L’ecologia, per un intero secolo, dagli anni Sessanta dell’Ottocento è rimasta severa disciplina scientifica rivolta a comprendere e descrivere i rapporti degli esseri viventi fra loro e con l’ambiente circostante.
Negli anni Sessanta del Novecento è diventata popolare con la constatazione che l’animale “uomo”, con le sue scoperte e le sue attività, stava modificando prepotentemente le condizioni di vita degli altri esseri viventi e dell’ambiente naturale, con effetti diventati planetari in seguito ad alcune scoperte come quella dell’energia atomica, dei pesticidi e di molti altri prodotti sintetici non biodegradabili, “estranei” ai cicli naturali.
L’“ecologia” indicava anche alcuni rimedi che presupponevano maggiori conoscenze sui cicli della materia e dell’energia e azioni politiche: pubblici controlli e divieti e imposte.
E qui il discorso è diventato economico e politico; le riforme “ecologiche” disturbavano gli affari e i relativi potenti interessi e potevano essere chieste e (forse) ottenute con una pressione esercitata da “movimenti” con diverse finalità e attenzioni: per la difesa della natura, della salute delle persone, per la sicurezza dei lavoratori.
Una prima ondata di protesta, direi “americana”, ha fatto seguito alla critica della società dei consumi e alla pubblicazione del libri Primavera silenziosa della Carson e Our Synthetic Environment di Bookchin; la protesta è diventata mondiale nei primi anni Settanta del Novecento quando l’“ecologia” è diventata la bandiera di una nuova richiesta di tecnologie meno violente nei confronti della natura e di più equi rapporti fra paesi ricchi e poveri.
Questa età dell’oro, vivacissima anche in Italia, fu seguita dalle crisi energetiche ed economiche che fecero passare in secondo piano, nell’opinione pubblica, l’aspirazione alle grandi riforme.
È seguita la contestazione (vittoriosa) delle centrali nucleari, seguita a sua volta da una normalizzazione in cui le parole ecologia, ambiente, naturale, biologico, sostenibile, sono entrate nel linguaggio comune, distorte ai fini della crescita economica e assorbite dalla pubblicità che le ha applicate proprio a quelle merci e macchine che sono le vere fonti dei guasti ambientali.
È così continuato il glorioso cammino verso un inevitabile disastro “ecologico” in un pianeta sull’orlo di una guerra nucleare fra i paesi ricchi, di inarrestabili crisi climatiche e di conflitti per il cibo e l’acqua nei paesi poveri.
Non c’è da meravigliarsi che il tema sia stato oggetto di attenzione degli storici e dei sociologi e che, nel mezzo secolo successivo all’età dell’oro, siano stati pubblicati milioni, letteralmente, di pagine di testimonianze, articoli e saggi, di cui questa rivista ha cercato di essere “narratrice”.
Il libro di Michele Citoni e Catia Papa, che viene qui presentato, è di particolare interesse perché esplora una delle pagine meno note della contestazione ecologica fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento.
In quel periodo circolava la domanda: “Di che colore è l’ecologia?”, e Virginio Bettini, uno degli autori più citati nel libro, nel 1970 scrisse che “l’ecologia è rossa”.
Il capitalismo “deve”, per le sue leggi, sfruttare la natura, fonte di materie prime nella cui trasformazione in merci trae il proprio profitto e, nello stesso tempo, genera le nocività ambientali. Una genuina difesa della natura e dell’ambiente è, quindi, necessariamente, di sinistra, richiede un controllo e una pianificazione della produzione agricola e industriale, degli insediamenti, la difesa dell’aria, delle acque e delle risorse naturali in quanto beni collettivi.
Gli autori analizzano se e come e con quali successi la sinistra italiana è stata in grado di sostenere la battaglia per efficaci riforme ecologiche e lo fanno con una attenta e puntigliosa ricostruzione filologica degli scritti più significativi, dalle riviste come “Ecologia” e “Sapere” agli atti di congressi come quello del Partito comunista italiano a Frattocchie nel 1971. Sono opportunamente riportati lunghi brani tratti da testi ormai difficilmente accessibili e vengono così ricordate persone significative, in parte ormai dimenticate.
Di particolare interesse i capitoli che trattano i rapporti fra i movimenti ecologici e l’impegno dei lavoratori per la difesa della salute e dell’ambiente nel posto di lavoro, ma anche all’esterno della fabbrica dove alle nocività ambientali erano esposte le stesse famiglie dei lavoratori.
Quasi sempre i due movimenti hanno camminato su piani paralleli senza incontrarsi, benché chiedessero le stesse cose, una minore violenza nei confronti dell’ambiente e difendessero lo stesso diritto alla salute umana compromessa dalle stesse azioni contro cui i due stavano combattendo.
Il mondo padronale ha abilmente utilizzato il ricatto occupazionale per far apparire ai lavoratori gli ecologisti come “nemici” sostenendo che il rigore “ecologico” avrebbe comportato la perdita di posti di lavoro. D’altra parte spesso, per ignoranza, alcuni ecologisti hanno considerato i lavoratori come controparte.
La ricostruzione del cammino dell’“ecologia di fabbrica” integra la storia dei movimenti ecologici e nel libro sono opportunamente ricordate le persone che hanno rappresentato un ponte fra i due movimenti come Giovanni Berlinguer, Maccacaro e pochi altri.
Il libro di Citoni e Papa, arricchito di alcune interviste a testimoni di quella primavera dell’ecologia e da una preziosa e ricca bibliografia, si inserisce opportunamente fra i numeri monografici di “altronovecento” che hanno trattato la storia dell’ambientalismo e della protezione della natura.