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In ricordo di Alberto Magnaghi: dal territorio spunti per immaginare il futuro

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Non ho conosciuto di persona Alberto Magnaghi, se non per un fugace incontro a una conferenza alla quale partecipai anni fa. Ma l’incontro e il confronto con il suo pensiero e il suo lavoro di ricerca è divenuto una pietra angolare nel costruire il mio sguardo sul mondo, sulle crisi ambientali e sociali che stiamo attraversando e, aspetto forse più importante, sulle possibili alternative che rappresentano delle vie di fuga concrete e praticabili ai modelli socio-economici che oggi dominano i territori. L’incontro con le sue opere, in particolare con il manuale a più voci del quale ha curato l’edizione, “Rappresentare i luoghi”1, è avvenuto dentro le aule dell’università di Padova, quando ero iscritto alla facoltà di lettere. Il primo decennio del XXI secolo è stato un momento di profonda trasformazione del mondo universitario. Tali riforme seguivano le linee guida tracciate dal cosiddetto Bologna process, promosso dalla Commissione Europea con l’obbiettivo, neanche troppo mascherato, di legare il sapere e la ricerca delle università europee alle esigenze dei mercati e delle aziende. Un processo non certo indolore al quale si sono opposti in migliaia tra studenti, ricercatori e docenti, scandendo il ritmo delle proteste all’interno di un movimento ampio e variegato che apriva degli interrogativi, tutt’oggi validi, sul destino del sapere e della ricerca all’interno di una società sempre più plasmata dai modelli neoliberisti. Sempre in quegli anni, mentre le aule degli atenei italiani erano attraversate da un potente fremito di protagonismo giovanile, i territori più disparati della nostra penisola, dalle vallate alpine alle isole, diventavano il palcoscenico di una rinnovata conflittualità tra comunità locali e gli interessi di attori economici che imponevano, in molti casi protetti dalle istituzioni, progetti infrastrutturali dalle pesanti ricadute ambientali. Come studenti impegnati partecipavamo in maniera attiva a quei momenti di lotta e guardavamo con interesse l’evolversi di determinate situazioni. Ma le interpretazioni che davamo di quelle mobilitazioni mancavano di profondità e troppo spesso si fermavano a letture superficiali, cariche sì di forte indignazione morale, ma che non coglievano l’ampiezza dei fenomeni in corso. Insomma non si intuivano le potenzialità di quei processi sociali, concentrati com’eravamo a ricercare le contraddizioni all’interno di un mondo del lavoro che ci rendeva sempre più precari, dominato da meccanismi che credevamo farsi, a torto, sempre più immateriali. Insomma di quelle mobilitazioni, così eterogenee e talvolta radicali, non si sapeva bene che farsene in un’ottica di trasformazione radicale della realtà. Anche la provincia di Brescia, nella quale sono cresciuto e tuttora vivo, ha visto crescere la conflittualità attorno alle trasformazioni del territorio. Centinaia di comitati locali sono sorti a rivendicare un destino migliore per il proprio ambiente di vita. Ed è proprio a partire dalla necessità di dare voce a quelle soggettività che emergevano da quelle mobilitazioni, dal desiderio di dare organicità alla critica dei modelli di governo del territorio che imponevano quelle trasformazioni che è avvenuto l’incontro con la scuola dei territorialisti e con il pensiero di Alberto Magnaghi in particolare. Un pensiero lucido, consapevole del proprio essere situato e schierato dalla parte di chi prova ad abitare i territori in maniera differente dai modelli neoliberisti, basati questi ultimi su una visione funzionalistica dello spazio e responsabili del degrado ambientale. A partire dalla lettura di Rappresentare i luoghi, in Magnaghi ho trovato innanzitutto le parole per descrivere quanto stava avvenendo: il processo di deterritorializzazione strutturale che continua a trasformare i nostri territori, rendendoli periferie anonime, supporto quasi inanimato alle funzioni economiche necessarie alla riproduzione dei metabolismi economici, diventava concreto. Allo stesso tempo, all’interno della prospettiva territorialista, il territorio ha assunto nuova complessità, manifestandosi come sistema vivente nato dal rapporto coevolutivo tra insediamenti umani e ambiente naturale, con i propri cicli di vita legati alle varie fasi di civilizzazione. In questo senso i tratti culturali, i saperi, le pratiche d’uso di ogni singolo contesto geografico sono diventati elementi distintivi in grado di differenziare un territorio da un altro. Così quella galassia di segni, di riferimenti, di simboli mobilitati dagli attori di quelle proteste ha assunto un valore nuovo, di riappropriazione di qualcosa che gli è stato tolto, liberandosi dagli scivolosi rifermenti al mondo delle tradizioni e ai sentimenti di nostalgia e autenticità cari alle destre, acquisendo rinnovata importanza all’interno dei processi sociali di reidentificazione e reinvenzione del territorio. Non si tratta più, quindi, di leggere questi movimenti sociali come rivolti a un fantomatico ritorno al passato e che si battono per ostacolare le sorti progressive legate alla crescita infinita dell’economia. Nemmeno si tratta di mobilitazioni che promuovono una visione museale e conservativa del territorio, valida tutt’al più per l’economia del turismo con i suoi meccanismi anch’essi predatori ed escludenti. Piuttosto, per dirla alla maniera dei territorialisti, la potenzialità trasformatrice di queste proteste sta nella capacità di riappropriarsi di questo patrimonio di saperi e sapienze ambientali per riprendere il controllo dei processi decisionali che riguardano il territorio. In questa prospettiva le lotte contro il degrado ambientale si propongono come nuovi patti federativi in grado di immaginare nuove progettualità territoriali con l’obiettivo di ristabilire il rapporto coevolutivo tra comunità umane e proprio ambiente di vita.

Un pensiero radicale quindi, nel senso più letterale del termine, che non si è limitato a offrire una lettura teorica rispetto alle trasformazioni profonde che hanno coinvolto i territori nel nostro paese: dall’urbanizzazione selvaggia al degrado dei paesaggi agrari italiani, dalle contaminazioni dovute alle attività industriali alle speculazioni legate alla valorizzazione turistica, eccetera.

Magnaghi ci ha lasciato un’eredità importante, un patrimonio collettivo utile a tutti coloro che, a partire dalle migliaia di vertenze ambientali che innervano la vita politica di questo paese, fanno della cura verso gli altri e verso il proprio territorio un percorso di rinnovata consapevolezza rispetto alla necessità di un cambio di paradigma economico e, allo stesso tempo, di sperimentazione di nuove forme di democrazia partecipativa al fine di riappropriarsi del territorio in quanto bene comune necessario alla riproduzione della vita biologica delle comunità. La coscienza di luogo come prosecuzione della coscienza di classe.

In questo senso l’approccio territorialista si rivela come un esempio di quella scienza multidisciplinare, post normale, capace di confrontarsi con la complessità della crisi ecologica senza perdere la capacità di parlare con le persone e con il loro vivere quotidiano.

Per tornare al senso di questo articolo, legato al ricordo e a quanto ha lasciato in eredità Alberto Magnaghi a noi più giovani, mi piace paragonare il suo approccio al “camminare domandando” che le autonomie (altra parola chiave del pensiero territorialista) zapatiste del Messico ci hanno insegnato come postura militante, una riflessività lenta e incessante che deve essere guidata dalle giuste domande per costruire “un mondo che contenga tanti mondi”. Insomma, concludendo, nell’opera di Magnaghi ho trovato quell’“idea di libertà”2 per la quale vale la pena mettersi in gioco e continuare a immaginare futuri diversi dalla catastrofe irreversibile alla quale sembriamo diretti.

1 A. Magnaghi (a cura di), Rappresentare i luoghi. Metodi e tecniche, Alinea editore, Firenze 2001.

2 A. Magnaghi, Un’idea di libertà: San Vittore ‘79 – Rebibbia ‘82, DeriveApprodi, Roma 2014.

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