Stavo lavorando a questa nota introduttiva alla nuova edizione dell’importante libro di Renato Musto sugli Industrial Workers of the World (IWW) quando mi sono giunte, dai media, le cronache drammatiche della rivolta dei lavoratori stagionali di Rosarno e della vergognosa risposta razzista alla loro richiesta di migliori condizioni di lavoro e di vita. D’un tratto, di fronte alle immagini rimbalzate dalla tv, nella mia percezione i trentacinque anni che ci separano dalla pubblicazione originale del libro e il secolo che ci divide dalla fondazione dell’IWW si sono dissolti. Come poteva essere altrimenti di fronte a un caso di lavoratori stagionali che si muovono dall’uno all’altro raccolto, in condizioni di estrema precarietà e di sistematica violazione di qualunque principio di decente convivenza umana, e che, nonostante tutto questo, riescono a sollevare la testa e a gridare l’insostenibililità di una situazione endemica di sfruttamento e umiliazione? Certo, subito è intervenuta la ragione storica a ricordarmi che l’analogia, nell’esame del rapporto passato-presente, va usata sempre con cautela. Siamo nel primo decennio del XXI secolo, nel Mezzogiorno d’Italia e parliamo di una forza lavoro migrante nera. Non siamo tra le foreste e i campi della costa settentrionale del Pacifico, con una forza lavoro fatta in gran parte di anglosassoni o nord-europei (ma senza dimenticare la presenza dei tanto bistrattati “gialli” cinesi e giapponesi), all’alba del Novecento. E tuttavia, pur nella sua incontrollata immediatezza, questa suggestione mi pare dia il senso di quanto la storia narrata in questo libro pionieristico parli ancora con forza al nostro presente e vada perciò ascoltata con attenzione.
Gli IWW, ricordiamolo, pur in mezzo a tutti i limiti e alle tante contraddizioni che ne segnarono la tormentata vicenda, sono l’organizzazione operaia minoritaria che per prima, a livello internazionale – nel punto più avanzato dello sviluppo e nel paese che ha sempre vantato la sua “eccezionalità” di essere senza socialismo – pose nella maniera più radicale e coerente la questione della democrazia industriale come autogoverno dei lavoratori a partire dalla concreta esperienza sul luogo di produzione. Lo fecero nel quadro di una storia magmatica e complessa quanto la composizione di classe della realtà, il capitalismo come “distruzione creatrice” nella sua forma più estrema, nella quale si muovevano. Musto saggiamente àncora questa storia attorno a tre capisaldi, che riflettono altrettanti elementi-chiave della vicenda dell’IWW ( wobbly ).
I primi due sono iscritti nel nome stesso dell’organizzazione, quel nome che poteva suonare incongruo e presuntuoso, vista l’esiguità delle forze rappresentate al congresso di fondazione a Chicago. Esso rifletteva tuttavia il legato, concretissimo, di pratiche di lotta e parole d’ordine, che da tempo viaggiavano, fra l’Atlantico, il Pacifico e il continente americano, nelle valigie dei migranti e nei fardelli dei lavoratori stagionali. Il primo caposaldo è l’impulso “industrialista”, la convinzione che il processo di estensione della condizione lavorativa dipendente massificata, legato alla concentrazione economica e ai processi di meccanizzazione in corso, spalancava la strada all’autogoverno operaio. C’era del meccanicismo, dell’ingenuo determinismo, proprio dei tempi, in questa convinzione, come nota giustamente Musto. Ma c’era anche un coraggioso sforzo di lettura soggettiva dei processi di trasformazione in corso nel rapporto di capitale dal lato dei suoi assetti proprietari, delle innovazioni tecniche e tecnologiche (un aspetto centrale dell’elaborazione wobbly) e della composizione tecnica della forza lavoro.
Uno sforzo, occorre aggiungere, disteso su una dimensione spaziale globale, il secondo caposaldo dell’IWW. Anche qui, i wobblies non si risparmiavano formule roboanti, in un movimento retorico indirizzato addirittura al “mondo” che poteva sembrare eccessivo. Ma che invero inseguiva le tendenze di sviluppo nei punti più avanzati con gli occhi di chi quelle tendenze alimentava e subiva provenendo da realtà all’apparenza tanto lontane e “arretrate” come le campagne dell’Europa orientale e meridionale o dell’Asia, ma poteva anche, a tratti, intaccare, modificare, forse spezzare, con la determinazione individuale e collettiva dello scoprirsi classe operaia.
Quando Musto scriveva il suo libro, da noi avevamo appena cominciato a parlare di imprese “multinazionali”, ma negli Stati Uniti la storica economica Mira Wilkins stava già pubblicando fior di volumi sulle origini di queste imprese nel suo paese e sulle loro diramazioni nel mondo. Allo stesso modo, espressioni come “transnazionale” per indicare tutto quello che si muove al di sotto, al di sopra, a lato degli stati-nazione, e dunque anche e soprattutto i movimenti di braccia transoceanici e i tentativi di stendere attorno a essi reti di solidarietà, non erano ancora entrati nel nostro lessico. Ecco, i wobblies avevano la presunzione di radicare il loro internazionalismo, pensato sull’onda delle tradizioni marxiste, anarchiche e anarcosindacaliste, attorno alle volute, instabili e irregolari, dei movimenti transnazionali di forza lavoro in ogni possibile direzione.
Partivano, ed è questo il terzo caposaldo, dalle concrete condizioni di vita di questi lavoratori e, in nome del primato di queste condizioni e forse sotto l’impressione di vivere in una “società senza stato”, come a taluni poteva apparire, al confronto con quello europeo, il mondo Usa, rifiutavano la politica, in specie quella istituzionale, ma non solo. Su questo terreno avrebbero pagato un pesante dazio, teorico e pratico, come ancora Musto acutamente fa rilevare. Le autorità statali e federali li avrebbero fatti a pezzi a cavallo della Grande guerra, così come, per converso, nell’anteguerra essi ottennero alcuni dei risultati più significativi proprio grazie alla mediazione delle strutture pubbliche sulle quali avevano esercitato abilmente pressioni ispirate alla logica della forza dell’opinione pubblica. Eppure anche qui, in questo forte limite, c’era l’intuizione, che tanto sarebbe piaciuta alla nostra generazione sessantottina perché ne anticipava un elemento fondante, di battaglie giocate attorno alla quotidianità, alle reali condizioni di vita, alle promesse di una sua migliore qualità (“for more of the good things of life”, come recitava uno slogan gridato durante le loro agitazioni).
Potrei continuare naturalmente con la lista dei limiti e delle opacità dell’IWW, massime quello relativo ai rapporti di genere e alla questione femminile, che costituisce probabilmente il vero punto debole dell’organizzazione, ma che attende ancora di essere studiato in tutta la sua complessità. Li troverete, assieme alla ricostruzione esaustiva del loro orizzonte teorico e pratico, nel bel testo di Musto. Vorrei invece concludere ricordando quanto, a mio avviso, sempre stando attenti a non lasciarsi prendere la mano dal gusto incontrollato dell’analogia, abbiamo bisogno, ancora oggi, dello spirito wobbly. Abbiamo bisogno della loro capacità di respirare forte e largo, a polmoni aperti sul mondo, per immaginare un globale meno miope e oppressivo di quello regalatoci dalla fine della guerra fredda, dalla rivoluzione informatica e dalla finanziarizzazione irresponsabile. Abbiamo bisogno di gettare uno sguardo lucido e affilato sulle innovazioni tecniche e tecnologiche, filtrandole attraverso il significato che esse assumono per chi ci deve lavorare sopra. Abbiamo bisogno di capire il “politico”, ma senza politicismi, e senza mai dimenticare la crucialità della politica del quotidiano: il fatto, cioè, come diceva qualche anno fa Tim Costello, un wobbly dei nostri giorni che purtroppo ci ha lasciato un mese fa, che “una buona vita giorno dopo giorno …quanto succede ogni giorno è la vera sostanza della vita umana: se essa è insoddisfacente, artificiale, povera, non libera, ogni giustificazione politica, religiosa o filosofica, non è che vaniloquio”. Abbiamo bisogno della contagiosa gioia di vivere dell’IWW, delle loro canzoni, della loro grafica spavalda e irriverente, della loro capacità di navigare nell’emergente società dello spettacolo e dei consumi “a occhi aperti”, senza subirla, ma rivoltandola come “una pietra che rotola”, con intelligenza e ironia. Abbiamo bisogno del coraggio col quale seppero fare del loro “ingenuo” richiamo all’unità dei lavoratori un robusto antidoto che vaccinò l’organizzazione contro i pesanti effetti collaterali di rinforzo degli umori razzisti scatenati dall’atmosfera imperiale che pervadeva l’epoca. Tanto da indurre uno storico, pure capace di un forte disincanto nei confronti dei wobblies, come David Montgomery, ad affermare che, a differenza di tutti quanti l’avevano preceduta, “l’IWW rifiutò ogni esclusivismo razziale. Giapponesi, messicani, afroamericani e ogni altro salariato vi veniva chiamato a raccolta”.Per tutte queste ragioni questo libro, che tanto ci ha aiutato a capire l’IWW in un momento nel quale sembrava ancora possibile cambiare in profondità il mondo, va riletto oggi che tutto sempre invece, all’apparenza, immodificabile, se non dall’alto. Ma, come diceva anni fa una canzone popolare, domani chissà…
In allegato il testo integrale “Gli I.W.W. e il movimento operaio americnao” a cura di Renato Musto