale. L’Oecei costituì insomma, come dichiarato già nel nome, un laboratorio, un’officina per l’impostazione e la soluzione dei problemi economici dell’intera area latino-americana.

Una vera e propria svolta avvenne però a partire dalla fine degli anni Cinquanta, come lo stesso Peccei avrebbe poi raccontato nel libro La qualità umana:

La mia attività era varia, interessante e soddisfacente da molti punti di vista. Ciò non pertanto, sentivo di non esprimere pienamente me stesso. […] mi pareva che non sarei stato in pace con me stesso se non avessi almeno cercato di dire che bisognava fare anche qualcosa di più e di diverso. […] Psicologicamente, avevo percorso quasi un cerchio completo, tornando ad alcuni degli ideali e delle speranze della mia gioventù […] Già dalla fine degli anni Cinquanta rimuginavo di continuare il mio lavoro di dirigente d’industria solo se avessi potuto allo stesso tempo servire altri fini più generali((Peccei, La qualità umana, cit., p. 30 e 35.)).

Questa svolta esistenziale si manifestò già nel 1959, quando Peccei pubblicò il saggio Un gran problema de nuestro tiempo. Los pases subdesarrollados((Aurelio Peccei, Un gran problema de nuestro tiempo. Los pases subdesarrollados, Buenos Aires, s.e., 1959. Farà seguito due anni dopo Como enfrentar los problemas de los paises subdesarrollados, Buenos Aires, s.e., 1961.)), nel quale analizzava il problema del sottosviluppo in termini globali e anche alla luce di tematiche quali la scarsità crescente delle risorse e la crescita della popolazione mondiale. A partire da qui iniziò per Peccei un percorso di progressivo affinamento conoscitivo orientato all’azione, cioè alla ricerca di alleanze politiche, di consenso pubblico e soprattutto di soluzioni concrete alle grandi problematiche planetarie che avrebbe portato nel 1968 alla creazione del Club di Roma e nel 1972 alla pubblicazione de I limiti dello sviluppo. La nuova fase ereditava comunque dalla precedente due elementi-chiave: l’ambizione sistemica e di conseguenza la spinta ad ampliare progressivamente le variabili e i contesti presi in considerazione nell’analisi.

Una visione critica delle dinamiche globali: Club di Roma e Limiti dello sviluppo

Sin dalla fine degli anni Cinquanta Peccei adottò insomma una visione critica dell’andamento di lungo periodo della tecnologia e dell’economia mondiale partendo dal suo elemento più evidente e drammatico: il sottosviluppo. Il giellino, il liberalsocialista mai pentito((Appuntò nel suo diario Giorgio Agosti il 21 ottobre 1964: “Riesco finalmente ad avere un colloquio con Peccei, a cui ho diverse cose da chiedere, che prima chiedevo a Arrigo Olivetti. E’ molto cordiale e ostenta il più sviscerato spirito giellista”.)) finì col volgersi, forte della sua ormai lunga esperienza di protagonista degli scambi e delle relazioni internazionali, alla ricerca di soluzioni per gli squilibri che minacciavano il futuro del pianeta e al sottosviluppo aggiunse ben presto la corsa agli armamenti, il depauperamento delle risorse, la crescita eccessivamente rapida della popolazione mondiale, tutti fenomeni potenzialmente devastanti ed evidentemente collegati tra loro, che andavano quindi analizzati sistemicamente e per i quali andavano individuate e proposte delle soluzioni altrettanto sistemiche e globali.

Fu sulla base di questa consapevolezza che concepì, attorno al 1966, l’ipotesi di un organismo internazionale di tipo pubblico finalizzato all’analisi e alla ricerca di soluzioni globali. Caduta nel vuoto una proposta in tal senso fatta al governo statunitense, Peccei si convertì all’idea di un gruppo informale, agile, comprendente figure influenti ma molto diverse tra loro, provenienti da tutte le aree del mondo e da tutti i sistemi politici, in grado di suscitare una vasta presa di coscienza sulle varie dimensioni della crisi mondiale e di spingere all’adozione di soluzioni cooperative.

Nonostante lo sguardo sulla crisi fosse profondamente preoccupato e pervaso da un sentimento di urgenza le ambizioni e le speranze erano enormi, in sostanziale sintonia con una fase particolarmente distesa delle relazioni internazionali: il disgelo nei paesi socialisti, il Concilio vaticano II, l’adozione pressoché universale di politiche keynesiane nei paesi capitalisti, la fortuna delle politiche di programmazione, il vasto fiorire di movimenti anche radicali ma che finivano in ogni caso con l’allargare gli orizzonti della partecipazione democratica.

Ciò che di fatto traspariva dagli incontri del Club di Roma e dai Limiti dello sviluppo – e che Paccino come gran parte dei marxisti non riusciva a vedere – era una sorta di afflato riformista globale, probabilmente un po’ occultato dal carattere altamente istituzionale e un po’ tecnocratico dei personaggi, ma che era del tutto evidente appena ci si avvicinasse un poco ai testi e alla persona di Peccei. Fu questo afflato, unito a una sincera preoccupazione per le sorti dell’umanità e all’attitudine sistemica, che condusse Peccei e il Club di Roma a incorporare senz’altro la “giovane” questione ambientale all’interno del ragionamento e della proposta.

Di sottosviluppo di parlava infatti diffusamente sin dalla fine degli anni Quaranta, come pure del rapporto potenzialmente squilibrato tra popolazione e risorse e del rischio del conflitto nucleare; all’atto della nascita del Club di Roma, invece, la questione del rapido degrado della biosfera a causa degli inquinamenti non era ancora un argomento popolare, soprattutto fuori degli Stati Uniti.

A Peccei e agli altri fondatori del Club di Roma apparve invece presto chiaro come la crisi ecologica – cioè non solo il depauperamento ma anche la degradazione delle risorse naturali – costituisse un tassello cruciale nel mosaico di squilibri che minacciava il futuro stesso dell’umanità. Fu per questo che I limiti dello sviluppo poterono divenire un tornante storico dell’elaborazione ambientalista, e non tanto e non solo per le analisi e per le proposte specifiche contenute nell’opera, ma soprattutto per l’approccio alle maggiori problematiche contemporanee: quantitativo, sistemico, globale e di lunga durata. Nonostante – come vedremo – l’operazione di Peccei abbia poi mancato i suoi obiettivi di fondo, dopo I limiti dello sviluppo il dibattito pubblico sulle crisi mondiali e sul futuro dell’umanità non è stato più lo stesso.

L’attenzione verso il rapporto fu intensissima ed estremamente contraddittoria((Diversi sono stati i tentativi di bilancio della ricezione dell’opera. Oltre al citato lavoro di Nebbia e Piccioni riguardante l’Italia si possono vedere Mauricio Schoijet, “Limits to Growth and the Rise of Catastrophism”, “Environmental History”, IV (1999), n. 4, pp. 515-530; Jonas van der Straeten, Der erste Bericht an den Club of Rome von 1972 und seine Rezeption in der Bundesrepublik Deutschland, Altstadt, Grin Verlag, 2009; Elke Seefried, “Towards the Limits to Growth? The Book and Its Reception in West Germany and Britain 1972-73”, “Bulletin of the German Historical Institute/London”, n. 33, maggio 2011.)), ma pochi furono i soggetti e le forze che assunsero come propri il messaggio e la proposta del Club di Roma. A parte l’ambientalismo, l’unico universo politico-culturale da cui venne qualche importante segnale di reale fu quello socialdemocratico: giova ricordare a questo proposito come uno dei sostenitori più convinti del Club di Roma fu il potente leader socialdemocratico olandese Sicco Mansholt, presidente della Commissione europea dal 1972 al 1973, figura di grande apertura mentale e dalla biografia sorprendentemente simile a quella di Peccei((Johan van Merrie¨nboer, Mansholt. A Biography, Bruxelles-New York, Peter Lang, 2011.)).

Un “riformismo globale”: l’incomprensione del ’68 marxista e del post-68 movimentista

Per cominciare a tracciare un bilancio possiamo dire che forse Peccei avrebbe gentilmente rifiutato la definizione di riformista, troppo ristretta e caratterizzata rispetto all’ampiezza e all’ambiziosità della sua visione e delle sue prospettive. Tuttavia al centro delle sue speranze e del suo impegno stavano alcuni elementi propri della cultura riformista degli anni Sessanta: la preoccupazione riguardo agli effetti perversi e iniqui di una crescita economica spontanea, il ragionare sul lungo periodo, la fiducia nella ricerca e nella programmazione, la convinzione dell’assoluta necessità di soluzioni cooperative, la centralità delle istituzioni pubbliche, il ruolo della crescita culturale collettiva e della partecipazione democratica. La principale differenza tra il riformismo dei partiti di varia ispirazione socialdemocratica e Peccei – e sua la maggiore originalità – stava nel respiro globale della sua analisi e della sua proposta. I grandi problemi del mondo moderno erano ormai globali e potevano essere affrontati efficacemente solo su scala globale, anche se le preoccupazioni e l’ispirazione di base rimanevano le stesse che animavano le forze riformiste.

Ho l’impressione che questo profilo atipico e molto articolato della proposta di Peccei sia stato alla base del mancato incontro non solo tra il ’68 e il Club di Roma ma anche del mancato incontro tra i movimenti degli anni Settanta-Ottanta eredi in varia misura del ’68 e Peccei.

A un ’68 in gran parte informato – quantomeno in Europa – di visioni e parole d’ordine rivoluzionarie e antimperialiste Peccei e il Club di Roma apparvero infatti come strumenti di una tecnocrazia autoritaria e oppressiva al servizio dei potenti del mondo, e come abbiamo visto l’analisi di Dario Paccino non si distaccò da questa diagnosi. I movimenti degli anni Settanta e Ottanta, che ereditarono lo spirito radicalmente democratico e la tensione egalitaria e liberatoria del ’68 arricchendoli dei contributi del femminismo, del pacifismo, dei movimenti per i diritti civili e dell’ambientalismo avrebbero invece potuto guardare all’opera di Peccei e del Club di Roma con sguardo più sgombro da pregiudizi rispetto al passato, ma probabilmente avvertirono una grande distanza tra la loro pratica radicalmente dal basso e l’impostazione top-down che continuava in gran parte a caratterizzare l’operato del Club di Roma.

La proposta di Peccei inghiottita, come tutto il riformismo novecentesco, dall’ondata neoliberale

Va ricordato del resto che proprio gli anni Settanta furono anche gli anni in cui si manifestò e si avviò a rapida maturazione la crisi mondiale del riformismo postbellico. Anni in cui la minaccia sovietica si affievolì e con essa la necessità occidentale di competere virtuosamente col modello socialista; anni in cui l’idea di programmazione iniziò progressivamente a indebolirsi e con essa una delle funzioni fondamentali dei poteri pubblici e del controllo democratico su di essi; anni contrassegnati dalla crisi fiscale dello stato come definita da James O’Connor; anni in cui si preparò e poi rapidamente si dispiegò la grande rivincita del capitale sulle forze del lavoro. Gli anni, in una sola parola, della marcia trionfale del neoliberismo a livello mondiale e dell’inizio della fine dell’era keynesiana.

Se – sia pure in modo del tutto schematico e provvisorio – si accetta l’idea che l’inziativa culturale e politica di Aurelio Peccei va posta sotto il segno del riformismo bisogna anche ammettere che essa sia finita tra le molte vittime dell’ondata neoliberista che si dispiegò dai primi anni Settanta((Riguardo alla quale la lettura standard resta il libro di David Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford University Press, 2005 (trad. it. Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007))). Alla base della sua sconfitta, insomma, non ci furono soltanto incomprensioni o rifiuti consapevoli ma anche una contingenza storica decisamente sfavorevole.

Ma anche la persistente attualità della proposta di Peccei

Aurelio Peccei morì nel 1984, quando la grande inversione di tendenza del clima politico-culturale del dopoguerra era ancora lontana dal completarsi e non era stata ancora compresa in tutta la sua portata, e il Club di Roma ha continuato a operare fino a oggi in modo meritevole ma ben al di sotto delle ambizioni e delle speranze di Peccei.

Viene spontaneo chiedersi, se la situazione è questa, cosa rimane di quell’esperimento generoso e atipico.

L’impressione molto forte è che il tentativo di Peccei e il messaggio dei Limiti dello sviluppo non solo non sono dimenticati ma, paradossalmente, appaiono di estrema attualità.

Aurelio Peccei, anzitutto, non è una figura minore nella storiografia dell’ambientalismo e delle relazioni internazionali. I Limiti dello sviluppo continuano a essere considerati un testo capitale dell’ambientalismo, allo stesso livello di Man and Nature di George Perkins Marsh, di Silent Spring di Rachel Carson o di The Closing Circle di Barry Commoner. Le ricostruzioni della nascita delle istituzioni ambientali mondiali o del concetto di sviluppo sostenibile riservano sempre uno spazio notevole al ruolo del libro nel dibattito internazionale degli anni Settanta((Ultimo esempio, da parte di una delle figure più prestigiose della storia ambientale mondiale, è il libro di Donald Worster, Shrinking the Earth. The Rise & Decline of American Abundance, New York, Oxford University Press, 2016, in cui un intero capitolo è dedicato alla ricostruzione e a un bilancio de I limiti dello sviluppo.)). Il Club di Roma per quanto non visibile e ispirato come nei primi anni di vita continua a produrre ricerche e proposte sulla traccia di quel primo rapporto.

Ma anche le analisi dell’opera, che furono criticate all’epoca come indebitamente malthusiane e come ingiustificatamente catastrofiste, sono oggetto di revisione e di riproposizione periodica. Ugo Bardi è impegnato da anni in una verifica degli andamenti delle grandezze prese in considerazione all’epoca dal System Dynamics Group del Mit((Ugo Bardi, The Limits to Growth Revisited, New York, Springer, 2011.43 Si veda l’“Introduzione” di Giorgio Nebbia alla raccolta di saggi di Nicholas Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.))42 per confermare ciò che è sempre stato ovvio: che, cioè, nonostante le ingenuità metodologiche e gli errori di calcolo dell’epoca, l’evoluzione congiunta di popolazione, consumo di risorse e inquinamenti in un sistema chiuso nel lungo periodo non può che avere esiti catastrofici, sotto diversi profili.

Se questo è ragionevolmente vero – come suggerisce da sempre Giorgio Nebbia e come in molti continuiamo a credere che sia – resta vero anche che la principale soluzione resta quella di una moderazione dei consumi e dell’impatto delle attività umane sull’ambiente, una moderazione che non elimina lo spettro dell’entropia evocato da Nicola Georgescu-Roegen43 ma quantomeno lo indebolisce e ne allontana i peggiori effetti nel tempo. Una moderazione che deve essere – come riteneva Peccei – necessariamente concordata e realizzata cooperativamente a livello globale e che deve possibilmente essere equa, non realizzata cioè conservando alti consumi per alcuni e comprimendo quelli di tutti gli altri((Per quanto al suo apparire molte delle letture dei Limiti dello sviluppo denunciassero l’indifferenza di Peccei e del Club di Roma alle problematiche dello sviluppo dei paesi più poveri, tanto la “Prefazione” di Peccei quanto il “Commento” finale a firma del Comitato esecutivo del Club indicavano chiaramente come l’equilibrio mondiale prospettato nell’opera non potesse realizzarsi senza un progresso sostanziale dei paesi del Terzo Mondo”.)).

Per fare questo servono istituzioni pubbliche – nazionali e sopratutto sovranazionali, possibilmente globali – dotate di strumenti di analisi e di poteri decisionali adeguati.

Moderazione e razionalizzazione dei consumi; riduzione dell’impatto delle attività umane; approccio cooperativo e democratico; attenzione all’equità; ricerca sul lungo periodo e animata da interessi collettivi; ruolo strategico dei poteri pubblici: questo elenco rappresenta, punto per punto, l’antitesi all’agenda neoliberista oggi dominante. Per quest’ultima costituiscono infatti elementi strategici l’espansione indefinita dei consumi, senza qualificazioni ulteriori; la competizione tra aziende e nazioni come condizione essenziale della crescita dei profitti e delle rendite finanziarie; un ruolo marginale delle istituzioni pubbliche, limitato alla sola manutenzione e lubrificazione dei meccanismi di mercato e meglio se svuotate di insidioso contenuto democratico. Laddove la riduzione dell’impatto delle attività umane è considerata solo in termini di costi-benefici monetari e quindi ignorata quando implica un aumento dei costi di produzione e presa occasionalmente in considerazione solo quando costituisce occasione di investimenti potenzialmente redditizi. Per non parlare di una ricerca animata da interessi che non siano di breve periodo e orientati al profitto aziendale.

Le ragioni contrapposte del riformismo di Peccei e del neoliberismo che imprese e mercati finanziari hanno imposto a governi e opinioni pubbliche di tutto il mondo non vivono però solo nei cieli del dibattito teorico-economico o in astratte dispute sul migliore dei governi possibili. La loro validità si verifica anzitutto sul terreno drammaticamente concreto dello stato di salute del pianeta e dell’umanità, degli equilibri (o squilibri) politici e sociali globali che tanto preoccupavano negli anni Sessanta e che furono al centro del dibattito di allora, riflessi ad esempio nelle conclusioni del Concilio vaticano II.

E oggi credo sia ormai abbastanza evidente che gli elementi di crisi globale che spinsero negli anni Sessanta Peccei a intraprendere la strada che portò all’elaborazione de I limiti dello sviluppo non siano scomparsi ma si siano decisamente aggravati.

Caduta l’effimera euforia degli anni Novanta – anni in cui sembrava che le politiche neoliberiste potessero portare benessere universale senza effetti collaterali significativi – ci dibattiamo oggi nelle convulsioni di un mondo molto più ingiusto di allora, decisamente più inquinato di allora, politicamente molto più instabile di allora e sul quale pende una spada di Damocle che allora non si era in grado di prendere adeguatamente in considerazione, per quanto esistente da tempo: quella del riscaldamento globale.

E’ in questo senso che la proposta di Peccei e del Club di Roma appare ancor più attuale oggi di quanto non lo fosse allora, nonostante la sua evidente inattualità politico-culturale e il velo di disinteresse e persino di discredito della quale è stata ricoperta nel corso degli anni.

Ma soprattuto: attenzione ai tempi lunghi, assunzione di responsabilità, centralità della cooperazione

Reimparare a ragionare sui tempi lunghi e in nome di interessi collettivi o meglio ancora universali; basare l’azione politica e amministrativa su un’assunzione di responsabilità rispetto alla soluzione delle grandi crisi globali e su un’ampio coinvolgimento democratico al riguardo; mettere al centro di ogni iniziativa la collaborazione e non la competizione: queste richieste urgenti di Peccei che furono alla base della fondazione del Club di Roma e della stesura de I limiti dello sviluppo sono pienamente da recuperare in un tempo in cui il fallimento del neoliberismo come promessa di arricchimento universale si sta rovesciando non solo in forme di ingiustizia sempre più intollerabili e in crisi ambientali sempre più gravi ma persino nel ritorno della guerra come forma di risoluzione (o di occultamento) di tali crisi.

Un esito che quasi mezzo secolo fa proprio nelle pagine de I limiti dello sviluppo veniva indicato come possibile ((I limiti dello sviluppo, cit., p. 152.30)) se l’umanità non fosse stata capace di intraprendere strade più audaci e lungimiranti di quelle percorse allora.