La ricerca di Massimo Ceriani, che da tempo e con passione si occupa delle trasformazioni dell’agricoltura, è incentrata su quel che sta avvenendo nelle campagne a ridosso di una delle più grandi concentrazioni urbane d’Europa. Emerge qui una prima contraddizione: a poca distanza spaziale o anche intrecciati tra di loro coesistono mondi che sembrano appartenere a epoche diverse. Da un lato il ritorno a forme di agricoltura pre-moderne, addirittura un’agricoltura selvatica, dall’altro il flusso continuo delle merci provenienti da ogni angolo della terra, sullo sfondo la nuova skyline di Milano disegnata dalle archistar. La città informe continua a avanzare facendo della pianura, già patria della magnifica agricoltura esaltata da Cattaneo, una incombente camera a gas. In direzione opposta, ostinata e contraria, si muovono i nuovi contadini, agricoltori e imprenditori incontrati e intervistati da Ceriani.
Le testimonianze, le narrazioni, hanno un valore in sé, ci fanno conoscere un pezzo sorprendente di realtà, con le sue molteplici, seppure minori, contraddizioni. Ma limitarsi a osservare i contrasti vistosi che abbiamo evocato e quelli che emergono evidenti dalla ricerca significherebbe semplicemente prendere atto del caos che avanza irresistibile. La politica, al di là dell’autoconservazione, ha abdicato da tempo; il mercato doveva essere la nuova bussola: generalizzando l’economia ad ogni ambito della vita sarebbe emerso un nuovo ordine, una razionalità incentrata sull’efficienza. Al netto dei costi sociali, alti sin che si vuole ma “giustificati” da questo ultimo grande progetto della modernità, le cose non hanno funzionato nel modo previsto. Sia chiaro, la sperimentazione è ancora pienamente in atto e può godere di un sostegno apparentemente maggioritario, comunque amplificato dalle concentrazioni di potere che traggono vantaggio dal modus operandi dominante. Però il caos è innegabile e le più sofisticate tecnologie non sono in grado di gestirlo, forse lo accrescono.
Trovare il bandolo della matassa non è facile e non siamo ingenui o presuntuosi al punto di voler mettere le brache al mondo. Però tornare all’origine, al settore primario, è un buon esercizio mentale. Prendiamo così la parabola dell’agricoltura, divenuta in pochi decenni agricoltura industriale, la quale costituisce il referente esplicito o implicito delle agricolture altre e tra di loro diverse indagate da Ceriani. L’industrializzazione integrale dell’agricoltura padana, dispiegatasi dagli anni del miracolo economico in poi, è stata raccontata come un capitolo centrale della modernizzazione del paese, con rese spettacolari specie in campo zootecnico. Ora è sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che si ostinano a non vedere, il fallimento spettacolare di questa superagricoltura che per stare in piedi ha dovuto ricorrere ad ogni sorta di sussidi, e che nonostante l’utilizzo dei più avanzati ritrovati della chimica e farmaceutica, biologia e genetica, è messa fuori mercato dalla concorrenza di agricolture industriali ancor più aggressive, e sommamente distruttive dell’ambiente, ovvero che possono ricorrere a mano d’opera ancor meno pagata, veri e propri schiavi, anzi peggio.
È così successo che il massimo di modernità e di apparente razionalità, le monocolture geometriche ogm senza un filo d’erba…, si è rovesciato in un disastro sociale ambientale. Non è possibile voltare pagina e passare oltre, bisogna almeno capire cosa è successo e perché, e per quali responsabilità, bisogna prendere coscienza e conoscenza dei fatti. Ma il pensiero mainstream non è affatto su questa lunghezza d’onda, non ci pensa neppure di fermarsi a ragionare. Expo, utile per finalità che non concernono l’agricoltura ma la skyline, è stata rivelatrice: l’idea più avanzata che ha espresso è di rendere sostenibile e appetibile l’agricoltura industriale dipingendola di verde, vale a dire industrializzando l’agricoltura biologica che, a differenza dell’antiquata agricoltura dominante, si è dimostrata un business interessante, visto che i ceti medi riflessivi e le élite abbienti sono disposte a orientare i propri consumi alimentari in tale direzione.
L’agricoltura industriale potrebbe essere salvata solo con pesanti provvedimenti protezionistici, al momento impossibili ma non più da escludere vista la crisi senza uscita del modello globalista liberista, ciò però vorrebbe dire cadere dalla padella alla brace, accelerando drasticamente i tempi di dispiegamento della crisi ecologica, di cui l’alterazione artificiale del clima è solo la manifestazione più evidente e mediatizzata.
Una via d’uscita può essere trovata in una terza agricoltura che sappia raccogliere e valorizzare il meglio dell’agricoltura contadina, capace altresì di utilizzare in modo selettivo e intelligente il meglio delle tecnologie attuali; per fare un esempio, le tecnologie digitali possono facilitare la gestione di filiere e la connessione di produzione e consumo, senza per questo essere sottomesse esclusivamente alle leggi dell’economia, bensì governate dall’ecologia ambientale e sociale. Un’agricoltura differenziata al suo interno e che quindi non può pretendere di imporre un modello unico e che però ha una sicura bussola di orientamento nel pensiero ecologico, ovvero in un completo riorientamento del nostro stare nel mondo e vivere nell’ambiente. Sotto traccia o esplicitamente questo nuovo orientamento emerge, secondo ottiche diverse, nelle esperienze in atto nella porzione di Lombardia indagata dalla ricerca a cui è dedicato questo quaderno di “Altronovecento”.