Un’ecologia unidimensionale
Ecologia, 2, (6/6), 17-18 (luglio 1972)
II libro di Barry Commoner «The Closing Circle» non è mai tangente alla quota dell’articolo di P.R. Ehrlich e di J.P. Holdren «The Impact of Population Growth» apparso su «Science» 171 (1971), e non si potrebbe pretendere questo, perché evidentemente a Commoner manca la preparazione necessaria per cabrare a quel modo. Tuttavia, egli avrebbe potuto almeno non minimizzare le responsabilità che aumento della popolazione mondiale umana e corsa al «consumismo» hanno nel determinarsi della crisi ecologica attuale. Invece, Commoner si è prodigato per riversare tutte le colpe di tale crisi sugli errori della tecnologia, occultando od omettendo di esaminare alcune altre cause principali della medesima; poiché questo ha fatto scrivendo per il grosso pubblico, necessariamente privo di senso critico in merito, egli si è reso complice della grave opera di disinformazione che da molte parti viene fatta intorno ai problemi di gestione delle risorse naturali.
Certo, per incontrare il pieno favore popolare è opportuno ignorare le reali, innegabili necessità di controllare le nascite, di limitare drasticamente la rapina e lo sperpero dei beni naturali e di attuare la loro equa distribuzione fra tutti: infatti, queste necessità parlano all’individuo di taluni diritti altrui e di taluni doveri suoi propri e questi sono argomenti quasi universalmente sgraditi. Attirare l’attenzione dell’uomo «qualunque» sugli errori della tecnica, invece, è sostanzialmente come additargli le sole responsabilità altrui nel determinismo di eventi nocivi di cui lui sarebbe una vittima totalmente innocente.
In altre parole, si procede con assoluta sicurezza di successo popolare quando si sceglie di tranquillizzare l’uomo «qualunque» sul fatto che non gli si richiede alcun ulteriore sacrificio né gli si addossa alcuna responsabilità, anzi gli si presenta il nuovo diritto di ricevere protezione dagli errori della tecnica.
Ora. tuttavia, sono scesi in campo Ehrlich ed Holdren con un articolo ciclostilato, «One dimensional ecology», che consiste di venti pagine e di sessanta note bibliografiche, nel quale gli errori, le omissioni e le storture di Commoner sono documentate con dovizia. Tale articolo è destinato a venir stampato ed è auspicabile che lo sia quanto prima possibile; tuttavia, è bene che fin d’ora venga fatto conoscere, almeno in alcune delle sue linee essenziali.
Fra i primi errori sottesi al lavoro di Commoner, Ehrlich ed Holdren indicano quello di credere (o di voler far credere) che i seri danni ecologici di origine umana non risalgano essenzialmente a prima del 1940. Orbene, persino in lavori divulgativi italiani vengono citati numerosi esempi di gravissimi danni recati all’ambiente da popolazioni di pastori, di agricoltori, di cacciatori, ecc., a motivo dell’eccessivo sfruttamento dei pascoli, di pratiche agricole errate, dell’abuso di irrigazione, di cacce sterminatrici e così via. Nell’articolo che ora ci interessa viene ulteriormente provato come la distruzione dell’ambiente da parte dell’uomo preindustriale non sia limitata alle regioni relativamente aride.
Comunque, l’idea preconcetta di Commoner nei riguardi degli inquinamenti quali unica (o quasi) forma di deterioramento ambientale lo induce ad attribuire ben poco peso al problema generale dell’impoverimento e della semplificazione degli ecosistemi, problema che ad un ecologo si palesa in tutta la sua complessità e gravità, sulle quali è superfluo dire.
In sostanza Commoner non ha posto in luce il rapporto esistente fra consistenza demografica e grado di benessere di una determinata popolazione e l’impatto ambientale complessivo che essa ha. Ad esempio, per una popolazione in forte incremento, il ricavare nutrimento coltivando un’estensione di suolo fissa o in diminuzione richiede l’impiego di fertilizzanti in quantità sempre maggiori e comunque nettamente sproporzionata all’aumento del raccolto che se ne otterrà. Commoner lamenta l’enorme incremento postbellico nella produzione dei concimi azotati, ma dimentica che vincoli di causa e di effetto legano fra loro l’entità di una popolazione ed il peso della tecnologia, anche agraria, necessaria per sostenerla.
Con questo «metodo», ogni errore di natura demografica o prevalentemente tale viene presentato come tecnologico: per citare un altro esempio, Commoner, trattando dell’inquinamento causato dalle automobili, afferma che «l’aumento dei viaggi in auto durante gli ultimi 25 anni è pure una conseguenza antiecologica di un mutamento tecnologico nella distribuzione delle residenze e dei posti di lavoro». È invece evidente che la distribuzione, sul territorio, delle aree di lavoro e di residenza ecc. è un fenomeno non già soltanto «tecnico» bensì politico e correlato alla crescita della popolazione e del benessere. Le esplosioni tecnologico-industriale ed urbanistica sono fra i fenomeni che in molti territori hanno permesso un’esplosione demografica apparentemente equilibrata: l’imputazione degli effetti nocivi dal punto di vista ecologico ed etologico che tutte e tre queste esplosioni comportano non possono venire arbitrariamente ripartiti fra di esse. Ehrlich e Holdren concludono che, a meno di un rovesciamento delle leggi termodinamiche, nessuna tecnologia può ridurre a zero l’impatto della popolazione e del benessere sulle risorse naturali.
Ne consegue, ovviamente, che i problemi relativi al razionale sfruttamento delle risorse naturali non prescindono dalla necessità di pianificare la dinamica dei popolamenti umani (e quindi la loro demografia, in primo luogo) e l’uso dei beni naturali. In questo (come in altri casi) pianificare vuol dire, innanzi tutto, razionare.
Commoner al riguardo sostiene che l’aumento demografico nelle nazioni in via di sviluppo «dovrebbe essere bilanciato coi medesimi mezzi che hanno sempre avuto successo altrove: miglioramento delle condizioni di vita, sforzi per ridurre la mortalità infantile, misure di sicurezza sociale, conseguente pianificazione familiare, oltre all’uso individuale, volontario, di contraccettivi». Come rilevano Ehrlich ed Holdren, anche nei paesi socialmente e tecnologicamente evoluti la riduzione del tasso di mortalità associata alla transizione demografica non fu sufficiente a compensare l’enorme riduzione del tasso di mortalità che l’aveva preceduta.
Ammettendo che il tasso di mortalità non aumenti, sembra di poter ammettere che le nazioni industrializzate fluttino, entro lunghi termini, intorno al tasso di accrescimento annuo di circa 0,5-1,0 %, raddoppiando così la loro popolazione in un secolo o due. Se le «transizioni» demografiche si iniziassero immediatamente nei paesi in corso di sviluppo e seguissero uno schema simile a quello sperimentato in passato nei paesi sviluppati, passerebbero circa 80 anni prima che il loro tasso di accrescimento demografico si porti al livello attuale di questi. È sufficiente l’esame di una siffatta visione, peraltro fin troppo ottimistica, per accorgersi che una simile dinamica demografica nei paesi sottosviluppati non farebbe in tempo a risolvere il problema.
Lo studioso di demografia Nathan Keyfitz ha calcolato recentemente i risultati possibili di un eventuale, miracoloso controlto demografico ed ha previsto quello che accadrebbe se nei paesi in corso di sviluppo la consistenza familiare si abbassasse precipitosamente, in modo che nel 2000 la riproduzione avesse raggiunto un livello stabile: il volume della popolazione al momento in cui tali paesi smettessero di «crescere» sarebbe 2,5 volte quello attuale. Vale a dire, la popolazione dell’India sarebbe di circa 1,4 miliardi di individui, quella della Cina di 1,7 miliardi, del Brasile 240 milioni, dell’Indonesia 310 milioni, ecc. Si tenga presente che queste cifre sono basate su previsioni oltremodo ottimiste circa un eventuale controllo demografico. Poiché molte nazioni sottosviluppate si trovano nei tropici, basta collegare questi dati con quelli dell’ecologia tropicale per vedere quale tragico errore sia insito nella fiducia che Commoner ripone nella transizione demografica.
Sfortunatamente, egli perpetua il mito che il controllo demografico possa essere in buona parte ottenuto riducendo il tasso di mortalità infantile. Se sul piano della pietà questo scopo è ovviamente lodevole, in molti casi avrebbe come risultato un temporaneo tasso di accrescimento, giacché la progettata riduzione del tasso di natalità non compenserebbe, su tempi brevi, la riduzione del tasso di mortalità. Non sembra che la riduzione del tasso di mortalità infantile abbia mai provocato una riduzione del tasso di accrescimento se non in capo a parecchi decenni.
Non è affatto sicuro, comunque, che i popoli sottosviluppati debbano subire una «classica» transizione demografica: le loro condizioni sociali ed economiche sono oggi talmente diverse da quelle esistenti nei paesi evoluti nel corso dell’ultimo secolo che è difficile fare fondate previsioni in merito.
L’ottimistica visione di Commoner (pag. 240), secondo Ehrlich ed Holdren, si basa sulla sua ignoranza circa la vastità dei problemi a cui si è accennato più sopra e di molti altri ancora, combinata con la malriposta fiducia nella capacità dell’uomo di sviluppare immediatamente industrie che non provochino danni ambientali. L’analisi delle statistiche sul consumo di energia e di materie prime necessarie per industrializzare i paesi sottosviluppati rivela le difficoltà di realizzarne una sia pur parziale industrializzazione senza enorme danno dell’ecosfera. L’unica concreta speranza di poter migliorare sensibilmente la condizione dei paesi «poveri» sta nello stornare energia ed altre risorse dal superfluo benessere dei paesi evoluti per destinarle ad usi di prima necessità nei paesi in corso di sviluppo.
In conclusione, non giova nascondere al pubblico la necessità di lottare contemporaneamente contro la sovrappopolazione, l’eccessivo ed iniquamente ripartito benessere, gli errori tecnologici ed altri eventi morbosi. Commoner medesimo si rende conto che il consumo delle risorse negli U.S.A. deve essere ridotto (pag. 299), ma inganna inducendo a credere che ciò possa ottenersi mediante la sola «riforma ecologica», senza il controllo demografico o una riduzione di quello che molti americani considerano come il loro alto tenore di vita.
Vero è, come già dicemmo, che fronteggiando onestamente la necessità di controllo demografico e del livello dell’equa ripartizione del benessere ci si espone ad essere criticati come… antipopolari e nemici dei poveri! Ma, in realtà, soltanfo queste misure impopolari offrono all’uomo la speranza di salvare innumeri vite. È più onesto dire al ricco che per sopravvivere dovrà spartire le sue ricchezze, ed a quelli che desiderano una famiglia numerosa chiarire che ciò ipotecherà l’avvenire dei loro e degli altrui figli, piuttosto che dare una fallace speranza di facile via d’uscita.
Sebbene Commoner ammetta formalmente alcune delle deficienze del suo assunto, quando trae le conclusioni si destreggia in modo da ignorare completamente queste considerazioni. A pag. 176 scrive che l’incremento demografico pesa per il 12-20% nei vari inquinamenti galoppanti registrati dal 1946 e che il fattore benessere… pesa per l’1-5 % mentre quello tecnologico grava per il 95% circa (eccettuato il caso dei viaggi in automobile, per i quali ammette che il contributo del benessere è più elevato). Il lettore caritatevole passerà sopra al fatto che la somma delle minori di queste cifre raggiunga il 108%! In nessun caso, tuttavia, le «responsabilità» che si possano assegnare uguagliando neppure da lontano quelle che Commoner dà per giustificate coi dati e gli argomenti presentati nel «The Closing Circle».
Un esempio dell’approssimazione unidimensionale di Commoner è la similitudine, a cui spesso egli ricorre, che propugnare il controllo demografico «è come tentar di salvare una nave che fa acqua alleggerendo il carico e buttando in acqua i passeggeri». È inutile dire, concludono Ehrlich e Holdren, che se una nave che fa acqua viene ormeggiata ad un bacino e i passeggeri spopolano tranquillamente sul pontile, un bravo comandante non permetterebbe a nessuno di salire a bordo mentre mette in opera la pompa e tenta di riparare la falla». lo direi, invece, che per tentare di tenere a galla una barca sovraccarica che minaccia di affondare anche per il peso dei passeggeri, per prima cosa si impedisce che salgano nuovi passeggeri, e questo per il bene di tutti.