Grazie ad alcune importanti iniziative editoriali e di ricerca, si è riacceso l’interesse per la poliedrica e affascinante figura di Gioconda Beatrice Salvadori Lussu, dai più conosciuta come Joyce Lussu. Nata nel 1912 a Firenze e morta nel 1998 a Roma, durante la Seconda Guerra Mondiale, Joyce si unì alla resistenza italiana, diventando una partigiana attiva nel movimento di liberazione contro l’occupazione nazista. Nel dopoguerra, continuò a essere impegnata nella politica, diventando una importante figura di riferimento della cultura italiana, in particolare sui temi del femminismo e dell’antifascismo ma anche dell’ecologismo e dei movimenti di liberazione anticolonialisti.
Indice
Il contributo di Joyce Lussu allo studio della storia da una prospettiva ecologica
Joyce Lussu è stata una prolifica scrittrice e ha pubblicato numerose opere1, tra cui romanzi, raccolte di poesie e diari di guerra, oltre a tradurre molti poeti stranieri, di cui il più noto è stato Nazım Hikmet2.
I suoi scritti, spesso autobiografici, riflettono la sua esperienza di vita come partigiana e il suo impegno per la giustizia sociale e l’uguaglianza. Oggi le viene finalmente riconosciuto il ruolo rilevante che ha avuto nella cultura italiana del Novecento insieme ad altre donne che hanno contribuito a mettere in luce gli intrecci tra disuguaglianze di genere, problematiche ecologiche, sfruttamento capitalista e colonialismo.
Dopo la sua morte, il Centro Studi a lei dedicato3 si è adoperato per mantenerne in vita il ricordo attraverso diverse iniziative (studi e convegni principalmente) che ne hanno approfondito il pensiero. Ancora recentemente le è stata intitolata la Biblioteca Comunale del Municipio VIII di Roma. Nella sua riflessione si intrecciano i temi della libertà e della lotta per l’emancipazione, della guerra e della pace. I suoi scritti sono stati, e continuano ad essere, fonti di ispirazione e di insegnamento.
A più di vent’anni dalla sua scomparsa, le sue opere, le sue riflessioni e la sua azione sono raccontati con cura partecipe da donne che, pur appartenendo a un’altra generazione, l’hanno conosciuta e frequentata, come la scrittrice Silvia Ballestra che scrive di lei: «[…]laggiù, in una bella casa di campagna tra Porto San Giorgio e Fermo, vive una donna formidabile, saggia e generosa, ricchissima di pensieri, intuizioni, toni, bellezza, forza, argomenti, intelligenza. La mia Joyce, la mia Sibilla».4
Scrive la scrittrice Giorgia Gabbolini: «[…] Joyce da combattente partigiana, arriva nel tempo a vestire i panni di Nonna narrante, come lei si definiva e si è sempre posta l’obiettivo di raccontare ciò di cui era testimone, per meglio comprendere la realtà presente e costruire un futuro migliore».5
Questi importanti scritti mantengono viva la presenza di Joyce e aiutano la trasmissione del suo pensiero. Nonché della sua “postura”, che consiste nel partire sempre dall’esperienza personale e insieme dalla ricerca storica e sociologica per impegnarsi in un’azione che vuole trasformare il presente affinché abbia spazio e possa durare tutto ciò che contribuisce a fare del mondo un luogo più ospitale e pacifico. Pubblicando questo volume, vogliamo contribuire a nostra volta a far scoprire – o riscoprire – l’importanza del suo lavoro, in particolare per nutrire la riflessione su come sostenere una trasformazione ecologica della società.
Si è molto scritto della Joyce partigiana, femminista, militante, poeta e traduttrice. Meno sottolineato è il suo contributo pionieristico all’emergere di un approccio “ecologico” della storia. Scrive Joyce, nel 1977:
ci sono dei temi di fondo che la storia tradizionale, e anche quella più aggiornata, non affrontano o non analizzano sufficientemente. Per esempio il rapporto degli esseri umani con gli elementi e con gli esseri viventi non umani, che però determinano la vita umana. L’uomo in parte si adatta all’ambiente, in parte lo trasforma. La dinamica di questi rapporti è alla base della storia, in quanto base della lotta per la sopravvivenza […]. Il rapporto dell’uomo con l’aria, l’acqua, l’humus, i minerali, le piante e tutti gli organismi viventi, richiede uno sforzo di conoscenza e di organizzazione nuovi, ma che non possono che radicarsi nell’accumulazione di esperienze del passato.6
Per Joyce, «fare storia e immergersi nella realtà» sono aspetti inscindibili ed entrambi necessari di uno stesso processo, quello che permette di «armarsi per la lotta contro il terrorismo ecologico-esistenziale del capitalismo, che ci vorrebbe disarmare presentando i suoi errori come una fatalità e la sua incapacità a gestire la produzione come un’impotenza universale del genere umano».7Con una sensibilità per certi versi vicina al contemporaneo movimento della “microstoria”, Joyce affermava che «tutti facciamo storia»:
per il fatto solo di vivere, di mettere in moto un’infinità di energie che in ogni momento si incontrano e si scontrano con altre energie, creando aggregazioni e conflitti, trasformando la materia fossile e vivente, l’aria e l’acqua, la vegetazione gli animali e gli esseri umani; facendo esistere ciò che non esisteva un momento prima, una sedia al posto di un tronco, un vigneto al posto dei rovi, un pane al posto di un seme non digeribile, una macchina al posto di un pezzo di metallo, una nota di chitarra che non è come gli altri suoni, una parola che non era stata ancora detta, un paragone che illumina in modo nuovo due termini. Tutti facciamo storia perché tutti in qualche modo facciamo delle scelte e abbiamo potere su noi stessi e su ciò che ci circonda: anche la donna del più reietto degli schiavi ha potere sulla gallina alla quale tira il collo, sa scegliere l’erba commestibile da quella velenosa, può carezzare o picchiare il bambino che le è nato secondo l’umore del momento. Ma il problema sono appunto gli enormi dislivelli di scelte e di potere, per cui altri possono, non scegliere un’erba buona da una cattiva, ma far coltivare milioni di ettari di grano o distruggerli, eliminare milioni di esseri umani o farli vivere forzando la qualità della loro vita. Fare storia vuol dire indagare su questo insieme di energie umane per indirizzare le scelte verso la sopravvivenza e la convivenza, e non verso la mutilazione e la distruzione.8
Per Joyce, è partendo dall’esperienza personale che si entra in relazione con il mondo e con gli altri: «all’origine del mondo c’è un racconto, dice Joyce Lussu. C’è la ricerca che ogni uomo compie su se stesso, ed esprime attraverso segni, immagini, storie, nel tentativo di comprendere le proprie origini e il significato della propria storia».9
È solo riconoscendo la rilevanza dell’esperienza personale che si evita che il pensiero si perda in un «empireo di processi mentali». In questo senso, il personale è politico:
dobbiamo partire dalle nostre esperienze vive e scambiarcele, confrontarle, discuterle, assumerle e respingerle, ma sempre con l’intento di far crescere ciò che vi è di analogo, di omogeneo, di comunemente umano. È vero che il personale è il politico, purché lo si renda tale, ossia esperienza in mezzo alle altre esperienze, energia che si aggiunge alle scelte per il futuro, all’interesse maggioritario.10
Partendo dalla sua esperienza personale, la Joyce studiosa dei fenomeni sociali e osservatrice attenta riesce a mettere in relazione luoghi apparentemente così diversi, come la Sardegna – dove si recò per la prima volta nel settembre del 1944 al seguito del marito, Emilio Lussu11 – e la sua “terra di adozione”, ovvero le Marche e le sue terre alte.
Nel 1982, Joyce pubblica L’Olivastro e l’innesto12 in cui narra il suo incontro con i mondi rurali di una Sardegna disastrata, nell’Italia della ricostruzione post-bellica:
e chi erano quegli uomini che ci vivevano [in quel territorio], senza trasformarlo e adattarlo a sé ma adattandosi ad esso? Come si erano annidati tra quelle rocce alte e imponenti verso il cielo, come catene di un continente sommerso, che non potevano chiamarsi colline se pure alte poche centinaia di metri?
Il racconto che Joyce fa dei mondi rurali della Sardegna, l’isola del suo amato Emilio, restituisce non solo le drammatiche condizioni di povertà del territorio ma anche le tracce ancora visibili di una trama di relazioni tanto più forti quanto più impervie erano le condizioni di vita. Una trama che tiene insieme persone e luoghi attraverso legami di responsabilità e cura.
Attraverso l’analisi attenta della vita negli sperduti insediamenti sardi, Joyce approfondisce la conoscenza delle forme di gestione degli ademprivi13 e ritorna indietro con la memoria alla storia di luoghi a lei molto cari nelle Marche, i luoghi di adozione della sua infanzia.
Qui il desiderio è quello di approfondire la conoscenza storica di quei casi di gestione collettiva delle risorse in ambiti montani, a lei noti dai racconti locali e dalla storia della sua famiglia14. Modi di vivere associati che si erano sviluppati secondo logiche di insediamento e produttive capaci di perdurare nel tempo, come parte integrante di un più complesso ecosistema di cui contribuivano al mantenimento degli equilibri e della biodiversità. È dallo studio di queste esperienze così lontane, di cui lei seppe cogliere le affinità profonde, che deriva nel 1989 la scrittura di Le comunanze picene, il testo che qui introduciamo.Da questa ricerca Joyce Lussu trasse materia per denunciare i rischi ecologici connessi con l’affermarsi di logiche produttivistiche di sfruttamento delle risorse e i rischi sociali dell’individualismo proprietario promosso dalla ricerca capitalistica del profitto.
Scrive a questo proposito Giorgia Gabbolini: «Joyce sente l’esigenza profonda di indagare e scoprire quali sono le cause che hanno portato alle attuali logiche di potere e alle logiche sociali odierne».15
Joyce mette in luce, in pagine di grande intensità, la possibilità di un altro modo di fare economia e di fare società dentro e con – e non contro – il sistema vivente. Riconosce e valorizza le forme di vita degli abitanti degli Appennini, con il loro modo di pensare la relazione tra insediamenti umani e ambiente. Forme di vita articolate e sinergiche, capaci di adattamento e di resistenza, incentrate su usi che rispondono a bisogni che prendono forma dentro una cornice di riconoscimento del valore vitale del limite, e che ispirano la visione di un’economia in cui «ogni tipo di produzione [è] un servizio sociale».16
È agli abitanti degli Appennini e alle loro Comunanze che Joyce dedica le pagine alla cui lettura vi invitiamo.17
La via dei beni comuni: comprendere il passato per radicare il presente nella possibilità di un futuro umano e terrestre
Le comunanze picene è uno scritto ricco di elementi autobiografici, in cui la Joyce “nonna”, si rivolge ai più giovani. In una sorta di breve lezione, racconta loro la storia antica del territorio e delle proprietà collettive, del modo di gestire le risorse naturali dei luoghi a sud delle Marche. Lo fa senza nostalgie ma con una visione programmatica e orientata al futuro, nella convinzione di promuovere un approccio di “economia naturale” o, meglio, di economia ecologica (o eco-economia)18.
Dalla lettura di questo testo della Joyce storica, dal suo racconto ai ragazzi e alle ragazze delle scuole, ha preso avvio il nostro percorso di ricerca multidisciplinare a cui ci piace pensare come a un viaggio tra i camini accesi, che era poi il modo in cui si conteggiavano le utenze familiari delle proprietà collettive19. Sui passi di Joyce, attraversando boschi, pascoli e domini collettivi, abbiamo colto quello che ci sembra essere l’insegnamento delle comunanze per il nostro tempo presente. Ne abbiamo approfondito le logiche di organizzazione e quelle che erano le pratiche nella gestione e nell’utilizzo delle risorse naturali. Questa conoscenza storica secondo noi può essere fonte di ispirazione per immaginare sentieri di cambiamento praticabili nel presente. Conoscere la storia, come ci insegna Joyce, viverla in maniera fattuale traendone un insegnamento vivo, è essenziale per trovare il presupposto di un futuro sostenibile per i territori così diversi che compongono il nostro Paese e in particolare le sue montagne.
Per questo motivo abbiamo tenacemente cercato modi per pubblicare questo volume, che vuole non solo riproporre ma anche invitare ad approfondire e far evolvere le osservazioni di Joyce contenute nei suoi testi sulle comunanze, per quello che hanno da insegnarci rispetto al presente. Come la Sibilla dotata di virtù profetiche20, Joyce ci offre delle chiavi di lettura per identificare più chiaramente le sfide del futuro e ci mostra un orizzonte possibile, un altro modo di vivere e un altro modo di possedere21i luoghi apparentemente più marginali; ci mostra il territorio montano sotto un’altra luce.
Joyce è una gigantessa e salendo sulle sue spalle possiamo meglio riconoscere l’intreccio di relazioni sociali ed ecologiche che, come i fili di una trama inscindibilmente umana e ambientale, da tempo immemorabile hanno dato forma ai luoghi; una trama fatta di resistenza e di capacità di adattamento, che tiene insieme conservazione delle risorse naturali, produzione e legami intergenerazionali.
In questa passeggiata, accompagnati da Joyce, incontriamo altri autori che, seppur osservando il fenomeno dei domini collettivi in altri ambiti scientifici, in altre epoche e contesti geografici, avvalorano e confermano le affinità strutturali e le relazioni che si intrecciano nel governo delle comunanze.22 Scrive il giurista francese Marcel Planiol:
la proprietà collettiva è una particolare forma di proprietà, che ha in sé il suo fine e la sua ragion d’essere e che verte sul necessario raggruppamento delle persone cui appartiene: sono molte le cose che devono essere poste in questa forma per rendere agli uomini tutti i servizi di cui sono suscettibili e che non sono destinati a diventare oggetto di proprietà.23
Con il termine “proprietà collettiva” si indica una serie di forme di gestione del territorio dove è la collettività locale che amministra direttamente le terre e altre risorse comuni di un territorio attraverso enti detti “esponenziali”. Le proprietà collettive in Italia sono chiamate in vario modo a seconda della collocazione geografica: se nelle Marche e in Umbria il termine usato è quello di Comunanze, si parla di Vicinie in Friuli-Venezia Giulia, di Partecipanze in Emilia-Romagna, di Magnifiche Comunità in Veneto, di Regole nell’arco alpino, di Università Agrarie nel Lazio. La forma che si è sviluppata nelle Marche, in particolare nelle zone montane di maceratese e piceno, si è consolidata tra il XVI e il XVIII secolo.
Dal punto di vista giuridico la proprietà collettiva identifica una particolare forma di proprietà in cui una determinata estensione di territorio (sia pubblica sia privata) diventa oggetto di godimento da parte della collettività, tradizionalmente per uso agro-silvo-pastorale. In altri termini, il gruppo o l’aggregazione di abitanti residenti abitualmente sui territori, sui quali sono situate tali risorse, ne gode in via prioritaria dei frutti in ragione dell’impegno di cura profuso.
Le comunanze picene erano costituite da gruppi di famiglie (utenti) che possedevano in comune terreni, boschi, cave, sorgenti e pascoli usati in modo collettivo. L’uso era vincolato a una equa ripartizione, oltre che alle esigenze di riproduzione delle risorse e di sostenibilità nel tempo: ad esempio le terre venivano suddivise tra le famiglie sulla base di una rotazione annuale. Inoltre, le famiglie partecipavano a un’assemblea comunitaria per eleggere i “massari” (o consoli), che governavano a turno la comunanza. In questa assemblea si prendevano decisioni condivise sulla gestione delle risorse e si risolvevano eventuali dispute tra i membri della comunità. Le decisioni venivano prese in modo consensuale, in una forma di “democrazia dal basso”, e le risorse erano ripartite in modo equo per soddisfare i bisogni di tutti. Quello che avanzava ai bisogni veniva ceduto per acquistare altri beni o per realizzare opere (strade, fontane, abbeveratoi, stalle) sullo stesso territorio, configurando delle vere e proprie infrastrutture. Le comunanze contribuivano così a mantenere vivo un forte senso di solidarietà e cooperazione tra gli abitanti di un territorio, oltre a garantire una produzione agricola sostenibile, grazie all’adozione di pratiche attente alle esigenze di riproduzione delle risorse naturali, a partire dalla fertilità dei suoli. Come scrisse l’economista agrario Ghino Valenti nel suo rapporto sulle Marche, redatto nel quadro della celebre inchiesta Jacini:
Non si dovrebbe mai dimenticare che questi domini collettivi costituiscono la voce genuina di popolazioni, che grazie a essi sono sopravvissute e che in tali sistemi sociali hanno trasfuso il proprio segno tipico, il proprio costume, arrivando persino all’auto-identificazione territoriale. I Domini Collettivi, sono la voce di quegli strati profondi della società, che non hanno scritto la storia moderna, che non ha fatto la rivoluzione francese, di cui non c’è traccia nei Codici Civili moderni, di cui c’è traccia soltanto nelle leggi che ne hanno tentata una sbrigativa e indistinta liquidazione.24
Tuttavia, a partire dal XIX secolo e con un’intensificazione nel XX secolo, le comunanze e gli altri istituti collettivi sparsi in tutto il territorio nazionale, cominciarono a declinare a causa di fenomeni diversi tra cui l’espansione dell’economia di mercato, il tramonto della civiltà rurale, l’accelerazione dell’urbanizzazione delle vallate e della loro industrializzazione cui corrispondono fenomeni di privatizzazione delle terre (enclosure), accaparramento, abbandono e degradazione soprattutto delle aree più marginali.
Attraverso la descrizione che Joyce e gli altri storici e storiche ci danno di queste pratiche collettive di gestione del territorio ritroviamo traccia, ante litteram, di quelli che sono oggi riconosciuti come i principi della sostenibilità e dell’equilibrato utilizzo delle risorse naturali. Questi principi rimandano ad un’economia basata su un sistema metabolico25 in prevalenza solare e non fossile, incentrato su forme di energia rinnovabili e su tecniche caratterizzate da una ingegnosità biomimetica26.
La sostenibilità – ci dice Joyce – può essere allora meglio compresa riconoscendone le radici profonde nel rapporto che ha caratterizzato i modi di convivenza tra uomo e ambiente elaborati nel corso dei secoli, in particolare nelle terre alte, là dove il vincolo ecosistemico lega più strettamente la possibilità di sussistenza umana alla capacità di sostenere la riproduzione degli ecosistemi. Un vincolo che è stato gestito nel corso del tempo attraverso l’istituzione delle comunanze con le sue regole e le sue sanzioni.
Nonostante i precetti del libero mercato e il declino della civiltà appenninica abbiano dettato la liquidazione di tali istituzioni territoriali, le comunanze – come altri domini collettivi presenti sul nostro territorio – sono sporadicamente ma tenacemente sopravvissute, in particolar modo nei luoghi più remoti, come le terre alte.
Ripubblicando il contributo di Joyce sulle comunanze picene abbiamo deciso di raccogliere e rilanciare la sua intuizione che proprio in queste terre marginali, là dove sono ancora presenti le tracce della capacità di gestione collettiva delle risorse naturali, sia meglio comprensibile il senso di quello che debba intendersi per “sostenibilità”: la capacità di iscrivere le istituzioni economiche del vivere associato nella lunghissima durata. Per questo abbiamo cercato di rintracciare le comunanze tutt’oggi presenti e di ricostruire la loro storia, mostrando come queste istituzioni legano le montagne dell’Appennino Centrale in una struttura sociale che si interseca con la storia dei borghi e delle “ville”27 dei Monti Sibillini. Attraverso un approccio multidisciplinare, abbiamo cercato di rendere accessibile uno sguardo diverso sulle montagne e i borghi della Sibilla.
A ispirarci è stata proprio Joyce Lussu e la lettura delle sue pagine sulle comunanze da cui emerge un mondo passato e quasi dimenticato, capace però di parlare al presente e ai suoi problemi. Riaffiora infatti tra le pagine di Joyce, un particolare modo di gestire le risorse naturali del territorio basato sulla cooperazione, il mutualismo, la fiducia e su regole certe, discusse e stabilite da quanti risiedono e dipendono per la loro sussistenza dalle risorse gestite in comune. Al tempo stesso è evidente la necessità di ripensare queste istituzioni nel mondo contemporaneo, una sfida che ci sembra determinante per il futuro della montagna. Come scrive il giurista Francesco Adornato:
Bisogna ripensare alla nozione di comunità […] che non può essere intesa in senso pre-moderno come comunità chiusa e statica, in una società complessa e policentrica come quella moderna, insiste un fascio di rapporti che accompagna il sistema relazionale del singolo, che non può essere interpretabile in un’ottica ottocentesca e liberale.28
La via dei “beni comuni” ha conosciuto con gli anni 2000 un nuovo interesse, complici anche le mobilitazioni alter-mondialiste. Quando Joyce si rivolge ai giovani e parla a loro di ambiente, beni comuni e di sostenibilità, lo fa anni prima che un’altra donna, l’economista Elinor Ostrom, con il suo importante libro Governing the Commons29,mostrasse la reale e concreta possibilità di gestire alcuni tipi di risorse, soprattutto quelle naturali, attraverso un diverso modo di usufruirne, attento alle esigenze della riproduzione. Un dato che non può essere ormai ignorato dalle istituzioni politiche che purtroppo, però, continuano a governare le risorse naturali, e in particolare il suolo agricolo, quasi esclusivamente ricercando aumenti di produzione e di produttività, ignorando le gravi conseguenze ecologiche di questa impostazione. Come scrive Giuseppe Blasi:
Ricercare le radici della sostenibilità significa, oggi, comprendere il secolare rapporto tecnico, economico e sociale che ha legato l’uomo e le sue comunità nella gestione del patrimonio naturale e del territorio. Legame che ha giocato nel passato un fondamentale ruolo per la sopravvivenza di piccole comunità e lo sviluppo di intere regioni e che oggi, di fronte a forti trasformazioni, rappresenta una nuova sfida. In un periodo di forte crisi finanziaria, che coinvolge anche il comparto agricolo, occorre quindi guardare oltre l’aspetto propriamente produttivo e pensare che sulla tutela delle risorse naturali e ambientali, se opportunamente valorizzate, si può investire con l’obiettivo di creare nuove opportunità di reddito e di occupazione, per mantenere un tessuto produttivo vitale e con questo, apportare benefici alla società.30
Tra i promotori in Italia della “rivoluzione dei beni comuni”, vogliamo in particolare ricordare il giurista Stefano Rodotà (1933-2017). Nella sua lettura
la rivoluzione dei beni comuni, che ci porta sempre più intensamente al di là della dicotomia proprietà privata/proprietà pubblica, ci parla dell’aria, dell’acqua, del cibo, della conoscenza; ci mostra la connessione sempre più forte tra persone e mondo esterno e delle persone tra loro; ci rivela proprio un legame necessario tra diritti fondamentali e strumenti indispensabili per la loro attuazione.31
La posta in palio, dunque, è grande ed è quella di riuscire a far convivere operativamente le esigenze di tutela e valorizzazione delle risorse naturali con i bisogni economici, sociali, culturali e istituzionali della comunità di appartenenza.
È una sfida difficile, ma già Joyce nelle sue opere ci indicava una via, quella della critica radicale del modus operandi di un modello capitalistico che continua a depauperare i territori e i loro abitanti, in particolare i territori fragili, ai fini di incrementare ciecamente i profitti di pochi.
Il modello gestionale dei beni comuni è un’alternativa alle voraci privatizzazioni liberiste e alla spesso inefficiente gestione diretta da parte dell’amministrazione statale, prospettando una maggiore redistribuzione sociale delle risorse e delle responsabilità, attraverso il coinvolgimento attivo delle popolazioni interessate nell’amministrazione delle risorse comuni. È la strada verso una democrazia reale.
Reimmaginare la comunanza?
Le comunanze come le altre antiche Istituzioni Collettive hanno come scopo statutario di:
– provvedere a difendere gli interessi della collettività degli utenti, dei quali, hanno la rappresentanza legale, sia davanti l’Autorità Amministrativa, come davanti l’Autorità Giudiziaria;
– occuparsi della conservazione e del miglioramento del patrimonio, del godimento diretto e indiretto di esso e della tutela dei diritti della popolazione, per quanto si riferisce all’esercizio degli usi civici;
– promuovere, curare, vigilare, regolare l’utilizzazione razionale dei boschi e dei pascoli e del loro razionale governo;
– amministrare i beni che costituiscono il patrimonio collettivo, destinando le rendite per provvedere alle spese di amministrazione, per il miglioramento e manutenzione del patrimonio stesso e per lo svolgimento di tutte le iniziative miranti a incrementare l’economia silvo-pastorale della zona32.
In funzione delle attività che incidono sul proprio ambiente, tramite la comunanza la comunità degli abitanti esercita maggiore partecipazione e controllo, stabilendo una serie di regole che contribuiscono ad alimentare conoscenza e fiducia tra i residenti del luogo. La trasparenza delle regole interne ed esterne si realizza tramite il principio democratico della rotazione delle cariche che regolano il governo del dominio collettivo.
Questo governo deve essere ispirato a esigenze di concretezza ed efficacia, con una visione di insieme di medio-lungo periodo, basata su un’attenta conoscenza del contesto e a partire da valori quali: la solidarietà; la consapevolezza della responsabilità intergenerazionale; la partecipazione nel lavoro di cura; l’attenzione alle interdipendenze ecologiche e alla sostenibilità sul lungo termine delle azioni e degli interventi; il dibattito informato a partire dalla condivisione delle conoscenze e dei saperi.
Su queste basi, è possibile immaginare la definizione di un nuovo patto sociale ed ecologico tra gli abitanti di un territorio, che fondi il senso di appartenenza non su un’identità statica ed essenzializzata ma innanzitutto sulle pratiche e l’impegno di cura del territorio. È da queste pratiche sostanzialmente quotidiane che è principalmente dipesa la capacità di cui nel passato hanno dato prova le popolazioni delle terre alte di resistere e prosperare per millenni senza depauperare l’ambiente, il territorio e le sue risorse. Sventolare l’identità senza responsabilità per i beni comuni e senza impegno concreto per la loro riproduzione si rivela allora un’operazione volta a conservare privilegi e a svuotare di senso l’abitare.
Parlandoci delle comunanze, Joyce ci parla di comunità che sono tali principalmente perché chiunque ne faccia parte è consapevole della propria responsabilità diretta nella riproduzione e nel mantenimento di ciò che è “in comune”. Sono comunità in un senso concreto, non ideale né identitario, perché sono l’esito di un fare che crea, rigenera e rinnova beni comuni. Questi beni comuni ci parlano non solo di relazioni sociali ma anche di relazioni ecologiche, in una solidarietà allargata che abbraccia i sistemi viventi:
la proprietà collettiva non è mai solo uno strumento giuridico, né mai solo uno strumento economico; è qualcosa di più, ha bisogno di attingere a un mondo di valori, di radicarsi in un modo di sentire, concepire, attuare la vita associata e il rapporto tra uomo e natura cosmica.33
La proprietà collettiva contraddice nel suo fondamento il sistema capitalistico, in particolare nella sua versione neoliberale che insiste su una visione ristretta della proprietà privata. Questo sistema è ormai entrato in una fase di violente turbolenze, in cui si intrecciano crisi geopolitica, ecologica e finanziaria. Pensiamo alla pandemia del 2020, al conflitto in Ucraina, a quello in Medioriente, agli eventi estremi connessi con i cambiamenti climatici e al tasso preoccupante di perdita di biodiversità. Queste crisi globali si abbattono sui territori, provocando migrazioni e mettendone a dura prova la tenuta.
È allora urgente denunciare che, come scrive lo storico Piero Bevilacqua, «l’idea di una crescita illimitata della produzione e del consumo, senza cura della riproduzione delle loro basi naturali è un delirio di onnipotenza, una malattia mentale che gli uomini hanno contratto solo di recente».34
Già nel 2001 anche l’attivista e saggista Naomi Klein35 scriveva nel suo libro, No Logo:
dobbiamo avere un po’ di fiducia nell’abilità delle persone di governarsi da sé, di prendere le decisioni migliori per se stesse. Dobbiamo mostrare un po’ di umiltà, dove regna, ora, tanta arroganza e paternalismo. Credere nella diversità umana, nella democrazia locale, è tutt’altro che un ideale sbiadito.
Molti territori della nostra montagna e dell’intera penisola avrebbero molto da guadagnare a riscoprire l’insegnamento delle proprietà collettive e a rivendicare la gestione comune dei domini collettivi. Prendendo ispirazione e reimmaginando per l’oggi le regole delle comunanze, delle vicinie, delle partecipanze e degli altri enti collettivi che, dove ancora attive, danno spesso prova di saper invertire le tendenze al declino e al depauperamento dei territori nonché di rispondere alle situazioni di crisi36, si può tentare di dare risposte concrete ai bisogni dei territori. Queste istituzioni rappresentano, nella loro (bio)diversità, tentativi di far esistere oggi un rapporto tra società umane e ambiente che iscrive l’economia umana nei limiti biofisici dal cui rispetto dipende, in ultimo, la possibilità della vita sulla Terra.
Per sostenere e rigenerare le aree fragili, bisogna ripartire dall’affermare una visione dell’abitare inseparabile dall’impegno diretto nel prendersi cura del territorio e dei suoi beni comuni: questo vuol dire mettere in questione i modi dominanti di intendere la proprietà e di possedere; sperimentare nuovi rapporti al lavoro; esigere un impiego delle risorse pubbliche che vada a sostenere capacità individuali e collettive per produrre, riprodurre e mettere “in comune” risorse e dotazioni. Saper riconoscere nel passato gli insegnamenti per radicare questo mettere in comune nelle specificità dei luoghi e delle loro storie, ridando dignità a luoghi oggi abbandonati e a storie quasi irrimediabilmente cancellate, è fondamentale.
In alcuni luoghi, come quelli del nostro Appennino terremotato, ritrovare la strada delle comunanze è particolarmente urgente se si vuole frenare la totale deantropizzazione delle terre alte, che i disastri ricorrenti accelerano. Bisogna ricostruire un tessuto relazionale, tanto sociale che economico ed ecologico, integrando la consapevolezza tanto delle vulnerabilità che delle possibilità di questi territori, riscattando il futuro e facendone un tema di confronto pubblico, prima che le mutate condizioni geo-climatiche facciano delle terre alte terreno di conquista per i facoltosi in fuga dalle invivibilità urbane.
Siamo convinti che è dalla prospettiva di questi territori marginali che è più facile discernere le leve su cui è necessario agire per promuovere un cambiamento in senso sostanziale del rapporto tra economie ed ecologie, che ci permetta di abbandonare una logica della sopraffazione e dello sfruttamento dei sistemi viventi (di cui dimentichiamo troppo spesso di far parte) per abbracciare una logica della cooperazione e della collaborazione. In questo senso, questi territori sono una ricchezza collettiva, che va innanzitutto difesa.
La “nostra” Joyce maestra di lotta e di utopia
In tutto questo contributo abbiamo avuto la sfrontatezza di rivolgerci a Joyce Lussu chiamandola spesso per nome, come se fosse nostra nonna o una persona a noi vicina. Siamo sicuri che non se ne avrebbe a male, perché sono proprio i suoi scritti ad averci coinvolto in un’intimità così propizia alla trasmissione del sapere. Le sue pagine prendono spesso il tono di conversazioni ricche di esternazioni, quelle di una donna potente e sapiente, una vera Sibilla Appenninica che sa trasmettere saperi antichi e preziosi consigli. Anche questo suo modo di trasmettere ha avuto un enorme valore nel farci riconoscere nella governance delle antiche comunanze da lei descritte, una via possibile che possiamo e vogliamo sperimentare sulle nostre montagne. Vogliamo contribuire a ricreare in modi adatti all’oggi il ruolo che è loro appartenuto nella storia, affinché la gestione di immensi patrimoni naturalistici ritorni ad essere parte integrante di un’economia capace di essere ecologica davvero. I modi dell’abitare, dell’uso e del possedere appaiono allora questioni al cuore di quella che viene definita la transizione ecologica. Questioni, in realtà, poco dibattute e poco considerate in un discorso dominato da immaginari di technical fix cioè da visioni fideistiche rispetto alla capacità delle soluzioni tecnologiche di dare risposta a qualsiasi tipo di problema.
Rivendichiamo con forza il diritto di poter sperimentare una logica di recupero e conservazione delle risorse naturali che non è scissa dal sostegno dato a pratiche di riabitare incentrate su modi di produzione attenti al mantenimento e alla riproduzione di beni comuni, attraverso forme di economia ecologica che non sono dominate dal mercato né sono il frutto di un’ingegneria istituzionale distante dalla concretezza delle situazioni di vita.
Per questo riteniamo che ripubblicare e rendere di nuovo accessibili gli scritti di Joyce su Le comunanze picene sia di fondamentale importanza al fine di immaginare un percorso alternativo di identificazione e di sperimentazione, che riparta dalle proprietà collettive come modello per immaginare un rapporto di collaborazione tra società umane e ambiente. Questa collaborazione sarà possibile, però, solo a condizione di una critica radicale del modello di sviluppo oggi dominante, che appare disconnesso dagli obiettivi di benessere delle comunità umane e dell’ambiente, nonché indifferente alle generazioni future e al loro diritto a poter continuare ad abitare un pianeta vivibile.
A Joyce Lussu va la nostra immensa gratitudine per averci guidato in questo viaggio attraverso i camini accesi, mostrandoci la visione di un futuro in cui anche a quanti verranno dopo di noi è data la possibilità di gioire dell’immensa bellezza della diversità dei territori e dei modi umani di creare cultura nel rispetto dei sistemi viventi.
Altre presenze ci hanno accompagnato in questo viaggio e a loro va ugualmente il nostro profondo ringraziamento. Vogliamo in particolare ringraziare Olimpia Gobbi, storica del territorio e collaboratrice della cattedra di Storia Economica all’Università Politecnica delle Marche, e Augusto Ciuffetti, Professore associato di Storia economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche. Entrambi hanno molto scritto sulle proprietà collettive contribuendo a far riscoprire la visione di Joyce, e condiviso con generosità il loro sapere. Li ringraziamo per averci reso possibile arricchire il testo di Joyce con i due loro importanti saggi.
Terminiamo questa introduzione lasciando l’ultima parola a Joyce, questa volta la Joyce poetessa. Sono parole, le sue, che ci parlano dell’importanza di continuare ad alimentare la speranza. Parole che, ancora una volta, ci indicano un sentiero stretto e impervio. È il sentiero che scegliamo, un sentiero di resistenza, oggi come ieri, e di lotta per un mondo di giustizia e libertà.
[…] Noi tutti così diversi,noi tutti così uguali, possiamo forse aiutare a crescere
arbusti cespugli e boccioli sparsi qua e là,
un giorno o l’altro ci daranno
fiori e frutti per tutti
di mille forme e di mille colori.
Li raccoglieremo con grandi feste
In mazzi e ceste, li appenderemo nei recinti
di etnie e di nazionalismi artificiali
al posto delle armi micidiali
così care ai militari,
al posto di fasci di tratte e di cambiali,
così care agli usurai,
al posto di veleni globalizzati
che ci vendono ai supermercati
sostituendo alle chiusure, cancelli senza serrature.37
1 Rimandiamo alla voce a lei dedicata su Wikipedia per una lista esaustiva delle sue opere. <https://it.wikipedia.org/wiki/Joyce_Lussu#Opere>
2 Nâzım Hikmet Ran (1902-1963) è stato un poeta, drammaturgo e scrittore turco naturalizzato polacco. Definito “comunista romantico” o “rivoluzionario romantico”, è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna.
3 Il Centro Studi “Joyce Lussu” fin dalla sua costituzione si è posto come obiettivo prioritario quello di tener vivo il messaggio della scrittrice attraverso la raccolta, la conservazione e la valorizzazione della sua opera. Per maggiori informazioni si veda la pagina dedicata: <http://www.joycelussu.info/>
4 Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Bari, Laterza, 2022. Con questo libro, Silvia Ballestra è stata candidata al Premio Strega 2023.
5 Giorgia Gabbolini, Joyce Lussu: Una donna e la libertà, Cronache Ribelli, 2021.
6 Joyce Lussu, L’acqua del 2000. Su come la donna, e anche l’uomo, abbiano tentato di sopravvivere e intendano continuare a vivere, Milano, Mazzotta Editore, 1977, p.16.
7 Ibidem.
8 Ivi, p. 9.
9 Carla Sanguineti, Introduzione, in Joyce Lussu, La Sibilla. La ferita e l’arma, Venezia, Centro Internazionale della Grafica, 1987.
10 J. Lussu, L’acqua del 2000, cit., p. 10-11.
11 Emilio Lussu (1890-1975) fu politico e scrittore. Fondò il Partito sardo d’azione nel 1919.
12 J. Lussu, L’olivastro e l’innesto, Cagliari, Edizioni della Torre, 1982.
13 L’ademprivio, tipico della Sardegna, è un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo.
14 Joyce era infatti la nipote di Luigi Salvadori Paleotti che nel 1782 acquistò per enfiteusi le terre collettive denominate “I relitti del Mare” del Comune di Fermo. Si veda il contributo di Luigi Rossi, Gli antenati di Joyce. Una storia di famiglia tra collettivo e privato, “Proposte e Ricerche”, n. 70, 2013, p. 5-21.
15 G. Gabbolini, Joyce Lussu: Una donna e la libertà, cit.
16 J. Lussu, L’acqua del 2000, cit., p. 18.
17 Oltre al testo di Le comunanze picene. Appunti e immagini tra storia e attualità, volumeoriginariamente pubblicato da Livi Editore nel 1989, abbiamo scelto di ripubblicare in questa riedizione il saggio Tra comunità e comunanze all’ombra della Sibilla: divagazioni picene, originariamente pubblicato in “Proposte e ricerche”, n. 20, 1988, p. 111-116.
18 Olimpia Gobbi, testimonianza raccolta nel documentario Le terre di tutti (2020). Il documentario è stato realizzato da Emidio di Treviri e Brigate di Solidarietà Attiva.
19 Archivio della Comunanza di Foce, Regolamento del 1892 e del 1899. L’attribuzione del diritto “a fuoco” faceva sì che il riparto del legname e la quantità di bestiame ammessa al pascolo fossero fissati in misura uguale fra le famiglie, prescindendo dalla loro composizione, consistenza e dalla eventuale formazione, per matrimonio di figli, di nuovi nuclei al loro interno. Questa regola limitativa era rafforzata dalla ereditarietà del diritto. Alla morte del capofamiglia, solo il nuovo capofamiglia poteva ereditare: ciò voleva dire che i figli eventualmente usciti dalla famiglia originaria per costituirne una nuova non avevano diritto ad essere considerati detentori di diritti d’uso se non all’interno della famiglia originaria. Rimandiamo per un approfondimento al saggio di O. Gobbi Le comunanze dei Sibillini fra XVII e XIX secolo: uso delle risorse e conflitti d’interesse, “Proposte e ricerche”, n. 32, 1994, p. 46-72.
20 J. Lussu, Il libro delle streghe. Dodici storie di donne straordinarie, maghe, streghe e sibille, a cura di Chiara Cretella, Camerano, Gwynplaine, 2011.
21 Il richiamo è qui al fondamentale lavoro dello storico del diritto Paolo Grossi. Grossi (1933-2022) è stato giurista, storico e accademico italiano. Ha ricoperto la carica di Presidente della Corte costituzionale dal 24 febbraio 2016 al 23 febbraio 2018 e in questa veste ha firmato la Legge 168/2017, che “riconosce” e regolamenta i domini collettivi, comunque denominati, delle comunità originarie di abitanti. Nei suoi scritti ha ricostruito l’itinerario storico-giuridico della proprietà collettiva, ritornando a valorizzare il ruolo economico e soprattutto ambientale degli assetti fondiari collettivi in seno alla società italiana. Si veda in particolare, Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977.
22 Fabio Bettoni, Le «società comunitarie» in Joyce Lussu, “Proposte e ricerche”, n. 70, 2013, p. 22-38.
23 Marcel Planiol, Trattato elementare di diritto civile, Librairie gènèrale de droit & de jurisprudence, Parigi, 1920. Planiol (1853-1931) è stato un giurista francese e storico della Bretagna e delle sue istituzioni.
24 Ghino Valenti (1852-1921) fu un economista agrario i cui lavori influenzarono, tra gli altri, Arrigo Serpieri. L’inchiesta Jacini fu un’inchiesta parlamentare del Regno d’Italia condotta dal 1877 al 1886 per conoscere le condizioni dell’agricoltura nel paese. L’inchiesta prende il nome da Stefano Jacini, che diresse la commissione creata per l’indagine a partire dal 1877. La citazione è estratta da G. Valenti L’archivio della Giunta per l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia (Inchiesta Jacini). 1877-1885. Inventario, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1880.
25 Per “sistema metabolico” si intende qualsiasi sistema che utilizza energia, materiali e altre risorse naturali per mantenere, riprodurre e migliorare le proprie strutture e funzioni esistenti. In senso più generale il termine metabolismo (dal greco μεταβολή ossia “cambiamento”) indica l’insieme delle trasformazioni chimiche grazie alle quali si produce il mantenimento vitale degli organismi viventi.
26 La biomimesi è una disciplina che studia e imita i processi biologici e biomeccanici della natura e degli esseri viventi come fonte di ispirazione per il miglioramento delle attività e tecnologie umane. Per un approfondimento si veda Janine M. Benyus, Biomimicry: innovation inspired by nature, New York City, Morrow, 1997.
27 Con il termine “ville” si intendono le frazioni dei comuni, ovvero “unità micro locali su cui si regge l’organizzazione territoriale, patrimoniale e sociale dell’Appennino marchigiano, esse sono strutturate secondo un preciso modello di tripartizione della proprietà della terra privata, ecclesiastica e collettiva che realizza sistemi eco-economici organici e compatti, dove la compresenza delle tre tipologie di proprietà ha una precisa razionalità e funzionalità, sia produttiva che ecologica”. Rimandiamo a O. Gobbi, Ricerche e proposte sulle proprietà collettive nelle Marche, “Proposte e ricerche”, n. 70, 2013, p. 65-71.
28 Francesco Adornato, Considerazioni conclusive. in Agricoltura e “beni comuni”, Atti del Convegno Istituto diritto agrario internazionale e comparato, Idaic, Lucera-Foggia, 27-28 ottobre 2011, Milano, Giuffrè Editore, 2012, p. 257-273.
29 Elinor Ostrom (1933-2012) è stata un’economista statunitense. Nel 2009 è stata insignita del Premio Nobel per l’economia, insieme a Oliver Williamson, per l’analisi della gestione dei beni comuni ed è stata la prima donna a essere premiata con il Nobel in questo settore disciplinare. Il libro di E. Ostrom, Governing the Commons, è stato tradotto in italiano, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio Editori, 2006.
30 Giuseppe Blasi è Capo Dipartimento politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, una delle figure tecnico-amministrative più importanti nella definizione degli indirizzi delle politiche agricole italiane.La citazione è tratta dal rapporto Codice forestale Camaldolese. Fonte Avellana. Dall’agricoltura medievale alla moderna multifunzionalità rurale, a cura di Raoul Romano e Sonia Marongiu. Finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (D.M. 1324 del 19 gennaio 2009 e D.M. 19461 del 22 dicembre 2008).
31 Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Edizioni Laterza, 2012.
32 Studi e ricerche sugli ordinamenti statutari delle proprietà collettive presenti nella Regione Marche e nell’Appennino Centrale, Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, n.120, gennaio 2013, <https://www.consiglio.marche.it/informazione_e_comunicazione/pubblicazioni/quaderni/pdf/120.pdf>, consultato il 7 novembre 2023.
33 Gerardo Scotti, Proprietà collettiva e beni comuni: alla ricerca di un modello proprietario personalista, “Cammino Diritto”, n. 10, 2015.
34 Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Roma-Bari, Laterza, 2009.
35 Naomi Klein (1970-) è una giornalista, scrittrice e attivista canadese, nota per le sue analisi politiche sui temi della globalizzazione e dell’ambiente. È l’autrice del best-seller internazionale No logo, Segrate, Rizzoli, 2010. Questo saggio tratta delle pratiche aziendali delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo ed è considerato il manifesto del movimento “no-global”.
36 Alcuni esempi di buone pratiche volte a rivitalizzare la gestione delle proprietà collettive, Università degli Studi di Trento – Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive, 28 aprile 2023, <https://www.youtube.com/watch?v=W7aGmD63ftE>, consultato il 17 luglio 2023.
37 Il testo della poesia è contenuto nel volume Joyce Lussu. Tutte le strade mi portano a casa, a cura di Ornella Vita Palmisano e Ira Panduku, Treviglio, Zephyro Edizioni, 2012, p. 13.