Un lessico ingannevole: i musei dell’industria e del lavoro
Il caso dei musei dell’industria e del lavoro in Italia è emblematico di una significativa separazione, al limite dell’inganno e dell’autoinganno, tra le parole e i fatti. Partendo dai nomi si possono costruire lunghi elenchi di musei dedicati alla civiltà industriale, segno di un fenomeno reale e di un indubbio, anche se circoscritto, interesse, riscontrabile nei luoghi più disparati della penisola (e delle isole), per la storia e la memoria dell’industria, per le origini e sviluppi del modo di produzione alla base della modernità contemporanea.
Non mancano, sulla carta, sistemi e reti museali di varia entità e dimensioni. Per non dire dei numerosi musei aziendali, per la maggior parte dei casi riconducibili, appunto, alla categoria dei musei industriali.
La ricchezza e varietà è però ingannevole; in questo settore il ritardo italiano, il dislivello rispetto agli altri Paesi economicamente sviluppati, è innegabile. Da ciò non bisogna però trarre conclusioni precipitose. Negli ultimi anni si è effettivamente manifestata una crescente attenzione per la storia dell’industria, della tecnica e della scienza. Una valutazione equilibrata deve tener conto che per molti decenni in Italia non vi fu alcuno spazio per istituzioni deputate a tramandare la memoria culturale dell’industria e del lavoro. Chiusa la stagione del positivismo e del socialismo riformistico, il Novecento italiano vede la costante egemonia di posizioni culturali, ideologiche, politiche, divergenti tra di loro ma concordi nella diffidenza e ostilità nei confronti della cultura tecnico-scientifica e dell’industrialismo. In ogni caso sono posizioni convergenti nel considerare la vera cultura altra cosa da scienza, tecnica e industria, per non dire del lavoro industriale, a cui non si assegna alcun valore spirituale e contenuto di intelligenza.
Tutto ciò è l’esito di vicende e tradizioni di lungo periodo, già esaminate criticamente da coloro che hanno indagato il significato della linea “lombarda” risalente a Cattaneo e le motivazioni della sua sconfitta. In tempi più recenti riflessioni in parte analoghe sono state dedicate all’“utopia” di Adriano Olivetti e alle cause e responsabilità che hanno impedito l’affermarsi di una moderna e cosmopolitica cultura industriale nell’Italia repubblicana. Ma si può, forse non oziosamente, risalire alle origini stesse della nostra letteratura, passata dall’altissimo esempio di Dante, il cui realismo si nutre della massima attenzione per la dimensione storico-economica, ad una poesia sempre più retorica e di evasione. Cosicché, negli ultimi decenni, scrittori come Gadda e Primo Levi sono delle autentiche e, forse, irripetibili, eccezioni.
L’egemonia di una cultura umanistica di impianto retorico ha pesantemente condizionato scelte e orientamenti della classe politica, ma ha influenzato anche il mondo imprenditoriale, per non dire di quello sindacale, sempre più distante dai luoghi di produzione, e ceto politico a sua volta.
Una svolta si ha attorno agli anni ’80, allorché nel nostro Paese cominciò ad affermarsi, per effetti di cambiamenti globali, un nuovo tipo di egemonia politico-culturale, riassumibile nel concetto di centralità dell’impresa. Esaurita la lunga fase della contestazione, ridotte a mal partito le ideologie politiche, la figura sociale dell’imprenditore occupa la scena politico-culturale e riceve un’amplissima legittimazione. Non c’è piena coincidenza tra imprenditore e industriale, termine che diviene man mano desueto, ma è un fatto che singoli imprenditori, per non dire grandi aziende multinazionali, e soprattutto medie imprese globalizzate, cominciano a guardare con qualche interesse alla propria storia, intesa come valore aggiunto e stimolo identitario nella competizione. Si apre così la stagione più recente e più dinamica dei musei d’impresa, con specifica associazione e un notevole numero di esperienze, che spaziano da progetti culturalmente ambiziosi, come il Museo Piaggio di Pontedera a collezioni di varia rilevanza, non senza istituzioni specializzate in contenitori di prestigio, quale il Museo del Design presso la Triennale di Milano.
Un altro percorso è partito invece dal basso, già negli anni Settanta, nel pieno della grande trasformazione tecnologico-produttiva, con il diffondersi su basi amatoriali dell’archeologia industriale. Il fenomeno, pur con qualche differenziale temporale, è in linea con ciò che sta avvenendo in altri contesti, segnati dalla presenza di industrie storiche, risalenti al XIX se non al XVIII secolo. Non si può quindi dire che rappresenti una ulteriore e specifica manifestazione dello storicismo e conservazionismo che ha consentito di mantenere in essere parti significative del patrimonio architettonico e urbanistico del Bel Paese. Anzi i cultori delle antichità italiche vedono con diffidenza – eccezioni a parte – la bizzarra difesa di edifici brutti, ripetitivi, legati a una memoria di rozze fatiche. L’approccio estetico è prevalente anche perché, da noi, l’archeologia industriale è principalmente frequentata e propugnata da architetti e storici dell’arte. C’è poi da dire che le fabbriche in quel momento storico – anni ’70 – mantenevano un alto valore simbolico, proprio mentre stavano perdendo la centralità politica che i partiti di sinistra, e non solo, attribuivano loro. In tal senso c’è concordanza, nonostante le differenze dei giudizi di valore, nell’individuare nella sconfitta operaia alla Fiat e nella “marcia dei 40 mila” la svolta che chiude un’epoca, anticipando il crollo dell’89, e apre su scenari che sono ancora attuali.
Ma ristrutturazione, smagrimento, decentramento, delocalizzazione, determinano la creazione di grandi “vuoti urbani”, di spazi occupati da infrastrutture produttive che si vorrebbero rapidamente azzerare, per poter usare diversamente i suoli, di grande appetibilità economica. Tra l’altro, più vecchie erano le fabbriche, più centrale era la loro posizione e quindi più alta la rendita che se ne poteva ricavare. L’archeologia industriale veniva quindi vista prevalentemente come un intralcio, anche se non sono mancati imprenditori capaci di realizzare riusi intelligenti delle fabbriche. L’elenco degli abbattimenti supera di gran lunga quello dei salvataggi, ma non si può dire che l’archeologia industriale non abbia sortito risultati. È probabile che essi siano legati alla memoria delle generazioni che hanno conosciuto il “mondo delle fabbriche”, meno ad una effettiva incidenza culturale nel campo della conservazione e studio di reperti della civiltà delle macchine. In ogni caso i cultori della materia, pur in presenza di qualche marginale consacrazione accademica, hanno progressivamente abbandonato la dicitura di “archeologia industriale” per adottare quella di “patrimonio industriale” ad indicare un cambiamento di oggetto e di metodo. Un cambiamento lessicale decisamente interessante e rivelatore, che segue una presa di distanza dalle “ingenuità delle origini”, quando l’archeologia industriale aveva aspetti addirittura militanti, in qualche misura romantici, per passare allo studio oggettivo di un lascito culturale dato, e riconosciuto formalmente come tale dalla normativa e dalle agenzie ministeriali deputate (le mitiche Soprintendenze!).
Il passaggio dall’archeologia, sempre piuttosto metaforica, al patrimonio industriale ha significato anche uno spostamento di attenzione dagli edifici e infrastrutture ai beni mobili, quindi macchine e loro prodotti, strumenti e oggetti; il passaggio altresì dai monumenti ai documenti, sino a propugnare l’allargamento di orizzonti in direzione del vastissimo e quasi inafferrabile patrimonio immateriale, custodito, ma sempre più non tramandato, dal cosiddetto capitale umano. Veniva in tal modo riconquistata l’attenzione per la dimensione antropologica, il rapporto con le persone viventi, che aveva, a dire il vero, caratterizzato la fase aurorale degli anni Settanta, allorché decisivi erano stati gli incontri e le testimonianze dei custodi della memoria, coloro che sapevano “tutto” di quella tale fabbrica, stabilimento, attività produttiva.
Con l’eccezione delle miniere e dei trasporti, il grosso delle attività industriali, tralasciando il lavoro a domicilio di vecchio e nuovo tipo, ha avuto come sede la fabbrica e come fulcro le macchine. L’attenzione storico-culturale per le macchine risale a molto prima della nascita dell’archeologia industriale, essa ha accompagnato tutta la vicenda dell’industrializzazione otto-novecentesca. Se le Esposizioni universali hanno costituito l’apoteosi del nuovo modo di produrre, i musei della tecnica e dell’industria vantano, tra alti e bassi, una tradizione molto solida nei maggiori Paesi europei, ma non in Italia. Non a caso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano ha avuto una gestazione lunga e travagliata, nonostante la dedizione e l’impegno di un imprenditore di primo piano, titolare di un’industria d’avanguardia (per l’epoca). Non a caso un classico museo della tecnica ha dovuto essere messo sotto la protezione della Scienza. In ultimo anche la sostituzione, nella denominazione di Tecnica con Tecnologia, può leggersi come volontà di stare al passo con il lessico prevalente che preferisce parlare di tecnologie, mentre le tecniche sono obsolete, e la Tecnica ha un’aura filosofico-metafisica (evocando Heidegger o almeno Emanuele Severino).
In un panorama asfittico, se l’accento batte sulle tecniche industriali ma le cose non vanno molto meglio per l’agricoltura, va ascritto a merito dell’archeologia industriale il tentativo di rilanciare e diffondere, accanto alla nota fioritura universale di musei, i musei dell’industria e del lavoro, o di singole industrie e tecniche, anche in Italia, e quasi in ogni regione.
La stagione più recente della lunga storia dei musei industriali va quindi posta sotto il segno dell’archeologia industriale, piuttosto che della storia della tecnica, tuttora poco frequentata nelle scuole e università, con una presenza a livello editoriale di molto inferiore a quasi tutte le aree culturali europee, per non dire degli Stati Uniti.
Partire dall’archeologia industriale ha voluto dire attenzione ed apertura al territorio, alle identità e tradizioni locali, alla storia sociale. Si tratta quindi di musei che si pongono l’obiettivo di rappresentare, documentare, raccontare la cultura materiale della modernità, con una sensibilità di tipo antropologico piuttosto che tecnico-scientifico, senza voler dire che le due cose si escludano reciprocamente.
In ogni caso, quale che ne fosse l’origine e l’impostazione iniziale, va sottolineata la tendenza quasi generale dei musei dell’industria ad uscire verso l’esterno, proiettandosi al di là dello spazio separato in cui vengono esposte le collezioni, per incontrare nel territorio dei possibili referenti (portatori di interessi, agenzie formative, enti e istituzioni locali ecc.), ovvero ricostruire la mappa della filiera produttiva (le “via del ferro” ecc.).
Il passaggio dal collezionismo al territorio, dalla raccolta di oggetti più o meno significativi alla costruzione di un intero paesaggio della memoria industriale, sembra un tentativo di restituire all’industrializzazione la sua valenza di fenomeno storico globale, sia pure in una dimensione locale, territorialmente definita. Direi che è quello che sta avvenendo nel Bresciano, mettendo a frutto le potenzialità di un’area caratterizzata da un’industrializzazione diffusa e multisettoriale, tuttora vivace, oltre che di lungo e lunghissimo periodo.
Ma la relazione del museo con il contesto è rivelatrice di altre problematiche di forte attualità. L’esemplificazione più convincente del rapporto fondativo tra museo e territorio si ha nel caso dei musei minerari, abbastanza diffusi, e con buon successo, anche in Italia. Qui il territorio è incorporato nel museo stesso ed è proprio la visita della miniera, la possibilità di ricreare un rapporto quasi tattile con la “madre terra”, che conferiscono un valore aggiunto ai musei minerari.
In taluni casi la loro denominazione è di carattere puramente amministrativo. Non c’è bisogno di fare marketing; all’interno di quella cultura e comunità, il museo è considerato ovvio, esso fornisce un servizio e soddisfa dei bisogni riconosciuti, allo stesso modo della biblioteca civica. Il museo è la sentinella che custodisce e tramanda un pezzo significativo della storia locale collettiva; esso la mette poi a disposizione dei turisti che vogliono meglio capire e conoscere l’identità dei luoghi in cui soggiornano. Citerò come esempio il “Museo provinciale delle miniere di Vipiteno”, italiano solo dal punto di vista politico-amministrativo.
Altrove la denominazione, sempre restando nel settore minerario, è la spia di conflitti irrisolti. Si prenda il caso del “Parco minerario naturalistico” di Gavorrano (Grosseto), dedicato al recupero di una miniera di pirite; ovvero della creazione (forse) di un “Parco geo-minerario, storico e ambientale” nel Sulcis-iglesiente. È evidente che in questi e in altri casi il lessico lascia trasparire il rapporto problematico, talora drammatico, delle attività industriali con l’ambiente, il territorio e le comunità locali; da cui la spinta per una qualche rinaturalizzazione o almeno bonifica finalizzata alla costruzione di un ecosistema salubre, antropizzato e moderno, ma sostenibile come si dice oggi.
In effetti l’archeologia industriale ha avuto a che fare, da noi del tutto marginalmente, con la questione di dimensioni colossali della bonifica e rigenerazione delle aree industriali dimesse. Si pensi a quel che è stato fatto in Germania nel caso della Ruhr. Nel contesto italiano, al di là degli interventi tecnici previsti dalle normative di vario livello, non c’è stato un vero dibattito pubblico, la spinta alla cancellazione ha prevalso per il concorso di molteplici fattori. È evidente che una tale politica rinunciataria e di breve respiro apre la strada al riproporsi ciclico di situazioni di emergenza, poi di volta in volta temporaneamente o definitivamente occultate.
È un fatto che l’archeologia industriale e i musei dell’industria per la loro intrinseca debolezza, in un contesto culturale pressoché totalitariamente occupato dai cantori della tecnologia e dai loro dirimpettai demonizzatori della Tecnica, non sono riusciti a dare uno specifico e significativo contributo per portare su un terreno critico-riflessivo l’irrisolta questione del rapporto industria-ambiente. L’intenzione non è mancata, sono mancati, sinora, gli interlocutori, almeno su scala nazionale. Il che non stupisce perché non esiste da noi una politica nazionale per i musei dell’industria. Essi si collocano in una sorta di limbo, non interessano veramente i Beni Culturali (che guardano ai musei d’arte), l’Università e Ricerca Scientifica (che pensa ai musei universitari e della scienza), le Attività Produttive (indifferenti alla dimensione storica).
In effetti è in contesti locali o regionali che la stessa tematica storico-ambientale ha ricevuto qualche riscontro. Mi riferisco, senza poter svolgere un’analisi differenziata, agli eco-musei, risalenti già agli anni ’80 del secolo passato, e che hanno trovato soprattutto in Piemonte una significativa realizzazione, specie in provincia di Torino.
Per la loro stessa natura sono musei territoriali ma non strettamente locali. Non a caso rappresentano uno dei primi tentativi di costituirsi in rete o sistema. Si tocca così la principale novità degli ultimi anni: la costituzione, anche nel settore che ci interessa, di sistemi museali. Non so se esistono dati aggiornati ma di sicuro, sulla carta, ce ne sono ormai molti, in ogni angolo d’Italia. Un esame ravvicinato dimostrerebbe con facilità che tali organismi, sollecitati dall’obiettivo di realizzare economie di scala a partire da servizi in comune, non hanno una vita reale e, in ogni caso, non sono dei sistemi ma, quasi sempre, delle labili forme associative, utili a stabilire contatti con i referenti politico-amministrativi locali e sovralocali. Il modello assunto come referente, le reti o sistemi bibliotecari pubblici, non è immediatamente esportabile, c’è infatti una differenza qualitativa tra i libri a stampa e i reperti museali: i primi sono duplicabili illimitatamente e possono circolare liberamente, i reperti, indipendentemente dal loro valore, sono pezzi unici e solo eccezionalmente possono essere messi in circolo. Le biblioteche sono diverse tra di loro per motivi pratici, i musei lo sono per natura.
Quello dei sistemi museali è un altro caso in cui la denominazione può essere ingannevole e il lessico rivelatore di tendenze e aspirazioni piuttosto che di realtà effettivamente esistenti. La creazione di sistemi museali capaci di tradurre la diversità in ricchezza, l’articolazione territoriale in coinvolgimento delle comunità locali, la centralizzazione in efficienza piuttosto che in burocratico dirigismo, è un obiettivo altamente auspicabile ma che nel settore qui preso in esame non è ancora stato raggiunto. Il fatto che in Europa esistano, al contrario, esperienze ormai consolidate costituisce solo una ulteriore conferma del fatto che in Italia la cultura industriale e tecnico-scientifica sconta uno specifico, micidiale, ritardo, che non viene neppure percepito come tale, tanto è diffusa l’idea che di tale faticoso bagaglio si possa fare a meno; tutt’al più si pensa di potervi porre rimedio con qualche pubblicizzato “festival” in cui far sfilare delle star, con o senza Nobel, una volta all’anno.
Se si considera la fisionomia dell’industrializzazione diffusa, quella che si è affermata dopo il definitivo superamento del vecchio “triangolo industriale”, dilagante nel nord-est così come in tutta la regione padana, sulla dorsale appenninico-adriatica e poi, a macchia, verso il Sud e le isole, ne consegue, nella rappresentazione corrente, una sottolineata centralità e forza propulsiva dei “distretti industriali”. Ne consegue altresì il ruolo di primo piano che dovrebbero avere i musei dedicati a specifici “distretti”, forti della loro identità, armatura territoriale, know-how imprenditoriale e tecnico-industriale.
Non sono mancate, in effetti, realizzazioni interessanti (mi viene in mente il museo di Montebelluna, espressione di quello specifico distretto calzaturiero). È successo però che la globalizzazione in atto ha disarticolato i distretti, causando una selvaggia “selezione naturale”, con la creazione di piattaforme produttive imperniate sulle medie imprese innovative, capaci di operare su scala mondiale, dove hanno disseminato i loro stabilimenti.
Sia i musei industriali di distretto che i più impegnativi “distretti culturali”, innegabilmente legati ai primi, rischiano di trovarsi senza referenti, a meno di riuscire a stare al passo coi tempi e di aggiornare radicalmente una geografia culturale che non ha più il suo corrispettivo nella geografia industriale da cui hanno tratto ispirazione.
Concludo con alcune informazioni sul “Museo dell’Industria e del Lavoro Eugenio Battisti” di Brescia, istituito come Fondazione di partecipazione nel 2005 e in corso di realizzazione. Un museo-sistema articolato su quattro sedi, due in città e due nel territorio (in Franciacorta e in Valcamonica). La sede principale, in una fabbrica dismessa di circa 15.000 mq., è al livello di progetto esecutivo, con apertura del cantiere imminente e circa quattro anni di lavoro per il completamento delle opere e degli allestimenti. Le tre sedi periferiche è previsto che aprano nel corso di quest’anno.
Si tratta di un museo voluto in primo luogo da Luigi Micheletti, patron dell’omonima Fondazione, e intitolato ad Eugenio Battisti, pioniere dell’archeologia industriale in Italia, oltre che geniale storico dell’arte. Per motivi di comunicazione e di sostanza è stato adottato l’acronimo “Musil”, con esplicito riferimento a uno dei grandi analisti e interpreti della modernità. Il museo intende raccontare, documentare e studiare il Novecento e il tempo presente. L’approccio privilegiato è quello storico, sviluppato lungo due assi principali, che corrispondono alle due potenze che hanno plasmato il mondo contemporaneo: la tecnica e l’ideologia. Tale impostazione non discende da un astratto programma culturale ma corrisponde ai materiali documentari raccolti e all’attività che è stata sviluppata sin dagli anni Settanta, quando sono iniziate le ricognizioni di archeologia industriale e gli affondi sulle pagine più problematiche della nostra storia recente. La scommessa, evidente e rischiosa, è di far interagire tradizioni culturali abituate ad ignorarsi, usando il passato per guardare al futuro.