“Think”

Think è una parola inglese che si può leggere in tante maniere: il pensiero; il verbo pensare; io o noi penso o pensiamo; un invito, un imperativo, a pensare. Think, pensa, è stato scelto come “motto” dalla prima grande società di informatica moderna, la International Business Machines, o IBM, come è nota in tutto il mondo, una storia di gente che ha pensato: pensato di fare quattrini, ma anche di risolvere problemi umani.

L’avventura industriale ma anche intellettuale di questa società è cominciata, nominalmente, con la sua fondazione cento anni fa nel 1911. Nominalmente perché la sua storia risale a molto tempo prima, a quella seconda metà dell’Ottocento che ha visto la rivoluzione industriale nel suo fulgore: petrolio, elettricità, chimica, grandi città. Le radici della storia dell’IBM affondano nel guano, la cacca degli uccelli marini che si trova in grandi depositi nell’America meridionale e che era la principale fonte di concimi azotati alla fine del XIX secolo. Fu infatti un ricco importatore e commerciante di guano, l’americano Charles Flint (1850-1934) che, ossessionato dal pensiero che sarebbe stato possibile fare più soldi associando più società in modo da conquistare una posizione di monopolio in ciascun settore, si dedicò ad accorpare società anche nel campo emergente delle macchine per ufficio.

Nel 1900 Flint comprò la società Time Recording, nata nel 1889 per fabbricare orologi e sveglie e segnatempo per uffici. Il secondo acquisto fu la Computing Scale Company, pure fondata nel 1889, che fabbricava bilance e macchine affettatrici. Mancava una terza gamba e Flint acquistò la Tabulating Machine Company (TMC), fondata nel 1896 dall’americano Hermann Hollerith (1860-1929) che aveva compreso che la crescente burocrazia avrebbe avuto bisogno di macchine calcolatrici.

Hollerith fu la vera prima fonte del “pensiero” che sarebbe diventato la IBM. Singolare personaggio; attento al mondo circostante e a nuovi bisogni sociali. Nel 1884 lavorava nell’Ufficio brevetti degli Stati Uniti e nel frattempo pensò di costruire una macchina calcolatrice in tempo per il censimento che gli Stati Uniti avevano indetto per il 1890. Ai fini di un censimento sarebbe stato necessario mettere insieme ed elaborare milioni di dati relativi ai singoli cittadini: nome, cognome, origine, residenza, eccetera. Hollerith pensò che queste informazioni avrebbero potute essere messe su un cartoncino, su una scheda, contenente dei buchi, ciascuno corrispondente ad una certa informazione, e che avrebbero potuto essere “lette” con una macchina capace di trasformare in segnali elettrici, la presenza o l’assenza di un buco in ciascuna posizione.

Si trattava di applicare una idea che era stata proposta per azionare meccanicamente dei telai tessili da un certo “Giovanni il calabrese”, di Catanzaro, meccanico trasferito in Francia, poi ripresa dall’inventore francese Joseph Marie Jacquard (1752-1834) il quale voleva così accelerare la produzione dei tessuti impiegando meno operai. La sua macchina consisteva in una ruota dentata che comandava lo spostamento dei bracci del telaio a seconda dei buchi che incontrava in una scheda di cartone predisposta per ottenere un certo disegno del tessuto. L’invenzione di Jacquard fu accolta con entusiasmo dai padroni delle tessiture e provocò le prime importanti proteste degli operai che perdevano il posto in seguito all’introduzione di macchine capaci di fare il loro stesso lavoro. Per inciso si chiamano “jacquard” anche oggi certi tipi di tessuti.

Ma torniamo a Hollerith; le sue schede perforate per raccogliere le informazioni dei cittadini necessarie per il censimento erano divise in 288 zone che rappresentavano i dati anagrafici. Per decodificare queste informazioni, si faceva passare ogni scheda attraverso un apparecchio con una batteria di aghi retrattili; in assenza di perforazione l’ago veniva fermato dal cartoncino, altrimenti l’ago finiva in una vaschetta piena di mercurio, chiudendo un circuito elettrico; il passaggio della corrente azionava un relais, che faceva avanzare di uno scatto un contatore. Hollerith lavorò all’Ufficio del censimento fino al 1896, anno in cui si mise in proprio fondando la Tabulating Machine Company (TMC), quella che sarebbe stata comprata da Flint.

A questo punto la storia di Flint si intreccia con quella di un altro pensatore, Thomas J. Watson (1874-1956), Watson Senior perché nella storia della IBM avrebbe avuto un ruolo importante anche il figlio, Thomas J. Watson Junior (1814-1993). Dopo aver fatto altri mestieri Watson fu assunto come venditore dalla National Cash Register (NCR), una ditta di registratori di cassa per negozi fondata da John Patterson (1844-1922).

Altro personaggio leggendario e controverso; nel 1893 Patterson aveva “pensato” e costruito a Dayton, nello stato dell’Ohio, la fabbrica della National Cash Register con nuovi criteri, con finestre che potevano essere aperte per far circolare l’aria, circondata da spazi verdi e abbellita da quadri commissionati a pittori noti. Patterson era attento alla comunità in cui viveva, realizzò parchi e scuole pubbliche, una scuola di addestramento per i collaboratori e di informazione per i clienti. Le pareti della fabbrica portavano a grandi lettere la scritta: “Non possiamo permetterci che un cliente non sia soddisfatto”.

Watson crebbe in questa atmosfera e la leggenda vuole che l’idea dello slogan “Think” sia venuta a Watson già quando era ancora alla National Cash Register (NCR); Watson deve avere pensato tanto perché ben presto divenne il venditore più bravo di macchina NCR, poi venditore esclusivo, fino a diventare vice presidente. In occasione della grande alluvione del 1913 che allagò la parte bassa della città di Dayton, Patterson e Watson accolsero gli sfollati nella fabbrica della NCR che si trovava nella parte alta della città e divennero eroi nazionali. Nel 1914 i rapporti fra Watson e Patterson si deteriorarono e Watson passò alla Computing, Tabulating and Recording Company (CTR) la società che Flint aveva creato nel 1911 fondendo le sue tre società, fra cui la Tabulating Machine Company (TMC) di Hollerith.

Siamo alle soglie della prima guerra mondiale e la crescita delle attività della CTR fu rapida e così crebbe la carriera di Watson. I ruggenti anni venti in America portarono ad una continua espansione della società che assunse nel 1924, l’attuale nome di International Business Machines Corporation (IBM), ormai nelle mani di Watson a cui era stata ceduta da Flint. Watson fece della IBM l’azienda leader nel campo dei sistemi meccanografici, destinati ad avere un grande successo nell’epoca del New Deal di Roosevelt, dopo il 1933.

Watson portò la sua intuizione del “pensare” nella IBM e ne fece il simbolo ufficiale. Pensare a far crescere le innovazioni, gli affari, i dipendenti. Ispirato da quello che aveva visto con Patterson alla NCR, Watson si rese conto che i dipendenti avrebbero potuto pensare e lavorare con successo se si fossero trovati in un ambiente di lavoro gradevole e dedicò la sua attenzione alla costruzione di fabbriche ed uffici in edifici luminosi, gradevoli, nel verde. Una politica che continuò con il figlio quando divenne presidente nel 1952. Ai dipendenti erano assicurati incentivi nel campo dell’assistenza familiare e sanitaria e delle abitazioni. La IBM dei Watson fu la prima, molto prima delle lotte per i diritti civili, ad assumere “le persone migliori, indipendentemente da razza, sesso, provenienza”. Nel 1946, in piena era di segregazione, assunse il primo addetto commerciale di colore; fin dal 1952 la società assunse senza discriminazione e a parità di condizioni di lavoro e di salario, disabili, persone di colore e donne.

La sede della società era ad Armonk, nello stato di New York; ricordo che dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando le macchine calcolatrici IBM arrivarono anche in Italia (una sede italiana della IBM era stata comunque creata fin dal 1927), i giovani studiosi di matematica e statistica ambivano a visitare il centro ricerche Watson di Yorktown Heights, sempre nello stato di New York, come in pellegrinaggio verso le frontiere del futuro.

 Vari articoli su Internet e vari libri, anche tradotti in italiano (cito fra gli altri quello di William Rodgers, “L’impero IBM”, Mondatori 1971), raccontano la storia della società e l’evoluzione delle macchine calcolatrici della IBM; il passaggio, dopo la seconda guerra mondiale, dall’elaborazione meccanica dei dati a quella elettronica, al punto da fare della IBM il gigante nel campo soprattutto delle grandi macchine di elaborazione dati, lasciando ad altri il campo dei piccoli calcolatori. Nomi come IBM 704, 360, programma Fortran, sono ancora emozionanti per le persone della mia generazione che mossero i primi passi nel mondo dell’informatica “pensando” con le schede perforate.

Il cammino della IBM ebbe qualche ombra quando, nel 2001, il giornalista Edwin Black pubblicò un libro intitolato: “IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation”, che rivelò che la società tedesca Dehomag, a cui Hollerith aveva ceduto i propri brevetti fin dal 1910 e quindi indirettamente associata alla IBM, aveva fornito al governo nazista le macchine calcolatrici usate anche per la contabilità dei morti dei campi di sterminio nazisti. Davanti al clamore della rivelazione la IBM fece presente che la Dehomag svolgeva attività industriali in Germania, durante il periodo nazista, come molte altre società straniere. La IBM e tutti i dirigenti e il personale deploravano quanto aveva fatto il governo nazista e ricordarono che la società IBM aveva fornito al governo americano, durante la seconda guerra mondiale, strumenti e apparecchiature essenziali proprio per la condotta vittoriosa della guerra contro il nazismo. Un processo che si svolse negli Stati Uniti dopo le rivelazioni del libro riconobbe che le accuse erano infondate.

A partire dal 1935 la IBM pubblicò una rivista aziendale, peraltro con vasta circolazione anche esterna, intitolata Think, il logo che campeggiava nella copertina nera; ne ricordo alcune annate degli anni cinquanta e sessanta. La rivista conteneva articoli di cultura varia; una sezione denominata Horizons, orizzonti, era preceduta da un motto di celebri autori e conteneva notizie su innovazioni tecnico-scientifiche. Rilette a tanti anni di distanza alcuni articoli appaiono ingenui e commoventi: un operatore che aggiusta le valvole termoioniche di un “grande” calcolatore elettronico, di quelli che negli anni cinquanta avevano una capacità di calcolo mille volte inferiori a quelle di un personal computer dei nostri giorni. Una batteria “atomica” alimentata da promezio-147, un sottoprodotto delle reazioni nucleari, in grado di fornire, col suo decadimento radioattivo, elettricità per una diecina di anni ad apparecchiature spaziali. Una pagina intitolata Thoughts, pensieri, conteneva brevi pensieri di intellettuali e scrittori. Una limitata parte degli articoli era dedicata ad attività che avevano riferimento alla società IBM, come l’addestramento del personale e la formazione dei dirigenti.

Watson senior morì nel 1952 ma aveva già affidato parte delle responsabilità gestionali al figlio Thomas J. Watson Jr. che diresse la società fino al 1971. Durante la seconda guerra mondiale Watson Jr. era stato pilota militare e aveva accompagnato a Mosca i generali americani che avevano negoziato gli accordi per la politica affitti-e-prestiti che assicurarono all’Unione Sovietica i rifornimenti di aerei, armi e materiali necessari per lo sforzo che avrebbe portato alla vittoria sulla Germania nazista. In questi suoi incarichi si avvicinò alla politica nella quale fu attivo come esponente del partito democratico. Watson Jr. fu ambasciatore a Mosca e si impegnò nelle trattative fra USA e URSS per la riduzione delle armi nucleari.

Mi guardo in giro e mi chiedo quali persone della storia italiana possano rassomigliare ai Watson, animate insieme dal pensiero della fabbrica e di chi vi lavora; mi viene in mente Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore di successo ma anche intellettuale; anche lui non aveva disdegnato di mettere il pensiero alla base della politica, col suo movimento di Comunità. Olivetti, dopo un soggiorno negli Stati Uniti, aveva fatto conoscere, nell’Italia appena uscita dal lungo sonno intellettuale imposto dal fascismo, i pensatori americani degli anni trenta e quaranta come Mumford, e aveva raccolto intorno a se ingegneri, ma anche poeti e scrittori, urbanisti ma anche filosofi; aveva costruito a Ivrea uno stabilimento industriale “bello”, con provvidenze per i laboratori, con le prime iniziative di decentramento del ciclo produttivo per portare il lavoro nei paesi dove abitavano gli operai. Adriano Olivetti, morto troppo presto, sostenne le iniziative di sviluppo del Mezzogiorno e intuì il futuro dell’informatica, specialmente dei personal computers. Utili informazioni sul “pensiero” di Olivetti si trovano nel libro di Valerio Ochetto, “Adriano Olivetti”, Milano, Mondadori, 1985; per la diffusione dell’elaborazione dati in Italia si veda anche il libro di Marcello Zane, “Storia e memoria del personal computer”, Milano, Jaca Book, 2008.

Forse la grande crisi di questo inizio del XXI secolo ha le sue radici proprio nella mancanza di una disponibilità, di una educazione a pensare, di una visione che spinga a guardare il futuro.