Venti anni dalla Guerra del Kosovo

Il 9 giugno, esattamente venti anni fa, aveva termine la guerra del Kosovo, entrata nella fase risolutiva con l’intervento della Nato il 24 marzo 1999, (bombardamenti su Belgrado). E’ un anniversario importante, seppure passato sotto silenzio. La guerra del Kosovo è stato uno snodo decisivo per la storia europea recente. Le sue conseguenze, venendo a collocarsi al culmine delle guerre jugoslave degli anni 90, sono tuttora pienamente operative, non è un evento che appartiene ad un tempo lontano e altro da quello presente. Il fatto che memoria e conoscenza siano labili e scarse non cambia le cose, anzi le aggrava, confermando l’asimmetria e la differenza radicale su cui si sofferma l’articolo che riproponiamo. La smemoratezza è infatti nostra, di noi italiani in primo luogo e degli occidentali in genere. Al contrario nei paesi della ex Jugoslaviala guerra e i nodi irrisolti che ha lasciato sono pienamente presenti, i conflitti non sono stati superati ma congelati. Cosa che è altrettanto, se non ancor più vera, per la Bosnia Erzegovina. Un inquadramento storico di sintesi non può certo approfondire i temi che evoca, basti pensare alla Prima guerra mondiale e, per molti aspetti, anche alla dinamica e gli esiti della Seconda. Non meno rilevanti sono le questioni geopolitiche e di riflesso economiche, sullo sfondo culturali, legate alla guerra del Kosovo a conclusione del ciclo delle guerre jugoslave. La più rilevante è la spinta alla chiusura dell’Europa, in controtendenza rispetto al crollo del muro e all’implosione dell’URSS. Si ricostituisce l’asse russo-serbo. La distanza tra l’Europa e la Russia diventa nuovamente incolmabile. Sulla debolezza politica dell’Europa fanno leva attori interni e esterni. Le “nazioni dell’odio” si moltiplicano. La partita non è persa solo se si percepisce la portata della posta in gioco,

Le nazioni dell’odio. Sguardo retrospettivo sulla crisi del Kosovo

Articolo di Pier Paolo Poggio, apparso originariamente in “Millepiani”, n. 15, 1999, riprodotto qui senza modifiche.

Premessa

La guerra nei Balcani, con l’accelerazione impressa dall’intervento della Nato, ha sollecitato una relativamente diffusa domanda di storia, anche per compensare la scarsissima conoscenza che si ha in Italia (e negli altri paesi occidentali) delle vicende di popoli tanto vicini quanto estranei alle coordinate culturali dominanti, almeno sino a tempi molto recenti.

Questa modesta apertura viene contrastata dalla riproposta di una critica radicale della storia, che nella tragedia balcanica crede di trovare una puntuale verifica ai suoi assunti. Due paiono essere le argomentazioni principali di questa critica: in primo luogo si sostiene che il ricorso alla storia non è di alcuna utilità per la conoscenza della verità, la storia viene utilizzata per legittimare la politica e la guerra tanto dalla Serbia quanto dalla Nato e così via, quindi lungi dall’avvicinare essa serve piuttosto ad allontanare o mistificare la verità. In secondo luogo si argomenta che, nel caso specifico dei serbi e dei popoli balcanici, la storia ha sì una grande efficacia ed importanza, ma proprio nel senso di produrre politiche di guerra, quindi è una storia a cui mettere fine, da abolire.

La storia è stata usata, e continua ad esserlo, dalla parti in conflitto per legittimare le proprie azioni, ne consegue che chi non intende schierarsi per uno dei contendenti, militare per una della parti in causa, vede con grande diffidenza l’uso della storia e pensa che in essa non si possano trovare le verità che le opposte propagande proclamano di possedere e su cui intendono inchiodare il nemico. Senonché tale prudenza, più che giustificata, non prelude ad un esercizio critico e ad una selezione dei dati storici che paiono di maggior peso per comprendere la situazione e le sue dinamiche; tutto ciò è considerato fuori dalla portata della stessa opinione pubblica colta, tutt’al più disponibile a farsi formare dagli specialisti se hanno a disposizione i media attraverso cui arrivare a quella frazione di pubblico che dimostra interesse ad una storia che solo per i suoi esiti attuali sembra poterci toccare da vicino. Anche un tale percorso è ben poco praticato e al pubblico che vuol essere informato non resta che rivolgersi agli opinionisti che imperversano nella carta stampata oltre che alla radio e alla televisione. Il vantaggio è che essi propongono già pronte per l’uso quelle opinioni che altrimenti si dovrebbero formare attraverso un percorso faticoso di acquisizione di conoscenze. E del resto chi ha tanto tempo a disposizione per questa sorta di formazione permanente disinteressata? Forse i pensionati, ma visto come li considera la società produttiva, ciò confermerebbe la tesi dell’inutilità della storia. Viene così persa una notevole ed inedita opportunità di utilizzo della conoscenza storica, reso possibile dal crollo delle ideologie che fornivano gli schemi entro cui ingabbiare la realtà, mentre l’unica ad essere rimasta in campo in Occidente alimenta il consumo privato di opinioni preconfezionate che, nel caso specifico, convergono nell’imputare la causa alla disastrosa situazione balcanica alla storia e natura di popoli che non hanno ancora saputo approdare all’unica salvezza possibile: l’adozione del modello economico e politico occidentale.

Si ricade in tal modo nella propaganda e il cerchio si chiude. Spezzarlo non è impossibile, ma richiede preliminarmente di sottoporre a critica una argomentazione che finisce con l’essere complementare alla tesi della occidentalizzazione come unica via per uscire dal caos etnico, anche se si presenta alternativa ed antagonista in nome della differenza culturale. In questa ottica la storia non sarebbe solo inutile ma concretamente dannosa, infatti il disastro che si ripete nei Balcani non è altro che il prodotto della specificità della loro storia, è precisamente la storia di quelle popolazioni ad essere differente e a causare i massacri, le pulizie etniche, i tentativi di genocidio che abbiamo sotto gli occhi. Se ne deduce che o non hanno storia e vivono in uno stato di natura che si autoperpetua, oppure sono le vittime di una storia che va abolita.

L’insieme di queste posizioni, sommariamente evocate con numerose varianti e la sopravvivenza di retaggi nostalgico-ideologici, occupano gran parte della scena ma lasciano insoddisfatto un bisogno di conoscenza che non può essere agevolmente soppresso.

E’ senz’altro giusto affermare che determinati eventi storici sono stati mitizzati dal nazionalismo, ma è assurdo (o manipolatorio) ricondurre ad un mito il rapporto storico della Serbia, del popolo serbo, con il Kosovo. La battaglia del 28 giugno 1389 non è un’invenzione, essa segna tanto per i serbi quando per i turchi una svolta, l’inizio di una storia plurisecolare di dominio, sia pure in forme meno dure di quelle moderne, e di sottomissione, ma accettata. Tutta l’enorme – e ai nostri occhi un po’ assurda – elaborazione culturale, epica, mitologica stratificatasi nel tempo attorno alla celebre battaglia rimanda direttamente ad un evento storico che proietta nei secoli le sue conseguenze. 

Attraverso l’epica la memoria del passato diventa un mezzo per resistere alla storia del presente:

I canti eroici, nelle loro varie forme, hanno perpetuato il ricordo della grande battaglia per cinque secoli. E ciò permetteva alla popolazione di dimenticare la dolorosa realtà della schiavitù e di far balenare la speranza di una vendetta. Identificandosi con gli eroi epici che l’aiutarono a sostenere cinque secoli di occupazione, la gente del popolo poteva vivere una sorta di catarsi.

(O. Zirojevic, Il mito tribale del Kosovo in “Lettera Internazionale 1999, n.59/60, p.42; il titolo riflette il clima di guerra piuttosto che il contenuto dell’articolo, n.d.r.)

Il rapporto dei serbi con il passato, frutto di una tradizione culturale che viene ereditata e rielaborata dagli ideologi del nazionalismo, alimenta una concezione della storia diversa dal quella occidentale; il passato è un tutto unico, non è divisibile in una successione di epoche, ognuna contrassegnata da un proprio clima spirituale e artistico, dallo sviluppo economico e dal cambiamento politico; per troppo tempo la Serbia non ha potuto partecipare ad una tale storia, ne consegue che il passato ridotto ad unità – grazie al lavorio del nazionalismo – è tutto contemporaneamente presente e funge da fondamento dell’identità serba.

Nella percezione degli intellettuali nazionalisti ciò determina un baratro tra la Serbia e l’Occidente.

I nostri avi vivono di noi, e noi, da parte nostra, viviamo con tutta la nostra storia. Per gli abitanti delle Alpi e oltre, che nella storia hanno avuto solo un ruolo di turisti, ciò sembra follia. Nessun terreno d’intesa è possibile.

(Rajko Petrov Nogo, cit. da I. Colovic, La religione della nazione Serba, in “Lettera Internazionale”, 1999, n.59/60, p.40)

Soprattutto a causa del clima da guerra santa, vergognosamente alimentato anche da parte occidentale, il primo obiettivo è capire la specificità della cultura serba, il significato del suo rapporto con il passato – cercando di conoscerlo –, senza negare l’incidenza e i rischi di esiti nazionalisti disastrosi, ovvero pensando che sia necessario distruggerla con la forza militare ed economica, sostituendo un nuovo impero a quelli che per secoli hanno dominato i Balcani.

Note storiche

La Serbia medioevale sorge come stato dell’epoca di Stefano Nemanja, tra il XII e XIII secolo, nella regione della Raška parzialmente coincidente con l’attuale Kosovo. Culturalmente legata a Bisanzio, si espande verso sud approfittando della crisi dell’impero, e inserendosi abilmente nella politica orientale veneziana. Raggiunge la massima espansione alla metà del XIV secolo; Stefano Dušan, imperatore dei Serbi e dei Greci, mira al trono di Costantinopoli; con la sua morte improvvisa lo stato serbo entra in una fase di rapida dissoluzione. La pressione dei turchi si fa insostenibile; nel 1371, nella battaglia di Cernomjan, l’esercito serbo viene quasi distrutto; nel 1389, con la battaglia del Kosovo, la Serbia entra nell’orbita turca per restarvi sino alla seconda metà del XIX secolo.

L’Albania vanta origini illiriche; divisi da contrasti interni gli albanesi non riescono a darsi uno stato proprio; in seguito alla conquista turca la gran maggioranza della popolazione si converte all’islamismo. Ma l’eroe nazionale degli albanesi, Giorgio Castriota detto Skandenberg, è celebrato per aver guidato la rivolta nazionale antiturca del 1443-’48.

Con la conquista turca i serbi vengono spostati dall’antica Raška a nord verso il Danubio; lo spazio lasciato libero dai serbi viene occupato dagli albanesi, scesi dalla loro montagne verso la pianura del Kosovo.

Un’altra conseguenza importante della conquista turca fu che minoranze serbe vennero disperse all’interno di territori abitati in prevalenza da altre popolazioni. Si deve aggiungere che per tutta l’età moderna nella penisola balcanica continuarono i movimento migratori, anche attraverso il confine tra i due imperi ottomano e austriaco, determinando una notevole mescolanza tra gruppi etnici diversi. Non sempre la convivenza fu pacifica, ma è solo con l’insorgere del nazionalismo otto-novecentesco che si pongono le basi per conflitti insanabili. L’espansione dei turchi ottomani è suggellata dalla conquista di Costantinopoli (1453). Essa segna l’avvenuta successione rispetto a Bisanzio, i turchi si considerano i successori dell’Impero, dominatori del mondo.

Poco dopo l’altro impero dell’epoca, quello asburgico, eredita la corona d’Ungheria, allarga la sua sfera d’influenza alla Croazia. Per secoli gli slavi del sud, e l’area balcanica, furono variamente spartiti tra le due potenze imperiali; con i reiterati tentativi del terzo impero, quello russo, di inserirsi nel gioco facendo leva sull’ortodossia e il panslavismo.

La posizione dei serbi e degli albanesi nell’impero ottomano è radicalmente differente. Gli albanesi sono chiamati a difendere i confini dell’Impero, in poco tempo si convertono all’Islam e rimangono sudditi fedeli del sultano praticamente sino alla rivoluzione dei Giovani Turchi (propugnatori di una modernizzazione e nazionalizzazione dello Stato). La contrapposizione ed estraneità dei serbi all’impero ottomano fu invece crescente se non costante, al punto da segnarne profondamente l’identità. E’ una questione di grande rilievo storico, colta con acutezza da Svetozar Markovic, primo teorico del socialismo jugoslavo, nel suo notevole saggio La Serbia in Oriente (1872), da cui traiamo due passi significativi:

Quando i Turchi distrussero lo stato serbo e con esso anche quella corteccia superiore di civilizzazione che comprendeva la corte, la nobiltà, l’alto clero e i cittadini, rimase solo lo strato inferiore ma più vasto del popolo, i contadini, che non erano stati neppure sfiorati dalla civilizzazione serba veneto-bizantina del XIV secolo. Il popolo serbo nello stato turco era appunto costituito per intero dal contadino. I mercanti più ricchi e i principi del circondario vivevano nei villaggi. Nelle città vivevano solamente i cortigiani turchi e i gabellieri del popolo. Il vero popolo serbo se ne fuggiva quanto più lontano dalle città, nelle foreste e nelle gole dei monti. E’ questa la ragione per cui la vita popolare sotto il governo straniero rimase compatta e immutata nel corso di molti secoli. Quando cadde la signoria turca, il popolo serbo riprese appunto il proprio sviluppo interno lì dove si era arrestato cadendo sotto il potere turco.

Gli hajduci (briganti) erano dei rivoltosi contro lo stato, secondo i civili principii europei. Ma il popolo serbo li considerata come combattenti contro gli oppressori, come vendicatori della libertà e dei diritti umani calpestati, perché il popolo serbo considerava lo stato turco e il suo “ordinamento” come violenza su di sé […]. Gli hajduci attaccavano le case dei signori turchi, tendevano agguati ai mercanti del mare, e anche agli esattori imperiali. Evidentemente il popolo serbo non riconosceva ai suoi “concittadini” turchi – membri dello stesso Stato – alcun diritto di vivere sulla terra serba. Il popolo serbo si proponeva semplicemente di sterminare i Turchi. Ciò si dimostrò più tardi nelle insurrezioni serbe, durante le quali i Serbi uccidevano i Turchi che si arrendevano loro sulla fiducia. Nei confronti dei Turchi i Serbi avevano una concezione particolare del diritto e della morale. Sembrava non rimordere loro affatto la “coscienza” quando compivano le azioni più efferate, secondo le nostre concezioni moderne, solo per vendicarsi della violenza che i Turchi per secoli avevano recato loro. Ruberie, rapire, assassinii, solo che fossero compiuti in guerra, erano considerate azioni assolutamente morali.

(S. Markovic, Il socialismo nei Balcani,Guaraldi, Rimini, 1975, pp.74 e 86-97)

La rappresentazione di Markovic, pur essendo egli un socialista internazionalista, risente dell’influsso del nazionalismo e ne testimonia la pervasività. La contrapposizione dei serbi ai turchi non fu storicamente totale e assoluta. Nei decenni successivi alla battaglia del Kosovo, che segnò una svolta ma non la cesura totale poi introiettata da parte serba, vi furono tentativi di fare della Serbia una alleata dell’impero con margini di autonomia, da parte di correnti turcofile presenti nella nobiltà e nel popolo. Quando la Serbia, al tempo di Maometto II, perde ogni indipendenza, il suo inglobamento nell’impero avviene in modo pacifico e i turchi si dimostrano tolleranti. Il clima muta nella seconda metà del Cinquecento, anche per effetto di pressioni esterne sia d’ordine politico che religioso; inizia il lento declino dell’impero ottomano, incalzato dalle potenze cristiane che fanno leva sulla ribellione degli slavi del sud. Ancora alla fine del Settecento il sultano Selim III cerca di riconquistare la fiducia dei suoi sudditi serbi, al punto che la grande insurrezione di poco successiva non è diretta contro la Santa Porta bensì contro le violenze dei giannizzeri, sfuggiti al controllo imperiale.

I serbi danno inizio alla lotta aperta per l’indipendenza nazionale nel 1804, in sintonia con il “risveglio delle nazionalità” per effetto della rivoluzione francese. La rivolta inizia nel pascialato di Belgrado e si estende alla Bosnia, alla Krajina bosniaca, e a tutte le terre ottomane abitate dai serbi. Questi chiedono inutilmente aiuto a Napoleone, che nel 1810 aveva creato le Province Illiriche (Slovenia, Istria, Croazia, Dalmazia). I turchi reprimono duramente la rivolta ma nel 1830 sono costretti a concedere l’autonomia al principato serbo, rispetto a cui l’impero russo si propone come protettore, con un evidente disegno geopolitico motivato da ragioni ideali.

Il principato serbo (alternativamente sotto la guida degli Obrenovic e dei Karadjordjevic) è considerato il nucleo fondatore della Serbia moderna.

Territorialmente, tuttavia, esso era eccentrico rispetto allo stato serbo medievale, che aveva avuto il suo centro tra Pec, Ras e Pristina, nelle terre convenzionalmente denominate “Vecchia Serbia“ e che restavano sotto il governo ottomano come sangiaccato di Novi Pazar e vilayet del Cossovo. Proprio per la sua ridotta estensione territoriale, il principato serbo ospitava molti meno serbi di quanti vivessero nelle terre ottoname e asburgiche.

(M. Guidetti, Sguardo sulla storia jugoslava XIX-XX secolo, 1999, pre-print, p.7)

Le rivoluzioni del 1848-’49 non portarono alcun miglioramento alla situazione degli slavi del sud, mentre all’interno del movimento operaio cominciava a determinarsi una frattura che si sarebbe poi radicalizzata: Proudhon e altri vedono con favore i movimenti di indipendenza nazionale nei Balcani, Marx e Engels sono invece decisamente contrari perché li considerano manovrati, in nome del panslavismo, dalla massima potenza reazionaria dell’epoca: la Russia zarista.

Ovviamente l’invito dei padri del socialismo scientifico di aspettare la liberazione dalla rivoluzione proletaria non viene raccolto e presso i serbi e gli altri slavi del sud prende piede il nazionalismo, con l’accentuazione e la politicizzazione delle reciproche differenze. E’ in quest’epoca che cominciano ad essere formulati i miti della Grande Serbia, Grande Croazia, Grande Bulgaria, ecc… Secondo un importante intellettuale della Serbia semindipendente della prima metà dell’800, Vuk Karadžic, solo i serbi erano una nazione, gli altri slavi del sud, cattolici o musulmani, erano semplicemente dei raggruppamenti regionali destinati ad essere assorbiti nella creazione dello Stato-nazione serbo (“serbi, tutti e dappertutto”), così come storicamente era avvenuto nel caso francese e come stava accadendo per l’Italia e la Germania.

Svetor Markovic considera il progetto “grande serbo” una conseguenza della politica di potenza e delle tendenze assolutistiche della monarchia. 

Non appena questa riuscì a consolidarsi – negli anni Sessanta le ultime truppe turche abbandonano la Serbia – l’idea dell’unificazione della Bosnia ed Erzegovina cominciò a diffondersi in Serbia e presso il popolo di quelle regioni. Era, questo, il principio della politica nota sotto il nome di “Grande Serbia”. L’idea politica di fondare una grande Serbia, cioè fare dell’odierno principato serbo un grande stato semi-indipendente, impadronendosi semplicemente delle terre serbe confinanti, corrispondeva in pieno alla politica interna della Serbia tendente a consolidare nel paese il regime assoluto e la dinastia degli Obrenovic. La stessa politica perseguirono i governanti di Sardegna e Prussia quando sulla loro bandiera misero la “grande Sardegna” e la “grande Prussia”.

(S. Markovic, op.cit, p.165)

Parallelamente e in contrapposizione alle tendenze egemoniche serbe si sviluppa il nazionalismo presso gli altri popoli balcanici. In particolare i croati si contrappongono ai serbi e come questi ultimi, ovvero gli albanesi, i bulgari e i greci immaginano su pretese basi storiche un loro Stato dai confini ingigantiti: “Non dalla Drava al mare ma dalle Alpi di Salisburgo fino al Cossovo e all’Albania”, così si esprimeva nel 1869 EugenKvaternik, fondatore dell’ultranazionalista Partito croato del Diritto.

Il nascente socialismo balcanico coglie la forza di penetrazione e il pericolo del nazionalismo, proponendo un’alternativa rivoluzionaria, in nome della lotta comune contro l’impero ottomano, di cui oggi, con la conclusione catastrofica del ciclo nazionalistico, si può certificare tanto il fallimento storico quanto la perdurante attualità utopica:

La penisola balcanica è un mosaico di popoli diversi. I più numerosi sono i Bulgari, poi vengono i Serbi [i quali, come si vede, anche per Markovic riassumono in sé tutti gli slavi del sud, n.d.r.] e i Greci quasi alla pari, quindi i Turchi gli Arnauti (Albanesi) e i Rumeni. Quale di questi popoli acconsentirebbe ad “annettersi” alla monarchia serba? E poniamo che la monarchia serba acquisti nel suo stato anche gli altri serbi che vivono nell’Austria-Ungheria: anche così sarebbe solo un piccolo reame di 5 milioni! Può forse un tale stato annettersi più di 10 milioni di persone di altre nazionalità? […] Vale la pena che il popolo serbo si batta per tale assurdità solo perché a certi statisti serbi è venuta voglia di scimmiottare Cavour e Bismarck? No! No! La Serbia non va sacrificata all’interesse di una famiglia, o meglio agli interessi di pochi avidi di potere. Al popolo serbo non si offre altra via d’uscita se non la rivoluzione nella penisola balcanica, una rivoluzione destinata a concludersi con l’annientamento di tutti gli stati che oggi impediscono a tali popoli di unirsi come uomini liberi e lavoratori di pari diritti, come lega di comuni, circoscrizioni, stati, come sia loro più conveniente.

(S. Markovic, op.cit., pp.170-71)

Nel 1875 i contadini serbi della Bosnia e Erzegovina insorgono e la Serbia dichiara guerra contro l’impero turco ricevendo l‘appoggio indiretto della Russia; la Turchia per ottenere la neutralità dell’Austria le cede la Bosnia. Nel 1877 la Russia entra in guerra contro la Turchia con l’obiettivo (poi ricorrente) di creare un forte stato bulgaro suo alleato e testa di ponte nei Balcani. Il conflitto è risolto dal Congresso di Berlino (1878), sotto la regia di Bismarck. Il principato serbo viene elevato a regno indipendente ottenendo solo modesti ampliamenti territoriali; la Bosnia Erzegovina passa sotto l’amministrazione dell’Austria-Ungheria, che per piegare la resistenza dei bosniaci vi impone la legge marziale. L’impero austriaco fomenta il nascente nazionalismo albanese – Lega Albanese di Prizren, 1878 – in funzione antiserba:

un movimento migratorio incrociato fece abbandonare a gruppi albanesi le terre recentemente annesse al Regno serbo e a numerosi gruppi serbi le terre del vilayetdel Kossovo, dove la presenza albanese si rinforzò a discapito tanto dei serbi quanto dei turchi.

( M. Guidetti, op. cit., p. 14)

Ma è soprattutto il passaggio della Bosnia Erzegovina sotto il controllo dell’impero austriaco, che finirà con l’annettersela nel 1908, a costituire nell’ottica serba un casus belli capace di infiammare i Balcani.

Non riunire la Bosnia-Erzegovina alla Serbia o al Montenegro (…) ma consegnarlaall’Austria-Ungheria significa creare un equilibrio instabile, una situazione infernaleche non dà riposo né al conquistatore né ai paesi i cui diritti sono sacrificati e controi quali tutte le forze vive di un popolo saranno in uno stato di rivolta permanente.

(J. Cvijc, L’annexion de la Bosnia et la question serbe, Hachette, Paris, 1909, p. 18,cit. da M. Korinman, L’Austria, la Germaina e gli slavi del sud, in “Limes”, 1993 n. 1 – 2, p. 80)

Gli avvenimenti del 1875-1878 portano la guerra balcanica all’attenzione internazionale e sono l’occasione per una forte spaccatura nella sinistra dell’epoca: il movimento rivoluzionario russo, gli anarchici, i democratici e i repubblicani sono schierati in maggioranza a favore dei movimenti di indipendenza e per la lotta di liberazione dei popoli della penisola balcanica (nuclei di garibaldini italiani combattono a fianco dei serbi). Marx ed Engels, riprendendo la loro polemica con Herzen e Bakunin, sono decisamente ostili. La loro posizione, che li ha esposti all’accusa di essere filo-turchi, 

discende dalla netta subordinazione dell’indipendenza nazionale, che non considerano un fine in sé, agli interessi della rivoluzione proletaria. La lotta per l’indipendenza nazionale può essere strumentalizzata dagli Stati che incarnano la controrivoluzione, in particolare dalla Russia che utilizza a tal fine il panslavismo.

Già nel 1852 Engels aveva definito il panslavismo un movimento antistorico ed assurdo, un

movimento che tendeva nientemeno che a soggiogare l’occidente civilizzato all’oriente barbaro, la città alla campagna, il commercio, l’industria, l’intelligenza all’agricoltura primitiva dei servi slavi. Ma dietro a questa teoria assurda stava laterribile realtàdell’impero russo: questo impero che con ognuno dei suoi movimenti manifesta la sua pretesa di considerare tutta l’Europa come il dominio della razza slava.

(K. Marx-F. Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, Rinascita, Roma 1949, p. 72)

Negli anni Settanta e Ottanta, l’ostilità ai moti dei “popoli senza storia” è aggravata dalla previsione sempre più netta di una guerra mondiale, rispetto a cui i conflitti tra le piccole nazionalità slave costituiscono il focolaio più pericoloso presente in Europa. Scrivendo a Eduard Bernstein, Engels ribadisce:

Noi daremo il nostro appoggio agli slavi del sud finché si opporranno alla Russia, perché in questo caso marceranno con il movimento rivoluzionario europeo.

Ma

se una guerra mondiale, che ci rovinerà tutta la nostra situazione rivoluzionaria, minaccia di scoppiare in seguito al (loro) sollevamento, essi dovranno essere sacrificati senza pietà agli interessi del proletariato.

(K. Marx – F. Engels, Ecritsmilitaires, l’Herne, Paris, 1970, pp. 443 e 495)

Engels è convinto che la Russia sia intenzionata a sfruttare le lotte per l’indipendenza degli slavi del sud, e in particolare l’aspirazione dei serbi ad una Grande Serbia, sino a provocare

una guerra mondiale di una portata e di una violenza inimmaginabile fino a oggi. Saranno massacrati da otto o dieci milioni di soldati, e questi combattimenti spoglierannol’Europa più a fondo di quanto non l’abbia mai spogliata un’invasione di cavallette.La desolazione della guerra dei Trent’anni si riprodurrebbe, ma concentrata nello spaziodi tre o quattro anni e estesa all’intero continente.

(K. Marx – F. Engels, op. cit., p. 611)

Lo sguardo d’aquila e lo spregiudicato realismo politico non impedirono a Marx ed Engels di essere accantonati sulla questione cruciale delle nazionalità, e ciò ben prima che lo scatenarsi degli opposti sciovinismi rendesse possibile il grande massacro della Prima guerra mondiale. 

In Austria la social-democrazia con il programma di Brno (1899) pone al primo posto la lotta per l’indipendenza e la libertà delle nazionalità dell’impero, in Russia Lenin propugna la parola d’ordine dell’autodeterminazione sia come tappa democratica necessaria sul cammino della rivoluzione che come strumento di agitazione per disgregare l’impero zarista.

Nel 1909 un cruento colpo di stato militare segna una svolta nella storia serba: gli Obrenovic vengono eliminati e il progetto della Grande Serbia è trasformato da mito propagandistico in programma politico da Nikola Pašic, in gioventù seguace di Bakunin, a capo del governo serbo dal 1903 al 1918, principale protagonista delle due guerre balcaniche che fecero da prologo alla guerra mondiale. Contando sull’appoggio della Russia, Pašic giostra contro i due imperi che da secoli dominano nei Balcani. La più aggressiva è l’Austria-Ungheria che impone un embargo all’esportazione dei prodotti serbi verso l’Europa e si annette la Bosnia-Erzegovina (dove si sviluppa il movimento irredentista di impronta mazziniana “Giovane Bosnia”, con diramazioni terroristiche). 

Ma in un primo tempo la Serbia si muove contro il più debole impero ottomano, sulla base di alleanze con la Bulgaria, la Grecia, il Montenegro. Il 18 ottobre 1912 gli eserciti degli alleati entrano in territorio ottomano; nell’inverno 1912-’13 la Serbia conquista il Kosovo. Il conflitto segna il ritiro dell’impero ottomano dall’Europa ed è regolato dalla conferenza di Londra che, tra le altre cose, sancisce l’indipendenza dell’Albania, sottraendola alle mire espansionistiche della Serbia. Questa cerca una compensazione in Macedonia, determinando la reazione e l’attacco della Bulgaria ( giugno 1913, Seconda guerra balcanica). L’asse serbo – greco, con un ampio supporto internazionale, riesce ad imporsi e la Serbia ottiene il Kosovo, la Macedonia settentrionale, il sangiaccato di Novi Pazar ( spartito col Montenegro).

La creazione di uno stato albanese, voluto da Austria e Italia in funzione antiserba, non significò la riunificazione di tutti gli albanesi; essi da allora sino ad oggi continuarono a vivere in maggioranza fuori dai confini dell’Albania ma in territori contermini e principalmente in Kosovo e Macedonia, oltre che in Serbia e Montenegro (a parte gli emigrati insediatisi fuori dai Balcani, tra cui la forte colonia statunitense).

La riconquista della “Vecchia Serbia” determina un’esplosione di nazionalismo, entusiastici appelli intellettuali all’opera di riserbizzazione, una pressione molto dura contro gli abitanti di origine albanese, con assassinii e spoliazioni a favore dei “liberatori serbi”. Il clima è reso efficacemente da un episodio simbolico: nel corso della Prima guerra balcanica, il comandante dell’esercito serbo, principe Alessandro ( il futuro re Alessandro) dopo aver sconfitto gli ottomani si reca nella chiesa del Patriarcato di Pec ad accendere la candela gigante lì conservata per cinque secoli secondo il voto della vedova del principe Lazar, capo dell’esercito serbo sconfitto dai turchi nella battaglia di Kosovo Polje (1389).

Si debbono così fare i conti con la forza di tradizioni storiche che alimentano miti politici. C’è una sorta di inversione, dato che è la storia che diventa mito e permette l’invenzione di missioni per il futuro sotto il segno di un lontano passato. Bisogna però resistere alla tentazione di spiegare il tutto in termini di insuperabili retaggi ancestrali, vale a dire cadendo nel naturalismo e nel razzismo (com’è puntualmente avvenuto in occasione della “guerra” tra la Nato e la Serbia). E’ possibile trovare una spiegazione razionale che fa leva sulle peculiarità della vicenda storica dei popoli jugoslavi. Iniziando la loro nuova vita nazionale in opposizione al multi-secolare dominio turco, questi popoli partivano politicamente da zero. Il loro capitale spirituale, il loro modello programmatico, erano rappresentati soltanto dalla loro tradizione, dalla storia dei loro Stati prima del dominio turco e dai ricordi delle loro lotte contro l’invasione turca. La loro lotta per il presente e il futuro si svolgeva sotto il segno del passato. (Cfr. per tale interpretazione: A. Ciliga, il labirinto jugoslavo. Passato e futuro delle nazioni balcaniche, Jaca Book, Milano, 1983, p. 203).

Nel progetto di costruzione della Grande Serbia (dal Danubio a Salonicco, dall’Adriatico a Sofia, secondo il modello dell’impero di Stefano Dušan, 1331 – 1355) emerge una divergenza tra Pašic, favorevole a tempi più lunghi, e la sinistra democratica che vuole affrettare lo scontro con l’Austria. L’attentato di GavriloPrincip, serbo bosniaco della “Giovane Bosnia”, causa un ultimatum da parte di Vienna, di cui Belgrado respinge la clausola che concedeva alla polizia imperiale di svolgere liberamente indagini in territorio serbo. La guerra sino alla svolta del 1918 vede l’occupazione militare della Serbia da parte dell’esercito austro-ungarico.

Nel 1915 i rappresentanti degli slavi asburgici in esilio danno vita al Comitato Jugoslavo, presieduto da Ante Trumbic. Tra le forze politiche dell’emigrazione si fronteggiano due tendenze, quella federalista e quella centralista, propugnata da Pašic. Alla fine si affermò una soluzione di compromesso con prevalenza serba. A Belgrado il 1° dicembre 1918 viene proclamata l’unificazione degli slavi del sud nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni; il 28 giugno 1921, anniversario della battaglia del Kosovo, è adottata la Costituzione del nuovo Regno (dopo che il Montenegro venne unito non senza contrasti alla Serbia). La costituzione è di impronta centralista e prevede che il territorio dello Stato sia diviso in distretti che non tengono conto delle regioni storiche e che vengono definiti in modo da facilitare ovunque possibile il formarsi di maggioranze serbe.

La questione delle nazionalità, correlata all’egemonia serba, fu al centro dei conflitti che segnarono l’esistenza della prima Jugoslavia. Un ruolo importante lo ebbe il forte Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) che nelle elezioni per la Costituente risulta terzo partito del Regno; il governo si affretta a metterlo fuori legge. Le posizioni dei comunisti jugoslavi debbono tener conto delle tesi di Lenin, che nel 1918 si era pronunciato a favore di una federazione socialista danubiana. Il Komintern era decisamente ostile al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, considerato uno strumento dell’imperialismo. Significativamente nel 1920, il Comitato del Kosovo, portavoce degli albanesi, aderisce all’Internazionale con l’obiettivo di riunificazione all’Albania attraverso l’autodeterminazione.

Nei primi anni e sino al 1923, il partito comunista jugoslavo, per influsso di Sima Markovic, propende per il centralismo. Su pressione di Mosca la linea viene cambiata a favore dell’autodeterminazione. Si tenga conto che secondo il famoso Memorandum dell’Accademia serba delle scienze e delle arti (1986), una sorta di piattaforma ideologica della politica di Slobodan Miloševic, le disgrazie della Serbia in questo secolo hanno le loro radici “nell’ideologia del Komintern e nella politica nazionale del Partito comunista della Jugoslavia nel periodo prebellico”.

La tesi degli accademici serbi degli anni Ottanta è che il Komintern aveva tradito l’internazionalismo, dando spazio alle rivendicazioni nazionali, e che tale impostazione ha definitivamente inficiato l’azione del comunismo jugoslavo dalle origini in poi (cfr. “Limes”, 1993, n. 1-2, pp. 233 e sgg.).

Nel 1924 il Komintern riconosce il diritto alla secessione di Slovenia, Croazia e Macedonia. Nel 1928, al Congresso di Dresda del PCJ viene proclamato l’obiettivo della distruzione del Regno: “la Jugoslavia dell’egemonia serba è la prigione dei popoli non serbi”.

Il delegato del Komintern, Togliatti, riconosce ai montenegrini la dignità di nazione. I comunisti jugoslavi sono spinti a cercare la collaborazione di tutti i “gruppi rivoluzionari nazionali” compresi gli ustascia.

A metà degli anni Trenta Stalin propone ai comunisti jugoslavi di adottare come programma non solo l’abbattimento del regime egemonico serbo, ma la rifondazione della Jugoslavia sulla base di otto unità nazionali (inclusi Kosovo e Vojvodina). Posizione adottata nel giugno del 1936 dal Plenum del CC del partito comunista. Ma con lo sviluppo della politica dei Fronti popolari la posizione di Mosca cambia radicalmente sino alla parola d’ordine della “difesa della Jugoslavia” – così com’era – contro le potenze fasciste.

Era più lineare e si svolgeva alla luce del sole l’azione della principale forza di opposizione nel Regno di Alessandro I, il Partito Contadino croato capeggiato da Stjepan Radic, che propugnava la creazione di una confederazione jugoslava sulla base di una pluralità di stati nazionali.

Quando Radic divenne il punto di riferimento delle opposizioni, un deputato montenegrino filo serbo lo assassinò in Parlamento (20 giugno 1928). Poco dopo re Alessandro assunse i pieni poteri, sciogliendo il Parlamento e sospendendo la Costituzione: le appartenenze nazionali vengono abolite, l’unica nazionalità è quella jugoslava. Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni diventa Regno di Jugoslavia.

Questi avvenimenti danno impulso ad una opposizione radicale di destra, sostenuta dall’Italia fascista che è favorevole alla distruzione della Jugoslavia per le proprie mire espansionistiche.

Gli ustascia, guidati da Ante Pavelic, adottano su larga scala il terrorismo e nel 1934 riescono ad assassinare il re.

Per frenare la spinta separatista croata il governo di Belgrado è costretto ad accordare una ampia autonomia alla banovina di Croazia (1939) ma ormai mancano pochi giorni allo scoppio della seconda guerra mondiale. L’esito disastroso della mussoliniana campagna di Grecia induce Hitler all’intervento: il reggente principe Paolo accetta di aderire al Patto tripartito e di lasciare passare le truppe tedesche. Il PCJ si allinea (effetti del patto Molotov – Ribbentrop), ma un colpo di Stato, sostenuto dagli inglesi, consente la formazione di un governo di unità nazionale antihitleriano.

Djilas e Tito rompono gli indugi e portano i comunisti jugoslavi su posizioni di resistenza. Il 16 aprile 1941, senza alcuna dichiarazione di guerra, Belgrado viene bombardata e la Jugoslavia invasa da tedeschi, italiani, ungheresi.

Gli ustascia trionfano mentre i serbi sono in prima linea nella lotta contro gli invasori. Dagli eventi del periodo bellico non emerge solo la seconda Jugoslavia creata da Tito, affondano in quegli anni le radici di problemi attuali e il conflitto tra due prospettive di fondo: da un lato quella jugoslava di cui si fa interprete il partito comunista, sino ad una identificazione che si rivelerà fatale, dall’altro quella nazionalista che non riesce a resistere alla tentazione del separatismo o dell’egemonia: esemplare il caso croato. La Grande Croazia non è solo un mito che affonda nell’Alto Medioevo, essa venne effettivamente creata dal Terzo Reich, sia pure come Stato satellite, dopo che l’Italia fascista aveva dato ogni appoggio ai suoi paladini.

Con il riassetto conseguente all’invasione tedesca la Croazia di Ante Pavelic si estende per più di centomila chilometri, mentre la Serbia, sotto diretta amministrazione militare della Germania, è ridotta a poca cosa e i serbi, a partire ovviamente da quelli di religione ebraica, sono sottoposti, assieme agli zingari, ad un genocidio pianificato e parzialmente attuato.

L’uso inflazionato, improprio, metaforico di tale termine non deve impedire di individuarne la prima concreta manifestazione, per quanto riguarda l’area balcanica, nel progetto di sterminio dell’NDH di Pavelic: serbi ed ebrei, comunisti e zingari vengono eliminati su grande scala in stile nazista, cercando di emulare il grande alleato che in pochissimo tempo aveva ripulito la Serbia di ogni presenza ebraica. I serbi, in particolare i cetnici, massacrano a loro volta i croati; la sproporzione non deriva dalle intenzioni ma dai mezzi disponibili. E’ comunque nel contesto della guerra e della modernità contemporanea che il nazionalismo raggiunge punte parossistiche, diventa razzismo e si abbandona a pratiche genocidarie.

La politica di Tito è dura e spregiudicata, ma innegabilmente orientata in senso progressivo, non l’eliminazione reciproca, ma solo la cooperazione dei diversi popoli jugoslavi avrebbe consentito la vittoria contro nemici potenti e amici pericolosi. Tra questi ultimi Stalin abituato a decidere la politica dei partiti fratelli. In rapida successione aveva prima bloccato la lotta dei comunisti contro la Jugoslavia dell’egemonia serba, sperando di dividerla dalla Germania che la stava inglobando nel proprio sistema geoeconomico (prodotti agricoli in cambio di beni industriali), poi, alla vigilia dell’operazione Barbarossa, aveva cercato di stabilire relazioni diplomatiche con la Croazia di Pavelic, infine scelto di puntare sulla Bulgaria per imporre l’egemonia sovietica nei Balcani. Nel 1944 con l’arrivo dell’Armata Rossa Stalin spinge per una federazione unitaria tra Jugoslavia e Bulgaria con la prevalenza di quest’ultima.

Tito, che è riuscito a stabilire un buon rapporto con l’Inghilterra di Churchill, non è disposto ad accettare la strategia staliniana e, grazie alla forza del movimento partigiano, riesce a rivendicare l’indipendenza della Jugoslavia, sottraendola anche alla progettata divisione al 50% tra Alleati e sovietici.

La rottura del 1948 tra Belgrado e Mosca sancì un percorso autonomo, segnando la prima grande divisione del movimento e sistema comunista internazionale. Una tappa significativa di tale percorso fu la destituzione, nel 1944, di AndrijaHebrang da segretario del partito comunista della Crozia, preludio delle purghe che colpirono i comunisti e il movimento partigiano croato dopo la fine della guerra, nel clima della caccia agli “ustascia”. La repressione di questi ultimi, e non solo, fu di dimensioni impressionanti – ben al di là delle “foibe” su cui molto si è insistito in Italia – con l’eliminazione di molte migliaia di croati a Bleiburg e di serbi e sloveni a Kocevje (cfr. A. Ciliga, op. cit., p. 181).

Si può dire che i principali nodi irrisolti della Jugoslavia di Tito furono quelli della Croazia e del Kosovo; è in tali aree che si manifestano le tensioni principali, le crisi più pericolose. Per quel che riguarda la Croazia ciò è dipeso dalla oggettiva difficoltà nel trovare un giusto equilibrio tra la Serbia, attorno a cui è stata costruita anche la seconda Jugoslavia, e l’unica repubblica ad essa paragonabile per importanza. Di volta in volta i serbi o i croati si sono sentiti sminuiti dalla politica di Tito. Quanto al Kosovo la difficoltà principale è stata di ordine culturale, prepolitico, dato che la popolazione albanese non poteva trovare nello jugoslavismo un terreno comune. In entrambe le situazioni un ruolo cruciale lo hanno avuto le minoranze serbe nelle diverse repubbliche e territori, a cui lo stesso Tito assegnava un ruolo strategico nella gestione e mantenimento della sua complessa costruzione politico-statale.

Non è possibile seguire in questa sede vicende culminate nella dichiarazione di indipendenza della Croazia nel 1991 e nei successivi sanguinosi conflitti. Ritorniamo invece alla questione del Kosovo e dell’Albania, entità che avevano ricevuto una prima definizione per effetto delle guerre balcaniche.

Dopo la I guerra mondiale vengono confermati i confini del 1913, scontentando il nazionalismo albanese che considera Prizren, in Kosovo, la sua patria di origine. Per alcuni anni si sviluppa la guerriglia dei kosovari albanesi, ma il periodo tra le due guerre è contrasse­gnato dalla spinta colonizzatrice serba (insediamento di 60 mila coloni serbi e montenegrini) e da un aumento della componente serba della popolazione che passa dal 21% del 1921 al 34% del 1939. Tale tendenza è considerata insufficiente dai nazionalisti serbi, così l’influente accademico Vaso Cubrilovic proponeL’allontanamento degli albanesi (con­ferenza del 1937) con l’adozione siste­matica del terrorismo di Stato. Si tratta di elucubrazioni prive di riscontri, al­meno sino a tempi recenti, ma da tener presenti per mettere a fuoco il ruolo ne­fasto degli intellettuali nell’aizzare l’odio tra le nazionalità.

Anche sul versante albanese-kosovaro la II guerra mondiale segnò una accelerazione prefigurando scenari che sarebbero tornati attuali con il crollo del sistema bipolare. Abbiamo ricor­dato il caso della Croazia di Pavelic, lo stesso vale per l’Albania. Il preceden­te storico della Grande Albania, che og­gi alimenta l’immaginario delle frange ultranazionaliste kosovare, è stato un prodotto dell’Italia fascista che, dopo l’annessione del 1939 e la guerra alla Grecia e alla Jugoslavia, unì all’Alba­nia le altre regioni balcaniche con presenza albanese, in particolare il Kosovo. Il capo del governo “collaborazio­nista” albanese, MustafaKruja, si fece prontamente propugnatore della cacciata dei serbi, mentre i kosovari accolsero le truppe dell’Asse come forze di liberazione.

Da parte loro i nazisti formarono la SS-Divisione Skanderberg, composta da volontari albanesi, che prese di mira i serbi del Kosovo in nome dell’eroi­co e leggendario eroe della resistenza contro i turchi nel XV secolo (senza trop­po badare all’incongruenza di una tale associazione). In ogni caso è sbagliato sostenere che gli albanesi (o i croati) fu­rono in massa collaborazionisti e filo­fascisti. Anche in Albania ci fu un mo­vimento partigiano articolato in due cor­renti, una nazionalista ed una comuni­sta. Seguendo la linea consolidata del Komintern e del PC jugoslavo che pre­vedeva il diritto di autodeterminazione, i comunisti albanesi cercarono un se­guito nel Kosovo e nella Metohija in ba­se a tale parola d’ordine che implicava una revisione dei confini esistenti tra Ju­goslavia e Albania prima del 1939, ma

i comunisti jugoslavi, timorosi di alie­narsi le simpatie del nazionalismo serbo, re­spinsero la parte della risoluzione (di Bujan) per quel che riguardava la ridefinizione dei confini. E i comunisti albanesi di EnverHoxha dovettero chinare il capo. Non lo chi­narono i nazionalisti di Balli i Kombetar, che tra il 1944 e il 1948, raccogliendo ampie adesioni tra gli ex collaborazionisti, ma anche tra i contadini impauriti dal ritorno dei coloni serbi, impegnarono in una lunga e san­guinosa guerriglia l’esercito jugoslavo.

(A. Pitassio, I Balcani visti dall’Albania, in «Limes», 1993, n. 1-2, p. 53)

Le mire della seconda Jugoslavia sull’Albania si manifestarono con l’in­vio di una divisione sotto forma di “aiu­to fraterno”. Stalin intervenne e costrinse Tito a ritirare le sue truppe. L’Albania di Hoxa è indipendente e Mosca pur di attirarla dalla propria parte non manca di mandare segnali a favore di una pos­sibile nuova unificazione del Kosovo con l’Albania.

Nel 1946 Tito modifica i confini del Kosovo: una parte del territorio va alla Serbia, alla Macedonia ed al Montenegro. È una misura per alleggerire la pres­sione albanese, secondo un complesso ed abile gioco del divide et impera di fronte al carattere esplosivo delle ten­sioni nazionali in Jugoslavia. In ogni ca­so la decisione più importante è quella di non riconoscere al Kosovo lo statuto di Repubblica, cercando un difficile equilibrio tra le “ragioni storiche” del­la Serbia e il dato di fatto della preva­lenza numerica degli albanesi, consoli­data ormai da secoli nonostante i tenta­tivi di riserbizzazione successivi alla “ri­conquista” del 1913. È necessario ri­cordare che le suddette “ragioni storiche” non sono riconducibili solo o prin­cipalmente all’esistenza di un regno e impero serbo medievale, bensì alla pre­senza in Kosovo dei centri principali della chiesa ortodossa serba (autocefa­la dal XIII secolo) e alla consistenza di uno straordinario patrimonio storico-ar­tistico di rilievo mondiale.

Nondimeno, molto più che nel caso della Vojvodina, l’annessione della Re­gione Autonoma del Kosovo alla Ser­bia si scontrava con i dati demografici considerata la netta prevalenza degli albanesi. In un primo momento, per sot­tolineare il distacco dall’Albania, ven­ne inventata una nazione a parte, quel­la degli “Šiptari”, nome con cui venne­ro classificati nel censimento del 1948 (risultati: albanesi-Šiptari, 68,5%, serbi, 23,6%).

Il periodo 1948-1966, inizialmente segnato dalla condanna del Cominform contro Tito, vede il Kosovo interessato da una politica di modernizzazione re­pressiva. I piccoli gruppi clandestini di opposizione vengono liquidati dalla po­lizia politica capeggiata da Aleksander Rankovic. La politica di Rankovic, rinfo­colando il conflitto tra le due etnie, mi­se in difficoltà gli stessi serbi del Ko­sovo, spingendoli a trasferirsi in Serbia, ciò, assieme alla minore natalità, fu la causa della diminuzione della loro pre­senza nella regione (al censimento del 1971 è del 18,5%).

Dopo la caduta di Rankovic (1966) Tito fu prodigo di concessioni verso la popolazione albanese; è di questo pe­riodo il rapido sviluppo dell’Università di Priština, una delle rivendicazioni prin­cipali dell’ondata di manifestazioni che interessarono il Kosovo e le zone alba­nesi della Macedonia verso la fine del 1968. Comincia ad essere posta la que­stione dell’autodeterminazione, pur nell’ambito della Jugoslavia. Solo grup­pi sparuti propongono l’unione con l'”Albania socialista” in nome del marxi­smo-leninismo. Il dissenso politico ma­nifesto viene represso ma Belgrado de­cide per una politica moderata e inno­vativa, culminante nella Costituzione del 1974 che assicura un’ampia auto­nomia al Kosovo, pur negandogli ancora lo statuto di Repubblica. La Jugo­slavia si configura come uno stato fe­derale, con un forte accento sulla ade­sione volontaria da parte delle singole repubbliche socialiste, quasi a prefigu­rare un futuro assetto confederale.

Parrebbe una possibile soluzione all’irrisolta questione nazionale che ha sempre aleggiato sulla seconda Jugo­slavia, pur essendo ufficialmente negata e ostracizzata. Gli eventi successivi al 1980 hanno dimostrato che il nazio­nalismo costituiva una minaccia morta­le e d’altra parte la costruzione messa in piedi da Tito era troppo legata al suo ruolo perché potesse essere perpetuata. Tito era perfettamente consapevole del­le difficoltà derivanti dalla complessa geografia politica della Jugoslavia e del­la necessità di controbilanciare spinte egemoniche e tentazioni centrifughe, alimentate anche dall’esterno. Per ra­gioni storiche e politiche l’intero edifi­cio si basava ancora sulla Serbia, come risultava evidente dal peso preponde­rante degli ufficiali serbi nelle forze ar­mate, in sostanziale continuità con la Jugoslavia tra le due guerre. L’accorgi­mento consistette piuttosto nel puntare sulle minoranze serbe presenti nelle di­verse regioni della Jugoslavia, rintuz­zando le mire egemoniche dei serbi del­la Serbia. In ogni caso la ricetta di Tito faceva perno sul monopolio politico del partito, secondo la sua icastica defini­zione: “La Jugoslavia ha sei repubbli­che, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo partito”. E però mentre era ancora vivo Tito all’interno stesso del partito, partendo dalla Croazia, si manifestarono spinte autonomiste e nazionaliste, che presero il sopravvento poco dopo la sua scom­parsa. La seconda Jugoslavia, nonostante il suo crollo catastrofico, non si può con­siderare una costruzione artificiale per­ché lo jugoslavismo, che rimanda a profondi legami culturali, è stata una componente di grande rilievo nella sto­ria degli slavi della penisola balcanica; oltre a ciò la guerra di liberazione partigiana, pur intrecciata alla guerra civi­le, ha avuto il peso che è noto a tutti. Nella visione di Tito, pessimistica e rea­listica, questi elementi non erano però sufficienti a tenere unito lo Stato, ed è per questo motivo che egli puntò sull’artificialismo politico del divide et impe­ra, nella forma di una dittatura perso­nale illuminata, rivelatasi senza futuro. La prima grave crisi del dopo Tito scoppia in Kosovo l’anno dopo la sua morte ed ha il suo epicentro nelle ma­nifestazioni dell’1 e 2 aprile 1981 all’Università di Priština. La richiesta principale è quella della trasformazio­ne della Provincia Autonoma in Re­pubblica Federale; la repressione fu violenta con decine o centinaia di morti, a seconda delle fonti. Di sicuro la situazione degli anni Ottanta è caratterizza­ta dalla radicalizzazione degli opposti nazionalismi. Per quanto riguarda in­vece i dati su omicidi ed altre violenze od atrocità sono sempre da prendere con molta prudenza, a causa delle campa­gne di disinformazione e manipolazio­ne orchestrate da tutte le parti diretta­mente o indirettamente implicate. Nel teatro balcanico, per il ruolo attribuito all’opinione pubblica interna e interna­zionale, il massacro della verità è stato uno degli obiettivi principali del con­flitto. Con la guerra civile, e infine con l’attacco della Nato alla federazione jugoslava di Miloševic, il pubblico da ma­nipolare si amplia ma la posta in gioco era alta da tempo: con la fine della Ju­goslavia di Tito si riaprivano i giochi per il controllo di un’area geopolitica di innegabile rilievo nei rapporti disegua­li tra occidente ed oriente, Nord e Sud.

Negli anni Ottanta l’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze po­litiche italiane per quel che accadeva in Jugoslavia era molto scarsa. Ma a chi seguiva lo scacchiere balcanico non sfuggì l’importanza periodizzante dei fatti di Priština:

Dopo un anno di immobilismo politico le raffiche di mitraglia che hanno represso nel sangue la protesta albanese del Kosovo hanno annunciato il vero inizio del “dopo Ti­to”. Quelle raffiche hanno anche significato la presenza di una situazione politica ed eco­nomica pericolosamente instabile che po­trebbe presto o tardi riproporre una “que­stione balcanica”.

(E. Pettain “Il Corriere della sera” del 4 maggio 1981)

Le rivendicazioni nazionaliste si in­trecciano con i differenziali di sviluppo economico e la spinta alla separazione viene potenziata dalle crescenti difficoltà economiche; le repubbliche relativamente più ricche non vogliono più pagare i con­ti del legame che li unisce agli altri po­poli jugoslavi. Nel momento cruciale del­la dissoluzione della Repubblica Socia­lista Federale di Jugoslavia, le politiche degli organismi monetari internazionali (Fondo monetario internazionale e Ban­ca mondiale) daranno il colpo mortale alle istituzioni federali jugoslave, apren­do la strada alla secessione di Slovenia e Croazia. Un tale esito aveva comunque le sue premesse nelle dinamiche interne venute alla luce nel dopo Tito.

Con la crisi dello Stato le tendenze nazionaliste riprendono vigore e di qui deriva la tendenza all’omogeneizzazio­ne etnica, in un primo tempo “sponta­nea” poi imposta con la forza:

negli anni Ottanta, i serbi della Bosnia e della Vojvodina come quelli del Kosovo si sono spostati in numero consistente verso la Serbia centrale e verso Belgrado, i Croati della Bosnia e della Vojvodina verso la Croa­zia e gli albanesi della Macedonia e del Montenegro verso il Kosovo.

(M. Kullashi, La fabbrica dell’odio. 1981-1990, in “Micromega”, 1999, n. 3, p. 123)

Un processo di aggregazione che è la spia di una paura crescente, del falli­mento dello jugoslavismo socialista, del­la tendenza regressiva a costruire stati etnici che confliggendo con la storia e la realtà attuale dei Balcani implicano l’apertura di conflitti interminabili.

Il nazionalismo non risparmia affat­to la Serbia, che vuole mantenere in pie­di la Federazione ma con un rilancio dell’egemonismo, distruggendo l’assetto della seconda Jugoslavia, ed incenti­vando le spinte centrifughe.

Nei primi anni Ottanta nella Lega dei Comunisti si afferma la corrente nazional-comunista di Dragoslav Markovic che si richiama esplicitamente all’ere­dità dei nazionalisti “cetnici” di Draza Mihailovic. Il Kosovo diventa lo stru­mento per chiamare a raccolta tutti i ser­bi, in nome di un neoegemonismo che non può essere contenuto nel quadro po­litico-istituzionale costruito da Tito, in funzione del suo potere personale e di un equilibrio instabile tra le diverse com­ponenti della seconda Jugoslavia.

Il nazionalismo serbo nel corso de­gli anni Ottanta, e in modo esplicito con l’ascesa al potere di Miloševic, persegue l’obiettivo di una piena integrazio­ne del Kosovo nella Serbia, sulla base di un “diritto storico” che confligge pla­tealmente con la composizione della popolazione che è ormai al 90% albanese. La propaganda antialbanese e le misu­re vessatorie determinano la radicalizzazione e il rafforzamento dei naziona­listi albanesi, con esperienze di contro­società autonoma e parallela; sul piano politico la parola d’ordine non è più so­lo l’ascesa allo statuto di Repubblica jugoslava ma il diritto all’autodetermina­zione, all’indipendenza, e per le frange che alimenteranno l’UCK la creazione di una “Albania etnica”, transfrontaliera, se non della mitica Grande Albania. Nel 1988 il parlamento di Belgrado colpisce l’autonomia del Kosovo. Nel 1989 si acutizza lo scontro tra apparato di controllo serbo e popolazione alba­nese: sciopero dei minatori di Trepca, febbraio 1989, repressioni delle mani­festazioni di massa del marzo, con un bilancio ufficiale di 24 morti.

Il seicentesimo anniversario della battaglia del Kosovo, nel giugno dello stesso anno, diventa l’occasione per una prova di forza del nazionalismo serbo; al raduno di Gazimestan prendono par­te più di un milione di persone, con de­legazioni di emigrati serbi dagli Stati Uniti, Canada, Australia. Il concetto fon­damentale, su cui insistono gli organi di stampa del regime, è che “il destino del­la Jugoslavia e del socialismo si gioca nel Kosovo”.

Il 5 luglio 1990 Miloševic abolisce l’autonomia del Kosovo (e della Vojvodina) e intensifica le misure persecu­torie contro gli albanesi. L’anno dopo questi scelgono plebiscitariamente per l’indipendenza.

Slobodan Miloševic è un politico pragmatico, a cui interessa unicamente il potere; non è un fanatico nazionalista e quindi usa strumentalmente il nazio­nalismo, non persegue l’obiettivo di una Serbia “etnicamente pura” bensì la riaf­fermazione del tradizionale egemonismo serbo. Prima di diventare l’Hitler della propaganda di guerra occidentale, nella primavera del ’99, è considerato dalle grandi potenze, compresi gli Stati Uniti, l’interlocutore più sicuro per cercare di dare una sistemazione alla crisi della ex Jugoslavia. Ancor più elogiativo è il giu­dizio di coloro che lo vedono come uno degli ultimi avversari del capitalismo americano in nome del socialismo. In realtà è uno dei tanti dittatori senza scru­poli che hanno infestato questo secolo, capitalizzando il consenso ottenuto con lo sfruttamento delle passioni nazionali delle masse, rinfocolate dall’unificazio­ne del mondo sotto il segno dell’inegua­glianza e dell’ingiustizia.

Epilogo

Ho insistito in questa sede sul tema del nazionalismo che ha una tradizione storica consolidata, almeno dagli inizi dell’Ottocento, evitando di adottare il dilagante discorso etnico, per il quale si può risalire poco oltre gli anni Novan­ta, con una gestazione di non molto an­teriore (senza dimenticare il progetto delle SS di disintegrazione dei popoli europei in una dimensione etnica e sot­to il giogo nazista). Credo che parlare di etnie a proposito dei Balcani, cosa che viene fatta correntemente da punti di vista opposti, sia tanto un falso sto­rico che una manifestazione, involontaria o meno, di razzismo e di colonia­lismo. Si tratta inoltre di un escamota­ge per non affrontare con serietà le cau­se interne di un disastro destinato a per­petuarsi nel tempo e per il quale, al mo­mento, l’unica soluzione che sta pren­dendo piede è quella neocoloniale. Quin­di l’interpretazione etnica della crisi dei Balcani non è altro che una forma di giu­stificazione di un esistente spaventoso, da cui si pensa di poter prendere le di­stanze ponendo una barriera culturale tra noi e chi vive in un orribile stato di natura, preda di pulsioni incontrollate. Il giudizio di fondo, a mio avviso, non cambia per i cantori del neoetnico, di­lagante anche in Occidente, per effetto della globalizzazione; ma anche chi leg­ge in chiave negativa il doppio feno­meno cede facilmente alla tentazione di un azzeramento della storia e rischia di consegnarsi inerme all’oggetto della sua critica. Un tale esito mi pare evidente a proposito del dibattito lacerante in quel che resta della sinistra in merito ai di­ritti umani e al diritto dei popoli all’au­todeterminazione. La conclusione, per somma degli argomenti, è stata che, vi­sto quel che sta succedendo nella ex Ju­goslavia, la cosa migliore è di abolirli entrambi. Ora questo richiede che si az­zeri anche la storia della sinistra, come già avviene e quindi basta allinearsi con i più, però bisognerebbe rendersi conto che il processo è già molto avanzato, per cui nuovamente la realtà è qualche pas­so più avanti della “teoria”, solo che questa volta la si raggiunge arretrando. Saggiamente è stato detto che diritti dei popoli e diritti umani devono essere intesi come complementari e rivendicati contestualmente. Ciò deve poter avve­nire in una dimensione postnazionale, senza distruggere l’identità e la cultura dei singoli popoli. Al momento, anche per la condizione in cui è ridotta l’ONU, è la quadratura del cerchio, di qui le fu­ghe in avanti nella globalizzazione ov­vero il rifugio nel neoetnico. La vicenda jugoslava, non meno dell’attuale assetto del mondo, con il primato dello Stato-nazione americano, dimostra che la que­stione all’ordine del giorno è ancora quel­la del nazionalismo e dei percorsi per un suo superamento non regressivo. Da que­sto punto di vista è importante la critica alle interpretazioni etniche del conflitto tra i popoli balcanici:

“gli slavi del sud, provengono da uno stesso fondo etnico. L’esclusivismo non è etnico ma nazionale, connesso allo sviluppo del nazionalismo moderno. Il problema è quello della forzata omogeneizzazione na­zionale di un territorio attraverso l’espulsione (o il massacro) degli elementi ritenuti in­desiderabili. Politica questa bollata come cri­mine quando praticata dai nemici, ma pas­sata sotto silenzio in caso contrario”.

(M. Roux, Lo scenario bosniaco: pulizia etnica e spartizione territoriale, in “Limes”, 1993, n. l-2,p. 31)

è il discorso nazionalista, esemplificato sul modello storico europeo oc­cidentale, che lavora sulle differenze e i contrasti trasformandoli in odio tra le nazioni, naturalizzando la diversità per renderla insuperabile e facendo regre­dire la nazione ad etnia. Il fatto che una tale regressione avvenga ormai siste­maticamente rimanda al processo di uni­ficazione del mondo dopo il crollo del comunismo, vale a dire alle modalitàconcrete con cui la civilizzazione capi­talistica copre ogni angolo della terra.

L’ipotesi storiografica, su base an­tropologica e sociologica, che individua nella privatizzazione la corrente di fon­do della modernità contemporanea, tro­va una conferma nei caratteri assunti dalla guerra nei Balcani, già a partire dalla asimmetria tra diritti umani che evidentemente appartengono all’indivi­duo e politiche etniche riconducibili ad una fase storica ormai superata (nazio­nalismo) o ad una pura e semplice re­gressione (razzismo).

L’insistenza con cui si utilizza il ter­mine di etnia serve proprio a marcare la differenza, lo scarto di civiltà, tra gli in­dividui, che abitano consapevolmente nel tempo della modernità e sono citta­dini del mondo, cioè dell’Occidente, e quelle collettività che lottano, feroce­mente, per costruire il loro Stato-nazio­ne nell’epoca della sua decostruzione.

Già il pensiero socialista europeo dell’Ottocento aveva bollato gli slavi del sud come “popoli senza storia”, in­capaci di progresso e di stare al passo coi tempi; una tale sentenza viene oggi ribadita con mezzi di inaudita potenza. Gli albanesi del Kosovo si illudono che l’America li aiuti a conquistare l’indi­pendenza e magari a realizzare la Gran­de Albania. In realtà le rivendicazioni nazionali dei popoli balcanici, e di altre aree del mondo altamente instabili, so­no viste come fenomeni tribali, etnici ap­punto, frutto di pulsioni ancestrali, del peso di un passato che induce una coa­zione a ripetere, un passato da cui ci si deve liberare. Se ieri venivano tenuti ai margini perché “senza storia”, oggi i popoli senza importanza debbono essere rieducati per l’eccesso di storia di cui so­no portatori, e la terapia più rapida con­siste nel ridurli alla condizione di mi­granti, insieme eterogeneo di individui senza casa e senza patria. L’intervento della Nato produce profughi alla stessa stregua della brutale politica serba, sen­za che la cessazione delle operazioni se­gni un’inversione di tendenza, come di­mostra la situazione in Bosnia, dove i residenti sono ridotti alla condizione di paria, ovvero consegnati ai circuiti in­ternazionali della criminalità.

Siamo entrati di colpo in un’era in cui trionfa “un fanatismo dell’umanità altrettanto potente da controbilanciare o assorbire il fanatismo della naziona­lità” (E. Halevy, L’èredestyrannies. Etudessur le socialisme et la guerre, Gallimard, Paris, 1938, p. 199; cit. da M. salvati, Il Novecento, in “Parole-chiave”, 1996, n. 10, p. 33). E però vi­ste le applicazioni e le conseguenze di tale nuovo fanatismo è giustificato man­tenere vigile l’attenzione critica.

Chi ha giustificato la guerra in no­me dei diritti umani dovrebbe tornare a riflettere su due considerazioni di Hannah Arendt:

Se un individuo perde il suo status poli­tico, dovrebbe trovarsi, stando alle implica­zioni degli innati e inalienabili diritti uma­ni, nella situazione contemplata dalle di­chiarazioni che li proclamano. Avviene esat­tamente l’opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile.

Non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto è stata la sventura che si è abbattuta su un numero crescente di persone. L’individuo può perdere tutti i co­siddetti diritti umani senza perdere la sua qualità essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la perdita di una comunità politica lo esclude dall’umanità.

(H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano, 1989, pp. 415-16 e 412)

Arendt aveva presente la situazione europea tra le due guerre, oggi lo sce­nario è mondiale e l’Occidente a guida americana si è lanciato in una rischiosa scommessa: produrre col mercato ed ora con le guerre, in nome dei diritti uma­ni, un’unica società mondiale, postnazionale. I popoli e i singoli, oggetto di un inedito potere costituente, che si im­pone con forza esplosiva, debbono con­vincersi che la loro cultura e storia so­no un pericolo e quindi collaborare ad una cancellazione indispensabile per as­surgere alla condizione di individui, usci­re dal nulla oscuro delle forme collettivistiche ed entrare a far parte dell’uni­ca civiltà legittimata ad imporre i suoi valori e in grado di farlo.

Qualcuno si lamenta che ciò non av­venga sempre e sistematicamente crean­do una situazione di ingiusta disparità; si tratta di una richiesta impraticabile, infatti la libertà di intervento in tutte le situazioni in cui si violino i diritti uma­ni, in concreto i valori dell’Occidente, e come tali universali, può essere affer­mata in linea di principio, ma non può diventare un obbligo a carico di chi ha la missione e i mezzi per realizzare l’in­tervento, cioè la Nato e nella Nato gli USA, e ciò non tanto per il prevalere di considerazioni geopolitiche e geoeconomiche, con cui si demistifica l’uma­nitarismo interventista, ma per l’impos­sibilità di universalizzare i diritti dell’uo­mo in quanto tale, in quanto genere uma­no. Se così fosse l’Occidente dovrebbe autobombardarsi, perché è proprio lo spaventoso squilibrio di potere e ric­chezza che esso continuamente ripro­duce ed incarna a costituire la radice pri­ma della violazione dei diritti umani.

(Brescia, 7 settembre 1999)