Sul concetto di “Diritto alla città” in Henri Lefebvre
Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli “altri”; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze assolutamente immediate. Ci si appropria di una città fuggendo o avanzando nell’alternarsi degli attacchi […]. Nell’ora della rivolta non si è più soli nella città. ((F. Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, in Il tempo della festa, Nottetempo, Roma, 2014, pp. 45-46.))
1. Henri Lefebvre (Hagetmau 1901 – Navarrenx 1991) è stato un filosofo e sociologo dell’urbano che ha attraversato intensamente l’intero «secolo breve»: compie sedici anni allo scoppio della Rivoluzione russa, morirà all’età di novant’anni, due anni dopo la caduta del Muro di Berlino e qualche mese prima dell’implosione dell’Unione Sovietica. La sua lunga vita ha coperto quasi tutto l’arco del Novecento e non è un caso che egli ne abbia attraversato i momenti e le questioni più decisive.
Il dibattito italiano riscontra ancora diversi limiti ermeneutici e la ricezione del corpus lefebvriano è tuttora insufficiente: gran parte delle sue opere non sono state tradotte e le poche traduzioni risalgono a trenta o quarant’anni fa. In secondo luogo, esiste una profonda lacuna nella sua collocazione in bibliografia secondaria: la letteratura italiana infatti ha recepito Lefebvre quasi esclusivamente per mezzo delle traduzioni di alcune opere di David Harvey dedicate agli studi spaziali dell’autore. ((Fra le pubblicazioni più recenti ricordo: Guido Borelli (nei suoi contributi manualistici segue sostanzialmente il solco tracciato da David Harvey; si veda: G. Borelli, Henri Lefebvre: la città come opera, in G. Nuvolati (a cura di), Lezioni di sociologia urbana, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 149-177 e Id., La città come opera, in Id., Immagini di città. Processi spaziali e interpretazioni sociologiche, Mondadori, Milano, 2012, pp. 61-92), Attilio Belli (legge i recenti processi migratori attraverso le riflessioni lefebvriane sul concetto di «differenza». Si veda: A. Belli, Spazio, differenza e ospitalità. La città oltre Henri Lefebvre, Carocci, Roma, 2013) e Luigi Mazza (dedica un capitolo a Lefebvre dove legge il «diritto alla città» come un tentativo di ampliare i diritti sociali «per costituire una sorta di diritto universale» travisando gran parte delle originarie intenzioni dell’autore. Si veda: L. Mazza, Spazio e cittadinanza. Politica e governo del territorio, Donzelli Editore, Roma, 2015, pp. 155-167). Oltre alle opere molto note di David Harvey segnalo la recente pubblicazione di una traduzione di diversi articoli di Neil Brenner: l’autore statunitense ha il merito di collocare Lefebvre nel solco della Teoria critica urbana, ma rimane dentro i confini degli urban studies (Cfr.: Id, Stato spazio urbanizzazione, Guerini & Associati, Milano, 2016). L’unica eccezione è la traduzione di un articolo di Stanley Aronowitz, il quale contestualizza molto efficacemente la parabola intellettuale dell’autore anche se preferisce mettere in evidenza soprattutto gli studi sul quotidiano. È rilevante il fatto che Aronowitz si discosti dalla lettura settoriale che ne fa il mondo anglosassone, imprigionando Lefebvre o fra gli urban studies o fra i cultural studies, offrendo invece un quadro globale dell’autore (si veda: S. Aronowitz, L’ultimo testamento di Henri Lefebvre, filosofo e teorico della società, in PP. Poggio (a cura di), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. II, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 531-549).))
D’altro canto, bisogna rilevare come l’attuale Lefebvre renaissance, nello scenario europeo e internazionale, sia sottoposta a una distorsione che riduce l’autore, di volta in volta, a un sociologo, a un urbanista, ecc. Al contrario, Lefebvre inaugura un nuovo tipo di filosofia, sulle orme di Marx ed Engels, capace di dispiegarsi simultaneamente sul piano teorico e sul piano pratico. È possibile individuare la cifra fondamentale della filosofia lefebvriana nell’ermeneutica dei due filosofi tedeschi. Tale prospettiva è innanzitutto quella che permette all’autore di comprendere le trasformazioni della società fordista, dalla questione spaziale, passando per la vita quotidiana fino a una teoria generale della politica capace di abbracciare, attraverso il rinnovamento della cassetta degli attrezzi di Marx ed Engels, l’intera analisi della modernità capitalista. Tutta la filosofia di Lefebvre è dunque un’originale rielaborazione dei due filosofi tedeschi e si caratterizza per l’incessante appello a unire – con forza – la “teoria” filosofica alla “prassi” politica. Una visuale simile non è ancora emersa nel dibattito filosofico contemporaneo.
Credo che Lefebvre concepisca la Critica filosofica come uno strumento di trasformazione del presente. Non è errato, infatti, pensare che il passaggio agli studi afferenti alla sfera delle scienze sociali (compiuto fin dagli anni Quaranta) sia il frutto di una assunzione politica di cui la filosofia necessitava: di fronte alle problematiche poste dalla società novecentesca e dai sistemi a capitalismo avanzato, Lefebvre ha ritenuto necessario imboccare una direzione inedita, capace di saldare la teoria filosofica con la prassi sociale. In altre parole, attraverso gli studi sociologici Lefebvre affronta i nuovi problemi posti dallo sviluppo del presente che ha di fronte: è la sociologia lo strumento che permette all’autore di concretizzare e politicizzare la ricerca filosofica. Gli studi sullo spazio, sulla città e sulla vita quotidiana consacrano il suo percorso intellettuale nel quadro della disputa sociale e politica. L’autore è sempre stato convinto del fatto che la filosofia di Marx e Engels fosse una critica della vita quotidiana. ((«Il marxismo nel suo insieme è dunque, effettivamente, una conoscenza critica della vita quotidiana.» (H. Lefebvre, Critica della vita quotidiana, Vol. I, Dedalo, Bari, 1977, pp. 170-171). Si vedano le poche eccezioni in bibliografia italiana: la tesi di dottorato di Chiara Stenghel dal titolo Per una filosofia del quotidiano. Pensare il cambiamento a partire dalla riflessione di Henri Lefebvre discussa presso l’Università di Padova nel mese di aprile 2018; Id., Realizzare l’impossibile: la festa della Comune di Parigi nella filosofia del quotidiano di Lefebvre, in F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella, (a cura di), Il tempo del possibile. L’attualità della Comune di Parigi, supplemento della rivista “Il Ponte”, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 186-194; la tesi di dottorato di Simona de Simoni dal titolo Filosofia politica dello spazio: il programma di ricerca di Henri Lefebvre e le sue conseguenze teoriche discussa l’11 aprile 2016 presso l’Università degli Studi di Torino e l’Université Paris Ouest Nanterre La Défense offre un’interpretazione femminista delle ricerche lefebvriane sul quotidiano (pp. 47-52, 63-71, 167-173); Id., «Trasformare la vita. La filosofia del quotidiano di Henri Lefebvre», in “Filosofia Politica”, n. 1, aprile 2014, pp. 43-58; infine, anche Federica Castelli dà un taglio femminista a partire dall’eredità lefebvriana: Id., Corpi in rivolta, Mimesis, Milano, 2015; Id., La rivolta nel quotidiano. Tempi, spazi e relazioni nella Comune di Parigi del 1871, in F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella, (a cura di), Il tempo del possibile. L’attualità della Comune di Parigi, cit., pp. 111-121. Ricordo anche le pagine su Lefebvre del volume: E. Lisciani-Petrini, Vita quotidiana. Dall’esperienza artistica al pensiero in atto, Bollati Boringhieri, Torino, 2015.))
Sottoporre a critica il capitalismo significa mettere a fuoco la dimensione del quotidiano prodotto dalla modernità capitalista: significa seguire l’esempio di Marx, che analizza ne Il Capitale i prezzi, i profitti, i salari, la giornata lavorativa dell’operaio, le leggi economiche della domanda e dell’offerta per portare alla luce i rapporti sociali di dominio su cui si fonda il capitalismo industriale. La città e lo spazio urbano diventano quindi il “laboratorio sociale” privilegiato per osservare il capitalismo fordista e dare nuovo slancio alla tradizione marxista.
Se, da una parte, Lefebvre ha contribuito a rivitalizzare gli strumenti di ricerca propri della critica marxiana, dall’altra, la vasta ampiezza dei suoi interessi non ha permesso un dignitoso riconoscimento del suo originale contributo. Contro l’idea althusseriana di fondare una “scienza teorica” marxista, Lefebvre ha condotto l’eredità di Marx e Engels verso la demistificazione delle nuove sfere in cui la modernità capitalista prendeva il sopravvento lungo il Novecento. L’eclissi dell’eredità teorica lefebvriana e il mancato riconoscimento di Lefebvre come “filosofo” – a mio parere – è da attribuire alla divulgazione di scuole filosofiche più seducenti come l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre e lo strutturalismo di Louis Althusser, le quali hanno contribuito all’oscuramento del pensiero del filosofo di Hagetmau. Inoltre, l’aspro conflitto con il Partito Comunista Francese confina l’autore ai margini: nel 1958 viene espulso per la mancata volontà di sottomettere le proprie posizioni filosofiche ai paradigmi della normalizzazione staliniana. Simile esclusione avviene nonostante Lefebvre abbia partecipato alla lotta partigiana e sia uno dei primi filosofi a tradurre, per mezzo di alcune antologie, alcune opere dei due pensatori tedeschi al fine di istituire, fin dagli anni Trenta, una solida formazione politica per le sezioni del PCF. ((Si veda: H. Lefebvre, Il tempo degli equivoci, P Greco, Milano, 2015; Id., La somme et le reste, Anthropos, Paris, 2009.))
Nell’ultimo decennio la sua eredità è riemersa parzialmente, a macchia di leopardo, soprattutto grazie alla ripresa di alcuni concetti-chiave (come il diritto alla città, la vita quotidiana e la produzione dello spazio) nel campo degli studi urbani e degli studi culturali, tuttavia l’attività di ricerca intorno al suo lascito teorico rimane ancora un sentiero poco battuto (o – se percorso – è oggetto della nefasta settorializzazione in discipline accademiche precostituite).
2. Spazio e politica, ovvero il secondo volume che completa le riflessioni contenute ne Il diritto alla città, è una raccolta di diversi articoli pubblicati congiuntamente nel 1972. Le droit à la ville (1968) è preceduto, nel 1965, dal volume sulla Comune di Parigi; in seguito, nel 1970, viene pubblicato La révolution urbaine, due anni dopo compare La pensée marxiste et la ville e infine, nel 1974, è dato alle stampe La production de l’espace. Il volume Spazio e politica si colloca quindi in un decennio molto fecondo per la riflessione urbana di Lefebvre. Tale opera è il concentrato – in nuce – da un lato, delle riflessioni che poi convergeranno nei due ampi volumi sulla Produzione dello spazio, dall’altro prosegue e approfondisce i temi trattati nel pamphlet del 1968.
Spazio e politica – qui ripubblicato – è, innanzitutto, utile poiché chiarifica con lucidità il significato della celebre formula del «diritto alla città». La letteratura internazionale sul concetto di «diritto alla città» è ormai molto vasta, tuttavia la ripresa di tale concetto – negli ultimi anni – riscontra due limiti: il primo è quello di una poca aderenza ai testi lefebvriani da parte dei numerosi interpreti; il secondo è la mancanza di criteri per un’ermeneutica adeguata, in modo particolare nel nostro Paese, dove una scarsa lettura dell’autore si accompagna a una indistinta ricezione del dibattito estero. Lefebvre chiarisce meglio quattro anni dopo Le droit à la ville i temi che aveva iniziato a trattare fin dal 1968, dichiarando esplicitamente a chi era rivolta l’opera:
«[…] questa espansione della città si accompagna a una degradazione dell’architettura e del quadro urbanistico. La gente è costretta alla dispersione, soprattutto i lavoratori, allontanati dai centri urbani. Ciò che ha dominato il processo di espansione delle città, è la segregazione economica, sociale, culturale. […] L’urbanizzazione della società si accompagna a un deterioramento della vita urbana […] È pensando a questi abitanti delle periferie, è pensando alla loro segregazione, al loro isolamento, che parlo in un libro di “diritto alla città”.» ((H. Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, Ombre Corte, Verona, 2018, p. 121.))
È possibile quindi notare come tale concetto sia in continuità con l’eredità marxiana; Lefebvre rimane coerente all’obiettivo di mettere alla prova dell’analisi urbana le categorie di Marx, al fine di rinnovare e attualizzare il marxismo stesso. L’originale intuizione dell’autore risiede nel problematizzare il soggetto sociale del «proletariato» marxiano (chiaramente legato alla situazione della classe operaia ottocentesca), allargando la visuale a tutti quei lavoratori e abitanti delle periferie che vivono concretamente la segregazione sociale dei grandi edifici progettati a partire dal modello funzionalista nella riorganizzazione della banlieue fordista. Pertanto, l’autore riflette sul «diritto alla città» problematizzando – fino in fondo – la dinamica segregativa prodotta dalle conseguenze urbane del capitalismo fordista, e giunge a comprendere, nella teoria dell’emancipazione racchiusa ne Le droit à la ville, tutti quei soggetti sociali che risiedono nel proliferare di un vivere e un abitare precario ai margini del mercato e del consumo: in modo particolare, alla luce di ciò che accadeva nell’allora periferia parigina di Nanterre congestionata dall’abitare precario dei lavoratori immigrati giunti dalle colonie francesi. ((Per una ricognizione sociologica della banlieue parigina di Nanterre a cavallo degli anni Sessanta si veda: A. Sayad (avec Éliane Dupuy), Un Nanterre algérien, terre de bindovilles, Éditions Autrement, Paris, 1995. Condivido simile lettura con Simona de Simoni, si veda: S. De Simoni, Filosofia politica dello spazio: Il programma di ricerca di Henri Lefebvre e le sue conseguenze teoriche, Tesi di dottorato in Filosofia discussa l’11 aprile 2016 presso l’Università di Torino, pp. 91-94; Id., Le droit à la ville. Note (d)ai margini, in «Euro Nomade», 3/05/2015, online.))
Il filosofo di Hagetmau codifica tale significato di fronte agli esiti nefasti dell’urbanizzazione, la quale, da un lato, si costituisce nella realizzazione del modello abitativo funzionalista teorizzato da Le Corbusier, dall’altro lato, produce forme di marginalizzazione sociale e sacche di povertà urbana con l’abbandono nelle bindoville di tanti operai immigrati francofoni. Il filosofo di Hagetmau si spinge oltre e rintraccia il carattere di «neocolonialismo interno» ((H. Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 121.)) alimentato dalla separazione urbana fra zone ipersviluppate e altre invece abbandonate alla miseria del sottosviluppo, anticipando l’ampia letteratura sulla forma-campo e il dibattito sulle forme del contenimento e della concentrazione urbana di particolari gruppi sociali, fino al recente fenomeno della “bindovillizzazione” dei luoghi abitati dai migranti. ((Alludo in particolare agli studi sulla forma-campo di G. Agamben (Id., Homo sacer. Edizione integrale 1995-2015, Einaudi, Torino 2018) e di M. Agier (avec C. Lecadet, Un monde de camps, Éditions de La Découverte, Paris 2014; Id., Campement urbain. Du refuge naît le ghetto, Éditions Payot, Paris 2013; Id., a cura di, La giungla di Calais. I migranti, la frontiera e il campo, Ombre Corte, Verona, 2018). Per una lettura sociologica dei due autori si veda S. Paone, Città in frantumi. Sicurezza, emergenza e produzione dello spazio, Franco Angeli, Milano 2008. Per quanto riguarda i processi di “bindovillizzazione” dell’abitare in Francia si veda: Actualité du bindoville, in “Urbanisme”, 406, 2017. Per una ricognizione comparativa tra Francia e Stati Uniti si veda: L. Wacquant, I reietti della città: ghetto, periferia, stato, ETS, Pisa, 2016. Infine, credo sia importante ricordare come anche in Italia oggi esista una continua discriminazione spaziale contro i rifugiati e richiedenti asilo: fra i numerosi fatti di cronaca menziono la situazione allarmante di migranti senza tetto nelle più grandi città del nostro Paese, da nord a sud. Ad esempio, a Roma vi sono continui sgomberi di baraccopoli e di campi autoprodotti dai migranti, i quali sono perennemente colpiti dalle istituzioni e trovano sostegno solidale solamente nei movimenti sociali, come, tra i più noti, il collettivo Baobab Experience.))
In secondo luogo, è cruciale “lavorare di bisturi” nel primo termine che compone il concetto lefebvriano: il significato di «diritto». Scrive l’autore: «Non si tratta di un diritto nel senso giuridico del termine […] questi diritti non sono mai letteralmente realizzati, ma vi si fa riferimento continuamente per definire la situazione della società». (( H. Lefebvre, La borghesia e lo spazio, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 121.))
Lefebvre non intende aggiungere un nuovo diritto a una lunga lista di nuovi “diritti umani”, al contrario indica un percorso di lotta, di conflitto sociale, concreto e performativo. Il «diritto alla città» infatti «si annuncia come appello, come esigenza»((H. Lefebvre, Il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2014, p. 134.)) sociale e politica; senza una critica radicale del sistema capitalista non c’è spazio per una sua autentica realizzazione. Non siamo, dunque, di fronte a un dibattito giuridico, ma filosofico-politico. Sono convinto che Lefebvre con il concetto di «diritto alla città» immagini una teoria politica dell’emancipazione nel contesto spaziale. La forza propulsiva del «diritto alla città» si scontra, pertanto, con la volontà predatrice delle logiche economico-politiche del capitalismo. Infatti, la città per Lefebvre è il riconoscimento di un terreno di contesa, proseguendo la via parzialmente battuta dallo scenario della teoria del conflitto di Niccolò Machiavelli. ((«La città è il terreno e la posta in gioco dei conflitti politici tra il “popolo minuto”, il “popolo grasso”, l’aristocrazia o l’oligarchia. I detentori della ricchezza e del potere si sentono costantemente minacciati. Giustificano il loro privilegio di fronte alla comunità dispensando sontuosamente la loro fortuna in edifici, congregazioni, palazzi, ornamenti e feste» (Ivi, p. 19). È molto probabile che Lefebvre conoscesse gli studi di Claude Lefort su Machiavelli avendo stretto rapporti amichevoli con il gruppo di Socialisme ou Barbarie e qui ripresi dall’autore senza una citazione specifica.))
Com’è noto, il «Popolo minuto» e il «popolo grasso» che si contendono le sorti politiche della polis sono riferimenti all’alfabeto filosofico-politico machiavelliano, quel Machiavelli repubblicano e libertario – riscoperto da Claude Lefort – il quale fingeva di dare lezioni ai monarchi, per darle invece ai popoli oppressi.12 Lo spazio della città è la posta in gioco di una contesa fra chi può essere visibile e avere voce e chi invece deve rimanere invisibile e senza possibilità di proferire parola. Questa contesa si basa, a parere dell’autore, principalmente nel teatro di una lotta per lo spazio sociale. L’identità, il riconoscimento socio-politico si determina nella democratizzazione ed emancipazione dello spazio vissuto dai gruppi subalterni. Lo statuto del politico, nella sua dimensione spaziale, è un ambito necessariamente attraversato dalla disunione, dal disaccordo fra chi è escluso e chi esclude: l’urbano è dunque per Lefebvre il «luogo della espressione dei conflitti». ((«La disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella Repubblica». Il Machiavelli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio attacca il culto della concordia civica, ritenendo che uno dei punti di forza di Roma (e non di debolezza come la tradizione dell’epoca sosteneva) siano stati proprio i tumulti. Anzi, Machiavelli ritiene che le sollevazioni popolari avrebbero avuto il grande merito di impedire che il “Popolo Grasso” (i “Grandi”) attentassero alle libertà collettive del “Popolo Minuto”. Si veda: C. Lefort, Le travail de l’œuvre. Machiavel, Paris, Gallimard, 1972; M. Abensour, La democrazia contro lo stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli, 2008. Per una più ampia discussione di queste categorie rinvio al mio saggio introduttivo di un’antologia di Machiavelli che ho recentemente curato per la collana dei classici del pensiero politico de Il Ponte: F. Biagi, a cura di, L’insorgenza repubblicana, Il Ponte Editore, Firenze, 2016, pp. 11-71.))
Per questo, ritengo che si possa parlare di una concezione conflittualista del «diritto alla città». Tale scontro si estende da secoli e si gioca riguardo allo spazio urbano e alla sua organizzazione. L’interrogativo radicale su cui riflette Lefebvre è: Chi decide sulla progettazione dello spazio? Chi decide su come gli uomini devono vivere e abitare? In altre parole, decidere “sulla città” è decidere “della politica”. È possibile, di conseguenza, inquadrare Lefebvre come un filosofo e un sociologo del conflitto e – in modo particolare – del conflitto che avviene nella dimensione spaziale della vita urbana degli uomini. Il «diritto alla città» è essenzialmente un esercizio pratico dell’agire politico, è un ambito dell’umano che riguarda la prassi politica radicale del raggiungimento di un’autentica democrazia, anche nella sua dimensione spaziale. È il rovesciamento della città come «merce» da parte di chi è escluso, oppresso, e la dialettica ricostruzione di un essere-in-comune della polis come «opera» di coloro i quali la abitano. La definizione del concetto di «diritto alla città» rimane un campo aperto all’evento. Lefebvre non ipostatizza un significato o un sistema, tuttavia offre al lettore alcune piste da percorrere per formulare una teoria che proceda sempre dall’agire e da ciò che accade nella società. ((H. Lefebvre, La rivoluzione urbana, Armando Editore, Roma, 1973, p. 196.))
La città – nel quadro interpretativo di Lefebvre – non è solamente produzione dello spazio capitalista, ma è anche opportunità concreta di rigenerazione dello spazio sociale attraverso la partecipazione attiva degli abitanti che vivono e attraversano i luoghi urbani. La città, dunque, è la possibilità di riappropriarsi dello spazio e del tempo in base alle esigenze e ai bisogni di chi la vive, in particolar modo dei più deboli. La società urbana – in tale prospettiva – diventa «opera, come fine, come luogo di libero godimento, come campo del valore d’uso ((Non è qui possibile passare in rassegna tutte le interpretazioni del concetto di “diritto alla città” e, a tale proposito, rimando all’ultimo capitolo della mia tesi di dottorato dal titolo Henri Lefebvre: una tetralogia dello spazio. Tuttavia, preciso il fatto che prendo apertamente le distanze soprattutto dalle interpretazioni dei nuovi studi anglosassoni (la cosiddetta terza ondata) e dal recente dibattito italiano. Tra gli altri brevemente ricordo: (1) David Harvey (Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombre Corte, Verona, 2016) e Antonio Negri (La Comune della cooperazione sociale. Intervista a Antonio Negri sulla metropoli, in «EuroNomade», 25/04/2014; L’abitazione delGeneral Intellect. Dialogo con Antonio Negri sull’abitare nella metropoli contemporanea, in «EuroNomade», 16/07/2015) leggono il “diritto alla città” come “significante vuoto”, al contrario Lefebvre ne dà una connotazione ben precisa, che non ha nulla in comune con una simile categoria emersa recentemente nel dibattito filosofico-politico attraverso il contributo di Ernesto Laclau. (2) Neil Brenner, fra le molte pubblicazioni, in una recente intervista al quotidiano Il Manifesto (Autogestioni postmetropolitane, edizione dell’8 marzo 2017) ha ribadito come “il diritto alla città” sia un dispositivo capace di istituzionalizzare nella matrice statale le lotte urbane e il principio di autogestione. (3) Étienne Balibar identifica il droit à la ville lefebvriano con il droit de cité da lui teorizzato (E. Balibar in Loi d’orientation pour la ville: séminaire chercheurs décideurs, in «Recherches 20», Ministère de l’équipement, des transports e du logement, 1991, pp. 65-68; Droit de cité. Culture et politique en démocratie, PUF, Paris, 2002; Id., Droit de citè ou apatheid? , in E. Balibar, M. Chemillier-Gendreau,? J. Costa-Lasoux,? E. Terray, Sans-papiers: l’archaïsme fatal, La Decouverte, Paris, 1999, pp. 89-116))) in cui gli abitanti possono intraprendere un percorso di emancipazione e liberazione dal giogo della precarietà e della povertà. Un’autentica “rivoluzione urbana” avverrà quando lo spazio sociale sarà opera, disegno, progetto di chi lo vive e lo attraversa; quando ci sarà la possibilità di una produzione dello spazio libera, condivisa, plurale, democratica e non più assoggettata a interessi e profitti particolari. Trasformare il proprio spazio di vita, renderlo utile ai bisogni di tutti è l’autentica via per praticare quell’ideale utopico-pratico che Lefebvre ha chiamato «diritto alla città». La città come prodotto, come merce è così rovesciata in favore di una città intesa quale opera autentica, al servizio – all’uso – di chi la abita. Afferma l’autore: «il diritto alla città legittima il rifiuto a lasciarsi escludere dalla realtà urbana da parte di un’organizzazione discriminatoria e segregativa. […] il diritto alla città significa allora la costituzione o la ricostituzione di un’unità spazio-temporale […] invece di una frammentazione.»((H. Lefebvre, Introduzione, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 33.))
L’apertura all’evento della città come crogiolo di differenze, di scambio di saperi è l’anticamera di una spirale emancipatrice di trasformazione della vita quotidiana degli uomini. Il «diritto alla città» per il filosofo di Hagetmau è quindi diritto all’attività partecipante e alla fruizione dei beni e dei servizi collettivi contro la logica proprietaria e privata del capitalismo. ((«[il diritto alla città] si manifesta come forma superiore dei diritti, diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà) sono impliciti nel diritto alla città» (H. Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 153).))
La città quindi dovrebbe essere molto più simile «all’opera d’arte» rispetto a un prodotto della merce. ((«La città è un’opera, nel senso di un’opera d’arte. Lo spazio non è solo organizzato e istituito, è anche modellato, appropriato da questo o quel gruppo sociale, secondo le sue esigenze, la sua etica e la sua estetica, cioè la sua ideologia. La monumentalità è un aspetto essenziale della città in quanto opera, la l’impiego del tempo da parte dei membri della collettività urbana non è un aspetto meno decisivo. La città come opera deve essere studiata sotto questo duplice aspetto.» (H. Lefebvre, La città e la dimensione urbana, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 71)))
Lefebvre pensa lo spazio urbano come riappropriazione collettiva di un modo di vivere altro, proponendo l’uso e la produzione comune di esso: «il diritto alla città così formulato implica e applica una […] conoscenza di una produzione, la produzione dello spazio».((H. Lefebvre, Introduzione, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 34.))La città come opera d’arte non è altro che una metafora performativa per descrivere la possibilità di istituire un nuovo rapporto con lo spazio, sottratto alla subordinazione del mercato, del profitto in nome di una comune appartenenza a un comune tessuto sociale. È l’uso comune – l’adoperare comune – dello spazio che è al centro della riflessione lefebvriana. ((Si legga: «La città è opera, più simile a quella artistica che al semplice prodotto materiale. La città […] è l’opera di una storia, cioè di persone e gruppi ben definiti che la realizzano in determinate condizioni storiche». (H. Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 54). Poco dopo prosegue: «Se consideriamo la città come opera di determinati “agenti” storici e sociali, possiamo distinguere l’azione e il risultato, il gruppo (o i gruppi) e il loro “prodotto”» (Ivi, p. 56).))
3. In terzo luogo, fondamentali sono le riflessioni dei due ultimi capitoli dal titolo La borghesia e lo spazio e La classe operaia e lo spazio. Alla base vi sono gli studi sulla Comune parigina del 1871 compiuti dall’autore: essi sono un chiaro esempio di come Lefebvre sviluppi le direttrici storico-politiche della teoria generale dello spazio riassunte sinteticamente nelle prime due parti intitolate Lo spazio e La politica dello spazio. Tali capitoli infatti fungono da bozze preparatorie per i due volumi de La produzione dello spazio. ((H. Lefebvre, La produzione dello spazio, 2 voll., Moizzi, Milano, 1976.))
A tale proposito, è necessario mettere in luce lo scarto dell’innovazione lefebvriana, che guarda all’insorgenza per lo spazio dei Comunardi come la categoria interpretativa utile a leggere geograficamente l’agire politico da parte delle masse oppresse. Tale agire è inteso come un momento di creazione condivisa del processo di produzione di una spazialità alternativa e simultaneamente negatrice di quella dominante (in quanto la interrompe). Nella Comune di Parigi, lo spazio diventa la posta in gioco per eccellenza, scrive Lefebvre:
«La Comune di Parigi può essere interpretata alla luce delle contraddizioni dello spazio e non soltanto a partire dalle contraddizioni del tempo storico […] Fu una risposta popolare alla strategia di Haussmann. Gli operai cacciati verso i quartieri e le comuni periferiche, si riappropriarono dello spazio da cui il bonapartismo e la strategia del potere politico li aveva esclusi.»(( H. Lefebvre, Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 137.))
L’analisi storica della produzione dello spazio permette quindi di comprendere più a fondo le modalità in cui il capitalismo agisce nella dimensione spaziale. Haussmann inaugura le prime pratiche di espulsione delle classi popolari dal centro della città, di fatto confina il proletariato urbano nei quartieri periferici. In tal modo, dunque, veniva spezzata qualsiasi possibilità di insurrezione sociale, smembrando e riconducendo i gruppi sociali subalterni all’interno di una organizzazione spaziale di classe.
La popolazione parigina durante gli eventi della Comune, rioccupando le strade e le piazze, rompe la precedente gerarchia spaziale e giunge fino al centro-città e conquista l’Hôtel de Ville, ribaltando il luogo decisionale-oppressivo in spazio sociale comune. Lo spazio dell’Hôtel de Ville – che incarna per eccellenza il potere costituito – diventa, al contrario, il luogo dove si realizza una nuova spazialità orizzontale e democratica quale terreno adatto a favorire un nuovo corso per il «diritto alla città» di tutti gli oppressi: «I lavoratori che occupano L’Hôtel de Ville o che abbattono la Colonna di Vendôme non si sentono “a casa” nel centro di Parigi; stanno occupando il territorio nemico, circoscrivono il proprio luogo dall’ordine sociale dominante. Così con l’occupazione, seppure breve, realizzano l’esempio di ciò che i Situazionisti hanno chiamato détournement».((Cfr.: K. Ross, The emergence of social space. Rimbaud and the Paris Commune, Verso, London – New York, 2008, p. 42.))
4. L’evento della Comune incarna la possibilità di sospendere la dimensione spazio-temporale del Capitale aprendo un’inedita breccia insorgente. Tale discontinuità infatti è compresa nell’idea lefebvriana di “utopia”, e viene messa a fuoco dall’autore nella dimensione spazio-temporale – appunto – utopica, capace di spezzare il ciclo del regime dominante e aprirne uno nuovo. L’autore infatti sostiene che «tutte le rivoluzioni hanno qualcosa di profetico»,((H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Gallimard, Paris, 1965, p. 38.))ovvero innescano una inedita dimensione utopica spazio-temporale. Lefebvre assume il concetto di “utopia” per indicare la sospensione dello spazio-tempo del Capitale e il cominciamento di un nuovo corso per l’essere-in-comune fra pari. L’elemento profetico anticipa e tenta di realizzare un regime politico autenticamente democratico, nonostante le tragiche sorti che consacreranno la fine della Comune e lo sterminio o l’esilio di tutti i suoi partecipanti più attivi. La «festa» della Comune scolpisce nella memoria storica degli oppressi l’opzione di una vita quotidiana differente da quella imposta dalla logica dominante. Il popolo parigino, quando intravede la fine di Parigi di fronte alla controffensiva di Thiers, decide di «morire con ciò che significa per lui molto di più che un decoro e una cornice: la sua città, il suo corpo». ((Ivi, p. 22.))
Come l’artista intrattiene uno stretto legame con la sua opera, così il proletariato urbano si sente legato alla polis: è il suo prodotto per eccellenza, sia da un punto di vista materiale che simbolico.
Il pensiero filosofico-politico che riflette sul presente della prassi sociale è – dunque – il quadro teorico entro cui l’autore fonda il concetto di utopia. Pensiero e azione sono fortemente legati, stretti da un nodo in comune, che apre la storia a un nuovo corso. Agli occhi di Lefebvre, il cambiamento sociale non può essere disconnesso da un processo di espansione utopica dei suoi presupposti. In una delle ultime interviste prima della morte, nel gennaio 1991, l’autore dichiara: «Pensare la trasformazione al giorno d’oggi ci obbliga a pensare utopicamente, ovvero significa prevedere molte sorti per i futuri possibili e a scegliere fra essi. L’utopia è stata screditata, deve essere riabilitata. […] Questa è la funzione del marxismo nel pensiero contemporaneo».((P. Latour, F. Combes, H. Lefebvre, Conversation avec Henri Lefebvre, Messidor, Paris, 1991, p. 18-19.))
Tale funzione utopica, sviluppata simultaneamente nel pensiero e nella prassi concreta, è una delle responsabilità che l’autore lascia in eredità al marxismo nell’epoca della controrivoluzione neoliberale. L’utopia quindi si configura come un polo di pensiero resistenziale, che in una congiuntura storica, nonostante la pervasività dell’ideologia dominante, permette di lasciare aperti nuovi spiragli d’emancipazione. A tale scopo, Lefebvre, nel quarto capitolo intitolato Engels e l’utopia, mette in luce come il fedele amico di Marx abbia sostenuto le sue tesi ne La questione delle abitazioni e ne L’Anti-Düring attraverso il recupero dell’eredità intellettuale di Fourier. Il filosofo di Hagetmau dimostra, ripercorrendo passo passo i due testi, come Engels combatta l’«utopia astratta» e l’ortodossa sistematizzazione di una teoria, poiché le sue intenzioni sono quelle di ancorare le analisi filosofiche alla realtà pratica.(( H. Lefebvre, Engels e l’utopia, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., pp. 82.))
Da un lato, Düring, sostiene Lefebvre, è uno strutturalista ante-litteram(( Ivi, p. 81.))ed Engels combatte una battaglia intellettuale contro l’ossessione della sistematizzazione di un pensiero dentro una matrice teorica predefinita. Dall’altro, Engels fronteggia i sistemi utopistici creati nell’astrattezza del pensiero sconnesso dalla vita quotidiana, ma non l’utopia in quanto tale. A Fourier, accorda il merito di essere stato uno dei primi ad aver messo in luce gli effetti della divisione del lavoro industriale e la necessità di superare l’antitesi fra città e campagna. Agli occhi di Lefebvre, Engels rielabora l’utopismo socialista spingendolo a diventare utopia rivoluzionaria, in altre parole, «utopia concreta».((Ivi, p. 83. In questo senso si veda anche: E. Bloch, Lo spirito dell’utopia, Rizzoli, Milano 2009.))
Le possibilità latenti nel presente, quindi, non vanno prefissate nel determinismo, né a partire da esse è lecito costruire un sistema di società da applicare a priori; al contrario, devono essere considerate come «tendenze», sottoponendo – allo studio teorico – tutte le probabilità. Scrive Lefebvre: «l’utopia concreta si fonda sul movimento di una realtà di cui essa scopre le possibilità».((H. Lefebvre, Engels e l’utopia, in Spazio e politica. Diritto alla città II, cit., p. 83.))
L’utopia combattuta da Engels è, in realtà, l’«utopia astratta» di chi «prescrive la forma in cui dovrebbe essere risolta questa o quella contraddizione dell’attuale società». ((F. Engels, La questione delle abitazioni, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 118.))
Il bersaglio di Engels è l’atto prescrittivo, compiuto a priori, di certe utopie. Tuttavia l’autore tedesco, per combattere Proudhon, non esita a riprendere Fourier poiché nelle sue pagine «sprizzano le scintille della ragione». (( F. Engels, Anti-Düring, Editori Riuniti, Roma, 1968, p. 277.))
L’originale interpretazione degli scritti urbani di Engels permette quindi all’autore francese di porre l’utopia all’interno del solco rivoluzionario tracciato dai due filosofi tedeschi.
5. Per concludere, l’originale contributo di Lefebvre, nel dibattito interno al campo marxista e in quello degli studi urbani, si contraddistingue in modo particolare per aver evidenziato la cruciale importanza della dimensione spaziale nella modernità capitalista propria del «secolo breve». Per Lefebvre, lo spazio è la cifra fondamentale con cui leggere e interpretare l’economia politica. Tale mi pare essere lo scarto innovatore della teoria lefebvriana con cui confrontarsi, da un lato, tra i confini degli urban studies, dall’altro, nel recente dibattito filosofico interno alla cosiddetta Marx renaissance. Possiamo condividere o non condividere il primato dell’analisi spaziale in Lefebvre – ad esempio Manuel Castells ne La questione urbana critica duramente l’autore di Hagetmau –, purtuttavia essa rimane, fino in fondo, la scena politica par excellence, in cui oggi, anche nel nostro secolo, si giocano gran parte degli equilibri di potere ristrutturati nell’ordine neoliberale.
Questo articolo è la versione modificata e ampliata della Prefazione a H. Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II, Ombre Corte, Verona, 2018, pp. 7-20