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La rimozione della natura
Siamo da anni, anzi da decenni, in piena emergenza ambientale, tra piogge intense e siccità estreme, scioglimento dell’Artico e cambiamento climatico. Ma pochi tra gli studiosi e i commentatori, e quasi nessuno tra i politici, è disposto a riconoscere il nesso stretto tra crisi ecologica e crisi economica, neanche ora che ci stiamo “mangiando” la terra. Come se la distruzione della natura, usata come miniera da cui estrarre materie prime e fossili, e la rottura dei rapporti sociali che ne consegue non fosse causa diretta e indiretta di disoccupazione e di marginalità, di aumento della povertà e di crescenti diseguaglianze sociali.
La natura è infatti un organismo vivente capace di auto-organizzarsi perché opera con risorse endogene, che non dipendono dal “fuori” come i sistemi dell’economia di mercato, ed è pertanto sostenibile sotto il profilo ecologico.
Non è invece una macchina, di cui si può sostituire la parte che non funziona, senza preoccuparsi delle conseguenze sistemiche che ciò avrà sicuramente su tutto il sistema.
Le cause della rimozione della natura, iniziata con la rivoluzione industriale inglese, sono molte, tra queste l’avidità delle classi dominanti, che da essa traggono ricchezza e potere, e l’assuefazione dell’opinione pubblica, ottenuta con la lusinga del benessere fondato sui consumi di massa.
Particolarmente grave tuttavia è la rimozione della natura da parte delle istituzioni pubbliche che, conquistate dall’ideologia del mercato e dominate dal potere delle multinazionali e della finanza, hanno rinunciato al loro ruolo di mediatori tra interessi contrapposti ma legittimi, come quelli dei lavoratori e delle imprese.
La gravità della derubricazione della natura dal discorso pubblico sta nel fatto – di cui si parla poco o niente – che le risorse naturali e monetarie vengono usate per alimentare e consolidare un modello di produzione e di consumo che risponde alle esigenze di pochi, non ai bisogni di tutti.
14 dicembre 2017
La civiltà degli alberi
La sensibilità verso la natura e i suoi esseri viventi – alberi inclusi – è cresciuta negli ultimi anni, ma il taglio facile degli alberi non è stato sconfitto. Spesso – troppo spesso – succede, perché prevalgono interessi economici particolari: nelle città si abbattono alberi per costruire parcheggi, metropolitane e linee di tram, così come in Amazzonia per far posto all’allevamento dei bovini o alla costruzione di una diga. La protesta degli abitanti viene trattata con sufficienza, dicendo grosso modo, “Che sarà mai, gli alberi si possono sempre ripiantare”, come se crescere un albero fosse la stessa cosa che tirar su la parete di una costruzione in cemento o mattoni.
Per secoli, il progresso ha scandito la sua marcia con il rumore dell’albero che cade. Poi, più recentemente, il concetto di progresso è stato messo in discussione, e con esso quelle di deforestazione, fino ad allora percepita dalle popolazioni egemoni dell’Occidente come cosa buona, un’opera di civilizzazione per ricavare suolo agricolo, costruire abitazioni e infrastrutture, navi per il commercio estero. Ma quel tempo è passato, anche se in molte parti del mondo – specie al Sud – milioni di persone non hanno una casa degna di questo nome, né i servizi sanitari in casa né l’acqua potabile. Questo è un problema molto serio, da affrontare presto se si vuole creare le condizioni per porre fine alla guerra permanente tra Nord e Sud. Ma si dovrà farlo senza consumare altro suolo agricolo e senza far crescere ancora la temperatura del pianeta Terra mettendo a rischio la vita.
Nelle mutate condizioni del ventunesimo secolo, di fronte al cambiamento climatico inarrestabile degli ultimi decenni, salvare un bosco, o una foresta o anche un solo albero, è diventato una priorità assoluta, un atto di civiltà.
24 maggio 2018
Leggi della natura, il limite invalicabile
L’ecologia politica è un campo di studi interdisciplinari privo di un proprio statuto codificato, che si occupa di politicizzare l’ecologia, che è invece una disciplina scientifica precisa, che studia le leggi che regolano i cicli della natura e della materia. Mentre le scelte della politica variano a seconda dell’orientamento delle classi al potere in quel momento e in quel luogo, le leggi della natura non possono essere modificate al di là di limiti ben precisi, pena pagarne il prezzo spesso molto elevato come oggi accade con il cambiamento climatico. Questi limiti sono stati largamente superati da diversi decenni, nella fase del capitalismo maturo o globale, che tende ad espandersi alla intera popolazione mondiale di oltre sette miliardi di persone. E’per questa ragione che l’ecologia politica è diventata molto importante negli ultimi decenni, da quando la crisi ha causato un aumento insostenibile dello sfruttamento della natura.
Tutti dovremmo essere ovviamente interessati a non oltrepassare quei limiti, ma il raggiungimento di questo obiettivo dipende dalle scelte dei governi via via al potere – specie nei paesi industriali che contribuiscono di più alla sfruttamento della natura – e dal loro orientamento, che a sua volta dipende dalla cultura che essi esprimono: in passato, i governi progressisti sono stati più sensibili alla difesa della natura dei governi conservatori, ma questa differenza è largamente scomparsa negli ultimi decenni, con la sconfitta della sinistra. Dipende anche dalle lotte ambientali e sociali, che sono sempre più numerose e diffuse in tutto il pianeta.
Negli ultimi due-tre decenni è emerso infatti un movimento antagonista carsico, che non è uniformemente diffuso in tutti i paesi, che scompare e riemerge dalle sue ceneri, la cui esistenza e importanza è ancora controversa perché non si esprime nelle forme del tradizionale confitto di classe ma in quelle del conflitto di civiltà, toccando tutti gli aspetti della vita – dalla cementificazione del suolo, alla difesa della biodiversità, alla buona alimentazione, alla difesa della salute, all’uso delle fonti energetiche fossili.
28 giugno 2018
Non solo statale, la riscoperta del bene comune
Agli inizi di questo millennio, i beni comuni sono riemersi dalla notte dei tempi sotto la scure della privatizzazione delle risorse collettive – quelle naturali come l’acqua e quelle man-made coma la scuola e i servizi, o come lo spazio pubblico. Questa riscoperta ha avuto l’effetto positivo di rendere chiaro – almeno nel dibattito se non ancora nella realtà – che “pubblico” non significa solo “statale”; significa anche “collettivo”, come sono i beni comuni, che non dovrebbero essere di proprietà dello Stato, ma beni collettivi delle comunità che ne hanno tuttavia solo il possesso protempore, e non la disponibilità piena insita nella proprietà.
La riscoperta dei beni comuni non ha prodotto invece un secondo effetto positivo – neanche a livello di dibattito – quello di essere assunti dai partiti politici di sinistra come espressione di un sistema sociale, di produzione e di consumo, alternativo a quello dominante. Un sistema utile – anzi necessario – per ammodernare le loro piattaforme ottocentesche, rendendole capaci di formulare politiche che rispondano alle aspettative dei cittadini nella fase nuova della globalizzazione e della finanziarizzazione.
Il sistema dei beni comuni ha infatti alcune caratteristiche che rispondono a molte domande del popolo di sinistra nella società contemporanea: sottrae al mercato e alle burocrazie statali la gestione delle risorse collettive, autogestite dalle comunità locali; dà così vita a forme nuove di partecipazione e di democrazia diretta, integrativa di quella delegata; utilizza le risorse naturali con parsimonia, limitando sia l’inquinamento sia il consumismo e lo spreco di risorse connesso con la produzione capitalista finalizzata al profitto; si fonda sulla cooperazione anziché sulla competizione; privilegia il mercato interno anziché quello estero; favorisce la solidarietà e il legame sociale.
Mettere a tema questa lettura dei beni comuni sarebbe ancora possibile, ma finora nessuna forza politica della sinistra ne parla, così come non parla – o quasi – né di ambiente né di natura.
28 giugno 2018
Ambiente, crescita e riscaldamento globale
La scorsa estate è considerata da tutti gli studiosi e i commentatori internazionali (quasi tutti) l’estate in cui il clima è cambiato in modo drammatico in tutto il mondo. I 40 gradi si sono raggiunti e superati per periodi non brevi anche in zone temperate dell’Europa come la Spagna e l’Italia, specie nelle grandi città. Le conseguenze sono assai gravi, soprattutto per i più poveri del Nord e del Sud: alcune sono sotto i nostri occhi – dai nubifragi sempre più violenti e distruttivi, agli tsunami assassini, agli incendi spaventosi, all’aumento della siccità e della desertificazione, con il conseguente aumento della fame e della mortalità infantile in Africa, così come dei conflitti, delle diseguaglianze e delle migrazioni (alimentate queste ultime dall’instabilità sociale, economica e politica). Altre conseguenze, come quelle sulla salute, si realizzeranno più compiutamente nel corso del tempo.
Il nuovo governo giallo-verde pare non essersene accorto, occupato com’è a costruire l’Italia sovranista e l’Europa delle piccole patrie. Ma non se ne sono accorti neanche i media italiani, Tv e carta stampata (con poche eccezioni come il manifesto), che ignorano parole quali ambiente e riscaldamento climatico, occupati come sono a discettare sulla crescita: e questo è ancora più preoccupante perché così facendo vengono meno alla loro ragion d’essere, quella di quarto potere e di guardiani del sistema. A loro dire, la crescita farebbe aumentare l’occupazione, ma l’evidenza empirica dimostra che nel terzo millennio la crescita è debole dovunque, in particolare in Italia, e che il circolo virtuoso “investimenti, consumi, occupazione” del secolo scorso non funziona più nella fase della globalizzazione finanziaria – per molte ragioni, prima tra tutte proprio il riscaldamento climatico, la cui causa di fondo è l’impiego sempre più esteso delle energie fossili (carbone, petrolio e gas).
Accade così che mentre è in arrivo un altro inverno, che ci auguriamo non sia “di lacrime e sangue” neanche sul fronte ambientale oltre che su quello finanziario – vedi il nubifragio della Calabria e quello della Sicilia orientale già nel mese di ottobre – non un euro è previsto nelle scelte di spesa pubblica per mettere in sicurezza il territorio, riducendo così le cause del riscaldamento climatico, quali la cementificazione del suolo (in Italia scompare una piazza Navona ogni due ore) o la fusione dei ghiacciai (che fa alzare il livello degli oceani). Senza contare i costi che gravano sui contribuenti per i danni ambientali prodotti dalla mancata manutenzione degli ecosistemi naturali, e i morti che essi spesso determinano.
25 ottobre 2018
I beni della natura salvano la Terra (e la sinistra)
Il peggioramento del riscaldamento globale è sotto i nostri occhi: non passa giorno senza un nuovo disastro da qualche parte, Italia inclusa, e persino in California – lo stato più ecologico degli Usa, governato da Jerry Brown, un democratico ambientalista e socialista – Los Angeles ha “bruciato” per molte settimane, facendo centinaia di morti. Un grido d’allarme è stato levato dagli scienziati del clima: “Ci restano solo 12 anni, da qui al 2030, per invertire la rotta”, hanno affermato tutti gli esperti, in particolare quelli delle Nazioni Unite. “Se non saranno drasticamente e rapidamente ridotte le emissioni dei gas climalteranti, soprattutto il CO2, i mutamenti climatici avranno conseguenze irreversibili sul nostro ecosistema”, specie nei paesi del Sud, più poveri e più esposti alle conseguenze del global warming, del quale sono i meno responsabili – carestie, siccità, scioglimento dei ghiacciai, distruzione della barriera corallina, depauperamento delle specie, migrazioni forzate a causa di inondazioni e altre catastrofi naturali.
L’obiettivo principale dovrebbe dunque essere mantenere la temperatura media mondiale entro 1,5 gradi, 2 al massimo, come stabilito nell’accordo di Parigi del 2015, tenuto conto che in diverse parti del globo questo limite è già stato superato. La recente Conferenza delle parti (Cop 24, Katowice, Polonia, 3-14 dicembre 2018) non ha fatto nessun passo in questa direzione, avendo incontrato fin dall’inizio l’opposizione dei governi dei 4 paesi che insieme producono la metà circa del petrolio su scala mondiale – Usa, Russia, Arabia Saudita, Kuwait, cui si è subito aggiunto il Brasile del presidente Bolsonaro. Secondo loro, il pericolo denunciato dagli scienziati è solo una possibilità, rispetto alla quale non serve fissare obiettivi comuni, vincolanti, cadenzati nel tempo. I delegati dei paesi del Sud e della società civile si sono opposti ma inutilmente, come succede dal 1995, data della prima Conferenza delle parti, e hanno dovuto ripiegare sulla richiesta quasi sempre inevasa di compensazioni finanziarie e trasferimento di tecnologie da parte dei paesi del Nord e delle Nazioni Unite.
E’ accaduto in Polonia quel che era già accaduto in tutte le Cop precedenti: i passi avanti sono procedurali, mentre il disastro procede a passi da gigante. La biosfera può sopravvivere a sconvolgimenti climatici drammatici come quelli attuali, ma lo stesso non si può affermare per le specie viventi. Come è pertanto possibile che si continui ad affidare la soluzione di un problema tanto complesso come la transizione energetica dal fossile alle rinnovabili, a chi ne è la causa? E’ possibile perché si è formata una alleanza tra chi inquina e chi è inquinato, tra i produttori di merci e servizi energivori spesso inutili, che soddisfano bisogni indotti, e i consumatori del Nord – e sempre di più anche quelli del Sud – drogati dal consumismo di massa, imperante nella società capitalista.
Questa deriva è oggi grandemente favorita dal venir meno di una sinistra europea e mondiale, capace di difendere gli interessi dei più. Per rinascere, i partiti di sinistra devono riprendere la critica del capitalismo e favorire la rinascita di una nuova cultura fondata sulla solidarietà e sulla cooperazione, come quella proposta da Papa Bergoglio, secondo cui lo sfruttamento delle persone e quello della terra sono due facce della stessa medaglia. Per invertire la rotta, occorre un cambiamento radicale delle coscienze, che renda desiderabile rifiutare il consumo di massa, per dirla con Alexander Langer. I beni comuni naturali – quelli legati ai quattro elementi identificati da Empedocle – acqua, terra, aria e fuoco – esprimono un sistema di valori alternativi a quelli del capitalismo distruttivo della natura e delle persone, e sono pertanto un orizzonte di futuro possibile. Ma possono esserlo solo nella misura in cui favoriscono pratiche normate di democrazia diretta, integrative e non sostitutive della democrazia di mandato, che resta finora l’unico modello di democrazia, ancorché imperfetta e sempre meno rappresentativa.
4 gennaio 2019
Automobile, il crepuscolo di un idolo
Nel 1971, un anno prima della pubblicazione del Rapporto sui Limiti dello sviluppo del Club di Roma, Aurelio Peccei pubblicava sulla rivista francese Preuves un saggio sul futuro dell’automobile, intitolato Il crepuscolo di un idolo (trad. ital., CNS n.10, novembre 2002). Aurelio Peccei (1908-1984), economista e pensatore, manager illuminato prima della Olivetti e dopo della Fiat, artefice del Club di Roma, sosteneva già allora che l’auto fordista era superata. Per avere un futuro doveva cambiare in modo radicale, diventando più semplice sul piano tecnologico, diversa a seconda della natura e della distanza degli spostamenti, di proprietà collettiva anziché individuale per non restare a lungo inutilizzata nelle strade o nei garage. “L’automobile deve diventare semplicemente un bene d’uso, spiegava Peccei, con le seguenti caratteristiche: massima sicurezza, minimo inquinamento, minimo ingombro… L’idea che si debba utilizzare la propria automobile per i piccoli e medi spostamenti scomparirà a mano a mano che l’automobile si imporrà come un bene d’uso, di cui ci si serve quando se ne ha bisogno e si lascia ad altri quando non occorre… Questo cambiamento di mentalità richiederà profonde modificazioni nella progettazione e costruzione delle automobili, in funzione dei differenti bisogni che si hanno nella città e nei percorsi lunghi: ci saranno solo due o tre modelli di autoveicoli, molto semplici e quanto più possibile standardizzati”. Per ottenere questo cambiamento, Peccei faceva diverse proposte, da realizzare a tempo debito. Nella prospettiva lunga, i nuovi sistemi elettronici potranno adattare i sistemi di trasporto delle città alle necessità individuali, introducendo i microbus ad itinerario variabile al posto degli autobus a percorso fisso. Nell’immediato, diceva ancora, è probabile che prevalga il mezzo collettivo visto che lo spazio occupato da questo tipo di mezzo di trasporto è 25 volte inferiore, per persona trasportata, a quello occupato dai mezzi di trasporto privato. A medio termine, infine, a fianco dei trasporti collettivi torneranno quelli privati con piccole automobili adatte al traffico urbano. Nei cinquant’anni trascorsi da allora, l’automobile è sicuramente cambiata, e alcune delle proposte di Peccei sono state sperimentate. Ma nessuna di esse è stata inserita nel contesto di un orizzonte generale sia del paese che della mobilità. Questo orizzonte non esiste infatti in Italia, nonostante esso sia l’unica via capace di legittimare il cambiamento e di dare ad esso una prospettiva di successo. Al di fuori di questo orizzonte, che non è la programmazione statale ma un orientamento sostenuto dalle istituzioni e in particolare dal governo, qualsiasi cambiamento è una opzione astratta, un dover essere, un “chiacchiericcio” scollegato dalla vita concreta delle persone. È questo elemento che divide i fautori dello sviluppo fondato sul profitto, che provoca la cementificazione del suolo e il cambiamento climatico, dai fautori dello sviluppo umano, teso a migliorare le condizioni di vita e di lavoro della popolazione. La decisione di fare o non fare una grande opera come il Tav Torino-Lione non può pertanto dipendere da valutazioni parziali ancorché vere come “il treno inquina meno del trasporto su strada”, o come l’analisi costi-benefici, che aiuta solo a scegliere tra due o più progetti diversi per realizzare una grande opera già decisa a livello politico. Qualsiasi grande infrastruttura ha un forte impatto ambientale sul territorio e sulla popolazione che lo abita, e può dunque essere decisa solo nel contesto di un orizzonte o piano generale della mobilità di quel paese. Solo così la decisione può essere compresa e accettata dalla popolazione.
22 agosto 2019