Sulla vulnerabilità politica dei corpi
Un’esperienza politica che nasce direttamente dal rapporto con corpi estranei, stranieri; con corpi umiliati e offesi, con corpi nascosti negli anfratti e visibili o invisibili nei non luoghi delle città.
Rotta balcanica, prima: quattro o più mesi di cammino e di viaggio.
Dopo, respinti da Austria, Germania.
Ci avviciniamo. Difficoltà di lingua: suoni estranei, che talora sembrano gorgoglii o balbettamenti (bàrbaros). I volti scuri sorridono, hanno incertezza negli occhi. Ma anche ridono, scherzano come bambini. Eppure hanno vissuto esperienze che avrebbero distrutto ciascuno di noi. Ci danno la mano o più spesso la portano al cuore e un poco si inchinano. Chiediamo i loro nomi, da dove vengono, per quali paesi sono passati, se hanno subito offese…
Hanno camminato per mesi. Hanno passato quattro, cinque, sette o più confini, sorvegliati da poliziotti e cani, chiusi da reticolati, sbarre o con boschi o vuote pianure in cui hanno corso, strisciato per non farsi vedere. Hanno vissuto di nascosto, sopravvivendo a stento, o in campi simili a lager. Molti sono stati in prigione perché senza documenti, persi, rubati. Hanno subito percosse, morsi e torture. Sono stati minacciati di morte. Non pochi sono scomparsi.
Bisogna capire e sapere che sono portatori di una domanda per ciascuno di noi, che riguarda tanto noi quanto loro e tocca la nostra identità e anche la nostra singolarità e la storia da cui veniamo.
Sono corpi che mostrano una vulnerabilità totale. Non solo la loro, anche la nostra. Anzi. Mi viene da dire più la nostra che la loro. Loro hanno superato mille ostacoli. Hanno spesso corso rischi mortali e sono sotto le nostre finestre a mostrarci l’altra faccia della luna, il volto della nostra storia, a farci capire che il loro malessere è il lato oscuro del nostro benessere.
L’accampamento presso il villaggio di Idomeni, sul confine greco con la Macedonia, è stato, fino al suo sgombero violento, la manifestazione esemplare della condizione di queste persone: la barriera ai confini della Macedonia diventava il confine degli egoismi europei benestanti o aspiranti tali; il segno concreto e simbolico che mostrava insieme la precarietà e la violenza della nostra condizione di privilegio. Così come la cosiddetta Giungla di Calais, confine questa volta interno a un grande Stato europeo.
O, per quel che riguarda la mia esperienza personale, piazza Victoria di Atene nell’inverno 2015-2016 dove intere famiglie sostavano, donne affrante, sedute sdraiate in un sonno senza riposo, con bambini piccolissimi, corpi malati, feriti anche gravemente in attesa di andarsene verso il nord, difficile, rischioso, improbabile, spesso pagando (“mi hanno chiesto 3000 euro”, ci diceva un giovane algerino): una rappresentazione vera del mondo in cui viviamo e che per lo più non vediamo o fingiamo di non vedere.
Oggi: gli accampamenti e i campi miserabili in Serbia e ancora in Grecia e negli altri paesi dell’interrotta rotta balcanica, già teatro di feroci guerre identitarie.
“ Appena rientrati. Oggi è stata una giornata intensissima e ancora non abbiamo avuto modo di rielaborare tutto quello che abbiamo visto e le storie che ci sono s tate raccontate. La vita nelle “barracks” è molto peggiore di quello che ci saremmo mai potuti immaginare: almeno 700 persone vivono in condizioni di assoluto degrado, senza aver accesso ad alcun tipo di assistenza eccetto quella fornita dalla gente comune che converge in questa periferia d’Europa per distribuire dei pasti caldi o della legna “pulita” per potersi scaldare. Ci siamo uniti ad una dottoressa inglese ed un’infermiera statunitense, creando un punto medico di fortuna in un gazebo con cui fornire delle cure minime. L’afflusso è stato notevole, principalmente per le lesioni riportate nei respingimenti da parte della polizia di frontiera ungherese e croata (dai morsi di cane a vistose ecchimosi ed escoriazioni), per i dolori articolari e i principi di assideramento dovuti alla permanenza nei boschi al confine, i per problemi respiratori dati dalle esalazioni dei fuochi accesi per scaldarsi nei capannoni, per le infezioni derivanti da condizioni igieniche pessime, per la disidratazione dovuta al limitato accesso a beni primari come l’acqua potabile – tanto da convincerci ad attrezzarci per poter prolungare l’apertura fino a sera inoltrata. Come sorpresa finale abbiamo ricevuto la visita da parte della polizia serba, che dopo aver documentato tutto ci ha invitato a non perseverare in questo genere di attività sovversiva – curare delle persone. “It’s illegal”. Una frase semplice ma di una brutalità incredibile, come se fuggendo da atrocità incredibili queste persone abbiano rinunciato anche a quelli che sono i diritti fondamentali di un essere umano. Di sicuro a mente fredda avremo modo di mettere un po’ di ordine alle idee, anche se sappiamo che queste immagini ci accompagneranno ancora per molto tempo – un po’ come l’odore di plastica e traversine bruciate che stasera impregna i nostri vestiti.
“It’s illegal!”
La polizia di un ex stato socialista, oggi uno dei più poveri d’Europa, ha definito con grande chiarezza che cosa oggi è politicamente-umanamente davvero ‘sovversivo’: curare i corpi che il potere considera indegni di cura, salvaguardare vite che il potere considera indegne di vivere .
Noi europei ci stringiamo nelle nostre logore gabbiette identitarie, saldate da un benessere e da una sicurezza, sempre più relative, ma pur sempre enormi in confronto ai disperati da Siria, Iraq, Afganistan e tanti altri paesi asiatici e africani, costruite a loro spese dalla patria dell’Illuminismo e del colonialismo…
I corpi dei richiedenti asilo che vagano e sostano e dormono nei parchi e per le strade sono a lungo andare qualcosa d’intollerabile, perché con la loro mera presenza, con l’esposizione dei loro corpi bisognosi, al limite della sopravvivenza, ‘criticano’ ciò su cui si basa l’identità sociale di matrice ‘occidentale’: la proprietà, caratterizzata da un segno simbolico e materiale – muro, recinto, confine, leggi, polizia… –, che separa un dentro e un fuori, il privato dal pubblico, la casa dalla strada, il proprio dall’altrui. Nella nostra cultura, l’identità, il cui modello dominante è maschile, si definisce mediante il possesso, a cominciare dal possesso di noi stessi, per cui noi non siamo ma abbiamo un corpo che possiamo vendere come forza lavoro o come merce. Senza un minimo di proprietà non si esiste nella scena della nostra civiltà. I richiedenti asilo riaccendono simboliche e comportamenti – nazionalistici, patriottardi, fascistoidi – che sembravano consegnati al passato, ma che insorgono sempre, con diverse fenomenologie, là dove il ‘dentro’ e il ‘fuori’, i confini che delimitano e rassicurano la quotidianità proprietaria, la nostra incerta proprietà di noi stessi, vengono messi in crisi.
Per una nuova concezione dei diritti umani
Il pur relativo arrivo in massa dei richiedenti asilo fa ricadere un poco sull’Europa la crisi del Medioriente inventato dal colonialismo britannico e francese dopo la prima guerra mondiale e ora distrutto dagli interessi euroamericani.
Di conseguenza, si manifestano la fragilità e insieme la rigidità politica e sociale dell’Unione Europea a direzione tedesca e finanziaria, che ricomincia a costruire muri sui confini, sempre aperti per i flussi delle merci e del denaro.
L’esposizione di questi corpi estranei che ostentano la loro vulnerabilità nelle nostre strade va a sbattere contro la concezione corrente di diritti umani, radicandola nel nudo corpo invece che nella gabbia giuridica di spazi pubblici governati dagli Stati e da asfittiche convenzioni internazionali (ONU) a garanzia peraltro dei diritti proprietari.
Si manifesta in tal modo anche la ‘verità’ della cultura corrente dei diritti umani, che sono i diritti individuali del maschio bianco occidentale, sviluppatisi in Europa fra la ‘rivoluzione’ puritana inglese del XVII secolo e la rivoluzione francese, mentre prendeva forma l’unica universalità effettiva, quella delle merci e del denaro.
E’ necessario dunque un tentativo di elaborare una visione dei ‘diritti umani’ che parta dal corpo vivente (tendenzialmente non solo umano) e che apra un nuovo spazio pubblico.
Ogni corpo umano esiste come centro di relazioni biologiche, affettive e sociali e, in quanto tale, èintrinsecamente relazionale e perciò esposto agli altri, precario e vulnerabile.
Da ciò scaturisce il carattere politico del corpo come fonte primaria di diritti.
Una prima fascia di diritti è relativa alla protezione e all’accudimento.
Una seconda fascia di diritti scaturisce dal carattere di esposizione agli altri del corpo, da cui deriva ciò che Hannah Arendt chiamava il diritto di apparizione in uno spazio pubblico, cioè il diritto di fare politica: il corpo è intrinsecamente politico.
Dalla negazione di questo diritto del corpo sorge il diritto di allearsi con altri corpi (Butler) per resistere a questa negazione – che peraltro coinvolge la maggioranza degli esseri umani -, da cui le molteplici forme di resistenza e ribellione ed anche il diritto di fuga, che è anch’esso una forma di resistenza.
Non solo. Nel carattere relazionale del corpo vige anche un’energia positiva, che non implica ideali astratti, ma esigenze concrete, forti come bisogni, necessarie per lo sviluppo del corpo che deve crescere liberamente, in uguaglianza ma anche in differenza con gli altri e quindi con giustizia. Dunque, libertà, uguaglianza nella differenza e giustizia.
Tutto ciò è molto evidente nel fenomeno epocale dei richiedenti asilo. I loro corpi appaiono nelle nostre città ridotti allo stato dei bisogni elementari. Questi corpi sono traumatizzati in quanto sradicati con violenza dal loro ambiente originario e oggetto di violenze di ogni tipo nel percorso che li ha portati fra noi.
Per costruire un rapporto politico con loro occorre partire da questa condizione, quindi da un imprescindibile atteggiamento di cura, che implica anche la restituzione a loro della dignità, del nome, del rispetto dovuto a ogni singolo. Un compito infinito…. una contraddizione che viviamo ogni giorno perché non può essere affrontato per tutti, ma comunque da farsi tra mille dubbi e tristezze … La questione dei rifugiati può essere anzi un’occasione storica perché tutta una serie di comportamenti, ritenuti per lo più prepolitici, confinati nel privato o nell’assistenza, delegati spesso alle donne, mostrino la loro piena valenza politica, come dimostra con lucida efficacia il comunicato di overthefortress.
Problemi di relazione
L’esperienza dell’impegno con i richiedenti asilo ha delle peculiarità che la differenziano dalle altre esperienze di impegno politico perché costituisce un territorio ancora largamente impensato ed estraneo alla categorie politiche preesistenti. L’attività politica delle sinistre sociali negli anni Settanta era largamente basata su un immaginario condiviso e su schemi concettuali che elaboravano e quindi oggettivavano le situazioni d’intervento. Il movimento femminista aveva in verità posto il tema della cura come politico. Qui però siamo di fronte a una situazione che assomiglia a una marea montante, in cui siamo immersi e che non riusciamo a oggettivare concettualmente ; in cui occorre quindi gettarsi, senza avere strumenti previ, una bussola, se non in modesta misura; in cui occorre soprattutto accettare con umiltà l’incertezza, la confusione senza voler subito tamponare il vuoto. Occorre esporsi, accettare di essere turbati.
Non siamo di fronte a una scelta libera e razionale di impegno politico, ma all’esigenza di rispondere a una sorta di appello necessitante: non possiamo non impegnarci in questa situazione che avviene sulla soglia di casa e anche dentro.
I tempi della nuova migrazione, caratterizzata da una valenza in gran parte diversa da quelle che conosciamo e soprattutto dall’urgenza, sono stati improvvisi e travolgenti, spinti da potenti dinamiche sociali e politiche. Non vengono gestite dalle istituzioni sulla base di un progetto per far fronte all’’emergenza, ma solo tamponate e di malavoglia. Da parte nostra di ‘operatori di strada volontari’ – non trovo altro nome – non possono essere affrontate sulla base di un progetto politico che non abbiamo, costretti inoltre come siamo a operare negli spazi intermedi fra istituzioni e associazioni private a pagamento (cooperative), nei cui confronti, di fatto, il rapporto è per lo più subalterno.
Richiede inoltre tutta una serie di competenze – linguistiche, giuridiche, psicologiche, antropologiche, non indifferenti: ciò comporta notevoli difficoltà e richiede un impegno anche culturale serio.
Si tratta di un’esperienza forte e difficile sul piano del rapporto fra esperienza personale e esperienza politica perché, malgrado loro siano arrivati a casa nostra, nel nostro giardino, fra noi e loro rimane un’asimmetria insuperabile, bene espressa dalla nota questione posta da Judith Butler: quali persone sono, o non sono, degne di lutto?
E’ evidente che i rifugiati non sono degni di lutto, mentre noi ‘operatori’ lo siamo. C’è un confine insuperabile fra ‘noi’ e ‘loro’. E questo si manifesta non solo e non tanto nei casi più drammatici, che possono arrivare a tentativi di suicidio, ma nella quotidianità: noi dormiamo in un letto sotto un tetto abbiamo una vita normale … possiamo in ogni momento ridurre o smettere il nostro impegno… la nostra vita ‘privilegiata’ non è toccata…
Il rapporto con una condizione limite di vita può generare difficoltà interpersonali fra gli operatori volontari, mancando il tratto unificante e ‘ansiolitico’ di una ideologia condivisa, radicata in un immaginario e quindi in un tessuto emotivo convissuto, che aveva una funzione rassicurante: in una situazione tanto complessa e drammatica si manifestano e vengono accentuate problematiche personali. Antiche relazioni si disfano rapidamente all’emergere di tratti caratteriali prima ignoti o poco accentuati. Si capisce allora che la relazione è sempre in situazione. Quando la situazione è drammatica, insolita, non affrontabile con le consuete emozioni appoggiate alle consuete parole, la dinamica relazionale diventa difficile da gestire. Allora, possono venir fuori anche aspetti creativi prima latenti, ma spesso è il contrario e un volto conosciuto diviene labile come un fantasma o chiuso come in una maschera.
Perciò un’esperienza come quella con i richiedenti asilo è anche un’esperienza di noi stessi, una ricerca in noi stessi nell’attuale condizione del mondo che è caduto nel nostro giardino.
Se per l’occidente, che ha invaso il mondo, il possesso è la base dell’identità, essa esige proprietà, un luogo e un territorio reali, quindi dei confini, che oggi sono mutevoli, incerti, anche perché il vero possesso, quello che conta, quello dei potenti, è invisibile, intangibile, è il denaro, simbolizzato da una scheda, mosso da una tastiera. I potenti se ne fregano della proprietà, ma mantengono e anzi aumentano spaventosamente, come mai prima d’ora, la presa sul possesso. Questo produce sconcerto, incertezza, ansia, paura. Perciò nullatenenti, homeless, a maggior ragione migranti, richiedenti asilo, che vengono da lontano, da altre culture, privati della loro identità, incerti, vaganti, sono osceni: fuori scena – tanto più fuori quando sono fattualmente dentro. Producono perciò, spesso, una profonda istintiva avversione. Su cui si avventano come cani sull’osso per farne uso politico molti di coloro che detengono potere o vi aspirano.
Il ‘terrorismo’ è oggi il fantasma che vaga per l’Europa come ciò che, prima di tutto, può sovvertire ogni confine, per cui il nemico non è più fuori, ma dentro, nel paese, nella città, nelle strade, nel condominio… Il migrante, ma soprattutto il rifugiato, corpo estraneo vagante nel paesaggio familiare, che è insieme dentro e fuori e perciò mette in discussione il confine tra dentro e fuori, è unheimlich, inquietante, ha sempre qualcosa del terrorista… Il terrorista, prima ancora di essere colui che porta la violenza armata nei luoghi della vita quotidiana, è colui che porta il ‘fuori’ nel ‘dentro’, il ‘sotto’ nel ‘sopra’.
Febbraio 2017