Tecnocrazia

Tecnocrazia è parolaccia? La nascita di un governo di tecnici in Italia ha fatto risorgere una antica parola, tecnocrazia, per lo più con significato negativo, secondo l’idea che soltanto i parlamentari eletti dal popolo sono in grado di operare e fare leggi perché solo loro conoscono quanto è utile ai loro elettori. In genere oggi i governi “tecnici” sono costituiti da persone non elette dal popolo, per lo più economisti, esperti di finanza, giuristi, sociologi, eccetera, riconosciuti per la loro competenza professionale e indipendenza amministrativa, capaci di prendere decisioni rigorose anche se sgradevoli proprio per il fatto di non dover rispondere agli elettori o a gruppi di elettori o a gruppi di interessi che possono influire sulla loro rielezione.

In realtà la parola tecnocrazia ha una lunga interessante storia che si intreccia anche con i movimenti ambientalisti e che immagina un governo di ingegneri, fisici e chimici, gente abituata a fare i conti con grandezze fisiche, chili di materia e chilowattore di energia, piuttosto che con i soldi. Sulla base di queste grandezze fisiche, ben definibili e misurabili, avrebbe dovuto essere misurato e giudicato il “valore” e l’utilità delle merci e della produzione di beni e servizi. Già nel 1905 lo scrittore H.G. Wells (1877-1956) aveva suggerito la misura del valore dei beni sulla base non dei soldi, ma della quantità di lavoro e di energia che è richiesta per ottenerli.

L’idea fu ripresa negli anni venti del secolo scorso da vari personaggi, come l’economista eterodosso americano Thornstein Veblen (1857-1929), il grande fisico inglese, premio Nobel, Frederick Soddy (1877-1956), passato dagli isotopi ai problemi sociali, e il bolscevico eretico Aleksandr Bogdanovic (1873-1928). L’idea di un governo dei tecnici, “degli ingegneri”, fu sposata nel 1932 negli Stati Uniti da un curioso personaggio che si chiamava Howard Scott (1890-1970). Erano gli anni della grande crisi economica, cominciata con il crollo della borsa di New York del 1929, e molti ritenevano che l’economia finanziaria, fatta di carta moneta e di azioni di borsa, dovesse essere sostituita, proprio come sta facendo in questi giorni il movimento OWS, “Occupate Wall Street”, la zona delle banche di New York.

Scott lanciò un movimento chiamato, appunto, “tecnocrazia”, il governo dei tecnici, e tanto per cominciare nel 1933 propose di misurare il valore delle merci sulla base della quantità di beni fisici, naturali, e in particolare sulla base della quantità di energia, impiegati nella loro produzione. Scott suggerì che lo stato avrebbe dovuto assegnare a ciascun cittadino dei “certificati energetici”, uguali per tutti i cittadini, una specie di autorizzazione ad acquistare le merci che volevano sulla base del loro “prezzo energetico”, fissato con un criterio unico. È evidente che in questo modo i cittadini sarebbero stati indotti a spendere i propri “certificati” per acquistare le merci che erano state prodotte con minore consumo di energia e quindi con tecniche più innovative; quando uno avesse usato tutti i suoi certificati energetici ne avrebbe potuto acquistare altri da chi aveva risparmiato nei suoi acquisti. Il tutto avrebbe portato una diminuzione dei consumi energetici di ciascun paese, con minore inquinamento e minore sfruttamento delle risorse naturali scarse.

A dire la verità l’idea di Scott era abbastanza pasticciata e comunque scatenò delle vivaci polemiche: “Tecnocracy” fu accusata a volta a volta di diffondere idee comuniste o di sostenere uno stato autoritario di tipo fascista. A titolo di curiosità l’idea di commerciare i beni materiali sulla base di un valore espresso dalla quantità di energia richiesta per produrle era già stata espressa nel 1930 da Roberto Salvatori (1873-1940), professore di Merceologia nell’Università di Firenze, che propose una moneta chiamata “energon-merce”, basata sul consumo di energia richiesta per ottenere ciascuna merce o servizio; “vale di più”  il prodotto che richiede meno energia nella fabbricazione e nell’uso.

Qualcuno ha ripreso l’idea di assegnare dei “certificati energetici”, cioè un diritto a consumare energia, non più ai singoli individui ma a ciascuno stato, in proporzione al numero degli abitanti e tale che la somma di tutti i certificati fosse uguale al consumo totale mondiale di energia. I paesi che consumano molta energia sarebbero portati da una parte a razionalizzare i propri processi e prodotti, dall’altra ad acquistare una parte dei certificati dei paesi poveri i quali, con i soldi così ottenuti, potrebbero costruire scuole, ospedali, abitazioni, fognature. Utopie? O forse è utopistico continuare sulla strada che stiamo percorrendo noi con la nostra saggezza?