Ambiente Tecnica Società. Rivista digitale fondata da Giorgio Nebbia

Crescita zero: il dibattito su “I limiti dello sviluppo” e sulla “lettera Mansholt” nella rivista dell’Eni “Ecos” (1972)

image_pdfScaricaimage_printStampa

Nel corso del 1972 la neonata rivista dell’ENI, “Ecos”, ospita un confronto sul primo rapporto al Club di Roma, I limiti dello sviluppo, e sulla lettera inviata al riguardo dal commissario europeo all’agricoltura Sicco Mansholt. A una nota redazionale seguono gli interventi di quattro prestigiosi nomi della ricerca italiana: gli economisti Francesco Forte e Luigi Spaventa, il matematico Bruno De Finetti e il biochimico Daniele Bovet, premio Nobel per la medicina nel 1957. I riferimenti bibliografici sono: “Ecos. Rivista mensile a cura dell’ENI”, nn. 1-2, 1972, pp. 7-19 per i primi tre testi e n. 4, dicembre 1972-gennaio 1973, pp. 36-39, per l’ultimo; la rivista è consultabile in rete all’indirizzo https://archiviostorico.eni.com/aseni/it/magazines/ecos.

Redazione. Il documento Mansholt

Da mesi si discute sui temi sollevati dalla lettera di Mansholt: chi lo accusa di pessimismo e chi ne condivide la necessità di modificare radicalmente le scelte e i tassi di sviluppo delle società industrializzate. ECOS apre un dibattito.

Nella lettera del 9 febbraio 1972 a Malfatti (allora Presidente della Commissione Europea) Sicco Mansholt esprimeva timori per il futuro dell’umanità ed avanzava alcuni suggerimenti. Secondo quanto precisato dallo stesso Mansholt nella conferenza stampa di insediamento alla Presidenza della Commissione, a fine marzo, questo documento doveva essere inteso “più come un cri du coeur che come un preciso programma d’azione politica”.

Secondo Mansholt, è necessario che l’Europa si avvii ad elaborare una “politica nuova”. Tale necessità deriverebbe dalla “incapacità dei governi nazionali di assicurare una espansione stabile delle loro economie” e “dalla mancata realizzazione dell’equilibrio monetario”. A questi “fatti di attualità” si aggiungono problemi di più ampio respiro che interessano lo stesso “futuro dell’umanità”: l’evoluzione demografica del mondo, la produzione alimentare, l’industrializzazione, l’inquinamento, l’utilizzazione delle risorse naturali.

Anche se questi problemi si pongono su scala mondiale, Mansholt ritiene indispensabile che l’Europa faccia “tutto quello che è in suo potere” per esercitare un’azione benefica. Poiché “gli Stati Uniti non hanno la forza politica necessaria per guidare il mondo verso la soluzione di questi grandi problemi e sembrano sulla via del declino, l’Europa ha una missione da compiere”.

Secondo Mansholt, che attinge dichiaratamente alle analisi del Massachussets Institute of Technology, il problema chiave è quello dell’evoluzione demografica del mondo. La popolazione mondiale sarà praticamente raddoppiata nei prossimi trenta anni, passando da tre miliardi e mezzo a sette miliardi di abitanti nel 2000: è quindi auspicabile che si giunga a lungo termine alla stabilizzazione della demografia mondiale. Partendo dall’ipotesi di una popolazione mondiale stabile, ipotesi che lo stesso Mansholt ritiene “esageratamente” ottimistica per il momento, sembra possibile “almeno in teoria” realizzare l’equilibrio necessario ad assicurare la sopravvivenza dell’umanità. A patto, però, che siano soddisfatte le seguenti condizioni:

1 – priorità alla produzione alimentare, investendo anche nei prodotti agricoli considerati “non redditizi”;

2 – riduzione del consumo di beni materiali per abitante e, parallelamente, estensione di beni immateriali (previdenza sociale, sviluppo intellettuale, organizzazione del tempo libero, etc.);

3 – prolungamento della durata della vita di tutti i beni capitali, evitando gli sprechi ed evitando la produzione di beni “non essenziali”;

4 – lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle materie prime attraverso il riorientamento degli investimenti verso un sistema a circuito chiuso e misure anti-inquinamento.

Tenuto conto dell’esplosione demografica e della necessità di salvaguardare l’ambiente naturale e le risorse del pianeta, “è evidente che la società di domani – afferma Mansholt – non potrà essere imperniata sullo sviluppo, almeno non nel campo materiale”.

“Per cominciare” bisognerebbe sostituire la ricerca del massimo prodotto nazionale lordo con l’utilità nazionale lorda e sarebbe altresì auspicabile esaminare in qual modo si possa contribuire alla creazione di un sistema economico che non sia fondato sul massimo sviluppo per abitante.

Per contribuire a questo lavoro di riflessione, e per “dare un esempio di quello che tale politica potrebbe implicare concretamente”, Mansholt propone all’Europa di varare una politica che preveda:

1 – un’economia rigorosamente pianificata in grado di assicurare a tutti il minimo vitale. Il “piano centrale europeo” (che dovrebbe essere rispettato al momento dell’elaborazione dei piani economici nazionali) dovrebbe perseguire l’UNL (non già il massimo PNL) e fondarsi “sull’obiettivo primordiale” di salvaguardare l’equilibrio ecologico e di riservare alle generazioni future fonti di energia sufficienti. Un apposito piano quinquennale dovrebbe prevedere lo sviluppo di un nuovo sistema di produzione anti inquinante fondato su una economia di circuito chiuso;

2 – un sistema di produzione non inquinante e la creazione di un’economia di riciclo.

Questa strategia dovrebbe concretizzarsi attraverso:

1 – l’instaurazione di un sistema di certificati di produzione (certificati Clean and Recycling-CR), controllato a livello europeo.

2 – modifica del regime dell’IVA, in modo da favorire i prodotti CR e da colpire gli altri, incoraggiando cosi l’industria ad allinearsi, malgrado l’incremento del costo;

3 – promozione del carattere durevole dei beni di consumo, con mezzi fiscali ed altri;

4 – un sistema europeo di distribuzione;

5 – accentuazione delle ricerche sulla protezione dell’ambiente, sullo equilibrio biologico ed ecologico, sul funzionamento del sistema CR. “Finora – osserva Mansholt – la ricerca si è praticamente imperniata sullo sviluppo. Dobbiamo indirizzarla verso l’utilità, il benessere”;

6 – trasformazione della tariffa doganale esterna, in modo da evitare che la produzione tradizionale dei paesi terzi che non accettano il sistema CR faccia concorrenza ai prodotti CR europei.

Francesco Forte. Non farne un mito

Crescita zero? la ormai famosa “lettera” di Mansholt (che meglio si potrebbe definire “manifesto” per la diffusione e la risonanza che ha avuto e che il lettore trova riassunta in questo servizio) si pronunzia per l’affermativa. Alto stesso modo aveva concluso, poco tempo prima, l’altrettanto famoso rapporto del MIT (Massachussets Institute of Technology, ossia il Politecnico del Massachussets, il maggiore degli Usa e, probabilmente, del mondo occidentale) redatto per il Club di Roma (una organizzazione di studiosi politici e uomini di buona volontà preoccupati dell’avvenire umano, di recente costituzione). Il prof. de Finetti, che è uno dei maggiori economisti matematici dell’Occidente, nel succinto e polemico scritto, redatto per la nostra rivista, si pronuncia per una tesi analoga. Il prof. Spaventa, ordinario di Politica Economica all’Università di Roma, uno dei maggiori esperti della programmazione italiana – anch’egli interpellato sul tema dalla nostra rivista – assume una posizione contrastante. Raymond Barre, vice presidente della CEE ed economista francese di chiara fama, ha scritto una lettera in risposta a Mansholt (praticamente un “contro manifesto”) in cui si pronunzia apertamente a favore del proseguimento dell’espansione economica anche se vorrebbe che fosse profondamente modificata la qualità dello sviluppo. Analoga discordanza di punti di vista troviamo ampliando l’osservatorio. Prendiamo qualche altro esempio, a largo raggio. I redattori della rivista inglese “Ecologist” (L’ecologo), hanno pubblicato un “Progetto per la Sopravvivenza” (sottoscritto da un numero notevole di scienziati: fra i quali però non molti sono gli economisti) che si sviluppa secondo linee analoghe al Rapporto del MIT. Il prof. Giorgio Nebbia, che Insegna Merceologia nella facoltà economica dell’università di Bari (ed è quindi uno studioso a cavallo fra la chimica e l’economia), autore di numerosi studi sui problemi dell’inquinamento e dell’ecologia, invece, analogamente a Spaventa, ammonisce che fermare lo sviluppo ai livelli attuali sarebbe pericolosamente conservatore, perché lascerebbe i poveri e gli affamati nel loro stato di Indigenza, che non di rado è al di sotto del limite di sopravvivenza, mentre porrebbe i ricchi e i benestanti in posizione sicura, comoda e privilegiata.

La proposta di una società stazionaria – egli scrive, recensendo il volume del MIT – se vuole essere coerente finisce in una parola, oggi scandalosa – il desviluppo dei paesi industrializzati – che evoca concetti di continenza ed austerità, in nome del diritto dei poveri ad avere una giusta porzione dei beni della Terra e in nome del dovere che incombe su tutti gli uomini, di conservare una terra che possa essere abitabile anche per le generazioni future. “Diversamente, egli afferma, la proposta della società stazionaria, vale a dire con crescita zero, è inaccettabile e insostenibile e finirà con quelli che l’hanno scatenata: i quali, forse, vorrebbero, così, conservare illimitatamente gli attuali rapporti di disuguaglianza di ricchezze e di potere”.

Nebbia è uno studioso cattolico, che sviluppa le sue tesi muovendo esplicitamente dai principi della morale cattolica. È significativo notare che a risultati analoghi giungono studiosi di diversa formazione culturale, ad esempio marxisti impegnati. D’altra parte lo stesso Nebbia riconosce il fascino dell’obiettivo di una società stazionaria, che sta nella constatazione che “è impossibile uno sviluppo illimitato in un mondo di risorse limitate”, ed aggiunge che “forse c’è da cercare una nuova filosofia della società stazionaria nel cristianesimo”. Una certa possibilità di fornire modelli validi egli la riconosce (pur fra riserve) al socialismo cinese che “oggi rappresenta forse l’unico modello di società in cui, sotto la spinta di una motivazione morale e quasi religiosa, l’austerità è stata elevata a modello di vita”. L’americano Thomas W. Wilson Jr. vice presidente dell’Istituto Internazionale per gli affari ambientali e consulente della Conferenza Generale sull’ecologia che le Nazioni Unite hanno tenuto a Stoccolma nel gennaio di quest’anno, dal canto suo al quesito “fra ambiente (cioè ecologia) e sviluppo vi è conflitto?” risponde, lapidariamente ma espressivamente: “dipende”.· Infatti “alcuni dei problemi ambientali hanno la loro radice nello sviluppo industriale; altri hanno le loro radici in una carenza di sviluppo; altri ancora sono condivisi da società in stati diversi di sviluppo”. Ma – egli aggiunge – due terzi della popolazione mondiale guardano allo sviluppo come al loro obiettivo fondamentale, perché vivono nel bisogno e guardano con invidia a quel fumo che esce dalle nostre fabbriche, che tanto preoccupa i nostri ecologi. “La motivazione base dello sviluppo economico è il benessere umano. La motivazione base della tutela della qualità dell’ambiente è anch’essa Il benessere umano. Perciò queste due preoccupazioni dovrebbero convergere e con confliggere”.

E allora? Cerchiamo di riordinare le idee, fra tanto discordare di voci.

Innanzi tutto, tracciamo alcune distinzioni fondamentali. La “crescita zero” si riferisce sia allo sviluppo della popolazione come allo sviluppo del prodotto globale (il cosiddetto prodotto nazionale lordo) consistente di beni e servizi aventi valore economico. Si tratta di due questioni distinte per cui vi sono conseguenze diverse per l’ecologia, e in cui vi sono situazioni e prospettive diverse per i paesi sviluppati, quelli in via di sviluppo e quelli a metà o tre quarti dello sviluppo (fra i quali ultimo si può collocare l’Italia). L’attuale popolazione della terra è di tre miliardi e mezzo di abitanti. Essa aumenta mediamente il 2% all’anno e, seguitando a questo ritmo, verso il 2000 (anzi nel 2005) sarà raddoppiata: sette miliardi di abitanti. Nel 2040, continuando lo stesso ritmo. diverrebbe 14 miliardi di abitanti. Nel 2075 28 miliardi. Nel 2110 ben 56 miliardi. È chiaro che a questo ritmo, la terra diverrebbe sovrappopolata In modo pressoché irrespirabile. Ma è legittimo assumere che questo ritmo debba continuare? Il primo fatto che dobbiamo constatare – e che il prof. Spaventa opportunamente sottolinea – è che esiste una correlazione fra livello del prodotto per abitante e percentuale di aumento della popolazione, tale per cui aumentando il primo diminuisce la seconda. Guardiamo le cifre. Nell’Europa Occidentale, la popolazione aumenta al tasso del 1% annuo. Nell’Unione Sovietica e nel Giappone all’1,1% annuo e poco più (1,2%) negli USA. A questo ritmo di sviluppo, il raddoppio di popolazione si realizza non già in 35 anni ma in 70. Se il tasso di sviluppo scendesse allo 0,5 per cento (seguendo il trend storico del declino che, sia pure fra vicende alterne, si va manifestando nei paesi a più elevato reddito) il raddoppio avverrebbe addirittura in 140 anni. Le cose stanno ben diversamente nei paesi arretrati (o anche come si dice, a volte ottimisticamente, “in via di sviluppo”) ove abbiamo le seguenti percentuali di aumento della popolazione: Africa 2,5%; America Latina 2,9%; Asia Meridionale (soprattutto India) 2,7% e Asia Orientale Continentale (soprattutto Cina) 1,8%. Come si nota salvo per la zona ove campeggia la Cina, il ritmo di aumento demografico supera il 2% annuo, si avvicina spesso al 3%: per un miliardo e mezzo di uomini (di cui un miliardo nell’Asia Meridionale) il tasso di aumento demografico è fra il 2,5% e poco meno del 3%.

Ma anche qui bisogna distinguere. Infatti la densità di abitanti per chilometro quadrato, è molto diseguale nelle varie parti del mondo. Essa è di ben 150 abitanti per chilometro quadrato nell’Europa Occidentale (180 in Italia, 92 in Francia, 238 nella Germania Occidentale fittamente industrializzata, 228 nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda). Si capisce che qui i problemi dell’affollamento e dell’inquinamento siano molto grossi, dato anche il livello di sviluppo industriale. Ma negli Usa gli abitanti per km quadrato sono solo 22: con una diversa distribuzione della popolazione sul territorio (che contrasti la tendenza alla concentrazione in gigantesche metropoli come New York, Chicago e Los Angeles che hanno ciascuna 7 milioni e passa di abitanti) i problemi non sarebbero altrettanto drammatici. In Africa la densità è addirittura di soli 11 abitanti per chilometro quadrato. Nell’America Latina di 13.

Possiamo cosi, intanto, fissare il concetto che anche nel campo della crescita demografica vi è un problema distributivo. E ciò in duplice senso: quello di fare in modo che tale crescita si moderi maggiormente, rispetto ai ritmi attuali, In certe aree ove essa è più alta e le risorse potenziali del territorio più basse; e quello di fare in modo che si sviluppino i capitali e le condizioni organizzative e tecniche con cui, in certe aree ove la crescita può, in linea di principio, essere sostenuta dalle potenzialità del territorio, essa diventi effettiva.

Così articolato, il problema demografico diventa indubbiamente più complesso, ma anche meno acutamente drammatico di come viene presentato dal Club di Roma e dalla lettera di Mansholt. Esso rimane, comunque, molto serio: anche se non può essere disgiunto dalle politiche attive per lo sviluppo economico, nei confronti delle aree meno avanzate.

Ma i livelli di partenza delle popolazioni delle diverse parti del mondo, in termini di ricchezza economica, sono oggi molto diversi. Per i popoli poveri la crescita zero nel prodotto pro capite non ha senso, se con essa ci si riferisce alle risorse materiali. Nelle altre nazioni, quelle che hanno già raggiunto fasi di relativa abbondanza dì beni materiali, poi, vi sono cittadini di seconda classe (o di terza o di quarta classe) per i quali occorre accrescere la dotazione di beni materiali. Il concetto complessivo di crescita a un certo tasso – poniamo il 3% – anziché a un certo altro tasso – poniamo il 5% – oscura questa dualità di situazione. E tuttavia proprio per questo hanno ragione Mansholt e de Finetti quando propongono di utilizzare, come concetto guida della politica economica, anziché il prodotto nazionale lordo, un concetto diverso che penetri più addentro nell’intimo significato del benessere. Per altro, coloro che hanno suggerito il prodotto lordo e che lo hanno tanto ampiamente utilizzato, lo hanno fatto anche per una ragione pratica fondamentale: che il prodotto lordo può essere calcolato e misurato, in modo oggettivo. Invece la nozione di “utilità nazionale lorda” e, ancor più, quella di “Felicità Nazionale Lorda” (che Mansholt propone) sono nozioni soggettive, che nessuno può direttamente misurare. L’economista, a differenza del filosofo o del moralista o dell’idealista romantico, deve stare con i piedi per terra, anche se con la testa e con gli occhi viene sospinto a spaziare verso le vette più alte.

Cerchiamo, dunque, di elaborare, nuovi più accurati e comprensivi metodi di misura del prodotto nazionale lordo che lo accostino, più di quel che non sia per la nozione utilizzata ora, a quel fenomeno soggettivo che è l’utilità o la felicità o i fini ultimi dell’uomo (perché, mi permetto di chiosare, una volta pervenuti alla sfera dei valori sommi, non facciamo un passo oltre l’edonismo implicito in concetti come utilità e felicità e non parliamo anche di giustizia, dignità ecc.?). Tenendo conto di “costi” come l’inquinamento o, più generalmente, la lesione dei beni ambientali. Dobbiamo inoltre articolare la nozione di prodotto pro capite, evitando di presentare solo la media fra ricchi e poveri (come diceva Trilussa, certe statistiche dicono che mangiamo mezzo pollo a testa, quando uno di noi due ne mangia uno e l’altro rimane asciutto) ed esprimendo anche la condizione di coloro che sono nei vari strati sociali. Dobbiamo anche considerare la nozione di patrimonio nazionale: includendo in esso non soltanto i patrimoni creati dall’uomo, con il suo lavoro e con il suo ingegno, ma anche le dotazioni di risorse naturali e le condizioni di salute e di arricchimento intellettuale e culturale degli uomini. Non sempre, è vero, si potrà fornire, di tutto questo, un metro monetario. Inoltre non sempre si potrà fornire una cifra complessiva che riassume in sé tutto.

Vi sono settori in cui l’aumento della produzione, se effettuato con i debiti accorgimenti, non determina danni ambientali, ma addirittura miglioramenti (si pensi a molte attività agricole). Vi sono settori in cui la produzione può essere portata avanti moltissimo con un consumo limitatissimo di risorse e – se si usano i debiti accorgimenti – senza pericolo di inquinamento (si pensi all’energia nucleare). Vi sono casi in cui i rifiuti, provocati dalla produzione, possono essere incorporati nella massa del nostro pianeta, senza provocare problemi, purché si scelgano le soluzioni adatte, per collocarli. Si pensi, ad esempio, agli oggetti in cloruro di polivinile, di cui tanto si parla (non sempre a proposito) come di fattori di grosso inquinamento. In realtà, essi, una volta scartati, proprio perché duraturi come un minerale, possono essere assemblati, per rientrare a far parte della parte “dura” della terra su cui viviamo. Tutto ciò può esser calcolato e considerato, ai fini del beneficio in termini di prodotto e di danno (eventuale) in termini di riduzione del patrimonio fisico (posto che vi sia) e di modifica dell’ambiente (non sempre, come dicevo, negativa).

La polemica ecologica, in conclusione, è utilissima, per farci rimeditare su concetti che si erano dati per pacifici e per farci vedere, sotto nuovi aspetti, le questioni relative al rapporto tra economia, natura, felicità e vera civiltà. Ma non dobbiamo farne un mito. Dobbiamo – invece – distinguere e, come diceva Leibniz, “calcolare”.

Luigi Spaventa. Una redistribuzione del reddito e della ricchezza

Occorre diffidare dei profeti in camice bianco che, dal chiuso dei laboratori, lanciano messaggi all’Umanità. Non paghi dell’utile lavoro scientifico sui fatti, essi spesso soccombono alla demoniaca tentazione di porsi “al di sopra delle parti” per indicare la via alla salvezza; di obliterare i problemi del presente in una qualche grande visione di catastrofe o di felicità collettiva per tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, sazi e affamati. Credono essi di non far politica: considerano i contrasti di uomini, classi e paesi come giochi di bambini incoscienti, che devono cessare nell’imminenza dell’apocalisse o della città del sole; non si curano di specificare quali siano i costi delle loro ricette e chi li debba sopportare. Eppure questa è la forma più sottile di far politica e la più ingannevole, perché ha la veste del rigore scientifico. Perciò bisogna diffidare: non già dell’analisi dei fatti e delle prospettive, ma delle formule universali che frettolosamente ne vengono dedotte e che, ridotte a etichette, acquistano circolazione corrente. La “crescita zero” è una tale etichetta. Piace, anche perché consente una forma sottile di evasione: un’evasione impegnata. Ma l’etichetta non fa il prodotto: poiché non tutto quello che dicono gli scienziati è necessariamente scienza ma una qualche cautela è di obbligo prima di accettare le loro terapie.

Nel lavoro compiuto dal System Dynamics Group del MIT (su ispirazione di un gruppo di persone di buona volontà radunate in un Club di Roma) e nelle conclusioni che da questo lavoro si sono tratte occorre distinguere tre aspetti: l’indagine “positiva” sull’evoluzione di alcune grandezze rilevanti e sulle loro interazioni; la prescrizione generale a media scadenza per il mondo intero; le implicazioni politiche (da mettere in luce, perché non sono mal rese esplicite).

L’indagine positiva (riassunta con grande lucidità in una sintesi pubblicata in italiano) poggia sostanzialmente, nonostante la sua complessità formale, su due semplici constatazioni: una crescita esponenziale (a tasso composto) provoca aumenti assoluti sempre maggiori, per unità di tempo, di popolazione, produzione, investimenti e pertanto di fabbisogni alimentari e di materie prime e di inquinamento; lo spazio e le risorse naturali esistenti sono limitati. Questi due fatti devono risultare incompatibili a un certo punto, molto vicino nel tempo secondo il gruppo di studio: fra cento anni o giù di lì, salvo drastici rimedi, si verificherà necessariamente un collasso, con una brusca caduta della produzione e della popolazione. Il drastico rimedio è quello della “crescita zero”: prevenire il collasso arrestando, entro una decina di anni, lo sviluppo, prima della popolazione, poi del capitale industriale e della produzione, onde adeguare queste grandezze alle disponibilità di risorse in uno stato stazionario che consenta di rinviare il momento critico di qualche centinaio d’anni. Lo scritto di Mansholt riportato in questa rivista bene esemplifica le conseguenze sul più immediato agire che alcune persone responsabili ritengono di ricavare da questa analisi sui limiti dello sviluppo.

Non si vuole qui avanzare alcuna valutazione tecnica sull’indagine di base, poiché non si possiedono informazioni esatte circa le ipotesi, i procedimenti statistici, la natura delle relazioni stabilite tra le diverse variabili. Si può solo riferire che molti dubbi sono stati avanzati proprio sulla validità delle ipotesi e sulla significatività delle relazioni e aggiungere che, a quanto si può comprendere, alcune parti più propriamente economiche del modello appaiono di estrema rozzezza. Critiche siffatte, tuttavia, potrebbero inficiare la validità della diagnosi circa l’inevitabilità del collasso o l’imminenza di esso; non potrebbero in alcun modo negare l’importanza e la gravità dei problemi che il rapporto del MIT dipinge, giustamente, a colori violenti e che sono sotto i nostri occhi – inquinamento, distruzione dell’ambiente naturale, urbanesimo sconsiderato, sovrappopolazione e via dicendo.

Drammatizzare questi problemi è di per sé un’opera positiva. Ma basta? No di certo, quando non si spiega e neppure ci si chiede perché essi problemi si manifestano e quali ne siano le cause. Da questo punto di vista il rapporto del MIT è completamente asettico: si preoccupa del mondo ma non si occupa degli uomini e ignora i rapporti sociali e di produzione, le forme di società e di governo. I suoi soggetti sono nomi astratti, deità immanenti sull’uomo, che è soggetto passivo: la scienza, la tecnologia, il progresso, la ricerca provocano tutte le conseguenze indesiderabili che vengono descritte. Ma queste sono constatazioni non significative né operative, che, lungi dallo·spiegare le cause, neppure descrivono correttamente gli effetti. Il problema è perché la scienza, la tecnologia e via dicendo (che di per sé non sono né buone né cattive, perché non hanno né carne né sangue) provochino certi effetti; ossia, se questi effetti siano inevitabili oppure dipendano, non già da un corso predeterminato delle cose del mondo, ma dall’assetto del mondo stesso, dalla distribuzione della ricchezza fra diversi paesi e all’interno di ciascun paese e pertanto dall’evoluzione dei rapporti sociali e di produzione, che non è l’unica possibile e non è irreversibile. Se non si affronta tale questione, che è esplicitamente trascurata dal Club di Roma e dal gruppo del MIT, la diagnosi resta superficiale e la terapia prescritta può diventare inaccettabile.

Questa terapia si riduce a imporre il raggiungimento di uno stato di equilibrio, a crescita zero, con un conseguente sacrificio per la generazione il cui livello di vita, prima del collasso, sarebbe cresciuto. Questa decisione politica, con cui si chiederebbe alla generazione presente un sacrificio a vantaggio delle generazioni future, potrebbe essere una scelta accettabile se e solo se fosse contestualmente o addirittura preventivamente intrapresa una redistribuzione della ricchezza e del reddito. Una tale redistribuzione, tuttavia, è rinviata, dal rapporto del MIT, a dopo che si sia raggiunto lo stato d’equilibrio, ossia a dopo che si sia interrotto un aumento del tenore di vita medio; e anche allora, si afferma, “non c’è alcuna garanzia che, una volta raggiunto l’equilibrio, le risorse morali dell’uomo siano sufficienti perché venga risolto il problema della distribuzione del reddito”. Risulta dunque chiaro che il costo della “crescita zero” è più pesante di quanto non appaia, poiché esso risulta inegualmente ripartito a svantaggio di chi meno ha nella situazione di partenza: a tutti viene impedito di avere di più, ma il danno è ovviamente maggiore per chi sta peggio.

V’è di più. Si può argomentare che una redistribuzione del reddito e della ricchezza, fra nazioni e all’interno di ogni nazione, non solo è condizione necessaria per rendere accettabile la terapia d’urto proposta, ma può addirittura essere in parte sostitutiva della terapia stessa, per raggiungere, per vie diverse, gli stessi fini. Una redistribuzione sufficientemente radicale provocherebbe di per sé una diminuzione del tasso di incremento della popolazione (poiché tale tasso diminuisce inizialmente all’aumentare del livello di vita), del saggio di accumulazione (che è nel lungo periodo correlato alla quota del profitti sul reddito), pertanto del saggio di incremento del reddito Tali effetti sarebbero tanto più pronunciati se una parte della ricchezza e dei redditi da redistribuire venissero trattenuti della collettività, anziché essere conferiti ai singoli, per aumentare i consumi sociali a scapito di quelli privati. Queste cose sono state dette assai bene da Raymond Barre, il quale, rispondendo a Mansholt ha sostenuto che “sono i problemi di ripartizione delle risorse e degli uomini fra le regioni del mondo che presentano la maggiore gravità; che i rapporti fra l’uomo e il suo ambiente possono essere controllati a condizione che possano essere governati i rapporti sociali tra gli uomini”.

Non si è voluto in questa breve nota mettere in dubbio l’importanza e la gravità dei problemi indicati nel rapporto del MIT né discutere la portata dell’opera che con quel rapporto è stata compiuta. È parso necessario piuttosto, negare la neutralità dell’impostazione seguita e l’unicità della soluzione proposta: anche perché non si vuole che la meditazione su quanto potrebbe avvenire nel 2100 serva a far tacere le nostre coscienze su quello che avviene intorno a noi nel 1972.

Bruno de Finetti. Intelligenza imparzialità chiaroveggenza e coraggio. Ma chi ha queste doti?

Avendo appreso all’ultimo momento della richiesta di esporre la mia opinione sull’assillante problema, non posso che rispondere In modo affrettato e sommario. D’altronde, non sarei stato comunque in grado (e forse non lo è ancora nessuno) di valutare fondatamente l’attendibilità e il grado di esattezza dei dati e dei procedimenti – solo sommariamente divulgati – della ricerca del M.I.T.

Ma ritengo tuttavia opportuno e doveroso dire una parola, sia pure probabilmente vana al pari di altre ben più autorevoli. Occorrerebbe infatti cercar di evitare che motivi e dubbi del genere inducano ad incoraggiare la tendenza a sottovalutare i pericoli, ad attendere con insciente noncuranza fino a che non siano tanto aggravati da rendere praticamente inefficace qualsiasi rimedio.

L’allarme non è certamente prematuro, perché, anche se qualche correzione di dati o deduzioni concedesse di spostare di qualche tempo il raggiungimento del livello di guardia, sarebbe un errore fatale il non cominciare subito ad approntare le difese

Esse implicano infatti difficoltà enormi, sia sul piano tecnologico, ma sia anche, e soprattutto, sul piano del necessario capovolgimento dei concetti e delle strutture su cui si basa l’attuale organizzazione politico-economico-sociale, e la mentalità che la informa e che da essa viene instillata in quanti la accettano quale “ordine costituito”. L’illustrazione, fatta nella storica lettera di Sicco Mansholt, di parecchi tra i fondamentali problemi che esigono di essere affrontali con coraggio rivoluzionarlo basta a darne una viva e impressionante visione, sebbene ancora parziale.

A molti, probabilmente, la prospettiva di necessarie profonde innovazioni del genere apparirà come una grave iattura, come un penoso regresso rispetto al modo di vita e di attività economica dell’attuale sfrenato sviluppo consumistico, spinto dalla molla egoistica del profitto e dalla mania egoistica dello spreco. Ma, a chi ben guardi, libero dal paraocchi di artificiose dottrine economiche e dall’aberrante tendenza a supplire con l’abbondanza del superfluo alla mancanza dell’essenziale e del necessario, innovazioni del genere non potevano non apparire indispensabili e urgenti di per sé, anche prima che tale necessità venisse avvalorata e portata alla ribalta in nesso alle prospettive di distruzione del genere umano o addirittura di ogni forma di vita sul nostro pianeta.

Correggere le aberrazioni dell’attuale sistema significa, in sintesi, superare il preconcetto che fa giudicare economico o anti-economico ogni provvedimento a seconda che dia luogo a un risultato positivo o negativo esprimendone in traballanti termini monetari qualche aspetto unilaterale.

E ciò significa che si deve invece ragionare in termini di utilità collettiva, promuovendo cioè la massimizzazione non del “reddito” bensì dell’utilità o felicità collettiva, riconoscendo la priorità (anche nell’interesse beninteso dei singoli) ai beni e consumi pubblici su quelli privati, garantendo a tutti la libertà dal bisogno e negando a tutti la libertà dello sperpero.

Tali concetti sono più o meno gli stessi indicati da Mansholt. Egli si sofferma anche su particolari ma importanti aspetti e obiettivi, come il miglior sviluppo intellettuale e culturale e quello della ricerca opportunamente indirizzata, quali fattori di maggior benessere conseguente a minori sprechi e inquinamenti.

Come nozione tecnica di utilità e felicità egli si riferisce a quella di Tinbergen, ed è effettivamente in tale ordine di idee (che valse all’autore il primo premio Nobel per l’Economia) che si può trovare la via (l’unica, a mio avviso) per svincolarsi dal groviglio di fraintendimenti su cui si basano le teorie economiche tradizionali. E in tale giudizio includo anche quella marxista, che si limita a modificare o magari capovolgere qualche ragionamento senza giungere ad una contestazione sufficientemente radicale dal punto di vista teorico.

La contestazione radicale consiste invece, per l’appunto, nell’improntare il problema dell’economia nel senso della “Economia del benessere” (Welfare Economics). cioè nel senso della teoria dell’optimum paretiano, depurata però dai contorti tentativi dello stesso Pareto per interpretarla in chiave liberista: optimum automaticamente raggiungibile attraverso la libera concorrenza, autoregolazione effettuata dalle provvidenziali virtù del mercato, così che – come per Pangloss – tutto va nel miglior modo possibile nel migliore dei mondi possibili.

Questo ragionamento è per me “il tragico sofisma” dell’economia di mercato, come spiegai in un articolo di tale titolo nel 1969 e in altri scritti, in parte ripubblicati nel volume Un matematico e l’Economia (Franco Angeli, 1969)1.

Tale titolo intendeva chiarire che io non pretendo di essere un economista, benché, come matematico e come persona libera da condizionamenti di scuola, io ritengo di aver validamente confutato alcuni sofismi economici dovuti ad errori o malintesi matematici, in particolare di Pareto che ammiro molto pur interpretando e utilizzando i suoi schemi in modo del tutto diverso.

Ho voluto sottolineare la mia qualità di matematico che si è interessato all’esame critico di concezioni economiche senza ritenersi per ciò un economista: e dovevo farlo per dire che non è strano che non sia in grado di esprimere alcun parere riguardo alle modalità proposte da Mansholt per promuovere un’evoluzione dell’economia mondiale verso un assetto rispondente ai requisiti e agli obiettivi di un soddisfacente benessere collettivo. Egli stesso, del resto, è dubbioso, e sembra elenchi delle proposte ipotetiche a titolo esemplificativo.

Possono giovare, e fino a che punto, accorgimenti o correttivi o incentivi o disincentivi, ad esempio di carattere fiscale, per la produzione o l’importazione di beni prodotti con maggiore o minore attenzione alle esigenze ecologiche, di durabilità, di riciclaggio? Basterà, dopo attuato un sistema di misure del genere, lasciare che il funzionamento dell’economia sia determinato dal comportamento di aziende agenti secondo il criterio del proprio profitto?

Od occorrerà introdurre forme di programmazione che regolino, in modo più o meno diretto, in quale misura e modo i beni abbiano ad essere prodotti e distribuiti?

Il problema sembra non solo difficilmente impostabile in sede teorica ma esorbitante dall’ambito dei problemi economici per assumere un prevalente aspetto politico, sociale, e forse ancor più etico. Occorre che decisioni di portata vitale per l’intera umanità vengano prese con intelligenza. imparzialità, chiaroveggenza e coraggio. Ma chi ha queste doti, e chi stabilisce chi le ha?

Guardandosi attorno, pensando ai reggitori dei diversi Stati, vicini e lontani, piccoli e grandi, ai modi in cui sono stati eletti e al discernimento degli elettori nei paesi ove si fanno elezioni (e, peggio, ai modi di detenere il potere o di impossessarsi del potere altrove) non si vedono se non motivi di sconforto, di disperazione.

Bisognerebbe cominciare col migliorare il livello di consapevolezza e di solidarietà in tutto il genere umano, affinché esso trovi il modo di affidare a persone capaci e in buona fede le decisioni da cui dipendono le sue possibilità di sopravvivenza

Invece sembra imperversi sempre più (dopo la luminosa parentesi del 1963: “Pacem in Terris”), e venga sempre più inoculato dal rigurgito di oscurantismo, il culto dell’Imbecillità, che non potrebbe portare se non al disastro. Invano (ovviamente) ho scritto anni fa il “Manifesto di battaglia contro il culto dell’imbecillità” (“Homo Faber”, 1966, anch’esso ripubblicato nel volume Un matematico e l’Economia).

Daniele Bovet. Evoluzione tecnica e rivoluzione culturale

Anche a costo di sembrare paradossale vorrei, nell’affrontare il grave e perfino tragico problema posto dal Club di Roma, dal rapporto del M.I.T. e dal messaggio Mansholt, iniziare con un atto di fede e affermare innanzi tutto la mia fiducia incrollabile nella potenza dello spirito umano.

Sono orgoglioso di appartenere alla specie umana, fiero di essere un individuo razionale e cosciente, fiero di essere l’erede dei tesori intellettuali, artistici e tecnici accumulati in cinquanta secoli di cultura. Considero un vero privilegio di essere un intellettuale e di avere alle spalle quaranta anni trascorsi in un laboratorio di ricerca. È per me motivo di fierezza e un raro privilegio, grazie ai benefici della trasmissione culturale che è propria della civiltà, considerarmi in un certo qual modo il discepolo di Bacone, di Cartesio, di Galileo, degli Enciclopedisti, di Darwin e di aver vissuto nel secolo della relatività, della struttura della materia, e del codice genetico.

Il mito del “buon tempo antico” come quello del “buon selvaggio” sono soltanto favolette divertenti alle quali Rousseau ha prestato il suo genio e che periodicamente rinascono dalle loro ceneri.

Se è vero che per 500 secoli la popolazione della Terra è rimasta – come lo si esprime con un crudele eufemismo – allo stato di equilibrio, ciò non è stato possibile che grazie alle malattie, alle carestie, ad atroci disuguaglianze e alla lotta incessante fra individui, classi sociali e popoli. La durata media di vita dell’uomo di 200 anni fa non differiva molto da quella dell’uomo del neolitico. E per quanto riguarda le probabilità di vita alla nascita, la sorte dell’uomo del ‘700 non si distaccava molto da quella di numerosi mammiferi selvaggi.

Noi sappiamo infatti che, per una popolazione di piccoli roditori catturati nella natura, gli individui che oltrepassano la durata di un anno costituiscono un’eccezione mentre gli stessi animali raggiungono facilmente i quattro e cinque anni nelle condizioni ottimali quali sono quelle offerte nei nostri laboratori.

Possiamo sinceramente credere che l’atmosfera delle stradine prive di fogne, l’acqua inquinata raccolta lontano dagli abitati, la misera brodaglia di segala magari infestata di sclerozi di ergot, di miglio o di orzo contesi ai parassiti, rappresentino davvero il paradiso perduto che ci descrivono i difensori delle bellezze naturali e dell’ecologia integrale?

Fra il 1750 e oggi, la mortalità infantile è scesa dal 250-300 per mille al 27 per mille e la durata della vita umana è passata da 20-25 anni a 70.

In alcuni casi – il vaiolo, la rabbia, la meningite cerebro-spinale, la malaria. la tubercolosi o la poliomielite – la diminuzione o in alcuni casi la completa eradicazione della malattia possono essere spiegate dalla vaccinoterapia o dai farmaci specifici. In molti altri, invece, questi progressi sono dovuti alla maggiore igiene nelle abitazioni, alla disponibilità di acqua potabile, all’alimentazione più sana, all’educazione sanitaria, alla organizzazione dell’assistenza sociale e all’elevato tenore di vita.

In realtà, gli aridi dati statistici traducono bene o male profonde realtà umane e il termine stesso di progresso scientifico o tecnico presuppone generazioni di ricercatori di cui vorrei poter evocare la lunga pazienza, lo sforzo appassionato verso la scoperta e i doni di una genialità propria all’uomo.

Nei limiti della mia vita professionale durante la mia carriera ho assistito ad alcune scoperte che sono sfociate nella lotta contro il dolore – per i progressi realizzati nel campo dell’analgesia e dell’anestesia locale e generale – e ho visto trasformarsi le prognosi di numerose malattie infettive fra le più crudeli – tubercolosi, meningiti, polmoniti – ho visto indietreggiare lo spettro delle malattie mentali e assistito alla rivoluzione delle cure psichiatriche, ho visto il medico in misura di aiutare i suoi pazienti fino alle angosce della vecchiaia e della morte. Il fatto che l’uomo medio del nostro tempo, secondo l’espressione di J. Fourastié, “acceda per la prima volta a una vita biologica completa” e sia in grado di difendersi con eguale sicurezza non solo dalle bestie feroci ma dai pericoli assai più insidiosi dei microrganismi costituisce, fra tutte le trasformazioni del mondo contemporaneo, forse la più spettacolare e la più felice.

Il dibattito “crescita zero” ha documentato ampiamente quelle che potrebbero essere a più o meno breve scadenza le conseguenze materiali della duplice evoluzione della popolazione e della produzione legata al progresso tecnologico. Ed ha messo chiaramente in luce che si tratta di un fenomeno mondiale.

Ma il secondo punto sul quale vorrei fermarmi è quello che riguarda le conseguenze sul piano ideologico del progresso scientifico e tecnico. Perché è evidente che scienza e tecnica non hanno soltanto profondamente modificato il nostro modo di vivere, ma si sono dimostrate capaci di trasformare la nostra mentalità e il nostro modo di sentire, di pensare e di agire. Dopo aver ricordato gli effetti positivi della rivoluzione industriale sulla salute e sulla vita quotidiana degli uomini, esam1iniamo adesso le conseguenze sui concetti stessi della nostra propria esistenza.

Parallela in un certo senso alla visione pessimistica di una terra sovrappopolata e dilaniata dai progressi della tecnica, la contestazione della scienza riveste la forma di una critica antirazionalista e mistica. L’anti-intellettualismo è formato di correnti diverse e contraddittorie.

Per alcuni la scienza è pericolosa perché innovatrice e ispirata a una ideologia al tempo stesso liberale e liberatrice, apportatrice di un potenziale di emancipazione e rivoluzionario. Per altri la scienza è pericolosa perché inaccessibile e considerata privilegio di una minoranza legata a un sistema di sfruttamento tecnocratico.

L’epoca attuale che alcuni presentano sotto il segno della maggiore confusione potrebbe con egual ragione apparire come l’inizio travagliato di un nuovo modo di pensare.

Nel secolo degli illuministi il pensiero razionale ha avuto una sua funzione storica di liberazione nei riguardi delle ideologie allora dominanti – feudalesimo e monarchia assoluta – così come dei miti, dei dogmi e dell’oppressione spirituale. Più vicino a noi ricorderemo come nel secolo scorso i progressi tecnici realizzati nel campo dell’agricoltura estensiva abbiano contribuito al successo dei movimenti di liberazione degli schiavi.

Ed è evidente che i progressi spettacolari realizzati nel campo delle comunicazioni e dell’informazione abbiano contribuito ad allargare a scala mondiale i nostri concetti di giustizia sociale e portato a decisioni politiche che han segnato la fine del colonialismo. Nel caso che ci interessa del rapporto del Club di Roma e degli esperti del M.I.T. quel che colpisce è il vedere come nel campo delle prospettive, partendo da considerazioni scientifiche, statistiche e tecniche obbiettive il discorso si sia ampliato fino a porre il problema di una nuova etica sociale.

Alle quattro libertà fondamentali della persona umana – la libertà di circolazione, la sicurezza individuale, la libertà di opinione e il diritto all’intimità – se ne è aggiunta recentemente una quinta (Escoffier-Lambiotte): rendere possibile, grazie ai progressi della fisiologia e augurabile per l’esplosione demografica, una quinta libertà il cui significato si fa strada nei paesi anglosassoni e che riguarda il controllo cosciente della procreazione. Il che pone l’uomo e la donna di fronte alle responsabilità che derivano dalla creazione di una nuova vita umana. Responsabile di una crisi di crescita nella quale l’umanità attuale si dibatte, il pensiero scientifico fa prova di un umanesimo privo di ogni ambiguità.

Abbiamo tutti imparato a scuola che per Condorcet il progresso era insito nella natura umana. Voltaire tuttavia vi vedeva già gli elementi di una lotta e particolarmente di una lotta contro la stupidità.

Oggi – ed è questo anche uno degli insegnamenti che possiamo trarre dal documento del Club di Roma – l’idea di progresso si è pericolosamente frantumata. Si parla ormai di progresso intellettuale, tecnico, economico o morale e del progresso non resta più, secondo l’espressione di Ferrero, che una “idea forza”.

Che bisogna pagare a questo prezzo il progresso è una nozione che sembra essere sfuggita sia agli utopisti che ai filosofi dei secoli che ci hanno preceduto.

Può oggi sembrar banale parlare dei rischi che comportano i bruschi cambiamenti delle forme sociali tradizionali, una urbanizzazione eccessiva, l’enorme aumento del traffico, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. La prima rivoluzione industriale ha condotto nel secolo scorso a forme di lavoro oppressive che non hanno trovato soluzione che grazie a sanguinose lotte sociali. A un certo alleggerimento del lavoro fisico puramente muscolare la seconda rivoluzione industriale ha visto sopravvenire nuove forme di stanchezza psicosomatica generate dal ritmo del lavoro, dal frastuono e dalla competizione. Ogni problema risolto porta in sé nuovi problemi. Quando, nel silenzio del nostro laboratorio di chimica terapeutica, ci rallegravamo degli effetti sempre più importanti dei nostri ritrovati nelle malattie infettive, eravamo lungi dall’immaginare che nuovi problemi ne sarebbero derivati come ad esempio le intossicazioni da farmaci, quello delle malattie della terza età ed infine l’aumento eccessivo della popolazione.

Ma chi non vede la crudeltà, l’impossibilità e la vanità di un ipotetico ritorno indietro? Chi non si rende conto che la soluzione deve essere cercata sul piano tecnico con la scoperta di farmaci meglio tollerati, di nuove terapie cardio-circolatorie, anti-tumorali, in cure più efficaci per i reumatismi e di una migliore conoscenza della fisiologia della riproduzione? Chi non vede la necessità di una educazione della popolazione nel suo insieme nel campo della medicina preventiva e dell’igiene individuale e sociale?

Se la ricerca scientifica e tecnica corrispondono a una vocazione essenziale e profonda dell’uomo, se il bilancio di un’attività intelligente si risolve in fin dei conti in un beneficio, se è ormai impossibile – come non fu mai né ragionevole né possibile – fermare l’uomo ragionevole e ragionatore nella conquista della cultura, se una soluzione che consiste nel fermare la ricerca o nel tornare indietro sia impensabile, resta tuttavia la impressione dominante che tutti proviamo dinanzi al mondo attuale quando pensiamo all’avvenire, di disorientamento se non di angoscia.

Il problema non è più quindi – ciò che appare ridicolo – chiedersi se la conoscenza scientifica ha ancora qualcosa da dire, ma piuttosto sapere in quale spirito e verso quali campi deve essere ricercata la soluzione dei problemi generati da una espansione eccessiva risultante da rivoluzioni industriali successive. Sulla base di un concetto dualistico della cultura è stata anche invocata la differenza fra scienze fisiche e scienze dette sociali o morali.

Se consideriamo il problema da un angolo un po’ diverso, possiamo chiederci se non vi siano due modi complementari di affrontare la ricerca scientifica.

Il primo, positivista, si basa sul modello ereditato dalle scienze fisiche; esso è libero e neutrale dinanzi a ogni problema. In accordo con i concetti della scienza galileiana esso ha avuto una sua funzione essenziale nella chiarificazione dei concetti e nella lotta contro la superstizione. Il secondo, essenzialmente umanista, corrisponde ad un orientamento della ricerca volto alla soluzione di alcuni dei problemi che interessano più direttamente la nostra generazione. Sarebbe infatti assurdo – scrive lo psicologo Maslow – immaginare che un ricercatore diventi “per caso” un buon medico.

I concetti ereditati dall’astronomia, dalla fisica e dalla chimica di una scienza naturale meritano di essere associati ad una orientazione più prammatica. Diventata ormai da quasi due secoli un elemento fondamentale della vita quotidiana, la ricerca pura e applicata meritano di essere ripensate in funzione di una visione umanistica della scienza e di una priorità da accordare a ciò che è convenuto di raggruppare sotto il termine di “grandi problemi” nel campo insufficientemente esplorato della conoscenza biologica dell’uomo.

Non entrerò qui nel fondo di un dibattito sulle fondamenta, la legittimità e le possibilità dello sviluppo di un’etica puramente scientifica, recentemente rimesso in onore da Jacques Monod nel suo libro Il caso e la necessità.

Per parte mia non troverei illogico che una deontologia analoga a quella insegnataci dal giuramento di Ippocrate possa, nei limiti dei nuovi sviluppi delle scienze biologiche, estendersi oltre la medicina tradizionale a ciò che dovrebbe formare le scienze dell’uomo di domani.

Le finalità e l’etica che hanno nel corso dei secoli condotto allo sviluppo delle scienze mediche sono le stesse che possono e debbono condurci ad un maggiore interesse nell’approccio biologico dell’uomo.

La specializzazione del lavoro di ciascuno di noi, la straordinaria accelerazione delle scoperte scientifiche, la vasta distribuzione dei centri di cultura non si dimostrano elementi favorevoli ad una sintesi che molto probabilmente sarà l’opera dei nostri immediati successori.

In realtà la biologia ha sviluppato negli ultimi 50 anni numerosi concetti che mi paiono suscettibili in un prossimo avvenire di trasformare non soltanto il mondo in cui viviamo, ma la stessa visione che l’uomo ha di sé stesso.

In un senso più generale, i grandi problemi che si pongono alla biologia riguardano essenzialmente lo studio delle basi organiche del comportamento, la conoscenza del capitale genetico dell’individuo, le questioni relative all’interazione dell’uomo e dell’ambiente, l’analisi delle motivazioni e delle reazioni emotive nel campo delle comunicazioni e del comportamento sociale.

Nei limiti di un’etica ereditata da Ippocrate, i grandi problemi si riducono a quello della formazione di un buon “specimen” umano e di una “buona società”. Fra i grandi problemi aperti alla ricerca non ne vedo di più importanti che quello riguardante ciò che Edgar Faure chiama “apprendre à être”.

Il dilemma dinanzi al quale ci pone il rapporto del Club di Roma evoca in un certo senso le discussioni sollevate negli anni ‘50 dalla genesi dell’era atomica. 1939, esperienza della fissione nucleare; 1942, pila atomica; luglio 1945 primo lancio di una bomba A in un deserto; 6 e 8 agosto 1945 seconda e terza prova sull’uomo – Hiroshima, Nagasaki – bersaglio vivente. Per le due esplosioni un totale di 215.000 morti. Si trattava di una bomba che aveva un potere energetico mille volte più grande che non quello delle armi tradizionali più moderne nel 1945. E dopo di allora sono stati realizzati la bomba X, la rampa di lancio e i satelliti.

Se siamo fino ad ora sfuggiti al pericolo di una nuova guerra atomica, lo dobbiamo alla lenta crisi di coscienza e ai coraggiosi gridi di allarme degli intellettuali come alla rivolta che a poco a poco si è andata creando nell’opinione pubblica. Il successo dell’appello lanciato dalla Conferenza di Stoccolma dal Movimento Mondiale per la Pace nel 1950 non ha ancora portato né all’interdizione totale dell’arma atomica né alla distruzione degli stocks. Esso ha soltanto aperto la possibilità di una tregua nucleare controllata e portato a una soluzione approssimativa di un “modus vivendi”.

Tanto per i problemi posti dall’atomo al servizio della guerra, come per quelli assai più complessi e grevi di conseguenze della crescita non vi sono ricette miracolose. Se la presa di coscienza degli intellettuali ha costituito in un caso come nell’altro un elemento determinante, una soluzione anche parziale non può venire che da una presa di coscienza collettiva. In conclusione la partita, assai più che dai politici, sarà giocata dall’uomo della strada al quale gli intellettuali hanno il dovere di rivolgersi. “Les savants doivent être des citoyens comme les autres – plus actifs aujourd’hui parce qu’ils ont plus de responsabilités” (d’Astier).

Non abbiamo più il diritto di pensare che lo sviluppo tecnico attuale, che per molti costituisce il risultato principale e il più tangibile della ricerca scientifica, meriti necessariamente per sé stesso il nome di progresso. Ma conserviamo interamente la nostra fede nel valore educativo e nel fattore etico della ricerca scientifica, nello spirito che guida l’uomo verso la scoperta e nel suo sforzo disinteressato verso la verità.

Di fronte allo scetticismo di molti e alla preoccupazione di tutti, un conforto può venirci dalla convinzione che nulla è più forte e potente che un’idea chiaramente formulata.

1 Per più ampi sviluppi si veda il rapporto dell’a. nel volume di imminente pubblicazione Requisiti per un sistema economico rispondente alle esigenze della collettività, a cura di B. de Finetti, Direttore del Corso CIME di Economia Matematica, Urbino 1971 (Franco Angeli, ed. 1972). In appendice a tale rapporto si trova anche un più ampio commento della ricerca M.I.T.

image_pdfScaricaimage_printStampa
Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articolo Precedente

Possibilità di cooperazione internazionale nell’indagine agroecologica

Articoli Collegati
Total
0
Share