Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel. Intervista a Roberto Finelli

Premessa

Roberto Finelli è professore di Storia della filosofia presso il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università di Roma Tre. Allievo di Guido Calogero e Gennaro Sasso, Finelli ha dedicato importanti studi al pensiero di Hegel e Marx: Critica del soggetto e aporie della alienazione. Saggi sulla filosofia del giovane Marx, (in collaborazione con F. S. Trincia), Franco Angeli, Milano 1982; Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1987;Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Editori Riuniti, Roma 1996, di cui esiste una tradizione tedesca,Mythos und Kritik der Formen. Die Jugend Hegels (1770-1801), Peter Lang Verlag, Frankfurt a. M. 2000;Un parricidio mancato. Il rapporto tra Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Tra moderno e postmoderno. Saggi di etica sociale e di teoria del riconoscimento, Pensa, Lecce 2005. In collaborazione con Francesco S. Trincia ha tradotto la Critica del diritto statuale hegeliano di Marx (Edizioni Dell’Ateneo, 1983), corredandola di un ampio commentario. Si è occupato a lungo, e si occupa tuttora, di antropologia ed epistemologia psicoanalitica, pubblicando numerosi saggi sull’argomento e curando per i tipi della Newton Compton una nuova edizione di diverse opere freudiane. Finelli è fondatore e direttore della rivista elettronica «Consecutio temporum. Hegeliana, Marxiana, Freudiana» e co-direttore della rivista «post filosofie».

In questo suo ultimo lavoro, Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel (Jaka Book, Milano 2014) – sequel del già citato Un parricidio mancato -, il rapporto tra l’autore de Il capitale e il filosofo idealista viene posto a tema su uno sfondo che, più ampio e complesso di quello della storia della filosofia ottocentesca, viene a comprendere la più recente storia del capitalismo e dei marxismi che hanno tentato, e tentano, di comprenderlo e rovesciarlo. Nell’intervista che qui si presenta, stimolato dalle domande dell’intervistatore, Finelli, nel ripercorrere alcuni tra i più significativi momenti della storia della critica hegelo-marxiana e insieme della propria formazione, richiama alcune delle figure di spicco della tradizione del marxismo italiano, schizzando in breve una schematica ma efficace storia della maniera in cui l’autore del Capitale è stato letto ed utilizzato nel nostro paese.

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Garofano: Se la trama del Suo ultimo libro è assai complessa – il confronto tra Hegel e Marx è svolto tenendo conto dell’intera opera marxiana, del rapporto di questa con la riflessione di Feuerbach, e sullo sfondo di una ricostruzione storico-critica che investe alcuni degli snodi fondamentali della modernità filosofica -, l’ intentio che lo attraversa è chiara e ben presto svelata: liberare il pensiero di Marx da una serie di equivoci interpretativi, alla formazione dei quali ha contribuito lo stesso autore de Il capitale , per renderlo capace di affrontare le sfide, teoriche e pratiche, che il capitalismo più avanzato pone. Insomma, attualizzare Marx passando per la tematizzazione delle origini (hegeliane) del marxismo stesso. Basta questo oggi ad attualizzare Marx? O non occorre anzi tutto allargare lo sguardo, oltre che allo studio della realtà economica e materiale, a quei fenomeni di cui ai nostri giorni si occupa la biopolitica?

Finelli: Lei dice “liberare il pensiero di Marx da una serie di equivoci interpretativi”; io, più radicalmente, direi che la mia è un’interpretazione notevolmente violenta sul corpus marxiano. Io ho messo Marx contro Marx, ritenendo che nel pensatore di Treviri coesistano fino alla fine due diverse mentalità. Per questo stesso motivo io rifiuto l’ipotesi della coupoure di Althusser. Ritengo infatti che ancora in buona parte del Capitale e di tutta l’opera matura si incontrino spesso espressioni ed interi costrutti teorici riferibili a quella che, secondo me, è l’impostazione del primo Marx. Naturalmente non basta questo ad attualizzare Marx. Né credo, venendo alla sua domanda, che si possa e si debba passare per la biopolitica per attualizzare Marx. La biopolitica, concepita originariamente da Foucault, rappresenta una profonda rimozione del marxismo. Il suo stesso ideatore, nella sua geniale ricostruzione delle genealogie della repressione (mi riferisco ai suoi studi sui diversi istituti delle carceri, della medicina, ecc.) ha sicuramente svolto indagini originali, ma non ha avuto modo – né, del resto, era sua intenzione farlo – di occuparsi di quella biopolitica che è invenzione peculiare di Marx. Quando Marx negli scritti della maturità giunge finalmente a teorizzare il concetto della forza-lavoro, separandolo da tutta la teorizzazione del lavoro che aveva posto a base del materialismo storico – e questo è un mutamento di paradigma fondamentale -; ebbene, dicevo, quando Marx elabora il concetto di forza-lavoro, giunge a definire una classe sociale che è espropriata, attraverso un lungo processo storico oltre che attraverso la riproduzione costante della società capitalista, da ogni rapporto con il mondo ambiente. La forza-lavoro, per definizione, è ciò che non possiede nulla; essa è caratterizzata da una povertà assoluta e questa povertà assoluta la consegna ad essere fondamentalmente solo corporeità, almeno nei termini dell’industrialismo e del marxismo dell’Ottocento. Come corpo la forza-lavoro si offre alla manipolazione dell’uso capitalistico. Questo uso – che è appunto un consumo – il capitale lo svolge, com’è noto, in una dimensione fondamentalmente privata e in tale dimensione il capitale è produttore oltre che di merci, anche di corpi, di menti, di sentimenti. Alla luce di ciò, per me è stato assai sorprendente il fatto che Foucault abbia inventato il termine di biopolitica senza per nulla considerare in che modo tale biopolitica si sia svolta e si svolga per tutto il periodo della modernità all’interno della produzione capitalistica. Ma non si tratta, si badi, di un deficit teorico imputabile solo a Foucault: a me sembra infatti che anche i teorici contemporanei della biopolitica abbiano riflettuto poco sul concetto e sulla categoria marxiana di forza-lavoro, e su quanto la forza-lavoro, priva di una struttura e di una ricchezza che preceda lo scambio con il capitale, si consegni a una manipolazione dell’agire e del sentire, connaturata ad una pratica del lavoro istituita sulla volontà e sul comando di “altri”. La questione di fondo che è sempre nata e sempre rinasce da questa rimossa biopolitica marxiana è se un riconoscimento collettivo di questa comune povertà assoluta, se il comune esperire nel proprio corpo e nella propria mente dell’operare dell’astratto, basti di per sé a generare un soggetto dell’emancipazione. Cioè se non sia necessario attingere e produrre altre istanze e tipologie del riconoscimento – non limitate a un riconoscimento comune di vuoto d’esistenza e di povertà – altri modi relazionali del riconoscere, dell’esser riconosciuto e del riconoscersi, individuale e collettivo, per mettere in moto processi di trasformazione esistenziale e sociale.

Garofano: Nelle pagine dell’introduzione, Lei rintraccia una continuità tra il progetto filosofico-politico che sottende la Sua ricostruzione storico-critica e alcune delle tendenze espresse dalle più minoritarie e raffinate avanguardie intellettuali sessantottine, secondo le quali si tratterebbe di passare da «un antropologia della penuria» a «un’antropologia del riconoscimento» (p. 11), o, detto altrimenti, di porre accanto agli irrinunciabili valori della libertà e dell’eguaglianza, quello dell’autenticità, a comporre un’idea di libertà, insieme post-liberale e post-comunista, che abbia al suo centro il paradigma del riconoscimento. Potrebbe delineare, in breve, i punti fondamentali di questa Sua proposta filosofico-politica?

Finelli: Io ho avuto necessità, per poter concepire un minimo di nuova proposta etico-politica, di far ricorso alla cultura psicoanalitica e a quell’allargamento e a quella rivoluzione dei concetti di società e di libertà, che a mio avviso le scienze psicoanalitiche hanno portato come contributo più originale all’antropologia filosofica e politica degli ultimi anni. Un contributo che non è stato però mai riconosciuto né accolto. Dico ridefinizione dei concetti di società e di libertà perché con la psicoanalisi, come ben sappiamo, società non significa più semplicemente una relazione esterna, relazione orizzontale di un individuo con altri individui, ma significa anche societas interiore, la quale rimanda all’idea di un individuo composto di molti luoghi e di molte istanze, che non danno vita a un caos, ma che, freudianamente, danno luogo a delle strutture, la cui molteplicità pone, allo stesso tempo, il problema della loro integrazione e comunicazione o, al contrario, del dissidio tra l’una e le altre o della censura dell’una sulle altre. Oggi non si può ripensare una riflessione sulla società se non si mette a tema che società significa anche questo continente, questo “sesto continente”, com’è stato chiamato, della psicoanalisi, con le manifestazioni delle profondità dell’individuo, il quale, come diceva Nietzsche, è composto di mille individui. Io, si parva licet componere magnis, a differenza di Nietzsche, non ritengo che i mille individui che compongono il singolo siano eslege e fuori di un ordine e di una struttura, ma, con l’aiuto di Spinoza – pensatore nel quale si ritrova la medesima definizione dell’individuo come composto di mille individui, ciascuno dei quali, a sua volta, è composto di mille individui -, credo che essi si dispongano secondo un’idea di ordine, di proporzione e di legalità interiore (Spinoza parla a tal proposito di una “ratio”). Per me parlare di autenticità significa questo: mettere in campo una teorizzazione più complessa dei concetti di società e di libertà. Dove libertà non sta più a significare il sottrarsi a obbligazioni e coercizioni esterne – significa anche questo ovviamente, e cioè libertà come valore fondamentale del liberalismo e di un’etica dei diritti individuali -, ma significa anche e soprattutto capacità di non aver paura di rimanere soli con se stessi. Da un punto di vista psicoanalitico libertà, io credo, significhi fondamentalmente questo: la capacità di rimanere soli con se stessi, ossia la capacità di dialogare e di sentire la più propria, irripetibile e profonda, individualità. Dico sentire perché sentire non è conoscere. Va da sé che tale possibilità di riconoscere se stessi, di sentire se stessi, è in genere impedita da tutta una serie di costruzioni di censura e d’altro genere.

Venendo alla mia proposta etico-politica, io credo che oggi fare un discorso sulla libertà significhi saldare accanto alla tradizione liberale e comunista anche questa dimensione ulteriore del non aver paura di star con se medesimi: dimensione che si riferisce alla realizzazione di un proprio progetto di vita, il quale, per definizione, non può essere paragonabile a quello di nessun altro. E da questo punto di vista credo che ci sia necessità di istituzioni sociali che facilitino questa possibilità verticale del riconoscimento. Si deve quindi complicare l’etica del riconoscimento, sottraendola ai limiti in cui l’hanno confinata, sia pure meritoriamente, l’etica del discorso di Habermas e l’etica del conflitto di Honneth. Giacchè, a mio modo di vedere, il limite di questi due autori, pure assai importanti nell’ambito della cultura contemporanea, è che essi non accolgono fino in fondo il rilievo e il significato dell’asse verticale, logico-emozionale, che costituisce il soggetto umano e rimangono legati un paradigma del riconoscimento che si svolge tutto sull’asse orizzontale. Non è un caso, in tal senso, che Honneth faccia riferimento per la lettura dell’intrapsichico a uno psicologo sociale come H. Mead e si tenga abbastanza lontano da Freud e da altri frequentatori della psicoanalisi.

Garofano: E quindi perde in qualche modo quello che è l’apporto fondamentale della psicoanalisi.

Finelli: Esattamente. Per dirla in breve, io penso a una politica come terapia, politica come istituti e luoghi della terapia. Naturalmente il discorso qui è molto complesso e nello stesso tempo generico, ma la mia idea è che, a partire soprattutto dai luoghi dell’istruzione scolastica e della formazione, la politica come terapia debba dar luogo a pratiche di relazione, di riconoscimento intersoggettivo, che consentano di giungere alla possibilità del riconoscimento infrasoggettivo. Secondo una dinamica del riconoscimento che può essere concepita in questi termini: essere riconosciuti dall’altro per potersi riconoscere e per poter, a quel punto, riconoscere gli altri. In una prospettiva e valorizzazione dellasciar essere, del frei lassen, che a mio avviso troviamo nei luoghi più elevati, e forse meno frequentati, delle pagine della Fenomenologia dello spirito di Hegel sulla dialettica di signore e servo.

Aggiungerei un’ultima cosa: in questa concezione della politica come istituzioni e pratiche del lasciar essere – che naturalmente non significano sfrenatezza e anarchia quanto invece relazioni educative non omologanti ma individualizzanti – io credo che bisogna andare in una direzione opposta a quella indicata ad esempio da Massimo Recalcati, il quale ritiene che il periodo che va dal ’68 ai nostri giorni vada letto come l’epoca dell’assenza del nome del padre. Per me vale, al contrario, proporre l’idea dell’essere, invece, senza padri, come titola il bel libro di un giovane amico, che si chiama Paolo Godani (Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo). Essere senza padri significa appunto praticare una lettura della Fenomenologia dello spirito di Hegel fondata non sul dover essere ma sul lasciar essere: significa un’etica dell’agire in cui la responsabilità verso se stessi, la capacità di rispondere al proprio sentire, di lasciar essere il proprio sentire, non sia valore minore della responsabilità verso l’altro/i.

Garofano: La realizzazione di questo progetto filosofico-politico ha trovato, secondo quanto Lei sostiene, proprio nelle sinistre una serie di impedimenti e di resistenze. Lei fa riferimento a quelle del Partito comunista italiano e a quelle provenienti dalla cultura francese di stampo strutturalista. Le stesse teorie e pratiche operaiste, privilegiando il momento collettivistico, si sarebbero mostrate deficitarie sul versante dell’individuazione. Eppure, a proposito di operismo, oggi alcune di quelle esperienze vengono salutate non solo come innovative ma anche come espressione di una tradizione tutta italiana, che, un po’ paradossalmente, si fa strada nel mondo e nel nostro stesso paese con il nome di Italian Theory. Che pensa Lei dell’Italian Theory , in particolare rispetto ai temi hegelo-marxiani? E può dirci qualcosa di più degli antagonismi di sinistra a cui si faceva riferimento poc’anzi?

Finelli: Con tutto il rispetto per colleghi ed autori quali Roberto Esposito e Dario Gentili, io credo che questa costruzione dell’Italian Theory sia una costruzione molto artefatta, perché non c’è, a mio avviso, una tradizione peculiarmente italiana in un senso unico, così come l’ha presentata Roberto Esposito. Io credo che la storia della filosofia e della cultura italiane, a partire dal Cinquecento, sia una storia non riducibile a monismi, come già diceva Eugenio Garin nella sua Storia della filosofia italiana. Non mi sembra che ci sia un Italian Theory dai tratti unitari, da agire e da propagandare in un senso filosofico-commerciale, in concorrenza con quella che è stata ad esempio la cosidetta French Theory, con l’enorme influenza che il pensiero francese ha avuto nelle discipline umanistiche e sociali negli Stati Uniti durante gli ultimi trent’anni.

Per quanto riguarda la tradizione operaista, io ne do una lettura estremamente critica e negativa, anzi, di più, io ne faccio uno dei fattori di maggior danno e regressione dell’ultimo quarantennio. L’operaismo io credo abbia una matrice, mai confessata, fondamentalmente gentiliana, perché muove dalla presupposizione di un soggetto collettivo, organicamente già compiuto, che è a tal punto presupposto da essere esso a dettare gli svolgimenti delle ere di rivoluzione tecnologiche del capitalismo. Per l’operaismo il soggetto della modernità è la classe operaia o tutte le sue versioni successive, il soggetto metropolitano, la moltitudine, il general intellect, e così via. A differenza degli operaisti, io invece ritengo che il soggetto della modernità sia il capitale e il suo tendenziale processo di totalizzazione, di diffusione cioè della sua logica quantitativo-accumulativa all’intero corpo sociale e alla produzione della stessa dimensione simbolica. E penso perciò che praticare processi di emancipazione nella società del capitale, nella quale noi tutti viviamo, implichi un percorso notevolmente complesso di elaborazione di modalità relazionali e culture antropologiche, la cui necessità forse in Italia solo Antonio Gramsci aveva compreso, sia pure in un modo troppo ancora partitico e sovrastrutturalmente sganciato da una struttura economica non letta alla luce del Capitale come astrazione. Da questo punto di vista l’operaismo, giustamente, ha sempre visto la prospettiva gramsciana, così come qualsiasi altra proposta della politica come formazione e produzione di una soggettività collettiva, come qualcosa di assolutamente negativo, reazionario, conservatore.

Io ritengo che l’operaismo sia tutto chiuso in una dimensione d’immediatezza, per cui il capitale produrrebbe automaticamente la propria negazione, sia che si chiami soggetto della grande fabbrica, sia che si chiami classe operaia fordista, sia che si chiami general intellect, proprio come vuole la metafisica della storia teorizzata da Marx in modo esemplare nella Prefazione del ’59 sulla bontà intrinseca dello sviluppo delle forze produttive di contro al conservatorismo dei rapporti di produzione. Laddove non è da pensare che un processo di formazione di una soggettività collettiva ed emancipata si costituisca automaticamente attraverso i processi capitalistici. Da questo punto di vista, ripeto, credo che l’operaismo sia intrinsecamente gentilianesimo, se gentilianesimo, parlando ovviamente in modo assai schematico, significa l’affermazione dell’atto sul fatto, del soggetto sull’oggetto, e quindi una filosofia della prassi e dell’azione che è molto lontana dalla mia ipotesi di una soggettività intesa non come presupposto, ma che bensì può essere solo posta, cioè prodotta attraverso un processo formativo di approfondimento del riconoscimento.

Garofano: A proposito di immediatezza, le chiederei quanto segue. Lei sostiene che i guasti maggiori alla teoria marxiana siano venuti dagli interpreti francesi, pensatori che, incapaci di misurarsi con la complessità del pensiero tedesco e, in particolare, di pensare la connessione tra identità e differenza, hanno estremizzato l’immediatezza e rifiutato la dialettica. Eppure, quella che Lei presenta come una debolezza è intesa dai francesi come il carattere peculiare del loro modo di pensare. Mi vengono in mente, rispetto a questo punto, le pagine del Nietzsche e la filosofiadi Deleuze, in particolare quelle che recano il titolo Contro la dialettica (§ 4 del primo capitolo). Ma come che sia dell’autocoscienza filosofica raggiunta dai filosofi francesi degli anni Sessanta e Settanta, può spiegarci meglio in che senso questa estremizzazione dell’immediatezza si riverberi negativamente sul marxismo?

Finelli: Da questo punto di vista, io avrei formulato la domanda in modo un po’ diverso, perché immediatezza e dialettica io le vedo più come categorie di opposizione che definiscono l’ambito tedesco del confronto tra Feuerbach ed Hegel, che non la dimensione della cultura francese, almeno degli ultimi quarant’anni. Perché l’immediato è a mio avviso la dimensione fondamentale all’interno della quale pensa Feuerbach. Questo immediato si chiama Gattung, si chiama genere, si chiama collettività. E nel genere di Feuerbach l’altro non è mai un termine di confronto, di polemica, di scontro. L’altro è sempre integrazione, addizione, completamento del soggetto e da questo punto di vista Feuerbach non può che rifiutare la dialettica di Hegel: appunto perché l’altro, per Feuerbach, costituisce sempre un elemento di arricchimento e compensazione e mai di scontro e confronto. Riguardo al pensiero francese utilizzerei più la categoria della differenza: per un pensiero che, parlando molto en gros, specie con il post-strutturalismo, con l’ermeneutica e col decostruzionismo di Derrida, ha teorizzato un’interpretazione della vita a partire dalla differenza. Una differenza che sfugge a qualsiasi struttura di permanenza, a qualsiasi dimensione dell’identità. I miei maestri mi hanno insegnato che la filosofia, da sempre, è un pensiero che tenta di mediare identità e differenza, essere e divenire. Rispetto a ciò, a me sembra che la cultura francese degli ultimi quarant’anni abbia rifiutato radicalmente l’identità, il permanere – abbia rifiutato il kantismo nella sua valorizzazione della sintesi – quale sintesi di un molteplice nella quale divenire e permanere s’incontrano – per aderire, secondo una lezione quasi totalmente bergsoniana, a una filosofia della vita quale moltiplicazione della differenze, ovvero, se si vuole, alla raffinatezza ermeneutica di un decostruzionismo senza fine, che non può portare a nessuna conclusione di valenza universalizzante. Su questo, ovviamente, ci sarebbe molto da dire, ma, tornando alla sua domanda, a me sembra che proprio in questo senso la cultura francese abbia cessato ad un certo punto di confrontarsi con la complessità del pensiero tedesco, che anche nell’idealismo postkantiano ha continuato a confrontarsi con il tema fondamentale di come coniugare strutture e funzioni del permanere con la variazione costante dell’esperire. Laddove, dopo la devastante stagione heideggeriana e l’egemonia della differenza ontologica, mi sembra che il pensiero tedesco contemporaneo stenti a riprendere e riproporre una lezione della filosofia volta a mediare e a superare dualismi ed estemizzazioni e a lavorare su un’etica antropologica capace, insieme, della massima individuazione e della massima socializzazione.

Garofano: Tra le tesi centrali di questo suo ultimo lavoro – che, come abbiamo giù avuto modo di rilevare, oltre ad intervenire su un nodo cruciale della storia della filosofia moderna e contemporanea, offre un’analisi del capitalismo contemporaneo – vi è quella secondo la quale tra postfordismo e postmodernismo intercorra un nesso tanto stretto quanto paradossale. In cosa consiste propriamente questo nesso? E perché e come, secondo quanto Lei sostiene, Il capitale permette di leggere nachträglich il postmoderno?

Finelli: Io penso che tra postfordismo e postmoderno vi sia una connessione profondamente stretta, tanto da poter affermare – qui utilizzando il vecchio e rigido modello di struttura e sovastruttura – che il postmoderno può a ragione essere letto come effetto ideologico del postfordismo. Postfordismo per me, seguendo la lezione di D. Harvey, significa il passaggio da un regime di accumulazione capitalistica rigida a un regime di accumulazione flessibile. Il postfordismo ha significato, ormai lo sappiamo bene, la fine della grande fabbrica, la realizzazione di strutture produttive a rete, diffuse su una dimensione globale di cui la strumentazione della tecnologia informatica è divenuta la tecnologia determinante. Il postfordismo ha significato la messa in campo del lavoro mentale, della fine del fordismo come comando sul corpo e sul lavoro manuale: cioè la messa in atto di quella relazione peculiare «macchina dell’informazione/forza-lavoro mentale», che è quello che io definisco il nesso tecnologico (e non il nesso tecnico) più significativo della nostra contemporaneità, e in cui io vedo, non il superamento, bensί la radicalizzazione del lavoro astratto di Marx. Difatti quella impiegata dal postfordismo è una mente che viene messa al lavoro su comandi, programmi, direzioni di scopo, banche dati, predeterminati, secondo procedure e schede di lavoro già predefiniti da altri: per cui, secondo me, riflettere seriamente sul postfordismo significa indagare quanto e come la nuova macchina dell’informazione postuli e produca una integrazione/subordinazione della mente messa al lavoro.

La nuova forza-lavoro mentale viene sollecitata dall’attuale organizzazione della produzione e della tecnologia ad intervenire nei processi di lavoro secondo una dimensione di creatività, di intelligenza, di partecipazione attiva, tanto che si parla della società della conoscenza. A mio avviso, invece, quello che realmente avviene in tale regime di produzione, basato sulle nuove tecnologie e sulla messa al lavoro della mente, è un processo di astrazione della soggettività, in cui la soggettività viene svuotata e contemporaneamente compensata da un effetto di superficie, da una sollecitazione solo apparente di partecipazione e di attività creativa. Di qui la mia proposta teorica, tornando a Marx, di lasciar cadere il marxismo della contraddizione e di passare a un marxismo dell’astrazione: dal momento che siamo in presenza di una produzione di ricchezza astratta (qual è, alla fin fine, la sostanza di ogni capitale) che svuota il soggetto dall’interno e ne lascia solo un apparire di superficie, in cui quel soggetto paradossalmente si compensa, si valorizza e si legittima. Ecco questo processo complessivo di svuotamento del concreto e di allucinazione della superficie, di sovradeterminazione della superficie, è quello che a mio avviso costituisce il postmoderno. Su questo ha scritto le cose migliori, a mio avviso, F. Jameson, pur senza connettere fino in fondo l’effetto generalizzato di superficializzazione del mondo, che tutti stiamo vivendo e soffrendo, con la chiave di volta del lavoro astratto nella profondità della produzione (mancanza che già connotava la Società dello spettacolo di Debord).

Il postmoderno, per parlare anche qui molto schematicamente, è stato un impianto culturale che ha eleminato tutti i dualismi più caratterizzanti e significativi del moderno. Il moderno si costruiva sul rapporto tra essenza ed apparenza, tra significato e significante, tra inconscio e conscio e si sforzava di comprendere le leggi della connessione tra i due livelli. Il postmoderno ha tolto uno dei due poli e ha posto tutto su un piano di estetica della superficie, per cui non c’è mai un contenuto materiale e definitivo. La legge di fondo del postmoderno, volendo parlare il linguaggio della vecchia metafisica, è che l’Essere è linguaggio. Non si esce mai dai contesti e dai riferimenti linguistici, non si giunge mai a qualcosa di extralinguistico. In una prospettiva di tal genere, che accoglie solo la decostruzione o l’ermeneutica, l’opzione materialistica è inconcepibile. Scompare, con il postmoderno, qualsiasi possibilità di realtà materiale, extralinguistica, corporea, che possa costituire il luogo del senso, e si afferma una cultura dell’esteriorizzazione, di un rimando di superficie in superficie, da protocollo linguistico a protocollo linguistico, che non ammette mai una profondità. Ora, a mio avviso, il luogo fondante di tale superficializzazione del mondo, di tale riduzione semiotica del reale a connessione e catena di segni, sta nel processo di intensificazione della produzione di capitale attraverso le nuove tecnologie dell’informazione. Nel processo di svuotamento che il capitale produce della realtà naturale ed umana, colonizzandolo con la sua logica solo quantitativa, e lasciandone, in pari tempo, come residuo di tale svuotamento, solo una pellicola di superficie, che nella sua inconsistenza di spessore, può alimentare solo un pensiero debole del frammento e della fine di ogni pretesa di verità e di sistematicità (Di questi temi, di come cioè per me il postmoderno non significhi discontinuità e rottura del moderno, bensì intensificazione del moderno, ipermoderno, mi sono occupato di queste questioni, oltre che nei miei interventi sulla rivista on-line che dirigo, Consecutio temporum, in una serie di saggi raccolti nel volume Tra moderno e postmoderno).

Il postmoderno è nato negli Stati Uniti, com’è noto, primariamente nell’ambito dell’architettura: con questo concetto ci si è riferito a stili architettonici che riproponevano un uso del passato assai singolare, all’inizio anche esteticamente coinvolgente. Si trattava di riappropriarsi di figure architettoniche e di stili dell’intera storia dell’umanità, concepita non secondo continuità di epoche e formazioni storico-sociali ben differenziate, ma come un immane serbatoio, un magazzino, dove accumulare, decontestualizzati, i segni e le icone del passato, per riutilizzarle, senza radici e profondità, in una destinazione essenzialmente decorativa. La cifra del postmoderno sta qui: in questa negazione della storia e di ogni possibile affermazione di una logica dell’intero e della totalità rispetto alla pretesa pregnanza epistemica ed estetica del frammento e della parzialità. In una onnipervasività semiotica che valorizza un reale senza spessore, perché, ripeto, lo spessore rimanda ad una teoria del significato fondamentalmente non linguistico che io trovo solo nel processo sociale del capitale come astrazione reale e nel sentire emozionale di un soggetto umano incarnato. Se il postmoderno e il pensiero debole, in tutte le loro coniugazioni, hanno avuto il merito di esautorare ogni forma totalitaristica del pensiero sistematico e di ogni dogmatica filosofia della storia, ciò a cui hanno rinunciato è però, in modo definitivo, una teoria dell’inconscio e della sua profondità. E ciò sia nel verso dell’inconscio sociale non linguistico, che corrisponde all’accumulazione di capitale come ricchezza astratta, sia nel verso dell’inconscio emozionale della psicoanalisi, che, io credo, vada letto, con Freud anch’esso, come inconscio senzalinguaggio, di contro alla presunzione lacaniana di risolvere nel linguaggio e nelle sue strutture la natura e la funzione del medesimo inconscio.

Garofano: A proposito di Lacan – autore al quale Lei non risparmia, non solo in questo suo ultimo libro, critiche molto dure – si deve dunque dire che la sua posizione è emblematica della cultura postmoderna?

Finelli: Assolutamente sì, Lacan è tutto all’interno della cultura postmoderna, anche se la sua riflessione prende le mosse da un’avvincente e sciagurata lettura di Hegel, quale è stata quella di Kojève. Lacan è profondamente influenzato dalla lettura di Kojève, di cui come sappiamo segue il seminario su Hegel. Ebbene io ritengo, ma questo aprirebbe tutto un altro discorso, che la lettura kojèviana di Hegel sia una lettura profondamente limitata, miope e influenzata dalla metafisica russa del Nulla, da cui Kojève proveniva. La lettura kojèviana della dialettica servo-padrone è sicuramente molto bella, sollecitante, ma del tutto decontestualizzata dall’impianto della Fenomenologia dello spirito di Hegel. E Lacan, a partire da questo, ma non solo da questo (com’è noto Lacan è stato profondamente condizionato anche da Bataille), ha costruito la propria sensazionale “teoria”.

Lacan, io credo, sia stato, fondamentalmente, un esteta, un dandy. Doveva stupire, e ha scritto un’opera d’arte, un’opera letteraria, non certo un’opera di scienza. A me, come ho provato ad argomentare nei miei studi su Freud, sembra che tutta la ricerca freudiana vada in senso opposto alle costruzioni lacaniane. Muova da processi psichici di distruzione del linguaggio. E che dunque una rigorosa teorizzazione dell’inconscio possa nascere solo attraverso una teoria della rappresentazione che poggia su una rappresentanza pulsionale originariamente prelinguistica e senza linguaggio. Ma il pensiero di Lacan è lontanissimo dall’intendere la complessità dell’intreccio in Freud tra rappresentanza e rappresentazione.

Garofano: Lacan è iscrivibile compiutamente nel paradigma postmoderno, nonostante questo ambiguo concetto del reale, che, mi pare, né Lacan né i lacaniani riescano bene a chiarire…

Finelli: Questo reale è veramente un concetto che può essere definito in molti luoghi e in molti modi.

Garofano: Forse troppi.

Finelli: Eh, sa, su questa polisemia Lacan gioca moltissimo. Oggi il reale lacaniano è diventato il luogo di congiungimento tra l’estenuazione dell’operaismo e il lacanismo radicale. Il reale lacaniano oggi è proprio utilizzato in questo senso come identificazione con il capitale, ma senza che se ne indaghino strutture e processi di legge. In tutt’altro senso il reale negli scritti di Lacan ha significato spesso, ma tra altre definizioni possibili, la congiunzione originaria, prenatale tra la madre e il bambino, ossia l’Uno indifferenziato, con tutti i terrori e le seduzioni che una condizione di fusione comporterebbe, perché nell’uno l’individuo si dissolve ma contemporaneamente viene attratto dai propri limiti esistenziali. Tutto ciò per dire quanto sia difficile, se non volutamente impossibile, comprendere cosa sia questo benedetto reale lacaniano. Qualche chiarimento sono certo verrebbe se si decidesse di riaprire tutto il discorso sul reale in Freud, e se ci si chiedesse ad esempio cosa è il principio di realtà in Freud. In ogni caso, a me sembra che Lacan appartenga a questa costruzione complessiva per cui l’essere è linguaggio.

Garofano: Se queste sono le caratteristiche del postfordismo, e il nesso che lega quest’ultimo al postmoderno, si capisce anche perché Lei dubiti fortemente delle potenzialità emancipative della tecnica (in particolare di quella informatica), al contrario esaltate e celebrate, tra gli altri, da pensatori quali Negri e Hardt. Secondo lei, non è in alcun modo possibile sfuggire alla logica insieme svuotante e omologante della tecnica? Eppure, il teorico – Lei stesso ad esempio – svelandone il meccanismo in qualche modo se ne svincola…

Del resto, vi è un passaggio del suo ultimo libro nel quale Lei fa riferimento ad un orizzonte di lavoro privato e ad «alto contenuto di professionalità» (p. 364), che, mi sembra di capire, per Lei è l’unico spazio di emancipazione possibile dalla tecnica, da quella informatica in particolare. Ma si tratta solo di uno spunto, Lei poi non approfondisce la questione. Posso chiederLe di dirci qualcosa di più a proposito?

Finelli: Io nel mio libro ho provato a distinguere anche da un punto di vista di storia dei concetti il termine tecnica da quello di tecnologia. Lei avrà letto nelle mie pagine il riferimento al Cameralismo tedesco, alla Technologietedesca del ‘700, che a mio avviso attraverso l’opera di Johannes Beckmann passa in Marx. Ebbene Technologie, tecnologia, in Marx è termine che rimanda all’uso capitalistico della forza-lavoro attraverso macchine. Tecnologia per me, a partire dal contesto marxiano, ha questo significato: rimanda al complesso sistemico di macchina e forza-lavoro. Rimanda alla tradizione del Settecento tedesco della Technologie quale scienza del controllo dei processi di lavoro nei vari ambiti produttivi: scienza e conoscenza propria del burocrate cameralista, funzionario del Sovrano, che esercita dominio e comando sulle condotte del lavoro. Per dire cioè che nella Technologie di derivazione tedesca è insita una dimensione di dominio, di Herrschaft, sugli agenti dei processi di lavoro che è del tutto assente invece dalla tradizione della technique francese e dalla tecnology anglosassone, come è assai lontana dalla definizione weberiana di Technik, quale regolazione e codificazione di un agire razionale rispetto allo scopo. In queste concezioni mi sembra prevalga la dimensione della razionalizzazione e dell’aumento della produttività, per cui tecnica significa un complesso di regole e di strumenti dell’agire a disposizione del soggetto agente, per realizzare col minor spreco di energie possibile uno scopo. Una concezione della tecnica, insomma, che rimane di fondo antropocentrica, legata alla retorica positivistica dell’homo faber, e nella quale scompare ogni riferimento al contesto sociale e alle relazioni di diseguaglianza e di dominio che lo attraversano. Di contro alla celebrazione operaista del general intellect, che fa riferimento ad alcune delle pagine marxiane più esposte alla metafisica del progresso, quali quelle del celebre e sciagurato Frammento sulle macchine, io ritengo che si debba assumere la coppia Technologie /Technik in tutta la sua valenza di paradigmi interpretativi profondamente diversi, anzi opposti: il primo come esaltazione della capacità strumentale e razionale dell’homo tecnologicus, il secondo come sociologia dei processi produttivi, volti a rinnovare, attraverso sistemi macchine/forza lavoro, la produzione di lavoro astratto, normato e tendenzialmente privo di variazioni individualizzate. Su tutto ciò gli studi e gli scritti di Guido Frison rimangono fondamentali.

Per altro la tecnologia informatica non va certo demonizzata. Essa mette infatti a disposizione della mente umana un complesso enorme di informazioni che possono renderla estremamente più agile, creativa e capace. Ma, quando questo avviene, siamo di fronte non più alla Technologie, ma alla Technik: siamo cioè in presenza di un rapporto weberiano soggetto-mezzo di lavoro, in cui quest’ultimo è strumento di una realizzazione personale di scopo. Naturalmente detto questo, occorre aggiungere che è molto difficile oggi delineare una prospettiva in cui la Technologie contemporanea possa tradursi in tecnica.

Garofano: Però è possibile – ed è questo che Le domandavo -, perché ad esempio Lei, nel suo lavoro privato, che consiste nel pensare ciò di cui qui discutiamo, si sottrae alla Tecnologie

Finelli: Senz’altro, su questo non vi è alcun dubbio. Però appunto deve essere una capacità lavorativa sottratta al nesso di scambio col capitale. Deve essere non forza-lavoro immateriale, quale quella che io oggi vedo messa al lavoro dal capitale, almeno nei paesi più sviluppati, e che richiede, ancor prima dello scambio con il capitale, la produzione culturale e formativa di una soggettività a scarsissimo grado di interiorizzazione e profondità. Si pensi in tal senso al caso specifico della distruzione della scuola pubblica italiana attuata nell’ultimo quarantennio e gestita intenzionalmente da una sinistra, che, per traghettarsi dall’opposizione al governo durante gli anni settanta e ottanta, non solo non ha esitato ad abbracciare il liberismo economico, ma soprattutto ha contribuito ad abbassare radicalmente il livello di quella istituzione che, fondata com’era sullo storicismo, sull’umanesimo, sulla riforma di Giovanni Gentile, produceva a mio avviso la migliore intellettualità liceale europea, se non mondiale.

Soprattutto la sciagurata riforma universitaria del tre più due ha significato solo omologazione indifferenziata all’Europa e la perdita, qui, di una peculiare tradizione italiana, che, sia pure con sgomento, con difficoltà, era riuscita a mediare storicismo, umanesimo e cultura scientifica. Solo a tal proposito parlerei di una Italian Theory che si doveva distruggere, per produrre una forza-lavoro mentale tendenzialmente subalterna, qual’ è quella che esce oggi dalle nostre università. Giacchè la nostra gioventù, dopo tre anni di università triennale, è come se avesse fatto appena un liceo ed è quindi disponibile, con un’ulteriore laurea specialistica che solitamente non modifica la qualità dello studio precedente, a proporsi sul mercato del lavoro come forza-lavoro capace di competenze solo linguistico-comunicative-calcolanti: una forza lavoro, priva di profondità mentale e psichica, e disponibile perciò all’incontro con la macchina informatica e con l’uso tecnologico di questa macchina.

A tutto ciò si può contrapporre l’uso tecnico, l’uso appunto singolare, privato, creativo delle macchine informatiche. Ma bisognerà attendere e vedere quel che accadrà: vedere se si sarà in grado, con un nuovo sistema dei bisogni e con forme altre della relazione umana, di utilizzare la tecnica nel senso positivo di cui si diceva sopra. Del resto, della tecnica informatica noi tutti godiamo. Anche io e lei, in questo momento, ne godiamo: sebbene lontani, io a Londra e lei a Berlino, possiamo comodamente discorrere di Hegel, di Marx e della tecnica che ci permette di farlo. Ovviamente, non sono solo questi i vantaggi della tecnica, basti pensare ad esempio all’utilizzazione enorme di banchi dati, come i cataloghi delle biblioteche del mondo intero. Insomma vi è questa possibilità di espansione enorme, ma posso parlare di espansione solo fintantoché riesco a gestire privatamente il mio tempo, sottraendolo alla gestione capitalistica. Al contrario, vedo la diffusione delle macchine informatiche, nei servizi sia pubblici che privati, nella burocrazia come nella struttura produttiva, produrre una tipologia di soggettività molto astratta, tutta volta all’esteriorità del mondo della comunicazione e assai lontana da capacità di approfondimento e riflessione personali.

Garofano: Venendo a Hegel e Marx: Un parricidio compiuto (quello portato a termine dal Marx del Capitalenei confronti di Hegel) che fa seguito a Un parricidio mancato (il tentativo, fallito, del giovane Marx – troppo legato al materialismo di Feuerbach – di liberarsi dell’autore della Scienza della logica ). Affinché il primo si dia, occorre liberare il pensiero del Marx maturo dell’irrisolto retaggio della giovinezza, che, a tratti, torna a mettere in pericolo l’impianto della più matura elaborazione teorica. È in questo senso che si tratta di realizzare «un parricidio al quadrato» (p. 37), così che si uccida quel Marx che è rimasto subalterno ad Hegel, perché venga fuori il Marx che è riuscito a superare il maestro di Stoccarda. Ma affinché questo programma possa essere realizzato, occorre liberare il migliore spirito marxiano da certa lettera che lo imbriglia, tanto che Lei è costretto a privilegiare della stessa opera passaggi ed opere (i Grundrisse ad esempio) a discapito di altri. Può dirci qualcosa in più degli aspetti più propriamente filologici della sua ricerca? Perché, ad esempio, leggere Marx a partire dai Grundrisse?

Finelli Intanto, perché partire dai Grundrisse, che sono stati tanto esaltati – lei non era ancora nato – dalla cultura operaista. I Grundrisse furono tradotti assai bene da Enzo Grillo, che realizzò una difficile e meritoria impresa di traduzione, e che era vicino anch’egli alla cultura operaista. Pare che, all’uscita del libro, Negri lo abbia ringraziato di fronte a tutti con un grazie caloroso. Effettivamente Grillo lavorava all’Enciclopedia Italiana, dunque aveva ottime competenze filologiche, conosceva molto bene il tedesco e ha realizzato una bellissima traduzione, a cui si è aggiunta poi quella di Backhaus. I Grundrisse per la cultura operaista significavano il frammento contro il sistema, la differenza contro l’identità, il laboratorio marxiano contro la sistematicità del Capitale. Per queste ragioni la cultura operaista si è spesa moltissimo nell’esaltazione dei Grundrisse rispetto al Capitale. Anch’io amo molto quel testo, ma per tutt’altro motivo. Sì, senz’altro è vero, si tratta di un laboratorio, Marx procede a frammenti, vi si trovano espressioni anche molto appassionate. Ma secondo me i Grundrisse sono da valorizzare perché costituiscono il vero luogo della svolta del pensiero di Marx – per usare qui il termine althusseriano -,

Grundrisse sono l’opera che in modo più esplicito fa riferimento a quel modulo circolare del presupposto/posto che io poi ritrovo, in modo fondante ma del tutto implicito nel Capitale di Marx, nella convinzione che il Capitale può essere oggi ancora il luogo fondamentale della scienza del presente solo se si riconosce che è costruito, appunto, sulla circolarità del presupposto/posto.

La circolarità del presupposto/posto è la definizione che Hegel ha dato della scienza, una definizione assai diversa da quella offerta da Kant, e che Marx ha accettato nella sostanza, pur coniugandola in modo profondamente diverso da Hegel. Al di là delle differenze, tanto l’uno quanto l’altro ritengono infatti che si dà scienza quando ciò che all’inizio non può che apparire come assunto soggettivo (Vorausgesetztes) , ipotesi soggettiva, rivela la proprio natura di essere, invece, un posto (Gesetztes), quale prodotto generato dal complesso della realtà stessa.

A mio avviso è questo che accade nella teoria del lavoro-valore di Marx, all’inizio del Capitale, dove, di primo acchito, le merci sembrano scambiarsi in base al lavoro astratto, al tempo di lavoro (ipotesi alla quale si poteva – come del resto è stato fatto – ben obbiettare: e perché la merci non possono riconoscersi e scambiarsi secondo il concetto generale dell’utilità? Obbiezione dalla quale nasce, com’è noto, la teoria dell’utilità marginale e tutta la scuola classica). Ma ben presto, con il passaggio del discorso marxiano dalla circolazione alla produzione, quello che all’inizio del Capitale non può apparire altro che un presupposto solo mentale, soggettivo, un’ipotesi, diventa praticamente vero, nel senso che è generato, attraverso l’uso capitalistico della forza-lavoro, dall’azione, dal corpo e dalle menti di milioni di esseri umani. Per me la scientificità hegelo-marxiana sta in questa circolarità che riesce appunto a dimostrare che l’assunto iniziale che è necessariamente solo un’ipotesi diventa vera, diventa tesi, quando è posta dalla prassi e dall’esistenza di milioni di esseri umani, per cui diviene un’astrazione collettiva e reale. Ma al di là di questo, tornando ai Grundrisse, è in quest’opera che Marx pone per la prima volta, in pochi passaggi, questa tematica della circolarità del presupposto/posto, ed è sempre nei Grundrisse che, in una sezione che si chiama – così è stata definita dai curatori – Forme che precedono la produzione capitalistica, una sessantina di pagine di carattere storico, molto belle, Marx viene meno alla dottrina del materialismo storico, nel momento in cui sostiene che i presupposti costitutivi delle società premoderne non sono prodotti dal lavoro, perché in esse è l’appartenenza di sangue, di comunanza politica e/o religiosa a costituire l’identità del soggetto, e che consente l’accesso o meno ai mezzi di produzione. E qui dunque che si dice esplicitamente che il premoderno è caratterizzato dal fatto che il nesso sociale non è prodotto dal lavoro.

Garofano: Cade il primato dell’economico.

Finelli: Esattamente, e, aggiungerei, in un modo sorprendente. Giacchè appunto, a mio avviso, non è mai stato sottolineato sufficientemente dai lettori dei Grundrisse quanto in quelle pagine venga meno il primato dell’economico appunto perché, teorizza Marx, nelle società premoderne non si dà la circolarità del presupposto/posto (ripeto, non è il lavoro che pone i propri presupposti, come vuole invece la teoria marxiana matura della modernità). E’ del resto nei Grundrisse che Marx pensa esplicitamente secondo il circolo del presupposto-posto, visto che nel Capitale non v’è invece alcuna rimando esplicito a tale categorizzazione. L’accettazione del circolo hegeliano è fondamentale nella rottura che Marx ha con la sua coscienza teorica precedente e solo qui lascia definitivamente una soggettività collettiva presupposta all’agire storico di lontana ispirazione feuerbachiana. Tutto ciò, guardando a ritroso, mi conferma nella valutazione molto critica che, fin dall’inizio dei miei studi, io ho sempre dato del materialismo di Feuerbach, benchè mi sembra che anche Gennaro Sasso, con la sua sollecitudine, mi esortasse, molti anni fa, a non essere così radicale nei confronti di Feuerbach

Garofano: A proposito di Feuerbach, avrei una domanda. Nella fitta trama del difficile rapporto Marx-Hegel, il giudizio che Lei dà di questo terzo personaggio che si interpone tra i due a me è sembrato a tratti ambivalente: se, da un lato, Feuerbach è apertamente criticato (la teoria del Gattungswesen è un arretramento rispetto a quella hegeliana), dall’altro, la svolta consistente nel riportare il mondo sulle proprie gambe, dopo che Hegel aveva preteso farlo camminare sulla testa, svolta che il giovane Marx riconduceva all’opera dell’autore di Essenza del cristianesimo, è tacitamente accettata. Tanto che, anche laddove il pensiero di Marx sembra coincidere con quello hegeliano, Lei invita a non dimenticare che tra i due non può che esserci analogia e mai identità, dal momento che le categorie che ciascuno dei due pensatori mette in campo sono, mi conceda di dirlo così, qualitativamente diverse: astratte e attinte dalla tradizione metafisica quelle di Hegel, concrete e trasudanti fatica e lavoro quelle di Marx. Ora la mia domanda è: come valuta Lei in definitiva il pensiero di Feuerbach? E in che posizione colloca quest’ultimo tra Hegel e Marx?

Finelli: Feuerbach secondo me non è un hegeliano, anche se nel periodo berlinese è scolaro di Hegel. Si forma in una mentalità teologica, anti-individualizzante; studia ad Heidelberg, con un teologo che si chiamava Carl Daub, teorico di una teologia della de-individualizzazione, della Entsagung, fautore cioè dell’idea secondo la quale si accede alla salvezza solo rinunciando alla propria individualità. Ebbene, detto in termini molto sintetici, io credo che Feuerbach sia stato profondamente influenzato da questa prima esperienza di studi teologici, che lo hanno condotto a concepire appunto una soggettività autentica solo dove l’individualità venga meno: una soggettività declinata nel senso del comune, del legame di continuità io-altro, e dove appunto l’altro è fondamentalmente somma, integrazione e accrescimento del sé. Da questo punto di vista tutta la tematica della negazione e contraddizione in Hegel è assente in Feuerbach, perché nella sua visione c’è un soggetto che originariamente – e fino alla fine – è affermato come soggetto comunitario, senza differenze. L’individuo per Feuerbach è il peccato, il negativo nel senso della colpa. E io credo, di nuovo in modo assai schematico, che la teoria del socialismo del primo Marx accolga di fondo questo impianto anti-individualistico di Feuerbach. Il proletariato, come già dice Marx in quel saggio che pubblica nel 1844 sull’unico numero dei «Deutsche-französischen Jahrbüchern», Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, è classe universale – Engels, dirà molti anni dopo, che è l’erede della filosofia classica tedesca – perché è privo di proprietà privata, e con ciò è privo di egoismo e di individualismo In tale coincidenza della prima teorizzazione del socialismo con l’esclusione di ogni rapporto con il privato, con l’individuale, con la differenza esistenziale, è da vedere, a mio avviso, il condizionamento fortissimo dell’essenzialismo feuerbachiano che continuerà per tutto il pensiero di Marx. E si ritroverà qui, io credo, la ragione prima dell’insufficienza dell’opera di Marx nel proporre, non una critica dell’economia politica, ma una critica della politica e dell’antropologia moderne.

Ma per fare un passo indietro – e riprendendo una questione che lei poneva sopra – io vorrei sottolineare quanto questo mio ultimo testo sia più da leggersi come un parricidio al quadrato, che non un parricidio compiuto, come s’è voluto poi intitolarlo per scelte editoriali, appunto perché la sua tesi è che si possa consentire a Marx di superare Hegel (lo Hegel con cui ha conflitto, in termini consci e inconsci, per tutta la vita), solo a patto che noi stessi, come si diceva, si riesca a uccidere Marx. Nel senso che bisogna insistere molto su questa contemporaneità del doppio parricidio. Giacché bisogna far cadere molto di Marx – anzitutto la sua dottrina del materialismo storico – affinché la sua teoria possa essere attualizzata e riproposta come strumento di lettura della nostra contemporaneità.L’economico è determinante, causa prima dell’agire sociale, solo nella modernità. È questo quello che si dice nei Grundrisse, sia pur non in maniera del tutto esplicita, dal momento che Marx è sempre in questa tensione schizofrenica tra sé medesimo. Una tensione schizofrenica dissimulata anche dall’utilizzo che Marx ha fatto per tutta la vita dei famosi Hefte, i quaderni di estratti e di appunti accumulati con pazienza certosina nel corso del tempo, a cui ha fatto ricorso sempre: ma sovente non tenendo conto degli anni che erano trascorsi, e dunque finendo col concedersi da sé una fisiognomica della continuità della sua opera, che in vero non esiste. Come dicevo, questo mio testo dice che bisogna lasciar cadere la dottrina del materialismo storico, abbandonare una teoria della storia costruita sulla filosofia della prassi – quindi sulla soggettività dell’homo faber – perché in queste teorie Marx è spiritualista, nel senso più deteriore del termine. La sostanza della mia tesi, che sostengo sin dai tempi del mio primo libro sul Marx, consiste infatti nel ritenere che il Marx del materialismo storico è un Marx spiritualista, perché muove da un soggetto presupposto già intrinsecamente e organicamente collettivo. Non a caso la sua filosofia della storia è costruita sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Le prime intese come il polo positivo, continuo e lineare del processo storico; i secondi come le organizzazioni sociali e politiche, all’inizio coerenti e poi incoerenti con lo sviluppo delle forze produttive, e quindi necessariamente destinati al tramonto rivoluzionario, come si dice bene in quella introduzione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, che rimane forse la sua testimonianza migliore e più dogmatica dell’autodeformazione compiuta, in peccato di continuità, da Marx del proprio cammino. Ora, a mio avviso, è questo marxismo dell’alienazione e della contraddizione, sorretto sulla dinamica di una soggettività che fuoriesce da sé, perde se stessa nell’oggettivazione dei rapporti sociali e alla fine ritrova sé nella catarsi comunista, che bisogna abbandonare e lasciar cadere definitivamente.

Se mi permette una digressione, la stessa tragedia del marxismo dellavolpiano, e di L. Colletti in particolare, – alle cui lezioni, malgrado le ma posizione critica, io devo, comunque nel lontano 1964, la mia introduzione alla lettura del Capitale di Marx – si fonda sull’essere nato da una forzatura, da una genesi violenta che non poteva condurlo al suo esito tragico e insieme comico-paradossale: forzatura consistente nel volere ritrovare, appunto, in questo Marx che io definisco spiritualista, essenzialista, organicista, un sistema già maturo di scienza fondato, invece, sull’empiria, sul concreto, sul sensibile, da poter opporre al preteso logicismo di Hegel. Ora, se si va a ben vedere quel Marx – il Marx della Kritik del ’43 e dei Manoscritti del ’44 – si constata che la lettura di un Marx empirista e materialista, proposta da Della Volpe e dalla sua scuola, non trova riscontro nel testo. Per questo motivo, come lei sa, io e il mio amico Francesco Trincia, che in gioventù frequentava i sentieri del marxismo da cui poi si è allontanato, abbiamo speso due anni della nostra vita a ritradurre la Critica marxiana del ’43. Facendo un seminario su quel testo, ci rendemmo conto che la traduzione dellavolpiana era fortemente ipotecata da preconcetti teorici della natura che ho sopra esposto. Ma quella nostra nuova traduzione con l’ampio commentario che la integra è rimasta di fondo sconosciuta al pubblico, anche accademico, del nostro paese: per i più, io credo, a motivo del disinteresse in cui ben presto ebbe a cadere il marxismo e per i pochi, che ancora lo frequentavano, per la fatica di rimettere in discussione l’interpretazione così accattivante del giovane Marx, già compiuto scienziato galileiano antihegeliano, proposta da Della Volpe.

In verità questa interpretazione proposta da Della Volpe di un giovane Marx materialista e già capace di opporsi in modo autonomo all’hegelismo credo sia da connettersi anche alla biografia personale di Galvano della Volpe e alla sua originaria vicinanza a tematiche fasciste, se non naziste: alla necessità cioè di voler poi coprire e legittimare il suo rovesciamento esistenziale e politico, con l’adesione al comunismo nell’immediato dopoguerra, attraverso una presentazione stupefacente del primo Marx, per cui non si seguivano più le interpretazioni tradizionali, quali quelle di Auguste Cornu, di un progressivo trascorrere di Marx dal primo liberalismo al materialismo e al comunismo. Bensì si presentava un Marx che fin dal ’43 sarebbe già stato in possesso di una logica della scienza in contrapposizione alla logica astratta di Hegel. La tragedia è stata che un’intera generazione di studiosi, tra l’altro seri e valenti, ha seguito Della Volpe su questa forzatura, fino a dover poi riconoscere con l’ultimo Colletti che Marx, ahimè, anche quel giovane Marx, era invece hegeliano da cima a fondo.

Questa contestualizzazione storica per chi voglia mostrare interesse al mio testo e al mio marxismo va tenuta presente. Io giungo a incontrare il marxismo dopo la frequentazione di quel mio primo grande maestro che è stato Guido Calogero. Il suo insegnamento di filosofia antica e la sua scuola di filosofia del dialogo hanno costituito per me, insieme all’educazione al rigore concettuale di quell’altro mio maestro che è stato Gennaro Sasso, giunto nell’Università romana qualche anno dopo, ha costituito un filtro selettivo e critico all’incontro con il marxismo della scuola romana, di Della Volpe, L Colletti, N. Merker, impedendomi un’adesione incondizionata al loro galileismo morale ed obbligandomi invece, fin dall’inizio, a un confronto, filologico e teoretico assai serrato

Tornando a Feuerbach, io so bene che l’interpretazione che ne dò è senz’altro discutibile. Ci sono molti valenti studiosi feuerbachiani che continuano a ritenerlo e a valorizzarlo come un pensatore imprescindibile nell’aprirsi della filosofia ai temi di una umanità incarnata, dell’intersoggettività, di un’antropologia istituita sull’emotività e sulla corporeità. Io invece penso che Feuerbach non sia questo ma sia un pensatore profondamente condizionato da un’antropologia dell’Uno e della sua risoluzione nel Genere (Gattung). In entrambi i miei due testi dedicati alla tematica del parricidio – anzi, devo dire, sin dal mio primo lavoro sistematico sull’opera di Marx del 1987, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx -, la critica maggiore che mi ha sollecitato lo studio di Feuerbach l’ho rivolta verso la lettura incredibilmente riduzionistica che mi sembra egli abbia fatto di Hegel. Su questo, proprio in questo periodo, sto scrivendo un saggio che si intitola Il pensiero di Feuerbach come blocco mentale all’evoluzione del pensiero di Marx, che uscirà per un volume collettaneo della Monthly Review Press dedicato a Marx. Perché Feuerbach ha voluto presentare, com’è noto, Hegel come un teologo dissimulato sotto mentite spoglie, un neoplatonico, un pensatore del III secolo d. C., per il quale il logos viene prima della realtà, della concretezza, e la natura e la storia non sono altro che alienazioni e decadenze di questo logos, che, quasi come l’uno plotiniano, si aliena, crea il mondo e torna a se medesimo. Questa interpretazione neoplatonica di Hegel, che propone un Hegel arcaico e fondamentalmente cristiano, dissimulato in termini di categorie laiche, io credo – malgrado le profonde distanze che Feuerbach ha sempre dichiarato nei confronti di Schelling – finisca col coincidere paradossalmente con la critica che il tardo Schelling, quello della filosofia positiva e della filosofia della rivelazione, muoveva radicalmente contro Hegel, affermando che in Hegel il logos è il primum e la natura e la storia il secondo, di contro alla priorità, invece, dell’ontologico sul logico.

Io muovo, naturalmente in buona compagnia, da un’interpretazione di Hegel profondamente diversa. Come ho tentato di dimostrare nel mio libro del ’95, Mito e critica delle forme, credo infatti che la filosofia di Hegel sia una filosofia della scissione, non di certo una filosofia dell’uno. È una filosofia che nasce dalla storia, dalle scissioni del presente, e, a suo modo, cerca di trovare delle soluzioni di mediazione, che pur non essendo a mio avviso convincenti, e forse proprio per questo, rendono estremamente attuale la filosofia di Hegel, che io leggo appunto come tutta interna alla modernità e come il tentativo di concepire la dialettica come mediazione e sintesi delle scissioni in quanto luogo della non violenza. Hegel pensa la dialettica insieme a Hölderlin dopo la rivoluzione francese, dopo il terrore, perché vuole pensare una rivoluzione senza il terrore. E la dialettica credo che nasca da questa esigenza. Quindi si capisce che la mia interpretazione è molto lontana da quella di Feuerbach, che, invece, è accolta integralmente da Della Volpe, che ha presentato sempre Hegel come un pensatore cristiano, antiscientifico, antimoderno, come antidoto al quale proponeva di utilizzare un giovane Marx, galvanizzato a eroe dell’empirismo scientifico.

Garofano: E cosa mi dice della questione, che ponevo sopra, dell’ analogia – e non mai identità – tra il pensiero di Marx e quello di Hegel?

Finelli: Anzi tutto, dico che per me l’analogia è tra Hegel e il Marx della maturità, perché, torno a dire, il Marx che precede la maturità è tutto subalterno ad Hegel. Feuerbach e il primo Marx usano una strumentazione hegeliana e di questo loro utilizzo non sono consapevoli fino in fondo. Invece, con il Marx della maturità l’analogia con Hegel consiste in questo: nel fatto che per entrambi la filosofia o la teoria in tanto è scienza in quanto produce una riunificazione delle scissioni reali. Per Hegel la filosofia è scienza perché conduce dalla scissione iniziale alla mediazione finale, sia la scissione della Fenomenologia dello spirito (sensibile concreto e universale astratto) sia la scissione iniziale della Scienza della logica (essere e nulla). La filosofia per Hegel è compenetrazione progressiva di questi poli inizialmente l’uno opposto all’altro. E appunto come ho provato a dire è il circolo del presupposto/posto che alimenta il rigore scientifico di questo percorso. Ora, Marx a me sembra che nel Capitale faccia esattamente il medesimo, a partire da una soggettività che, come dicevo all’inizio, non è quella degli esseri umani, degli individui agenti della storia, ma è quella di una soggettività impersonale che io chiamo la ricchezza astratta del capitale e dalla sua tendenza illimitata all’accumulazione quantitativa. Marx deve riuscire a dar conto dell’esistenza di questo soggetto come cuore della modernità e come soggetto tendenzialmente totalizzante a partire da una costatazione fenomenologica di scissione. Ed è qui che sta l’analogia con Hegel: sia Hegel che Marx hanno un inizio fenomenologico. Per entrambi l’inizio è non arbitrario, non soggettivo, è fenomenologicamente ciò che è più a portata di mano, il dato più diffuso: la certezza sensibile o l’essere come prima categoria in Hegel, la merce per Marx. Si tratta della datità più generale, quindi un inizio fenomenologico per entrambi, che deve sottrarre l’inizio dell’esposizione scientifica ad una arbitrarietà di scelta soggettiva e a partire da questo inizio obbligato dare vita ad un percorso di svolgimento categoriale prodotto dalle scissioni dell’inizio medesimo.

Garofano: Su questo punto dell’inizio in Hegel, se permette, avrei un’osservazione. Nel suo discorso, Lei non sembra fare differenza tra inizio fenomenologico e inizio logico, eppure una differenza a mio avviso c’è. L’inizio dellaFenomenologica è il questo della certezza sensibile, e dunque è il dato – o quello che vorrebbe essere il dato; quello logico invece non è questo ed è…

Finelli: Ma scusi, lei invece non vede un’omologia di questi due inizi? Certo, sono sicuramenti diversi, una cosa è l’hic et nunc della Certezza sensibile e una cosa è il Sein, l’assoluta indeterminatezza, ma entrambi sono un inizio perché si impongono nella loro immediatezza e si sottopongono analogamente entrambi a un rovesciamento.

Garofano: Senz’altro, ma dal punto di vista della scienza i due inizi sono differenti. Quello fenomenologico è l’inizio del percorso che ci conduce al sapere assoluto, alla scienza, mentre l’altro è già tutto interno alla scienza…

Finelli: E però le potrei dire che l’Essere con cui inizia la Scienza della logica è, come si dice nella prima Anmerkung, è l’Essere di Parmenide, che è l’inizio della storia della filosofia. Quindi c’è anche un inizio temporale. Questo Essere è inizio della scienza, in quanto è anche il pensare nella sua assoluta vuotezza. Quindi, se mi permette, io lascerei cadere le differenze tra inizio fenomenologico e logico – precisando però che su questo lei giustamente pone i suoi rilievi, e non è certo il primo che me li pone, mi è più volte capitato di discuterne con altri colleghi, che mi hanno fatto la stessa obiezione. La mia risposta a queste obbiezioni è che a me interessa solo il fatto che in entrambi i due inizi il punto iniziale si scinde, si spacca e si capovolge immediatamente nell’opposto. Questo è il medesimo processo che io trovo nell’analisi marxiana della merce, nel momento in cui Marx dice che la merce che appare come un oggetto concreto che soddisfa bisogni per un soggetto concreto viene stravolta in questa relazione soggetto-oggetto da una relazione oggetto-altri oggetti potenzialmente infiniti, che è la relazione dello scambio. La merce in quanto scambiabilità non è certo la merce in quanto utilizzabilità. Ecco, in questo luogo fondamentale dell’inizio del Capitale io ritrovo la medesima spaccatura, il medesimo rovesciamento dall’individuale all’universale che trovo nelle due opere hegeliane. Certo, questo a rigor di termini varrebbe solo per la Fenomenologia, perché solo in quest’opera, come lei giustamente fa notare, il rovesciamento è dall’individuale sensibile all’universale astratto del linguaggio, mentre nella logica partiamo dalla purezza del pensare. Però a me quello che interessa dire è che in entrambi i casi si ha questo movimento, per cui anche l’inizio della logica, malgrado la sua totale astrazione, io lo caratterizzerei come un inizio fenomenologico, in quanto è ciò che non può non presentarsi al pensare nella sua dimensione aurorale. Ma di questo poi probabilmente continueremo a discutere.

Tornando all’analogia, direi che tra Marx e Hegel vi è analogia, ma anche differenza. Qui poi entra di nuovo anche la storia della mia formazione personale, per cui io non accetto e non mi riconosco nella filosofia come metafisica e come speculazione sulle categorie di essere, nulla, non-essere. Contro questo modo di intendere la filosofia entra in gioco la doppia anima che ha caratterizzato la mia formazione filosofica e il contrasto dei due miei maestri, che sono stati Guido Calogero e Gennaro Sasso. Sasso è maestro di metafisica, ma anche di approfondimento filologico, di rigore concettuale e non solo concettuale. Moltissime sono le cose che ho appreso da lui. Ma prima di Sasso io sono stato, come ho già detto allievo di G. Calogero, che da un lato ha raffinato il mio laicismo e dall’altro mi ha insegnato a interpretare le categorie della tradizione metafisica quali ipostasi del linguaggio, quali reificazioni e patologie di parole fatte valere come cose. Quindi io faccio valere in questa critica delle categorie hegeliane, in questo parricidio di Hegel, la mia formazione calogeriana. E per questo propongo una tematica marxiana basata non sulla contraddizione, ma sullo svuotamento che del concreto fa l’astratto: secondo un modulo logico che, appunto, non è quello della contraddizione, ma quello del rapporto contenitore-contenuto, dove c’è un contenitore impersonale che anima e riduce alla propria logica i contenuti, lasciandone una pellicola di mera apparenza superficiale.

Garofano: Com’è emerso dalla risposte che Lei ha sinora offerto, nell’interpretazione che Lei dà di Marx, viene ad assumere un ruolo di primo piano la contrapposizione tra la coppia categoriale struttura-sovrastruttura e quella del presupposto-posto. La prima, elaborata dal Marx del materialismo storico e obbediente ad una logica analitica e identitaria, è da scartare, la seconda, mutuata da Hegel e propria della matura riflessione marxiana, da accettare e implementare. A ciascuna coppia categoriale – e qui veniamo ad un punto centrale – corrisponde una precisa interpretazione del lavoro, che entro il maturo orizzonte del presupposto-posto diviene forza-lavoro (realtà materiale che si incontra ad un certo punto della storia dell’uomo), non più, dunque, come nella fase giovanile, nota antropologica ricavata analiticamente dal Gattungswesen . Potrebbe tracciare per noi in breve questa evoluzione del concetto marxiano del lavoro? E ci spiega perché e come, alla luce della matura riflessione marxiana, il lavoro non è più luogo di produzione dell’antagonismo sociale?

Finelli: Dell’evoluzione del concetto marxiano di lavoro forse ho già parlato, affermando che l’evoluzione a mio avviso consiste nel passaggio dalla categorizzazione del lavoro come prassi trasformativa della natura dell’essere umano alla definizione del lavoro comeuso capitalistico della forza-lavoro. Quindi il lavoro non come realizzazione, espressione e alienazione delle forze essenziali dell’ homo faber – non come predicato del soggetto produttore e con ciò principio del materialismo storico – bensì, con l’abbandono del materialismo storico, il lavoro come uso capitalistico della forza-lavoro. Qui si colloca, io credo, il passaggio fondamentale tra il primo e il secondo Marx.

Per questo io penso che un’ipotesi di emancipazione affidata al mondo del lavoro sia possibile Un discorso emancipativo affidato al lavoro sia possibile solo nel caso in cui si riesca a concepire un tipo di lavoro che si contrapponga al lavoro astratto, quale appunto uso capitalistico della forza-lavoro, e che sia un lavoro, invece, ad un alto tasso di riconoscimento del sé e nello stesso tempo dell’intero genere umano. In tal caso si potrebbe parlare, utopicamente, di un nuovo valore del lavoro da contrapporre al valore meramente temporale-quantitativo del lavoro capitalistico. Si tratterebbe di una diversa teoria del valore-lavoro, secondo la quale ha validità solo un’attività che mentre produce oggetti e servizi concreti non entra kantianamente in contraddizione con l’intero genere umano, né con l’habitat geologico geografico, né con quello antropico del genere umano. Dunque un lavoro di passione, che mentre lavora l’oggetto lavora anche il soggetto, di cui deve riconoscere le predisposizioni, le passioni e le tendenze più profonde ed emozionali, e che nello stesso tempo sia volto a riconoscere in modo kantiano l’intero genere umano e l’intera dimensione naturalistica e geologica dell’esistenza. A questo lavoro astratto del capitalismo, da cui io non vedo come si possa fuggire attraverso un’intensificazione della sua produttività, io posso vedere solo utopicamente una riattribuzione emancipativa al lavoro, che per me rimane, freudianamente, un qualche cosa di fondamentale, perché è la capacità dell’essere umano di essere padre a sé medesimo e di non affidare il soddisfacimento dei propri bisogni ad altri. Uscire dall’infantilismo significa lavorare, provvedere da sé medesimo ai propri bisogni, altrimenti si sta in una dimensione sempre minoritaria. Dunque, il lavoro come asse fondamentale di costituzione della soggettività, di temperamento del desiderio e del processo primario del desiderio, ma un lavoro che si moduli secondo questa nuova filosofia del riconoscimento. A mio avviso, occorre pensare un nuovo concetto di ricchezza, fondato sulla capacità di garantire quanto più è possibile a ciascuno la realizzazione del proprio progetto personale di vita, delle proprie forze emozionali. Si tratta di un lavoro che deve tener conto di tutte e due le dimensioni, quella verticale e infrasoggettiva di realizzazione e di riconoscimento del sé (alla Hegel, direi radicalizzando), e quella kantiana, che deve implicare la totalità del genere umano, per cui ogni cosa che io compio e faccio attraverso il mio lavoro non deve contraddire la vita presente e futura dell’intero genere umano.

Garofano: Altra contrapposizione fondamentale per comprendere il Suo Marx è quella tra sfera della circolazione e sfera della produzione delle merci. Alle interpretazioni che privilegiano la prima, Lei oppone l’argomento del primato ontologico della seconda, dal momento che gli individui eguali che ci si rappresenta come agenti del mercato sono, a ben vedere, non presupposti allo scambio, ma posti dalla sfera della produzione, nella quale il capitale, nella modernità, ha già sussunto sotto di sé il lavoro e i rapporti di produzione. È da qui, se capisco bene, che discendono tanto la Sua sfiducia nei confronti del lavoro quanto il giudizio negativo sulla società civile hegeliana, che Lei legge attraverso la contrapposizione tra essenza e apparenza: la sfera della merce sta a quella della produzione, come l’apparenza sta all’essenza. Nel leggere la società civile attraverso le categorie di Schein e Erscheinung , Lei prende le distanze da quegli autori che pure hanno dato grande risalto alle determinazioni della riflessione hegeliane (limitandoci all’Italia, si pensi al saggio di Giuliano Marini del 1990 o al più recente e bel libro di Giorgio Cesarale, La mediazione che sparisce , Carrocci 2009, quest’ultimo da Lei direttamente citato e criticato). Se capisco bene, secondo Lei, nella società civile la polarità essenza-apparenza (così come l’altra, essenza-parvenza) non si istituisce, perché uno dei due poli, in questo caso quello della particolarità-individualità, non riesce a profilarsi, dal momento che è posto , nella sua totalità, dall’astratto-universale del capitale. È così? Ma la società civile hegeliana non è forse il luogo in cui l’individualità viene, mi lasci dire così, progressivamente ad ispessirsi e a prodursi, piuttosto che essere presupposta alla prima?

Finelli: Di questo discuto da tanto tempo soprattutto con l’amico Riccardo Bellofiore, l’economista/filosofo col quale, qualche anno fa, ho scritto un bel saggio marxiano a quattro mani. In tempi più recenti ho avuto occasione di discuterne con Giorgio Cesarale. Io tendo a pensare il rapporto tra circolazione e produzione come un rapporto tra essenza e apparenza, perché la produzione, marxianamente, è un luogo in cui ci si socializza senza la mediazione del denaro, ma attraverso rapporti di dominio e di uso capitalistico della forza-lavoro. Quindi leggo la produzione come luogo dell’ Herrschaft, perché manca il denaro appunto, mentre la circolazione è la socializzazione mediata dal denaro e quindi il luogo dell’equivalenza, della libertà e della democrazia. Secondo me questi due ambiti sono connessi dialetticamente, in un nesso tale per cui il secondo è la deformazione, per opposizione e rovesciamento, del primo. Ma – e ciò va fortemente sottolineato – deformazione indispensabile al primo, perché a tutta la modernità è indispensabile la valorizzazione della libera soggettività. Come faremmo infatti a pensare il moderno se non concentrando il suo significato più rilevante nella autonomizzazione e liberazione del soggetto? Ora io credo che il Marx che io cerco di far parlare in un certo modo – probabilmente operando forzature e finendo per parlare attraverso di lui forse solo io stesso -, il Marx dell’astratto per intenderci, possa far ben comprendere come il libero individuo sia una dimensione fondamentale della modernità, come valore necessario per mettere in moto i suoi meccanismi, ma sia nello stesso tempo un valore solo apparente. Si tratta appunto di quel processo di svuotamento di cui dicevo prima. Per tornare a sottolineare che per me il luogo fondamentale del nesso sociale non è nella sfera della circolazione ma della produzione, dove non c’è mediazione di denaro, bensì relazione di comando che viene dissimulata dalla circolazione democratica di denaro in superficie.

Ora la discussione che su questo ho aperto con quell’ottimo e bravo studioso che è Cesarale riguarda ancora le analogie con l’opera hegeliana. Come sappiamo in Hegel la Dottrina dell’essenza, il secondo libro della Scienza della logica, è il momento in cui l’essere è tramontato, per cui l’essenza è un negare che ormai non ha nulla da negare all’esterno di sé, ma che nega infinitamente sé medesima; è, insomma, una negazione assoluta, appunto come autoriflessività del negare. L’apparenza, se ho ben letto quel testo, è il momento in cui il negare dimentica se medesimo e, apparentemente, si riconosce in delle permanenze, in delle identità. Quindi l’apparenza è la falsificazione del negare, la sua falsa immagine. Esattamente questo avviene nel processo capitalistico, e cioè uno svuotamento della soggettività e una messa in campo di una soggettività solo apparente, ma che pure, nella sua apparenza, è indispensabile all’intera organizzazione del presente, dal momento che essa è principio della vita civile, della vita democratica, del mercato, dello scambio delle merci, del stesso diritto. Ma tutto questo, ripeto, entro il processo di una soggettività – Hegel la chiama negazione, io astrazione del capitale – che approfondendo se medesima (la negazione nell’essenza, l’astrazione nel mio discorso) svuota e produce apparenze di identità, di permanenza.

Il tema della mia discussione con l’amico Cesarale riguarda la mia difficoltà a trasporre tale modulo dell’apparenza-essenza dal Capitale di Marx alla sfera della società civile di Hegel. Tanto che io imputo a Cesarale di aver completamente eliminato Marx e di aver reso Hegel l’interprete totalmente soddisfacente della modernità. Perché a me sembra che la società civile in Hegel, in particolare il sistema dei bisogni, viva fondamentalmente di due princìpi, che sono, da un lato, l’universalità astratta del mercato, delle merci, e, dall’altro, quello della libera individualità, che è individualità astratta, individualità mercantile, individualità dei bisogni, ma non certo individualità ridotta ad apparenza. Per cui mi sembra che se Hegel nella sfera della società civile ragiona con due consistenze e polarità, che sono l’individuale e l’universale, accomunati dall’essere entrambi astratti, tale dualismo di operatori del reale non sia leggibile secondo il meccanismo sopra ricordato della logica hegeliana dell’essenza, che vede invece l’operare dell’unica funzione, dell’unica polarità, della negazione assoluta, dato che ogni dimensione altra, come quella della permanenza e dell’essere, è ormai solo apparenza. E’ come se, insomma Cesarale, cadesse nella contraddizione di usare un modulo teoretico e logico che è ormai solo monofattoriale per un campo di realtà che vede strutturato ancora secondo due fattori costitutivi. Tutto ciò per non giungere al riconoscimento che nella modernità la libera individualità è fattore imprescindibile del gioco ma, appunto, solo come finzione ed apparenza. La sostanza del mio parricidio sta del resto in ciò. Nell’aver rifiutato l’hegelo-marxismo, con la sua valorizzazione della contraddizione e della negazione come fattori esplicativi della realtà storica e sociale – e dunque con la sua presupposizione dell’homo faber che si scontra e si oppone alle forze espropriatrici della sua essenza – e nell’aver proposto un marxismo dell’astrazione, istituito invece sulla monofattorialità operativa di un soggetto astratto, che si impone al mondo del concreto e della vita attraverso un processo di svuotamento/surdeterminazione della superficie.

La sostanza di una politica futura, nel verso di pratiche dell’emancipazione, starà nel riuscire a tradurre di nuovo l’astrazione nella contraddizione/opposizione. Ma parlare di ciò può essere oggetto solo di un altro discorso.