Tecnica e natura: la super ideologia del progresso

progresso

L’attenzione sul Novecento, al passaggio del nuovo secolo e millennio, la fortuna di interpretazioni come quella del “secolo breve”, fortemente legata ad un ciclo politico, rischiano di far perdere di vista una continuità maggiore; la continuità di un’epoca contrassegnata dalla crescente velocità dei cambiamenti in ogni sfera della vita, e che per questa sua fisionomia si contrappone a tutte le altre epoche storiche e forme di civiltà.

Il motore del cambiamento funziona grazie all’assemblaggio di scienza, tecnica e industria, e avendo come carburante il denaro nella sua forma capitalistica; la macchina viene messa a punto e comincia a funzionare in Inghilterra e poi, secondo diversi modelli, negli altri paesi d’Europa e del mondo.

Chi riesce a salirvi sopra viaggia nel Progresso. Le diverse ideologie messe in campo dall’Ottocento in poi danno una propria interpretazione della macchina del Progresso e si scontrano sul modo migliore di farla funzionare.

Per molto tempo non si prese atto, se non da parte di singoli e gruppi marginali, che il Progresso, concretizzatosi in sviluppo cioè crescita della produzione e del consumo, stava pesantemente agendo sulla biosfera.

Negli ultimi decenni del Novecento questa consapevolezza è cresciuta, da cui la necessità di porre su nuove basi il rapporto tecnica-natura. Al momento è però solo un’istanza intellettuale perché le politiche industriali, governative, e ancor prima le spinte dei consumatori, vanno ancora nella vecchia direzione, anche se debbono fare i conti con la sostenibilità dello sviluppo, i costi crescenti della macchina del Progresso.

Tecnica e natura: la super ideologia del progresso

È anzitutto fondamentale specificare come il ‘900 abbia inventato ben poco rispetto al secolo precedente. Le grandi ideologie politiche che hanno segnato il secolo si sono strutturate nell’800. Il presupposto da cui partire è che tutte queste ideologie tipiche del processo di massificazione già da subito, sia pure attraverso lotte e conflitti, si proclamano a favore dello sviluppo tecnico. C’è dunque una superideologia che le accomuna tutte: aderiscono all’ideologia del progresso.

Ma come tematizzano la questione del rapporto tecnica-natura? Come viene forgiata l’ideologia del progresso nel comunismo e che fisionomia assume nel nazismo, prendendo a fini euristici i due casi estremi? La situazione odierna vede il decadimento di un po’ tutte le ideologie. Bisogna però partire dall’800 perché l’applicazione industriale della tecnica aumenta il potere della società sulla natura e questa è percepita come la condizione necessaria per la libertà dell’uomo.

Secondo alcuni la rappresentazione romantico-estetica della natura che si afferma nel passaggio dal ‘700 all’800, sullo sfondo della prima industrializzazione, svolge un ruolo di compensazione che è reso necessario dallo shock culturale causato dalla forma moderna di alienazione. C’è un impatto sociale e culturale del paradigma secondo cui la libertà dell’uomo è direttamente proporzionale al dominio sulla natura.

La posizione di Hegel, il primo grande filosofo della rivoluzione industriale, è che con l’industria si può creare un mondo per gli uomini. É nell’estetica hegeliana che troviamo la più potente esaltazione della progressiva artificializzazione del mondo: cultura e artificio sono le sue idee guida. Non nella forma della contrapposizione dualistica in cui la natura subisce l’azione distruttrice dell’uomo, ma nella prospettiva di un superamento dove la natura sarà l’altro dello spirito. In questo altro lo spirito si particolarizza solo per riunire in sé ciò che ci appare un limite e una barriera. É questo uno dei caratteri fondamentali dell’estetica di Hegel. La natura è il regno della necessità che si converte in libertà per mezzo del lavoro e dell’arte. La realizzazione dell’idea di progresso indica la strada di una artificializzazione continua della natura. In Hegel si ha già l’anticipazione dell’essenziale di quel che nel dibattito culturale è ancora oggi in circolazione. Agli inizi dell’800 l’ideologia del progresso ha trovato in Hegel il suo massimo rappresentante.

Sul piano sociale la svolta viene segnata dalle rivoluzioni borghesi del 1848 che accelerano l’orientamento delle classi dominanti europee verso il campo dello sviluppo e della tecnica. Dopo il ’48, anche dove sono al potere, le aristocrazie terriere che si oppongono al progresso perdono potenza politica e incisività culturale. Questa situazione non cambia nei decenni successivi, allorché la più radicale reazione al positivismo progressista, all’illuminismo e al socialismo, si esprime nel più inquietante movimento reazionario della storia: il nazismo.

Non sono solo gli intellettuali a convertirsi allo sviluppo progressivo come unica fonte di senso per la storia degli uomini. Proprio in Germania, prima che altrove, si realizza la fine della contrapposizione tra scienza e tecnica. Lo si vede nel rapporto tra invenzione e perfezionamento della macchina a vapore e scoperta delle leggi della termodinamica.

La seconda rivoluzione industriale salda poi definitivamente il legame scienza-tecnica-industria, iniziando così l’industrializzazione della scienza. Si crea un formidabile campo di forze politiche e intellettuali in contrapposizione tra di loro che però condividono lo stesso progetto fondamentale: l’idea di progresso non è stata una fantasia ma il risultato dell’intero processo storico dell’Occidente moderno. Su questo sfondo si capisce l’oscuramento totale subito per molto tempo dagli effetti negativi dell’industrializzazione: per più di un secolo solo individui isolati hanno criticato a fondo le conseguenze ambientali dello sviluppo industriale.

La natura viene esaltata nell’arte romantica, ma la scienza della natura non è meno importante ai fini della costruzione storico-sociale del concetto ottocentesco di natura che trapassa poi anche nell’immaginario collettivo. Il diffondersi dell’industrializzazione nell’ecosistema segna la diffusione della rappresentazione di una natura perfetta, intangibile alle offese dell’uomo, che può essere sfruttata liberamente in ragione delle sue potenzialità illimitate.

La potenza della natura esalta i successi prometeici dell’uomo. Ancora oggi è presente nel senso comune l’idea che abbia possibilità illimitate di autodepurazione. Nel 1896 il chimico tedesco Winckler, in perfetta buona fede, proclamava che la natura lavora incessantemente giorno e notte, dalla notte dei tempi, rimanendo eternamente pulita. Sulla forza purificatrice del fuoco – un concetto religioso – si basa l’idea di bruciare i rifiuti, cosa che avviene ancora oggi attraverso i termodistruttori – dei totem -. L’industria si adattò opportunisticamente alle idee dominanti riuscendo a sfruttare le risorse della natura, facendo prevalere l’interesse economico-privato su quello pubblico, l’obiettivo chiaro del profitto rispetto a fini incerti o contraddittori.

L’apporto decisivo all’affermarsi del paradigma dello sviluppo industriale illimitato venne paradossalmente dalle scienze naturali: per Darwin non c’è possibilità di separazione tra uomo, civiltà e biosfera: l’uomo è un prodotto dell’evoluzione e dell’adattamento all’ambiente. La naturalizzazione dell’uomo diviene un ostacolo epistemologico insuperabile per cogliere il fenomeno della distruzione della natura. La saldatura tra economia politica e scienze naturali darwiniane produce una concezione industrialistica egemonica che si impone su schieramenti politici contrapposti. In particolare le correnti maggioritarie del movimento operaio sposano l’industrializzazione e si propongono di integrare in una teoria unificante le conquiste delle scienze naturali. Sul versante borghese c’è invece il tentativo di costruire una economia pura, scientifica e matematizzante, assumendo come referente un uomo “naturale”, egoista e competitivo, che agisce nella società secondo i dettami della selezione naturale. In questo modo il cerchio si chiude: era stato Adam Smith ad individuare il principio generale dell’economia nella ricerca del guadagno da parte di ogni individuo: in questa lotta emergevano i migliori, gli inefficienti venivano eliminati.

La tecnologia viene interpretata con le stesse categorie: nello stesso modo in cui la natura assicura la sopravvivenza solo alle specie più efficienti ed adattabili, così le tecniche si diffondono o scompaiono attraverso una lotta incessante per la sopravvivenza. Lo sviluppo tecnico non è però automatico ma politico, un qualche cosa che viene progettato e su cui ci si scontra. E però nel corso di un secolo o poco più si ha un significativo ribaltamento: la natura biotecnologizzata diventa oggetto di scelte politiche, mentre la tecnica si naturalizza, viene presentata come il destino dell’Occidente e del mondo intero.

L’industrializzazione di massa del ‘900, facente perno sul modello produttivo fordista, ha portato agli estremi il consumo di risorse naturali a partire dall’enorme quantità di energia utilizzata per il funzionamento della fabbrica, della città e di tutto il sistema produttivo. A questo fine continuò a giocare per molto tempo l’idea di illimitatezza della natura: un modello irrazionale dell’ambiente di vita imperniato sulla razionalizzazione delle tecniche produttive.

L’industrializzazione di massa in pochi decenni ha stravolto la vita degli umani e la distruzione della natura, pur se molto al di là della nostra portata, è apparsa un prezzo obbligatorio da pagare, se si vuole il progresso materiale per (quasi) tutti. Il consumo reso possibile dall’industrializzazione è l’unica democrazia sostanziale della tarda modernità. L’equazione progresso=sviluppo delle forze produttive si è imposta come una formula magica, cui si è potuto far ricorso per legittimare qualsiasi scelta che si presentasse come un tributo ad una divinità indiscutibile che aveva assunto le vesti della normalità e necessità.

Ciò che, per esempio, commise Stalin si spiegò con la necessità di porre le basi per lo sviluppo. E, al di là di critiche circoscritte, lo stalinismo è crollato solo perché non ha mantenuto le sue promesse economiche, non certo per i crimini politici. La posizione più interessante è quella di Marx che critica l’industrializzazione così come si è realizzata in Inghilterra ed è però apologeta dello sviluppo capitalistico. Egli propugna un rapido e libero sviluppo della società borghese, perché così si potrà giungere alla rivoluzione proletaria. Quindi la sua critica è storicamente determinata mentre la posizione di principio favorevole all’industrializzazione deriva dal fatto che attribuì all’uso capitalistico della tecnica lo sfruttamento dell’uomo e della natura, gli effetti negativi e distruttivi dello sviluppo, senza mettere mai in discussione la scienza e la tecnica.

La tesi di Marx è che solo l’abolizione, il superamento del capitale, renderà possibile la riconciliazione dell’uomo con la natura. Individuò anche la tendenza del capitale ad internalizzare la scienza e la tecnica come lavoro in generale. Non pensava però che le applicazioni tecniche della scienza o addirittura la stessa ricerca scientifica potessero mettere a rischio il rapporto uomo-natura, mettere in crisi gli ecosistemi. Non pensò che la scienza-tecnica dovesse porsi dei limiti per conservare la natura. Per lui la scienza-tecnica è intrinsecamente una forza di liberazione. Solo in questa dimensione prometeica gli uomini potranno realizzarsi e far fare un salto di qualità al lavoro.

Marx dunque insiste sul fatto che l’aumento di produttività è la base concreta del progresso umano. Assume in positivo la forza liberatoria della scienza per lottare contro il dominio della natura. Solo se gli uomini si dimostreranno incapaci di controllare la tecnica, riappropriandosene socialmente proprio sulla base del suo concreto sviluppo, verranno a trovarsi in una posizione di dipendenza e soggezione. In un tale scenario è la natura creata artificialmente che impone il suo dominio ed espropria il genere “homo sapiens” del progetto di emancipazione formulato sul presupposto della libertà umana. L’espropriazione della conoscenza scientifica non avviene per effetto di una libera attività ma per la difesa di rendite specialistiche e per la legge del profitto che obbliga ad una continua ed insensata innovazione tecnologica: l’uomo è allora indegno della libertà perché se ne è servito per creare una seconda schiavitù.

L’implosione del comunismo, incapace di internalizzare le nuove tecnologie, rende ardua la rappresentazione del comunismo realizzante, eppure tutto il suo movimento è fortissimo fino agli anni ’60; per la maggioranza dell’umanità quella è la strada dello sviluppo, la via del progresso. Il primo momento in cui, in URSS, affiora un ripensamento si può ricondurre al fallimento del progetto di deviare i corsi dei fiumi siberiani verso sud.

Neppure nella Russia rivoluzionaria la scelta dell’industrializzazione come obiettivo prioritario fu l’applicazione di un dogma, ma il risultato di intensi conflitti. Dopo la rivoluzione del ‘17 si affermò un movimento di salvaguardia della natura con la realizzazione di grandi parchi. Si mette in guardia la popolazione sul fatto che la natura non è invulnerabile. L’innovazione cruciale si ebbe con la scientifizzazione del marxismo: la società può essere governata perché conosciuta dalla scienza di Marx, e così i rapporti della società con l’ambiente. Nel settore ambientale vennero introdotte norme estremamente avanzate, ad esempio imponendo scarichi con tasso zero di inquinamento. Questo traguardo ideale facilitava ogni violazione e serviva ad ogni sorta di copertura in nome della necessità di combattere la gara dello sviluppo industriale con i paesi capitalisti. Negli anni ’70, come fattore non trascurabile degli sconquassi politici nel decennio successivo, la crisi ambientale raggiunge e supera i livelli di guardia. La carenza di informazione e di strutture di controllo non può più nascondere una situazione peggiore di quella dei paesi a capitalismo privato.

L’inquinamento industriale nei paesi socialisti dell’est, che non poteva essere contrastato da iniziative civiche di ampiezza adeguata, dipendeva anche dall’arretratezza tecnologica degli impianti, che erano al riparo dalla competitività internazionale eccetto che per il settore militare, mentre la spinta all’innovazione indotta dal conflitto sociale, che è sempre stato decisivo da questo punto di vista, risultava bloccata dalla burocratizzazione degli strati operai e dei tecnici. Con la situazione che si è creata dopo il crollo del comunismo, non si è avuta affatto un’inversione di rotta, bensì un aggravamento del disastro ambientale.

La posizione del nazismo di fronte alla tecnica ha avuto una fase di gestazione culturale molto intensa e questo retroterra si identifica sostanzialmente con l’importante corrente della “rivoluzione conservatrice”. I suoi esponenti erano ad un tempo a favore dello sviluppo tecnico ed estremamente reazionari sul piano sociale: l’obiettivo costante della critica anti-capitalistica dei “modernisti reazionari”, fu quello di separare la tecnica e l’industria dal capitale, distinguendo poi gli imprenditori dai finanzieri; veniva così esaltata la produzione e stigmatizzata la speculazione, di cui gli ebrei sarebbero stati l’incarnazione vivente. Nell’ottica dei pensatori della “rivoluzione conservatrice”, era necessario separare la tecnica dal capitalismo, dal dominio che l’economia mercantile era riuscita a esercitare su ogni aspetto della vita, al punto da rendere sia l’imprenditore che il lavoratore schiavi del processo di produzione. La lotta contro l’autonomizzazione della tecnica, frutto della generalizzazione dell’economia capitalistica, non poteva essere condotta dal proletariato, che secondo un ideologo come Hans Freyer era stato addomesticato, perdendo la sua carica antagonista contro la civiltà industriale. Una tale lotta poteva essere condotta solo da un intero popolo, depositario di autentici principi sociali e naturali, capace di separare la tecnica dalle superfetazioni borghesi e marxiste, riconducendola ai luoghi originari dello spirito europeo e realizzando la riconciliazione fra tecnica e anima. L’uomo capitalistico essendo spinto dal guadagno è interessato solo a vendere merci, valori effimeri e astratti che con la loro circolazione vorticosa producono caos e anarchia; l’uomo tecnico invece produce oggetti con un valore intrinseco, forme stabili, e rende ciò che è incompleto e mutevole, completo e durevole. Nell’ideologia nazista, a lungo sottovalutata, la costruzione della società così come il funzionamento dell’economia, tornano a poggiare su una pretesa base naturale, riacquistando, ad un livello tecnologico superiore, l’equilibrio dell’antichità classica, con l’accettazione della insuperabile diseguaglianza tra gli uomini e tra i popoli.

La riproposta della questione della natura in questa fine secolo, comporta la necessità di una rinnovata ed attenta analisi delle posizioni naziste. Si può prendere come punto di partenza per un’ulteriore indagine, la valutazione espressa da un profondo conoscitore di questa temperie spirituale, Ernesto De Martino: “Il naturalismo e il tecnicismo costituiscono per noi un pericolo mortale in quanto perdono l’uomo nel mondo delle cose e ne compromettono il ritorno a sé, la presa di possesso di sé, lo scoprirsi come margine oltre la natura; tutto quanto fonda l’umanità occidentale come ethos operativo. Ma contro questo pericolo la difesa sta nella storia dell’Occidente, cioè nel fare progredire la ragione oltre i limiti storici di cui sinora l’Occidente ha avuto coscienza”.

Il successo del nazismo derivò dalla capacità di sfruttare il sentimento di rivolta che cresceva nelle masse alle prese con la modernizzazione e razionalizzazione, costrette ad umiliare la natura dentro e fuori di sé. Abbiamo visto come il nazismo non ruppe affatto con la tecnica e la civiltà delle macchine, esso piuttosto, come tutto il fascismo moderno, seppe incanalare e sfruttare ai propri fini gli istinti ribelli latenti nell’inconscio. Come ci ricorda Horkheimer la menzogna ideologica del nazismo e le false promesse del suo Führer, non devono far dimenticare che la rivolta dell’ “uomo naturale” contro il crescere della razionalità ha favorito l’asservimento e non la liberazione della natura. Sotto questo aspetto si può definire il nazismo una sintesi satanica di ragione e natura, il contrario di quella riconciliazione fra ragione e natura che la filosofia ha sempre sognato.

Dopo il 1945 si afferma la grande stagione dello sviluppo – l’età dell’oro che retrospettivamente potrà apparire dalla follia – e alla sua conclusione si fronteggiano due posizioni ideologiche, sopravvissute al crollo delle grandi ideologie ottocentesche:

1) Capitalismo come natura; il capitalismo è l’unico sistema economico possibile, e su questa base si realizzerà il completo oltrepassamento della prima natura con lo sviluppo di tecnologie postumane (il capitalismo dissolverà tutti i vecchi legami).

2) Sviluppo sostenibile; il capitalismo sopravviverà solo se saprà internalizzare la crisi ecologica, con lo sviluppo di una “neotecnica” adeguata all’ambiente (la prima natura).

In entrambi i casi queste posizioni si presentano come delle tecniche più che delle ideologie, come dei saperi adeguati al funzionamento del sistema. Mentre nell’800 e nel ‘900 l’ideologia pretendeva di usare la tecnica e di dominare la natura, costruire il progresso e quindi la storia, adesso il compito del pensiero, della rappresentazione, è molto più modesto: da un lato si tratta di dire un “sì” illimitato alle potenzialità crescenti della tecnologia che è in grado di creare l’oltreuomo, dall’altro di vincolare e ricondurre la tecnica alla natura attraverso tecnologie adeguate.

Possiamo dire che sono ideologie che non si proclamano più tali; ad ogni modo è significativa questa subordinazione alla tecnica come orizzonte non oltrepassabile, in un caso perché è lo strumento della libertà, nell’altro della necessità. Il neofuturismo ipertecnologico è economicamente, socialmente e concettualmente estremamente importante, però meno nuovo della teoria dello sviluppo sostenibile. La teoria dello sviluppo sostenibile costituisce un tentativo di risposta ai due opposti scenari che si sono delineati tra la fine degli anni ‘60 e inizi anni ‘70 e che hanno costituito l’orizzonte della contestazione giovanile. Da un lato la liberazione totale delle energie creative al di là dei limiti della razionalità mercantile avrebbe dovuto soddisfare ogni desiderio travolgendo la società del consumo sul suo stesso terreno. L’ottimismo industrialista poteva così trovare alimento nelle frange più radicali della contestazione. Sul versante opposto invece la contro-cultura incontrava il catastrofismo, il rifiuto della civiltà occidentale e di ogni processo di civilizzazione in quanto intimamente decadente e profanatore della natura.

In entrambi i casi la prospettiva di garantire il progresso era messa in pericolo; a ciò si aggiunga che le élites intellettuali, che avevano preso atto della crisi del rapporto società-natura, stavano approdando a proposte di tipo malthusiano e comunque fortemente pessimistiche. L’elaborazione della concezione dello sviluppo sostenibile si afferma come reazione ad uno scenario lacerato e si basa sulla possibilità di contemperare lo sviluppo economico con le esigenze dell’ambiente, realizzando una saldatura tra economia ed ecologia. Secondo questa teoria, una crescita illimitata non è possibile: lo sviluppo per potere andare avanti deve farsi da quantitativo a qualitativo: risparmio di energia, produzione di merci immateriali, in ogni caso l’economia per essere sostenibile deve tenere conto della capacità di sopportazione del pianeta terra, il che impone l’ottemperanza a due principi basilari:

1) lo sviluppo è soggetto ad un insieme di vincoli, in particolare i tassi di sfruttamento delle risorse non possono attestarsi a livelli superiori a quelli dei tassi di rigenerazione naturali o amministrati;

2) l’uso dell’ambiente come deposito di rifiuti deve risultare conforme al principio che il tasso di scarico non deve superare il tasso di assimilazione. Questi principi si stanno lentamente affermando nonostante tutte le resistenze.

Da più parti è stato argomentato che lo sviluppo sostenibile va incontro a contraddizioni non sanabili, in primo luogo perché pretende di governare il capitalismo. Questa critica può essere eccessiva o prematura, tenendo presente che la bussola dello sviluppo sostenibile è fornita dal concetto di limite e di tolleranza del sistema terra, esso al momento indica solo una possibilità. La sua realizzazione significherebbe porre limiti non superabili all’economia e invertire il processo di colonizzazione della vita, liberando spazio e tempo per attività non economiche in cui sia ridotto al minimo il consumo della materia, dell’energia fisica e delle merci in generale. Queste proposte non hanno senso in una prospettiva economica classica in cui la felicità e la realizzazione dei valori egemoni sono affidati all’aumento indefinito dei beni consumabili.

Siamo, in realtà, ancora totalmente all’interno del ciclo storico dominato dall’economia industriale, inaugurata agli inizi dell’800, e stiamo vivendo la sua apoteosi, che comprende il tentativo di annettersi l’ecologia, ed è su questo passaggio che si è attestato il senso comune di massa, e non vanno oltre a ciò le élites della cosiddetta società civile mondiale, l’opinione pubblica. Tutto quanto l’Occidente è convinto di essersi liberato di ogni ideologia, mentre resta preda dell’adesione minimalista alla super ideologia del progresso ridotto a sviluppo, a consumo crescente di merci materiali ed immateriali.

Testo della conferenza tenutasi il 30 novembre 1998 presso l’Aula Magna del Liceo Classico “Golgi” di Breno – Valle Camonica, BS -.