Viva l’Inghilterra, viva l’Europa
Intenzionalmente scrivo questa nota sul referendum inglese sull’Europa, giovedì 23 giugno alle H. 20,30, prima della chiusura dei seggi e, dunque, senza sapere come andrà a finire. L’unica cosa che so è che nel pomeriggio, i bookmakers pagavano 6 a 1 contro l’exit. Questo è un indizio importante contro l’uscita ma solo un indizio. Il punto vero è che le riflessioni che mi accingo a fare si applicano sia che prevalga il voto a favore dell’uscita che quello a favore del rimanere.
Ma prima di entrare nel merito, per facilitare la comprensione dei miei commenti, devo fare una piccola deviazione personale. Al liceo ho vinto il primo premio assoluto in Italia e il secondo in Europa, con uno scritto sulla integrazione europea, nella giornata europea della scuola, indetto dalla CECA tra tutti gli alunni dell’ultimo anno delle scuole medie superiori dell’Europa a sei. Mi fruttò un viaggio meraviglioso di un mese alla scoperta dell’Europa, insieme agli altri cinque vincitori nazionali. Al ritorno dal viaggio, nell’estate 1955, mi iscrissi al Movimento Federalista Europeo nel gruppo di Pavia e, in tale veste, ho vissuto da attivista tutte le grandi battaglie europeiste: dall’elezione diretta del Parlamento Europeo, allo SME, all’Euro. Nel frattempo mi laureai con una tesi sull’integrazione dei sistemi fiscali europei. Insomma il processo di integrazione europea è stato, in tutta la mia vita, il mio punto di riferimento fisso, la mia bussola, il mio sogno, il mio ancoraggio, il mio impegno personale. E i miei riferimenti sono stati i grandi padri dell’Europa, gli Schuman, Monnet, De Gasperi, Adenauer, ed il nonno Churchill. Di tutti conservo un disco che riporta i principali passaggi dei loro discorsi sull’Europa che si intitola: Le grandi voci dell’Europa.
Nonostante questo retroterra personale, recentemente sono arrivato ad augurarmi che gli inglesi votino a favore del Brexit. Per tre motivi. Perché gli inglesi non sono mai stati veramente dentro il processo di integrazione europea ma sono sempre stati sulla soglia, come ha spiegato in una lucida e amara intervista l’ex commissario europeo Etienne Davignon (Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016) e come ha recentemente illustrato, in una efficacissima vignetta, Giannetti nella quale alla regina Elisabetta che gli spiega che il referendum è sull’uscita o meno dell’Inghilterra dalla UE, il consorte Filippo risponde: “Perché, siamo mai entrati?”. Il secondo motivo è che le critiche più serie dei grandi intellettuali inglesi all’attuale UE, come gabbia soffocante e perdente, sono straordinariamente veri e condivisibili. Il terzo motivo è che l’insieme del meccanismo, delle politiche e della governance della UE è così disastrato e miserabile che ha bisogno di un grande choc. La vittoria della Brexit potrebbe rappresentare questo necessario e, potenzialmente, positivo choc del quale l’Europa, sia i popoli che i governanti, hanno un disperato bisogno. Io non credo al terrorismo economico-finanziario e sociale che i centri del potere hanno scatenato in relazione agli effetti dell’exit. Certo la sterlina si svaluterà, come è economicamente corretto. Certo per qualche giorno i mercati finanziari si agiteranno. E poi? Per l’80% si tratta di bufale. Ma certamente il voto a favore della Brexit avrebbe un alto significato politico. Metterebbe paura e noi abbiamo bisogno di prendere paura, per far emergere un po’ di consapevolezza e un progetto per correggere la rotta. Altrimenti vinceranno i populismi disgregatori, alla Le Pen o alla Salvini. Ma per frenarli non basta esorcizzarli a parole. Bisogna fare le cose giuste e questa baraccopoli, tecnocratica e ottusa, che chiamiamo Europa, questa banda di bottegai che hanno permesso che il Mediterraneo si trasformasse in un cimitero, non è, così come è oggi, la cosa giusta. Se vince il “Restiamo” il grande rischio è che ci riaddormentiamo tutti e ritorniamo a coltivare l’illusione che i problemi si risolvano da soli. Ed invece quando una malattia grave colpisce un popolo o un insieme di popoli è meglio far “scoppiare la verità” e porre rimedio al male. E, come ha detto Davignon: “Ormai l’insoddisfazione è dovunque. Il contagio ha già attaccato l’Unione”. E se vince il “Restiamo” cosa ce ne facciamo di una Inghilterra spaccata in due, ferocemente lacerata, intontita dalla montagna di bugie che si sono scatenate in relazione al referendum, sconvolta e commossa dal delitto che ha ucciso una persona di tanta grazia, coraggio e valore, come Jo Cox, che cercherà di negoziare qualche ulteriore banale vantaggio economico secondo la logica da bottegaio del suo governo, sempre fermo sulla soglia per cercare di cogliere nuove occasioni per dare fastidio e mettere i bastoni fra le ruote? Noi avremmo bisogno di una Inghilterra che, come ha detto Brown, lungi dal ritirarsi si ponga in posizione di leadership, collabori seriamente alla riforma intellettuale e operativa della UE, controbilanci l’ottusità tedesca (che ha vinto tante battaglie ma ha sempre perso tutte le guerre e perderanno anche questa e noi con loro), che attacchi il burocratismo di Bruxelles come fece, nella prima fase, la Thatcher con risultati positivi importanti per tutti (io, allora, scrissi, da europeista, un articolo intitolato: “Grazie Thatcher”, e mi riferivo alla sua azione decisiva e benefica per la liberalizzazione dei movimenti di capitale).
Se, come sembra, vincerà il “Rimaniamo” e la necessità di verità verrà, una volta di più, soffocata, non ci resterà che condividere (con poca convinzione invero) la speranza di Michael Spence (premio Nobel per l’economia 2001): “Questa è la mia speranza, anche se può rasentare un semplice desiderio. Indipendentemente dal risultato del referendum su Brexit (come molti stranieri, spero che la Gran Bretagna voti per rimanere e sostenga una riforma dall’interno), il voto britannico, insieme a simili forti tendenze politiche centrifughe altrove, dovrebbe portare a una profonda revisione delle strutture di governance europee e di accordi istituzionali. L’obiettivo dovrebbe essere quello di ripristinare un senso di controllo e di responsabilità agli elettori. Questo sarebbe un buon risultato nel lungo periodo. Ci vorrebbe una leadership ispirata da ogni angolo d’Europa, compreso governo, imprese, sindacati e società civile, nonché un rinnovato impegno per l’integrità, l’inclusione, la responsabilità e la generosità. Si tratta di un compito arduo; ma non è impossibile da realizzare”.
Se, invece, vincerà Brexit è vero che ci sarà qualche turbolenza sui mercati finanziari (robette), è vero che c’è il rischio dell’effetto domino (ma ci sono altri paesi che frettolosamente e incautamente imbarcati, stanno meglio fuori), è vero che ci mancherà l’intelligenza civile e politica inglese contro l’ottusità della UE (e questo è il guaio peggiore e bisognerà cercare di rimediare soprattutto sul fronte del lavoro comune stringendo i legami bilaterali). Ma il rischio maggiore è quello di mettere la testa nella sabbia, di sfuggire alla verità, di continuare ad accettare questa orrenda UE, così come è.
Milano 23.06.2016 H. 21,00
ADDENDUM 24.06.16 H. 10,00
Contraddicendo le attese dei bookmakers, i cittadini inglesi, andando a votare in misura massiccia e mai vista in Inghilterra, hanno scelto l’addio non all’Europa ma a questa miserabile UE, dalla quale erano già, peraltro, in gran parte fuori. Io non leggo questo voto come una scelta dettata dalla paura, come la maggioranza dei bottegai dell’UE e dei servi dei mercati finanziari pensano, ma come una scelta dettata dal coraggio, il coraggio della verità, dalla dignità, dalla forza, dall’amore per la libertà propri della grande storia inglese. Ritrovo in questo voto l’Inghilterra che ha insegnato a tutti la democrazia, che ha tenuto testa da sola a Hitler, che ha sconfitto con i suoi agili navigli i galeoni della Grande Armata, quell’Inghilterra che faceva dire ai nostri fascisti: “Dio stramaledica gli inglesi” e invece una volta di più, “Dio benedica gli inglesi”.
Viva l’Inghilterra, viva l’Europa.