“In tema di competitività economica in generale delle proteine dal petrolio (da normalparaffine), aspetto pratico di evidente importanza per una valutazione commerciale di queste nuove proteine, e in particolare sulla loro ‘convenienza economica’ e sul loro ‘costo energetico’ oltre a quello monetario, ecco alcune considerazioni analitiche dal punto di vista merceologico”1.
Non sono in grado di entrare nello stretto merito della pericolosità di questi materiali per l’uomo e per gli animali, ma posso affermare che la innocuità dei lieviti fatti crescere in un “substrato” contenente normalparaffine è oggetto di controversia scientifica, sia in relazione alla quantità e al tipo di acidi nucleici, sia in relazione ai residui di normalparaffine.
Esistono scienziati che giurano sulla innocuità di questi materiali, nel nome della loro dichiarata importanza come fonte di proteine, e altri scienziati che sono certi che i materiali proteici dei lieviti Candida vanno esclusi non solo dall’alimentazione umana ma anche da quella animale.
Nel caso in cui i lieviti Candida venissero somministrati come alimenti agli animali da allevamento, gli idrocarburi passerebbero inalterati nella carne degli animali e quindi nell’uomo.
Va detto che la sperimentazione su questi concentrati proteici è stata molto breve e non tale da autorizzare una dichiarazione di assoluta sicurezza, per cui propendo ad usare cautela fino a quando molti dubbi non siano stati dissipati.
Ma la mia critica di merceologo si rivolge ad altri aspetti di questa scelta produttiva.
È vero che esiste una carenza di proteine nel mondo, specialmente di proteine di buona qualità, anche se è vero che, per assurde distorsioni di mercato, vengono distrutti nel mondo, in grande quantità, materiali ricchi di proteine, sottoprodotti agricoli, e materiali da cui sarebbe possibile ricavare zuccheri, cioè substrati sicuramente innocui su cui far crescere lieviti.
Intorno al 1970, quando sono stati messi a punto in Giappone e nel Regno Unito dei metodi di fermentazione per far crescere microrganismi su substrati di idrocarburi, il costo del materiale di partenza, cioè degli idrocarburi petroliferi, era nel mondo circa dieci volte inferiore a quello attuale. A parità di valore nutritivo e di sicura innocuità, l’uso di materiali molto economici, appunto i derivati petroliferi, sembrava attraente e si presentava come un sistema per diffondere nel mondo una nuova fonte di proteine, naturalmente nell’interesse economico delle grandi compagnie petrolifere multinazionali.
In questo clima ben due società italiane hanno acquistato i brevetti, in una giapponesi, l’altra inglesi, ed hanno costruito due fabbriche, ciascuna della capacità produttiva di 100.000 tonnellate all’anno di “proteine dal petrolio”. Se i miei dati sono corretti, l’impianto dì Sarroch, costruito dall’Anic con brevetti della inglese British Petroleum, dovrebbe essere costato circa 30 milioni di sterline 1975, quindi circa 100 miliardi di lire attuali. Nel momento attuale la convenienza economica di fabbricare questi alimenti ricchi di proteine è del tutto capovolta.
Cosa intendo per “convenienza economica”? Non soltanto quella che si valuta cercando di ricuperare i soldi investiti nell’impianto e nelle materie prime, ma anche la convenienza economica sulla base del “valore”, in lire per unità di peso di proteina, quando si confronta tale “valore”, nelle stesse unità, con quello delle proteine ricavabili da altri prodotti o sottoprodotti agricoli vegetali e animali.
La convenienza economica va inoltre valutata tenendo presente che i concentrati proteici ricavati dagli idrocarburi non sono – su questo sono tutti d’accordo – adatti direttamente per l’alimentazione umana, ma sono adatti soltanto per l’alimentazione del bestiame. Ora è noto che occorrono dieci chili di proteine, fornite come alimenti agli animali da allevamento, per ottenere un chilo di proteine animali adatti per l’alimentazione umana. Il bestiame è quindi un dissipatore di proteine e di energia e tutti gli sforzi dovrebbero essere diretti, non solo in un paese ricco come l’Italia, ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo, ad ottenere proteine adatte quanto più possibile direttamente per l’alimentazione umana.
Ma non basta; la recente consapevolezza ecologica in relazione alla scarsità delle risorse, ha indotto, giustamente a mio avviso, a dare un diverso peso, un diverso “valore” alle risorse rinnovabili e non rinnovabili.
Così costa di più una risorsa naturale come il petrolio che non è rinnovabile, di cui esistono riserve limitate che, una volta esaurite, non ci sono più, rispetto alle risorse rinnovabili come sono quelle vegetali e animali che dipendono dai grandi cicli naturali; le risorse vegetali sono rinnovabili perché dipendono dal Sole, sono cioè fabbricate ogni anno, in media, nella stessa quantità; le risorse animali sono rinnovabili anch’esse perché legate ai cicli vegetali.
È quindi, nell’economia delle risorse, preferibile, quando è possibile, ottenere merci e alimenti partendo dalle risorse rinnovabili, cosa che peraltro, per ragioni monetarie, spesso non si fa, creando le premesse per crisi senza fine.
II caso delle proteine dal petrolio è proprio uno dei più significativi; era sbagliato “progettarne” la produzione quando il petrolio costava poco proprio perché dipendevano da una risorsa non rinnovabile; quando la materia prima è aumentata di prezzo, è diminuita anche la convenienza “economica monetaria” di produrle. Un altro elemento importante di critica è emerso di recente con il calcolo del “costo energetico” delle proteine ricavate da idrocarburi. Ogni merce ha, oltre al costo monetario, un costo energetico definito come la quantità di energia consumata per produrre una unità di peso di merce; tale costo energetico comprende il “contenuto energetico” delle materie prime (gli idrocarburi hanno un loro contenuto energetico che potrebbe essere utilizzato se venissero bruciati invece di essere impiegati come alimenti per i lieviti), il consumo di energia nelle fasi di trasformazione, trasporto, essiccazione, eccetera.
Come si fa nel caso del costo monetario, anche il costo energetico viene riferito all’unità di peso della merce o all’unità della sostanza costituente importante; nel caso dei lieviti viene riferito all’unità di peso di proteina prodotta.
Uno studio inglese apparso nel “Journal of Applied Chemistry and Biotechnology”, del 1976, ha messo in evidenza che la produzione di proteine dal petrolio costa, per unità di proteina, molta più energia rispetto alla produzione di proteine da altre fonti sia vegetali, sia animali, sia microbiologiche (lieviti fatti crescere su soluzioni zuccherine ricavate da prodotti e sottoprodotti agricoli). La validità di questo studio è stata verificata nel corso delle ricerche sul costo energetico delle merci, che si svolgono presso l’Istituto di merceologia dell’Università di Bari. Ebbene il costo energetico nel caso delle proteine da idrocarburi è di 185megajoule (44 mila kcal2) per chilogrammo di proteine, mentre quello delle proteine ottenute, sempre per viamicrobiologica, da melasso è di 75 megajoule (18 mila kcal), quello da sottoprodotti agricoli solidi è di 80 megajoule (19 mila kcal), quello da effluenti agricoli liquidi è di 30 megajoule (7 mila kcal), sempre per chilogrammo di proteine con uguale valore biologico nutritivo. Calcoli simili sono statifatti dall’americano Pimentel per le proteine ricavate da varie colture agricole e i dettagli dei calcoli sono esposti in un articolo contenuto nell’edizione 1976 dell’ Annuario dell’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (Mondadori). Il costo energetico di un chilogrammo di proteine di frumento o di avena nelle condizioni (ad elevato livello di meccanizzazione, uso intensivo di fertilizzanti e insetticidi, ciascuno considerato col suo costo energetico) degli Stati Uniti è di circa 110 megajoule (26 mila kcal); nel caso della soia, sempre nelle condizioni di coltura americane, il costo energetico è di 50 megajoule (12 mila kcal) per ogni chilogrammo di proteine.
Da quanto precede appare che la decisione di costruire gli stabilimenti di produzione di proteine dal petrolio è stata imprudente e sbagliata dal punto di vista economico, biologico, energetico – insomma dal punto di vista merceologico.
Hanno ragione i sindacati che non si possono distruggere lefabbriche di bioproteine; con gli stessi impianti è però possibile ottenere proteine per via microbiologica partendo da altre materie prime (soprattutto sottoprodotti agricoli cioè risorse rinnovabili, fabbricate ogni anno dal Sole), con minore consumo di energia.
1 Tratto da P. Bellucci, Le bioproteine. Esperienze e ricerche per una fonte alimentare alternativa, Milano, Feltrinelli 1980, pp. 203-205.
2 Per avere un’idea dell’ordine di grandezza di questi valori, si pensi che il fabbisogno umano di base è di circa 2000 kcal al giorno, per cui la quantità di energia indicata corrisponde all’incirca al fabbisogno giornaliero di calorie di 22 persone. Joule: altra unità di misura dell’energia. Una kcal equivale a 4187 joule (un megajoule equivale a un milione di joule). […].