Sul valore energetico delle merci

(i) La quantità di energia occorrente per produrre e usare una unità di una merce o di un servizio (per il quale comunque occorrono inevitabilmente delle merci) è un utile indicatore della qualità merceologica. Lo mise in evidenza già nel 1933 un dimenticato merceologo dell’Università di Firenze, Roberto Salvadori (1873-1940), in un altrettanto dimenticato libro ((R. Salvadori, “Merceologia generale. Principi teorici. I. Le proprietà delle cose. II. Concetto merceologico dell’energia”, Firenze, Editore Cya, 1933. Per una biografia di Salvadori si veda: N. Nicolini, “Roberto Salvadori: professore e merceologo”,  http://www.ilmondodellecose.it/dettaglio.asp?articolo_id=2830)).

Più recentemente, soprattutto dopo la prima crisi petrolifera degli anni settanta del Novecento, la misura del “costo energetico” è stata oggetto di numerose ricerche ((Fra queste suggerisco la rilettura di: (a) P. Chapman, “Il paradiso dell’energia. Introduzione all’analisi energetica”, Milano, Clup/Clued, 1982; (b) J. Martinez-Alier, “Economia ecologica”, Milano, Garzanti, 1991; (c) N. Georgescu-Roegen, “Energia e miti economici”, Torino, Boringhieri, 1998.)) ed è diventata una delle basi per la misura della qualità delle merci e dei servizi anche attraverso indicatori come l’“impronta ecologica”, l’analisi del “ciclo vitale delle merci”, e simili. Su una qualche forma di costo energetico del servizio mobilità (litri di benzina per cento km, ossia joule/km) sono ormai commercializzate le automobili.

Il “costo energetico” delle merci può essere un indicatore “assoluto” del valore delle merci e dei servizi a condizione che si presti attenzione ad alcuni problemi.

(ii)  Il primo è di carattere metodologico. Come è ben noto, una merce si ottiene con un “processo” – un concetto anticipato da dimenticati libri di W. Ciusa ((W. Ciusa, (a) “I cicli produttivi e le industrie chimiche fondamentali”, Bologna, UPEB, 1948; (b) “Aspetti tecnici ed economici di alcuni cicli produttivi”, Bologna, Zuffi, 1954.)) – nel quale due o più materie reagiscono, con apporto di energia, per produrre una terza, la merce desiderata, e altre materie ancora, sotto il vincolo ineluttabile del principio di conservazione della massa e dell’energia. Ma occorre energia anche per produrre ciascuna delle materie in entrata nel processo: se si tratta di minerali occorre energia per frantumare le rocce e separare i minerali utili; se si tratta di prodotti agricoli o forestali occorre energia solare in entrata e poi acqua e concimi per ottenere i quali occorre altra energia. Occorre energia per trasportare le materie prime alla sede fisica del processo di trasformazione.

Uno dei problemi più intriganti riguarda l’intervento dell’energia solare, che alcuni studiosi hanno tentato di contabilizzare nel calcolo sotto forma di misura della controversa grandezza chiamata “emergy”, “embodied energy”, energia “incorporata” in una merce.

Insieme alla merce desiderata si formano sottoprodotti – massa di gas immessi nell’atmosfera, acqua e altri “beni” (o “mali”) ambientali” – la cui massa, sempre per il principio di conservazione della massa, è rigorosamente uguale a quella delle materie prime in entrata meno quella delle merci prodotte.

I prodotti del processo – la merce e i sottoprodotti – hanno “dentro di se” una parte dell’energia entrata nel processo e quindi hanno un valore energetico che si può considerare in parte recuperabile: sono i ben noti casi dei gas d’altoforno o di cokeria; delle borlande dei processi di produzione dell’alcol etilico dai cereali o dal melasso; dei residui di lignina e emicellulose della trasformazione del legno in carta; del calore sensibile dei gas di rifiuto; delle acque reflue (per esempio quelle delle centrali termoelettriche utilizzate per alimentare impianti di dissalazione), eccetera.

Va inoltre considerato che i costi di trasporto delle materie in entrata in ciascun processo dipendono dalla localizzazione delle miniere, dei campi o delle foreste e dai modi di trasporto, a loro volta con diversi “costi energetici” per chilometro e per tonnellata.

In via di principio la contabilizzazione dei “costi energetici” delle materie in entrata e in uscita sarebbe possibile in maniera univoca, “assoluta”, fissando, per convenzione fra studiosi e analisti, i “confini” del processo, un tema che fu affrontato, oltre trent’anni fa, fra l’altro da V. Spada ((V. Spada Di Nauta, “Il costo energetico delle merci”, Annali della Facoltà di Economia e Commercio, a.a. 1975-1976, N. 3 (Nuova serie), Perugia 1977, 745-755.)).

Per differenza fra i costi energetici delle materie in entrata e di quelle in uscita si avrebbe, nei limiti della convenzione prescelta, una misura del ”valore energetico” della merce prodotta. Agli studiosi dei cicli vitali, talvolta indicati come “dalla culla alla tomba”, delle merci, è ben noto che sono state proposte varie “convenzioni” di contabilità energetica differenti fra loro, la cui accettazione fornisce differenti risultati di valore energetico, in genere non confrontabili.

(iii)  Ma i maggiori limiti all’attendibilità dei valori di “costo energetico” riportati nella letteratura stanno nel fatto che la stessa merce si può ottenere con processi diversi e con materie prime diverse e in differenti momenti storici: l’acciaio è lo stesso quando viene ottenuto dal minerale o dal rottame, con il ciclo integrale o per preriduzione del minerale ma ciascun processo comporta differenti sottoprodotti, ciascuno dotato di un proprio “valore energetico”.

Così sono poco attendibili le varie analisi del “costo energetico” dell’alcol etilico proposto come carburante alternativo alla benzina, un tema che vede contrapposti i sostenitori dell’uso dell’alcol ottenuto da vari tipi di biomassa a quelli che sostengono che si consuma più energia di quella che viene restituita dall’alcol etilico nel motore a scoppio, un dibattito familiare a molti cultori di Merceologia. Simili dibattiti riguardano il “costo energetico” del chilowattora di elettricità ottenuto bruciando combustibili fossili – quale ? proveniente da dove ? estratto come ? – o biomassa, o ottenuto con reattori nucleari o con celle fotovoltaiche.

Circolano varie analisi del cosiddetto “EROI” o “EROEI” (quantità di energia restituita rispetto a quella consumata), uno degli strumenti per valutare l’energia “netta” di un processo o di una merce: se una merce ha un EROI inferiore a uno non varrebbe la pena produrla, da questo punto di vista.

(iv)  Particolare attenzione ha ricevuto lo studio del contenuto energetico dei sottoprodotti delle reazioni di produzione e anche di “consumo” delle merci: riciclando molti materiali e merci usati si ”consuma” meno energia di quando si producono le stesse merci dalle “materie prime” vergini. Per esempio nel caso del riciclo dell’alluminio si ottiene un kg di alluminio con un minore consumo di energia se si parte dal rottame di alluminio, rispetto a quando si ottiene “lo stesso” alluminio, dalla bauxite col processo tradizionale.

Si usa così dire che è “come se” si recuperasse una parte dell’energia che è stata spesa nell’iniziale produzione dell’alluminio dalla bauxite e che è “rimasta dentro” l’alluminio durante la sua successiva vita come materiale e come rifiuto del consumo.

Simili considerazioni sono addotte per giustificare la virtù del “recupero energetico” attraverso l’incenerimento della carta, plastica, materia organica presenti nei rifiuti, rispetto alle operazioni di raccolta differenziata e di riciclo delle stesse merci usate.

(v)  Nel caso dei servizi ottenibili con l’uso di una merce a vita lunga, il costo dell’unità di servizio a rigore comprende l’ammortamento dell’energia usata per la fabbricazione della merce che fornisce tale servizio: il costo energetico del servizio mobilità, per persona per chilometro, dovrebbe comprendere l’ammortamento del costo energetico dell’automezzo.

Infine, sempre a rigore, per la conoscenza del “valore energetico” si dovrebbe prendere in esame anche la qualità merceologica dell’energia, qualità che dipende dalla temperatura dei corpi in entrata e in uscita, per cui sarebbe corretto calcolare il valore energetico in termini di “energia utile” e “energia”.

Queste complicazioni potrebbero indurre a scoraggiarsi sull’utilità pratica della ricerca di un “valore energetico”, ma non è così. Ogni merce ha davvero un “valore energetico”, una grandezza fisica, assoluta, che si può misurare per ciascuna merce – acciaio o alcol carburante o chilowattora elettrico, eccetera – se si conoscono le materie e il processo con cui è prodotta e consumata in un preciso contesto geografico e storico “quella” merce.

Se mi è permesso dirlo sommessamente, penso che soltanto i, o principalmente i, cultori di Merceologia abbiano le basi culturali e metodologiche per tale corretta conoscenza, processo per processo, merce per merce.

(vi)  L’analisi del valore energetico è utile ai fini di scelte di politica merceologica relative alle merci da produrre e usare in una società nella quale l’energia è un fattore limitante dell’economia. Tale analisi permette, per esempio, di rispondere a domande come le seguenti.

Quanta energia in più sarà necessaria nel sistema economico italiano in seguito alla produzione e uso di nuovi televisori e alla rottamazione dei televisori attuali, imposte dalla transizione dalla televisione analogica terrestre a quella digitale, o in seguito alla “rottamazione” di mezzi di trasporto e elettrodomestici. Quale è il costo energetico dell’informatica, per esempio dell’invio di posta elettronica (stimato in un chilowattora per ogni mille “mails”) e dei “messaggi” di telefonia mobile, o della “informatizzazione” della pubblica amministrazione pensata come mezzo per risparmiare carta, tempo e lavoro, cioè altra energia. Quale soluzione va privilegiata, dal punto di vista energetico, per lo smaltimento dei rifiuti.

In una società in cui costi e prezzi monetari sono molto incerti e variabili nel tempo, la conoscenza del valore energetico delle merci rientra nella ricerca di scale di valori fisiche e, possibilmente, assolute, come quella del “costo in acqua” (quantità di acqua necessaria per ottenere una unità di una merce o di un servizio) o come il “costo ambientale” (quantità di gas o di agenti inquinanti per unità di merce o di servizio). Quest’ultimo indicatore è sempre più spesso usato per esempio come ”costo in anidride carbonica” o in “gas serra” di merci e servizi, un esempio essendo ancora una volta offerto dalla valutazione delle emissioni di CO2 per km, usata come base commerciale degli autoveicoli (sulla base di circa 2,5 kg di CO2 per litro di benzina, cioè 80 g CO2/MJ). Inutile dire che anche simili valutazioni di “costo ambientale” sono poco attendibili se non sono riferite all’intero ciclo vitale, “dalla culla alla culla”, delle merci.

“Costo energetico” e “costo ambientale”, insieme all’“intensità del lavoro” (energia anch’essa), sempre per unità di merce e di servizio, costituiscono un “triangolo magico” del valore fisico, cioè “del valore”, delle merci e dei servizi.