Indice
Introduzione
Gli amianti sono noti e utilizzati da millenni anche se il loro impiego industriale risale solo agli ultimi 200 anni. La prima malattia identificata legata all’esposizione agli amianti è stata l’asbestosi, un tipo di pneumoconiosi incurabile causata da polveri e fibre del minerale che, secondo il Global Burden of Disease, causa circa 3500 decessi ogni anno. Le ancor più letali malattie tumorali causate dagli amianti sono note dalla fine degli anni ’30 del Novecento. Su scala mondiale le fibre di amianto sono la causa del maggior numero (63 %) dei decessi per cancerogenesi occupazionale. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità e dall’International Labour Organization il numero di decessi per tumori globalmente causati dall’amianto è compreso fra 107.000 e 112.000 ogni anno, ma si tratta di una sottostima: nonostante gli sforzi normativi e di prevenzione secondo uno studio giapponese (Furuya S, Chimed-Ochir O, Takahashi K, David A, Takala J. Global asbestos disaster. Int J Environ Res Public Health. 2018;15(5):1000. Doi: 10.3390/ijerph15051000) sono circa 255.000 ogni anno i morti per amianto nel mondo, di cui più del 90 % legati a esposizione lavorativa.
Mentre il costo di sofferenza per la perdita di vite umane è impossibile da quantificare, nell’UE, negli USA e in altre economie ad alto reddito per ogni decesso per cancro da lavoro si stima un costo aggiuntivo di 4 milioni di euro; in base a questa valutazione risulta che i costi diretti e indiretti per malattie, prepensionamenti e assenze dal lavoro a causa dei tumori professionali siano pari allo 0,70 % del PIL (114 miliardi di dollari negli USA). L’uso degli amianti, seppure vietato in 55 paesi e nonostante le evidenze di forte cancerogenicità per tutti i tipi, compreso il crisotilo, è ampiamente praticato: ogni anno ne sono prodotte circa 2.030.000 tonnellate in gran parte in Russia – la metà delle quali utilizzate da due soli paesi, Cina e India – oltre che in Cina e Kazakhstan. Mediamente, a 20 tonnellate di amianto prodotto corrisponde una persona deceduta. Acquistarne 1 kg in Asia costa 40 centesimi di dollaro; 20 tonnellate costano 8000 dollari. Questi numeri riassumono la aberrante sproporzione che esiste ancora oggi fra il profitto del produttore e il costo per la collettività dell’uso dell’amianto.
Ci si chiede come sia possibile, quindi, non solo che l’amianto – bandito dall’uso in Italia nel 1992 e in EU dal 2002 – abbia ancora un ampio impiego mondiale, ma anche perché non siano applicate le disposizioni giuridiche a livello internazionale per il suo definitivo abbandono e per punire i colpevoli del suo continuato utilizzo con conseguenti gravi impatti sulla popolazione in termini di morti e malattie asbesto-correlate.
Ha fatto scalpore il ritiro da parte della Johnson & Johnson (J&J) della famosa “Johnson’s Baby Powder” a base di talco, negli Stati Uniti e in Canada a partire dal 2020 e in Europa dal 2022, per la crisi delle vendite dovute alle innumerevoli cause e a condanne di risarcimento per svariati miliardi di dollari ottenute negli USA da donne colpite da gravi patologie, come tumori alle ovaie, dovute all’uso di polvere di talco contaminata da amianto. Il Dipartimento di Giustizia statunitense aveva avviato un’indagine per stabilire se la J&J avesse intenzionalmente nascosto la presenza di amianto nei suoi prodotti. La multinazionale, ha sempre risposto confermando la sicurezza del talco, ma la contaminazione di amianto nel talco è nota da tempo, perché il talco viene prodotto dalla frantumazione di materiali estratti in miniera e nei suoi depositi lo si trova sovente insieme a rocce di serpentino, amiantifere. In Italia già nel 1984 un’analisi di prodotti commerciali contenenti talco, condotta da ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità con microscopia elettronica aveva trovato amianto in 6 campioni sui 14 considerati e risultati simili erano stati confermati in Francia da uno studio dell’ANSES, Agence Nationale de Sécurité Sanitaire de l’Alimentation, de l’Environnement et du Travail, nel 2012. Eppure nessuno, nemmeno la Farmacopea internazionale che regola il commercio dei prodotti sanitari e cosmetici, aveva mai richiesto di vietarne la vendita e l’uso.
Nel resto del mondo i processi riguardanti morti per amianto, quando si riescono a istituire, sono quasi sempre intentati per l’ottenimento di un risarcimento amministrativo, a meno che non si ravvisi il dolo dei produttori nel perpetuato uso. In Italia i processi che vedono imputati i dirigenti che hanno esposto all’amianto gruppi di lavoratori con conseguenti patologie gravissime come i tumori del mesotelio pleurico o del polmone, e che sono invece impostati come procedimenti penali, si concludono comunque quasi sistematicamente con assoluzioni in Corte di Cassazione, smentendo sovente giudizi di condanna più frequentemente espressi in primo e secondo grado di giudizio. Non è solo questo esito ciò che frustra associazioni e movimenti che si battono per il divieto mondiale dell’uso di amianti, per le bonifiche dei siti inquinati e per il riconoscimento delle responsabilità dei produttori e di adeguati risarcimenti per le persone ammalatesi e i parenti di quelle uccise dall’amianto: talvolta, in identiche circostanze – è successo a lavoratori con le stesse patologie e ammalatisi nelle stesse aziende ma con giudizio in processi differenti – accade che sezioni diverse della Cassazione emettano giudizi contrapposti. Per le vittime ciò è ancor più intollerabile: la colpevolezza o l’assoluzione non possono dipendere dal grado di giudizio penale o dalla Sezione che esamina in Cassazione la revisione del processo. Nessun organo della Magistratura ha finora affrontato questa anomalia della giurisprudenza accogliendo, per esempio, l’istanza di emettere un argomentato giudizio a Corti di Cassazione riunite. È come se mancasse la volontà di affrontare giuridicamente la questione del lascito mortifero dell’amianto, mentre le sofferenze e l’assistenza delle vittime così come i problemi di gestione e bonifica dei siti contaminati sono lasciati in carico ad amministrazioni e associazioni che trovano forza e volontà per il fatto di sentirsi parte di una comunità umana unita e consapevole, ma che trovano invece ostacoli se cercano di portare la loro lotta sul piano delle cittadinanza responsabile e della consapevolezza democratica.
Proviamo ad approfondire questa situazione con l’aiuto delle cronache della giornalista casalese Silvana Mossano che trascrive, analizza e puntualmente racconta sul suo blog (https://www.silmos.it/) gli esiti delle udienze dei processi per le vittime d’amianto dell’Eternit – tradotte e seguite in tutto il mondo dagli attivisti della rete International Ban Asbestos (http://www.ibasecretariat.org/) – e con commenti (comprese molte parti di questa introduzioen) presi da una monografia della rivista Epidemiologia & Prevenzione (E&P 2023, 47 (6) novembre-dicembre suppl. 2, DOI: https://doi.org/10.19191/EP23.6.S2.058) che raccoglie gli atti di un Convegno intitolato Amianto e Mesotelioma: tutti innocenti? Aspetti biologici ed epidemiologici dell’esposizione ad amianto e conseguenze giuridiche, tenutosi a Roma il 13 maggio 2022, promosso dalla senatrice Tatjana Rojc in collaborazione con le associazioni AIEA, AFEVA, AICA, ARASIS, Federazione Nazionale Pro Natura, Gruppo Aiuto Mesotelioma, ISDE, Legambiente, Medicina Democratica ed Epidemiologia & Prevenzione.
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Il processo di Torino (a cura di Silvana Mossano)
Torino, maxi-aula del tribunale “Giuseppe Casalbore”, 13 novembre 2024, ore 9.00: inizia il giudizio di secondo grado nei confronti dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny proprietario degli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli, chiamato a rispondere, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Torino, della morte per amianto di 392 casalesi. È difeso da Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva. Una “storia infinita”, secondo molti. Una storia di “una drammaticità fuori dall’ordinario” secondo Sara Panelli, magistrata della procura generale che sostiene l’accusa insieme ai colleghi Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare.
La Corte è presieduta da Cristina Domaneschi, affiancata da Elisabetta Gallino e dai sei giudici popolari (più sei supplenti).
La presidente, fatto l’appello e appurato che l’imputato è assente, ha riassunto la vicenda, soffermandosi soprattutto sugli aspetti centrali della sentenza di primo grado emessa a giugno 2023 dalla Corte d’Assise di Novara.
I giudici di primo grado hanno ritenuto provata la posizione di garanzia di Schmidheiny, cioè di effettivo responsabile dell’Eternit: pur non avendo cariche formali nella società, era lui di fatto, come emerge da più testimonianze (molte anche di persone con posizioni apicali nell’azienda), che assumeva scelte e decisioni strategiche. Era il vertice riconosciuto di Eternit.
La Corte di primo grado ha inoltre stimato che, a fronte di alcuni interventi di risanamento nella fabbrica (ad esempio, il passaggio del ciclo produttivo da secco a umido, installazione di strumenti di captazione delle polveri su certi macchinari…), l’imputato non ha ridotto in modo adeguato l’esposizione alle polveri, sia dentro che fuori dall’ambiente di lavoro.
Sulla consapevolezza dell’imputato, i giudici di Novara, pur affermando che Schmidheiny era decisamente in possesso di conoscenze scientifiche specifiche e approfondite circa la correlazione tra amianto e mesotelioma, hanno ritenuto ragionevole che l’imputato fosse convinto della possibilità di un utilizzo controllato dell’amianto, senza arrivare all’interruzione della produzione; in altre parole, secondo la Corte di Novara, Schmidheiny non ha agito con dolo, ma con colpa, cioè con negligenza, imprudenza, imperizia rispetto alle norme dell’epoca.
La sentenza di primo grado è stata impugnata sia dalla procura, sia dalla difesa: la prima ribadisce l’affermazione del dolo, la seconda insiste sull’assoluzione.
Conclusa la relazione introduttiva, sono iniziati gli interventi dei tre esponenti della pubblica accusa: Panelli procuratore generale della Procura di Torino, Colace pubblico ministero della Procura di Torino e Compare della Procura di Vercelli (gli ultimi due applicati per questa causa).
Secondo l’accusa: Schmidheiny era consapevole dei gravi rischi dell’amianto
“Leggete che cosa è stato il Convegno di Neuss”. Il pubblico ministero Gianfranco Colace si rivolge ai giudici, togati e popolari, e li sollecita a leggere con attenzione gli atti di quell’evento che, a suo parere, è un elemento cruciale del processo per comprendere quanto, come e da quando l’imputato fosse a conoscenza dei gravi rischi dell’amianto.
Convegno di Neuss (comune tedesco della Renania settentrionale dove operava il laboratorio scientifico di Klaus Robock, scienziato al servizio di Schmidheiny): più di un elemento cruciale. Neuss, per l’accusa, è il nucleo della strategia dell’inganno decisa dall’imputato nei confronti dei lavoratori e della popolazione. Anzi, a Neuss Schmidheiny “ha fatto una vera confessione” afferma Colace: in tre giorni, tra il 28 e il 30 giugno 1976, l’imprenditore spiega ai 35 top manager del gruppo Eternit, da lui stessi convocati, che cosa provoca l’amianto. “Una vera confessione – insiste il pm. Schmidheiny dice ai suoi più stretti collaboratori: “Io so. Io so tutto”. Che cosa sapeva? Colace sostiene che l’imputato aveva ben presenti gli esiti di studi scientifici ed epidemiologici che avevano appurato la pericolosità mortale dell’amianto. Ne era ben consapevole, secondo la ricostruzione esposta sia da Colace che da Panelli, anche perché la famiglia Schmidheiny faceva parte del “cartello” mondiale dei produttori di amianto.
Dopo il primo convegno di Neuss, seguì una seconda convocazione a dicembre, quando fu varato “Auls 76”, il primo manuale di comportamento che contiene “la politica e la strategia del gruppo Eternit per nascondere la pericolosità dell’amianto”: è un obbiettivo vitale. Infatti, “i 35 dirigenti erano rimasti “scioccati” (termine testuale della verbalizzazione del convegno, Ndr), e Schmidheiny dice loro che “questo non deve succedere ai lavoratori. È importante che non si cada ora in forme di panico”. Auls, ha insistito Colace, detta i comportamenti e le risposte che bisogna dare perché “non venga messa a repentaglio l’esistenza della nostra industria. Dobbiamo reagire in maniera decisa e combattere con tutti i nostri mezzi”. A chi chiede conto dei rischi dell’amianto, bisognava dare spiegazioni rassicuranti: “L’amianto come tale non è pericoloso. Non c’è alcun pericolo per le famiglie (dei lavoratori) fino a che non c’è un test visibile. Può essere esclusa in maniera assoluta l’esistenza di pericolo per coloro che abitano nei pressi dello stabilimento”. Queste frasi sono contenute in Auls76 che Colace definisce “manuale di disinformazione”.
E allora, secondo il pm “non possiamo trattare Schmidheiny come un normale datore di lavoro cui rimproveriamo di essere stato negligente! Aveva più conoscenze di tutti. Lui sapeva”.
Paradossalmente, ma non tanto, quando la parola passa alla difesa questa non entra nel merito delle questioni legate all’esposizione dei lavoratori, preferisce piuttosto mettere in dubbio le diagnosi dei decessi delle vittime considerate nel processo – come era già accaduto in primo grado, costringendo i giudici a richiedere una perizia suppletiva per accertare le cause di morte di lavoratori e cittadini di Casale esposti all’amianto e le loro famiglie a un’ulteriore doloroso e offensivo passaggio giudiziario, solo per vedere riconosciuta la propria verità.
Secondo la difesa: occorre la certezza delle diagnosi
La diagnosi di mesotelioma è certa soltanto se suffragata dai marcatori più attuali dell’immunoistochimica? Così sostiene la difesa dell’imputato. La procura respinge questa impostazione, con il sostegno, sottolinea la pm Mariagiovanna Compare, “dei nostri consulenti di cui è accertato e ampiamente riconosciuto un elevato livello di autorevolezza”. Come aveva già fatto nel giudizio in Assise di primo grado, la pm torna a ribadirlo ora in Appello: è fuor di dubbio che l’immunoistochimica sia fondamentale per accertare il mesotelioma, e fuori di dubbio è la validità dei marcatori attuali, ma, osserva Compare, la diagnosi si formula tenendo conto anche di altri tipi di esami e approfondimenti, e soprattutto della valutazione complessiva del quadro clinico.
La pm afferma che le obiezioni della difesa sono da respingere e ribadisce la validità di tutte le 392 diagnosi. Non solo; sottolinea che anche le diagnosi meno attuali furono eseguite nella maniera più scrupolosa possibile dai medici che ebbero in cura i pazienti perché l’interesse prioritario di ogni diagnosi è proprio quello di individuare la causa certa della patologia e adottare le terapie più adatte; sarebbe veramente strano che la diagnosi ritenuta vera e certa per curare il malato non sia più ritenuta corretta in tribunale.
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Così si conclude la prima parte della cronaca di Silvana Mossano del 13 novembre 2024, prima udienza in secondo grado del processo Eternit bis. Ma come può la difesa di Schmidheiny mettere in dubbio perfino delle diagnosi mediche pregresse? Per comprendere le strategie degli avvocati dell’Eternit, occorre fare qualche passo indietro. Questa situazione e questo genere di comportamenti nelle aule di tribunale si reggono anche per opera di un esiguo numero di consulenti che sfruttando la necessità di arrivare a una certezza assoluta di colpevolezza e attraverso interpretazioni singolari dei risultati di ricerca, anche riproponendo opinioni scientifiche già smentite, mettono in atto una strategia del dubbio sostenendo nei tribunali italiani tesi minoritarie e contrarie a quanto è affermato e condiviso dalla comunità scientifica sulle correlazioni fra esposizione e insorgenza delle malattie da amianto. Ne è stato esempio in passato l’espediente della trigger dose – un’unica fibra di amianto inalato presumibilmente a inizio esposizione – avvalorata addirittura come singolo fattore causale d’insorgenza del mesotelioma pleurico. Già screditata dalla comunità scientifica, poi rigettata anche dalla comunità giuridica, l’affermazione della trigger dose ha infine rivelato solo la malafede di chi la sosteneva; eppure fra il 2000 e il 2003 fu decisiva per diverse sentenze di assoluzione per tumori professionali dovuti all’amianto.
Come ha ben spiegato l’ex Magistrato e Senatore Felice Casson (Epidemiologia & Prevenzione, n. 6, anno 47, novembre-dicembre 2023, supplemento 2, p. 30):
La certezza assoluta non esiste neanche nella scienza, immaginarsi nei tribunali. Sussistono invece giuridicamente tutta una serie di norme e di regole, di rango diversificato, che consentono di pervenire alla affermazione di una responsabilità personale e penale già nel nostro codice di rito penale, anche nei casi cosiddetti dei processi indiziari (…) [i quali], purché corroborati dai citati elementi probatori, sono giunti e giungono a dichiarazioni di responsabilità penale anche per altre tipologie di reati, lì dove il grado di probabilità logica raggiunge un livello di forza tale da consentire la formazione del convincimento del giudice nell’ottica del riconoscimento di una responsabilità penale. Situazioni del genere si verificano sovente nei processi per amianto: situazioni di probabilità, spesso di alta probabilità logica, che dovrebbero condurre a decisioni chiare e univoche, di condanna. Pretendere la dimostrazione della certezza assoluta, in tutti i passaggi e gli aspetti, in tutte le varie fasi e dinamiche, si colloca assolutamente fuori dalla realtà. Questo pone già un problema di formazione, culturale e professionale, dei magistrati, anche a livello di Cassazione. E se per la loro preparazione da un punto di vista tecnico la questione è tutto sommato abbastanza semplice, molto più complicato e controverso è l’aspetto che riguarda la sensibilità e la formazione di una cultura e di un’etica che rispondano a quelli che sono i principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale. Noi abbiamo, non per caso, ma per scelta ben precisa e consapevole, una Costituzione basata sulla tutela del lavoro, sulla tutela della salute, ora anche sulla tutela dell’ambiente. In sintesi, sulla tutela della persona, in tutte le sue estrinsecazioni. Soprattutto al momento attuale, in cui è stata approvata ed è entrata in vigore una riforma importantissima dell’articolo 41 (e dell’art. 9) della Costituzione. I magistrati, di tutti i ranghi e livelli, si devono convincere che questi sono indirizzi prioritari, questo deve essere il faro delle loro decisioni, soprattutto nei casi in cui si presentino delle zone grigie del diritto, che certamente e oggettivamente possono sempre presentarsi. Noi sappiamo che, quando ci troviamo di fronte a determinate situazioni di incertezza, potrebbe darsi la possibilità di decidere in un senso piuttosto che nell’altro. La linea di confine potrebbe essere sottilissima. E allora, in questi casi, come succede spesso nei processi per malattie e decessi asbesto-correlati, bisogna che i Magistrati si pongano in un’ottica costituzionale, sulla via dei principi costituzionali, dando interpretazioni e applicazioni costituzionalmente orientate: la Costituzione come faro. (…) per l’aspetto giuridico-processuale sono sostanzialmente e precipuamente due i nodi del contendere. Il primo riguarda il nesso di casualità, per il quale una certa giurisprudenza pretenderebbe la prova assoluta, che si ridurrebbe poi ad una sorta di probatio diabolica: quando per il nesso di casualità si arriva a dire che bisogna arrivare alla certezza assoluta, in ogni passaggio, è chiaro che non c’è alcun spazio per la discussione, per la valutazione, per il buon senso scientifico e giuridico. Non si va allora da nessuna parte, se non verso la negazione del processo stesso, verso la negazione di ogni esigenza di verità e quindi di giustizia. Ma quando la scienza stessa, oltre che il sapere giuridico, ci consentono di dire che si può arrivare e si arriva a un alto grado di probabilità, utilizzando tutti gli strumenti probatori che il codice di rito consente, il punto critico e ogni dubbio devono essere superati. Il secondo aspetto in discussione è quello attinente alle responsabilità personali, locali o di vertice aziendale, normativamente individuate, che possono però essere diversificate sia da un punto di vista societario, sia a causa del trascorrere del tempo. Anche in questo caso, nella quotidiana pratica giudiziaria abbiamo assistito a plurimi casi di magistrati che si sono caratterizzati per la violazione di norme esistenti, magari in vigore da decenni.
Anche secondo Edoardo Bai, epidemiologo perito delle parti civili nei processi d’amianto, in Italia esiste l’industria del dubbio. Con questo non intende dire che un imputato non abbia diritto a una giusta difesa, ma che non deve essere oltrepassato ogni limite presentando argomenti che nulla hanno a che fare con un sano dibattito scientifico al solo scopo di seminare dubbi e ottenere così sentenze assolutorie. Sovente invece il perito di parte rinuncia all’imparzialità e abbraccia la non neutralità ma sul versante opposto a quello della figura che deve decidere nell’interesse della pubblica sanità. Chi fa questa scelta è legittimato a farlo, nella consapevolezza che esiste un punto da non valicare, oltre il quale il suo comportamento viola l’articolo 41 della Costituzione, che recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Una pronuncia della Cassazione nel 2003 sembrò risolvere la questione dell’individuazione del soggetto a garanzia con la seguente formulazione:
Il problema di imputazione appena descritto viene risolto dalla giurisprudenza applicando, sulla base delle consulenze e delle perizie, una legge scientifica nota come modello multistadio della cancerogenesi. Tale legge descrive il processo di formazione del cancro come un’evoluzione a più stadi, la cui progressione è favorita dalle successive esposizioni al fattore cancerogeno: con la conseguenza che l’aumento della dose di amianto inalata (dove la dose dipende dalla durata e dall’intensità dell’esposizione; e l’intensità, a sua volta, dipende dalla concentrazione di fibre nell’aria), è in grado di accorciare la latenza della malattia e di aggravare gli effetti della stessa. Secondo la teoria multistadio, dunque, il tumore rappresenta una patologia dose-correlata, ossia il cui sviluppo, in termini di rapidità e gravità, è condizionato dalla quantità di fattore cancerogeno inalato. Ciò permette ai giudici di affermare che, a prescindere dal momento esatto in cui la patologia è insorta, tutte le esposizioni successive e tutte le dosi aggiuntive devono essere considerate concause poiché abbreviano la latenza e dunque anticipano l’insorgenza della malattia. (Cassazione, Sezione IV penale, sentenza n. 988 del 14 gennaio 2003).
Le evidenze permettono quindi di individuare i soggetti a garanzia, ovvero – tenendo conto della lunghissima latenza delle patologie tumorali causate dall’amianto – tutti gli imprenditori e/o i dirigenti incaricati della tutela della salute dei lavoratori nel periodo compreso fra l’inizio e la fine dell’esposizione all’agente cancerogeno. Nonostante ciò, la contestazione dei principi scientifici riassunti nella sentenza sopra citata è proseguita negli ultimi due decenni riscontrando seguito quasi esclusivamente nei tribunali – o in pubblicazioni sovente inficiate dal conflitto di interesse degli autori – senza alcuna evoluzione o osservazione innovativa, portando infine al clima di arbitrarietà e incertezza di giudizio già sottolineato. Fra gli argomenti portati in aula e – soltanto ed esclusivamente lì – sostenuti da un ristretto gruppo di consulenti dell’industria, ricordiamo:
. L’affermazione che la teoria multistadio della cancerogenesi non sia valida.
. L’affermazione che le fibre cancerogene inalate dopo il periodo di induzione della malattia non peggiorano la salute degli esposti.
. La conseguente osservazione che la relazione inversa fra dose e latenza non esiste.
. L’affermazione che i concetti statistici dell’epidemiologia non possono essere applicati al singolo caso.
. L’affermazione che l’accelerazione del processo di cancerogenesi, legata alla dose cumulata, non sussiste.
Ridotti all’essenziale, sono questi i principali temi in discussione nei processi per patologie da amianto – come per altre sostanze tossiche e/o cancerogene – che nel Quaderno 47 di Epidemiologia & Prevenzione vengono affrontati da autorevoli esperti alla luce delle evidenze raccolte dall’epidemiologia e delle più recenti scoperte della biologia molecolare. Queste, sostanzialmente, confermano la teoria multistadio mostrando come la cancerogenesi non sia un processo né puntiforme né lineare, ma costituito da una fase di iniziazione cellulare (trasformazione di una cellula normale in tumorale) e successivamente da una di promozione e completamento evolutivo delle cellule tumorali per azione di hallmarks, senza i quali la carcinogenesi non proseguirebbe. In quest’ottica vanno interpretati, per esempio, il concetto di induzione – artatamente introdotto come sinonimo di iniziazione, ovvero del primo stadio della teoria multistadio, da rigettare se inteso nell’accezione di processo completo di cancerogenesi – e l’osservazione che le dosi iniziali di cancerogeno inalato risultano più impattanti perché hanno più tempo a disposizione per produrre la mutazione cellulare. Mentre l’accumulo di fibre nel polmone, che dipende dalla durata e dall’intensità dell’esposizione, aumenta la probabilità di sviluppo della malattia (rischio, incidenza) e ne accelera l’esito clinico (anticipazione dell’evento), in funzione della dose globale assorbita nel tempo per cui è durata l’esposizione.
L’epidemiologo Dario Mirabelli, anch’egli sovente nominato Consulente Tecnico d’Ufficio nei processi per amianto, osserva (Epidemiologia & Prevenzione, n. 6, anno 47, novembre-dicembre 2023, supplemento 2, p. 65):
“Ho provato forte sorpresa quando nei dibattimenti penali in Italia sui tumori da amianto alcuni consulenti delle difese hanno sostenuto che la teoria multistadiale della cancerogenesi era superata. Per quanto mi risulta è ormai consuetudine delle difese introdurre una critica ‘radicale’ alla teoria multistadio in tutti i processi che riguardano casi di mesotelioma. La mia sorpresa era dovuta al fatto che nella comunità epidemiologica avevo sempre constatato un’ampia adesione alla teoria multistadio. L’esempio più chiaro per me era il fatto che epidemiologi come il prof. Boffetta o il prof. La Vecchia, anche quando si pronunciavano nel ruolo di consulenti per quelle stesse difese, collocavano esplicitamente le loro elaborazioni all’interno della teoria multistadio. Al centro dell’attenzione e dell’attività degli epidemiologi si trovano l’identificazione delle cause di tumori e la valutazione del loro peso rispetto al carico di malattia negli esposti, che prescindono largamente dalla ricerca sui meccanismi d’azione e sulla patogenesi delle malattie. La teoria multistadio costituiva una cornice entro cui si collocava il lavoro ma non era di per sé oggetto di indagine. Per verificare se avevo perso qualche novità fondamentale nell’ambito della ricerca di base sul cancro ho cercato di ripercorrere alcuni temi: l’origine della teoria multistadio (e il contesto delle conoscenze biomediche dell’epoca), la sua eventuale evoluzione nel tempo (la concepiamo sempre allo stesso modo?), il suo status attuale (in un contesto di rapido aumento delle conoscenze sulla biologia del cancro), l’esistenza di teorie concorrenti” (…) La formulazione più famosa è stata proposta da Armitage e Doll nel 1954, poco dopo che l’idea della multistadialità del cancro era stata proposta da Nordling e da Stocks, con due differenti (e indipendenti) lavori nel 1953. (…) Oggi possediamo conoscenze che nel 1954 non erano disponibili, non solo riguardo ai cancerogeni ed alla loro mutagenicità, ma anche alla struttura del DNA, dei geni e dell’intero genoma umano, alla natura dei geni critici per il cancro (oncogeni, geni oncosoppressori, geni del riparo del DNA ecc.), alle alterazioni presenti nel genoma tumorale, alla loro eterogeneità ed ai loro tempi di insorgenza (almeno in alcuni tumori), alle interazioni con il micro-ambiente tumorale, alle caratteristiche delle lesioni pre-neoplastiche e neoplastiche precoci (displasie, carcinomi in situ e tumori in fase pre-clinica). In una teoria moderna della cancerogenesi ci aspettiamo di poter incorporare con successo tutto questo corpus di conoscenze, ampio e crescente. La multistadio è stata in grado di farlo? Rispondo affermativamente e [nel già citato Quaderno di Epidemiologia & Prevenzione, Nda] giustificherò questa risposta.
In questo modo, con riferimento alle leggi fondamentali delle scienze mediche, biologiche e dell’epidemiologia, possono essere analizzati i singoli casi in giudizio. Questi, sulla base della probabilità logica e della credibilità razionale, non possono costituire eccezioni a modelli di riferimento universali che stabiliscono come a ogni incremento di esposizione a sostanze tossiche o cancerogene corrisponda sia un aumento di incidenza (rischio), sia una anticipazione d’insorgenza della malattia associata. Perfino eventi a causa singola come gli infortuni sul lavoro accadono con frequenza proporzionale ai diversi gradi di protezione e alla sicurezza dell’ambiente in cui si opera, mentre i concetti di latenza e anticipazione assumono significato se si confrontano gli andamenti statistici degli infortuni di situazioni di lavoro con diverso livello di rischio.
Crediamo che il confronto su questi argomenti sulla base di contributi autorevoli e non influenzati da interessi di parte, come quelli raccolti nel Quaderno di Epidemiologia & Prevenzione, possa aiutare a far luce sulle interpretazioni scientifiche da adottare nei procedimenti penali in corso e in quelli futuri riguardanti le malattie e i decessi causati dall’amianto o dall’esposizione ad altri agenti nocivi negli ambienti di lavoro e di vita.
Tuttavia, queste osservazioni tecno-scientifiche restano lettera morta o poco più, fuori o dentro le aule di tribunale, se non vengono integrate da una visione consapevole delle reali conseguenze che l’uso dell’amianto ha comportato (e ancora comporta più di tre decenni dopo il suo abbandono) sulle comunità che nel mondo – da Casale a Broni, a Balangero, a Manchester in Inghilterra, in Canada, Brasile, Kazakistan, India, Giappone – lo hanno estratto, trasportato e lavorato.
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Ritorniamo al processo in corso a Torino e alla parte finale di cronaca dell’udienza del 13 novembre, ripresa da Silvana Mossano per ricordare i cinque punti di straordinarietà assoluta della vicenda dell’amianto a Casale Monferrato, sottolineati dal Procuratore Generale Sara Panelli.
Una drammaticità fuori dall’ordinario (di Silvana Mossano)
Straordinarietà del numero delle morti
“Sono contestati, in questo processo, numeri da capogiro: 392 morti che portano la firma dell’amianto!”. Si sono ammalate del cancro maligno chiamato mesotelioma. “È un tumore rarissimo; secondo numerosi studi epidemiologici – ha spiegato Panelli -, il numero di nuovi casi all’anno, in ambito nazionale, dovrebbe essere 60; nella realtà, il Registro nazionale dei mesoteliomi ne segnala 1600”. Ma è il caso-Casale, dove vivono meno di 40 mila abitanti, che fa accapponare la pelle: “Secondo le stime, dovremmo attenderci 1 nuovo caso all’anno; pertanto, nei trent’anni tra il 1990 e il 2019, avrebbero dovuto essere registrati 30 nuovi malati. E invece? Sono stati 661! Tenendo conto soltanto delle diagnosi certe”. Significa che “abbiamo oltre 600 casi che non avrebbero dovuto verificarsi”. Prende fiato e aggiunge con un sospiro: “Ma sono morti, eh! Sono persone – scandisce – che non avrebbero dovuto morire! Se non ci fosse stato l’inquinamento da amianto dentro la fabbrica e nell’ambiente circostante, quelle persone non sarebbero morte!”.
Straordinarietà della posizione imprenditoriale
“La famiglia Schmidheiny – ha affermato la pg, mostrando slide esplicative – era nel gotha dei “signori dell’amianto”. C’era la Johns-Manville negli Stati Uniti, la Turner&Newall in Gran Bretagna (evocativo il marchio “Ferodo” dei freni delle auto) e, nell’Europa continentale, dominavano le famiglie Emsens e Schmidheiny. “Gli industriali del gotha dell’amianto si incontrano, decidono i prezzi, le politiche, le strategie internazionali per gestire e controllare il mercato mondiale. Sono perfettamente informati sugli esiti degli studi scientifici”.
Un esempio. Il patologo Chris Wagner, di Johannesburg, aveva rilevato 33 casi di mesotelioma, sia tra i lavoratori di una miniera di amianto in Sudafrica, sia tra coloro che abitavano nelle case vicine. Doppia esposizione: professionale e ambientale. Lo sapevano gli Schmidheiny? Difficile che non sapessero, avevano comprato dagli inglesi le miniere in Sudafrica. E quando fu divulgato lo studio di Wagner? Presentato nel 1959 a Johannesburg e pubblicato nel 1960. Qual era la conclusione di quello studio? “Wagner – spiega Panelli – dice che non c’è un modo sicuro per estrarre l’amianto e lavorarlo. Non c’è. E i signori dell’amianto lo sanno, hanno le informazioni scientifiche di prima mano!”.
Straordinarietà del silenzio sulla pericolosità dell’amianto
Di fronte alla pericolosità accertata (oltre allo studio di Wagner, Panelli ne cita altri: quello di Doll che la Turner&Newall non riesce a tacitare, e le argomentazioni dello scienziato Selikoff alla nota Conferenza di New York del 1964) “si sceglie di tacere: non vengono informati né i lavoratori né le persone che abitano intorno allo stabilimento”. Ovviamente, se si fosse saputo che di amianto si muore – (lo ripete, scandendo le sillabe) si mu-o-re – l’azienda avrebbe chiuso. “Se l’avessi saputo che si moriva d’amianto, col cucu che avrei continuato a lavorare lì!” aveva testimoniato un ex operaio al maxiprocesso 1.
E quindi? Si tace, perché “la conoscenza avrebbe fermato il mercato dell’amianto”. Qualcosa però trapela, articoli, convegni. E quindi? Si fa passare il messaggio che l’amianto si può usare in sicurezza. “Gli interventi sugli impianti – afferma Panelli – sono quelli che, nella documentazione interna, vengono definiti “piccole migliorie”, ovvero “qualche concessione ai sindacati” per “non svegliare il can che dorme”, che, però – afferma la pg Panelli – non hanno nessuna efficacia, e il numero spropositato di morti a Casale lo dimostra”.
Straordinarietà della dignità delle vittime di Casale
C’è un ingresso inatteso, in maxiaula 1. Sono le 11,35. La pg Panelli tace, alza lo sguardo e, in un certo senso, passa la parola. Sugli schermi, collocati in tre postazioni, compare il volto di Romana Blasotti Pavesi, la storica presidente dell’Afeva (Associazione famigliari e vittime dell’amianto di Casale). È morta a settembre scorso, aveva 95 anni compiuti il 13 marzo. Eppure è lì, ben presente, le rughe profonde, la voce stentorea, le parole inflessibili in una registrazione che non toglie nulla alla vividezza: “È giusto lavorare, è importante e necessario, ma non si può morire per il lavoro”. Scuote la testa e i suoi occhi celesti sono tristi: “Non si può morire di lavoro”, ripete.
La sua voce continua a scuotere. Il volto, limpido e severo, non cede. Ebbene, “tutte le deposizioni dei testi – riprende la pg – sono state limpide, puntuali, composte, intrise di tristezza e sofferenza”. La difesa sostiene, nei motivi di appello (come aveva anche sottolineato nelle arringhe), che quelle testimonianze non sono del tutto attendibili perché la memoria a distanza di tempo non conserva immagini intatte. “Non è vero – replica Panelli. Non è vero, la perdita di una persona cara rende il ricordo indelebile”.
Infine, l’ultima straordinarietà: “La giustizia riparativa”
Ovvero: “Una straordinaria opportunità per Schmidheiny come uomo, il filantropo che vuole essere”. È la prima volta, nella lunga, capillare, “infinita” storia dei processi Eternit, che la “giustizia riparativa” entra in aula. E la proposta giunge dalla pg Sara Panelli, la magistrata che, con i colleghi Gianfranco Colace e, all’epoca, il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, fin dal 2005 hanno svolto le monumentali indagini del maxiprocesso Eternit 1 per disastro doloso.
Sara Panelli ora è la pg che sostiene l’accusa nel processo d’appello Eternit Bis e, al suo fianco, ha il collega di allora, Gianfranco Colace (e, in più, oggi, Mariagiovanna Compare).
Sono magistrati che conoscono ogni virgola di questa storia giudiziaria, hanno letto, studiato e scritto migliaia di pagine, hanno interpellato svariati consulenti di primordine per farsi spiegare studi scientifici complessi, hanno ascoltato centinaia di testimoni – i famigliari delle vittime e i malati stessi -, e hanno incrociato gli occhi angosciati di quelle voci. Ritengono ci sia una documentazione probatoria ampia (“Altro che materiale incompleto! In questo processo, c’è fin troppo materiale”) a sostegno dell’accusa nei confronti dell’imputato.
Eppure, Panelli introduce un tema nuovo, la giustizia riparativa, che, lo sottolinea più volte, non interferisce con l’ambito penale. È cosa a sé. È scelta civica, di maturità, di ricerca di pacificazione con una comunità ferita. Per qualche minuto, la Maxi-aula cessa la sua funzione e fa da megafono a questa proposta: una strada nuova per risolvere un conflitto, per riattivare una relazione umana che è stata rotta con le vittime e con la collettività. “È una strada complementare a quella che esercitiamo in questo processo – spiega. E non richiede nessuna ammissione di responsabilità per accedervi. Ciò che avviene è nelle mani delle parti che individuano un mediatore imparziale e concordano tempi, luoghi e modi di azione”. “Non tocca a noi – conclude – stabilire forme e modi per valutare questa possibilità, no, ma di proporla questo sì. È una opportunità straordinaria di percorrere una strada complementare”.
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Le cronache di Silvana Mossano proseguono sul suo blog (https://www.silmos.it/). Riprendiamo qui solo più l’ultima parte di resoconto dell’udienza del 4 dicembre 2024, ancora per ribadire l’unicità e l’importanza storica e internazionale del processo Eternit bis di Torino.
Unico processo penale al mondo
“I problemi derivanti dall’amianto – scrive Silvana Mossano, riportando le parole dell’avvocato della difesa, Di Amato – non riguardano soltanto l’Italia, è una tragedia globale. Però l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui si celebrano processi penali per l’amianto, anche oggi. C’è stato un tentativo in Francia, qualche anno fa, ma il fascicolo è stato archiviato”.
Effettivamente, nelle altre parti del mondo, si procede direttamente con cause civili finalizzate alla richiesta di risarcimenti economici a favore di chi ha subito malattie (o decessi) di origine professionale e ambientale.
È stato citato proprio in questo processo d’appello il caso della Johns Manville americana che, negli anni Ottanta, era stata travolta e sommersa da 16.500 cause civili.
Recentissima, poi, è la sentenza in Francia nei confronti della società CMMP, emessa mercoledì 27 novembre 2024: la Corte d’Appello di Parigi ha condannato la Comptoir de minéraux et matières premières, che ha macinato amianto dal 1938 al 1975 nello stabilimento nel centro di Aulnay-sous-Bois (Senna-Saint-Denis), a pagare al Comune quasi 14 milioni di euro. Secondo i giudici questo è il risarcimento dovuto per la bonifica del sito che, nel corso dei decenni, ha causato migliaia di vittime, tra cui i bambini che, per 37 anni, avevano frequentato le scuole nei dintorni.
In Italia, dove l’azione penale è obbligatoria, la procura si è impegnata, invece, a valutare e accertare se sia stata una specifica condotta personale a causare tutti quei morti.
La collettività casalese, esemplare e moralmente integra, ha subito un torto grave, è fuor di dubbio. C’è bisogno di capire se qualcuno, e chi, lo ha commesso.
Per la difesa, dal momento che “non c’è un signor Eternit”, non è Stephan Schmidheiny il responsabile.
La procura è convinta del contrario.
Un giudizio di primo grado è già stato espresso. Non resta che attendere il verdetto della Corte d’Assise d’Appello, il prossimo anno.