Cominciò quindi quella che abbiamo la debolezza di chiamare la sua ‘anabasi’. Si trattava infatti di inoltrarsi in un luogo (il medio Oriente e la fascia sudanese) accertato ma, al nostro viaggiatore, ignoto; e nel tempo stesso, di lasciarsi alle spalle un luogo noto, anzi IL luogo per eccellenza: l’Inghilterra, l’Europa (la civiltà occidentale – vi prego banalmente di notarlo).
P.P. Pasolini, Petrolio, Appunto 41
Oil is not just a commodity, it’s a strategic resource that shapes geopolitics and influences global economics. It holds immense power and significance in the modern world.
John D. Rockefeller
Nec tantum segetes alimentaque debita dives
poscebatur humus, sed itum est in viscera terrae,
quasque recondiderat Stygiisque admoverat umbris,
effodiuntur opes, inritamenta malorum;
iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum
prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,
sanguineaque manu crepitantia concutit arma.
Publio Ovidio Nasone
In Roma, film di Alfonso Cuarón del 2018, è raccontata una duplice, parallela storia di tradimento e abbandono di una madre della medio-alta borghesia di Città del Messico e della sua domestica, amerinda. Sullo sfondo, la lotta di classe nel Messico di fine anni Sessanta, la quale era ed è ancora anche una questione razziale, bianchi e ispanici da un lato e indios dall’altro. In filigrana si legge anche come l’autore associ ai primi mare e cielo, luoghi di provenienza dei vecchi e nuovi conquistadores, e a secondi la terra, nella quale affondano le radici i popoli nativi sin dalla notte dei tempi, con il loro idioma misterioso. Saranno per esempio i braccianti indios a prodigarsi per salvare la terra dall’incendio, mentre i padroni bianchi brindano lugubremente al nuovo anno, così come sono marines gli addestratori degli squadroni della morte, i quali si allenano su di una grande radura sopra il cui cielo sfrecciano i jet del vicino aeroporto di Città del Messico. Costoro, giovani sottoproletari amerindi militarizzati, saranno poi impiegati a reprimere le rivolte dei campesinos e degli estudiantes. Terra da un lato, mare e cielo dall’altro. Indios e conquistadores. Alla fine del film, la giovane protagonista Clò salverà dal mare mosso i figli della sua padrona bianca, pur non sapendo nuotare, mentre all’orizzonte si stagliano le grandi piattaforme petrolifere, che suggono la linfa vitale dalla terra. E’ la spiaggia di Vera Cruz.
Nella storia dell’imperialismo occidentale il Messico svolse un ruolo straordinario, sovente sottostimato. In Messico vi fu la prima vera rivoluzione proletaria della storia, fu il primo stato socialista. Il Messico infatti, per primo al mondo, sancì la proprietà nazionale delle risorse mineararie nell’articolo 27 della costituzione del 1917 (Yergin D., 1991, pp 215), contro il princicpio generale dei diritti privati di superfice, o rule of capture, una dottrina basata sulla common law Britannica1, che all’estero nella forma di royalties2regolava i rapporti giuridici che le grandi compagnie petrolifere intrattenevano con i governi locali. Senza dubbio il Messico fu anche il primo luogo della proiezione internazionale delle compagnie americane (the fight for new production, secondo le parole di Yergin), come la Pan American Oil prima e la Standard Oil poi, tanto che nei primi anni del ventesimo secolo le attivitá di esplorazione nell’emisfero occidentale al di fuori degli Stati Uniti erano sostanzialmente concentrate lí (Yergin D., 1991, pp 212). Ma soprattutto, é in Messico che vi fu la prima nazionalizzazione dell’industria del petrolio nel 1938 e la fondazione della prima compagnia nazionale e pubblica, la Pemex (Painter D., 2012). Un affronto, oltre che un reato politico, che al Messico non sarà mai perdonato3. La scomunica impartita dalle compagnie anglo-americane che pendeva sul Messico esercitava tale forza politica che persino il Terzo Reich, e segnatamente il Ministero dell’Economica (che, secondo l’ammiraglio Reader era “nelle tasche delle compagnie petrolifere”), non osò mai violare l’embargo posto sul suo petrolio anche a scapito della guerra ormai imminente e delle conseguente penuria di idrocarburi che, secondo alcuni storici, sarebbe stata fatale per le sue ambizioni militari marittime e per l’esito del conflitto (Torpani A., 2015).
L’interesse tedesco nell’acquisizione di una concessione petrolifera in Messico risale al primo decennio del ventesimo secolo, alla vigilia della prima guerra mondiale. I geologi tedeschi avevano esaminato il paese già nel 1912 e la Deutsche Bank, che controllava la principale compagnia petrolifera tedesca indipendente, la Deutsche Petroleum, il Ministero degli Esteri tedesco e la Marina imperiale tedesca avevano tutti espresso interesse nell’assicurarsi una concessione in Messico come fonte petrolifera alternativa che avrebbe consentito alla Germania di rompere il dominio della Standard Oil Company sul mercato europeo. Per la Kriegsmarine, a differenza della Luftwaffe e delle Panzergrenadier che potevano essere alimentate con combustibili sintetici, il petrolio era infungibile, e l’ambizoso programma hitleriano, il “Z-Plan”, di fare della Germania una potenza navale al pari della Gran Bretagnia, necessitava, si stima, di 8 milioni di tonnellate di olio combustibile all’anno (Torpani A., 2015). Dove trovarle, in un contesto internazionale dove i grandi giacimenti noti erano appannaggio delle compagnie anglo-americane? All’inizio del XX secolo i grandi giacimenti noti, al di fuori degli Stati Uniti, erano sostanzialmente quelli in Indonesia, in Persia, in Iraq, in Mexico e Venezuela, in Romania e nel Caucaso. Tuttavia, questi ultimi, dove un giovane Josip Stalin era protagonista delle lotte operaie, appena venduti ai Rothschild da Alfred Nobel, vennero nazionalizzati dopo la rivoluzione di Ottobre. Una ferita mai rimarginata per i Rothschild, che vedranno riacutizzarsi, quando, per una seconda volta nella storia, i loro interessi nella industria petrolifera russa, segnatamente la Yukos, saranno frustrati da un’altra nazionalizzazione, nei primi anni 2000, operata questa volta da Vladimir Putin (Bell S., 2003).
Fu una sorpresa, sostiene Yergin, anche per gli “osservatori più cinici”, vedere come l’amministrazione Wilson, l’impersonificazione stessa del progressismo, elargisse sostegno alle compagnie petrolifere e in particolare a quella Standard Oil del New Jersey, una delle partizioni dello sembramento della Standard Oil avvenuto appena un decennio prima. Con Walter Clark Teagle, presidente della Standard Oil dal 1917 al 1937, la naturale vocazione internazionale dell’industria petrolifera americana muta in proiezione imperialistica: “L’attuale politica della Standard Oil Company è quella di interessarsi a ogni area produttiva, indipendentemente dal paese in cui si trova4“ (Yergin, 1991, pag. 183).
Indice
Una guerra sconfinata
La prima metà del XX secolo fu caratterizzata dalla corsa alle risorse note per incrementare la produzione alacremente (“figth for new production”, secondo le parole di Teagle), e inseguire una domanda vorace di idrocarburi sospinta soprattutto dall’avvento del motore a combustione interna; questo aveva creato un mondo nuovo, soprattutto in campo bellico, sostituendo la cavalleria con le forze meccanizzate, le navi a vapore con quelle olio combustibile (che risparmiavano un terzo del volume e metà del personale) e soprattutto popolando i cieli, precedentemente incontaminati, di velivoli. E se potesse apparire un’iperbole, oltre che una distorsione delle linee della storia, sostenere che le due grandi guerre furono un conflitto per il petrolio, non dovrebbe apparire come un fatto né casuale né accessorio che i confini del Lebensraum hitleriano contenessero i giacimenti del Caucaso. Così come è altrettanto vero che alcune delle direttrici delle due guerre mondiali si proiettavano nel Medioriente, ove i nuovi confini emergenti dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano venivano disegnati secondo i futuri diritti di estrazione. Si veda per esempio il famigerato accordo della linea rossa, siglato tra Anglo-Persian Company (in seguito rinominata British Petroleum), Royal Dutch/Shell, Compagnie Française des Pétroles (in seguito rinominata Total), Near East Development Corporation (in seguito rinominata ExxonMobil) e Calouste Gulbenkian, il 31 luglio 1928, a Ostenda, in Belgio. La linea rossa si estendeva dalla odierna Turchia, fino all’Oman, comprendendo l’intera Arabia Saudita. Un accordo dal quale le potenze dell’Asse erano escluse (e, ça van sans dire, non solo in Medio Oriente). L’accesso alle fonti, o mancanza di esso, segnó inesorabilmente il corso di entrambi i conflitti. Se infatti abbiamo giá fatto menzione di come la scarsità di olio combustibile pose un serio limite sia alla dimensione che, soprattutto, al raggio di azione della marina tedesca nel secondo conflitto, giá nel primo il petrolio fornito in abbondanza agli alleati dalle compagnie anglosassoni ebbe un ruolo cruciale. Dell’episodio famigerato dell’esercito di Taxi che salvò Parigi, trasportando celermente truppe al fronte che si sgretolava durante la battaglia della Marnia, si é scritto che fosse stato esagerato nelle proporzioni (Hanc J., 2014); tuttavia, rievocando le parole di Marc Bloch, le leggende belliche sono il frutto “della coscienza collettiva che contempla i propri lineamenti” e in esse giace un fondo di verità (Bloch M., 2004). Gli alleati avevano infatti una dotazione di mezzi meccanici e conseguente mobilità superiore. Tale vantaggio fu garantito dal sostegno Americano e dalle compagnie petrolifere, tanto da far dire a Lord Curzon, Ministro deli Esteri Britannico, all’indomani dell´armistizio, durante la Inter-Allied Petroleum Conference a Londra, che “una delle cose più sorprendenti era l’enorme esercito di autocarri e il fatto che la causa alleata fosse giunta alla vittoria su un’onda di petrolio5“ al quale, replicò con con toni altrettanto roboanti il senatore francese Berenger, che “la Germania si vantava di essere troppo superiore nel ferro e nel carbone, ma non aveva tenuto conto della nostra superiorità nel petrolio”, concludendo che “come il petrolio era stato il sangue della guerra, così sarebbe stato il sangue della pace”6. (Yergin D., 1991; p. 167).
Una pace, invero, gracile, ma che in quel breve lasso di tempo non solo non avrebbe cambiato nulla nella distribuzione dell’accesso alle risorse energetiche note, ma che avrebbe rinsaldato il ruolo dominate del petrolio e la conseguente tettonica del potere globale. Gli Stati Uniti rappresentavano quasi due terzi della produzione mondiale di petrolio nel 1920 cosicché la disponibilità di petrolio a basso costo condusse il paese a rimodellare la sua società e la sua economia in modi che hanno garantito una domanda di petrolio ampia e crescente (Painter D., 2012).
Perché allora la Prima guerra mondiale fu combattuta dalle potenze leader di entrambe le parti come -per usare una espressione di Hobsbawn- un gioco a somma zero? Vale a dire come una guerra che poteva solo essere vinta o persa totalmente, a differenza di quelle precedenti, che erano combattute per obiettivi sovente limitati e specifici? Questa era nella sua natura e per ambizioni in gioco illimitata. Nell’età imperiale, politica ed economia si erano fuse. La rivalità politica internazionale era modellata sulla crescita economica e sulla competizione, ma la caratteristica di questa era proprio quella di non avere limiti. Come scriveva Hobsbawn: “Le frontiere naturali della Standard Oil, della Deutsche Bank e della De Beers Diamond Corporation erano ai confini dell’universo, o meglio al limite della loro capacità di espansione”7. (Hobsbawn E., 1987, p 318).
Il ritorno dell’imperialismo alla accumulazione primaria
Il petrolio era lungi dall’affermarsi come fonte di energia alternativa al carbone, quando, ancora nel XIX secolo, Rosa Luxemburg vaticinava il tragico corso dell’Europa, in una missiva a Leo “Dziodzio” Jogisches del 9 Gennaio 1899, (Luxemburg R., 2019, pp.137) scrivendo:
È chiaro che la divisione dell’Asia e dell’Africa é obiettivo finale, dopodiché la politica europea non ha piú dove svilupparsi. Allora avverrà di nuovo una strozzatura come poco fa per la questione orientale, e agli altri stati d’Europa non rimarrà nient’altro da fare che buttarsi l’uno addosso all’altro, finché in politica si aprirà il periodo delle crisi definitive […]
Dunque l’imperialismo non nasce con il petrolio, né esso fu la causa scatenante della prima guerra mondiale, sebbene, come abbiamo mostrato, ne fu senza dubbio una delle principali determinanti del suo corso e scaturigine. C’è però qualcosa di tutto peculiare nella forma che l’imperialismo, cronica malattia per alcuni, manifesto destino per altri del capitalismo occidentale, avrebbe preso una volta che esso ebbe attinto al “sangue della terra”. Le due grandi teorie dell’imperialismo, di matrice marxiana, quella di Lenin e di Luxemburg, poco infatti si adattano a spiegare la fenomenologia di quella lotta globale per la produzione che abbiamo dianzi accennato a grandi linee. La teoria dell’imperialismo come fase suprema del capitalismo, dove Lenin descrive le sue caratteristiche fondamentali, tra le quali la concentrazione della produzione e del capitale, la fusione del capitale bancario e industriale, l’esportazione di capitale e la formazione di monopoli internazionali, come connaturate con il capitalismo maturo, serve il proposito di spiegare solo in parte le dinamiche che si osservarono nel mercato globale del petrolio, nella prima metà del secolo ventesimo. Se è vero che esso fu caratterizzato dal monopolio e dalla concentrazione di capitali, non vi fu altresì mai quella capacità produttiva eccedente la domanda interna, né attività produttive sature di capitali, che furono la forza propulsiva all’estroversione mercantile e alla esportazione di capitali, ottenute sovente per via militare. Similmente, la teoria della Luxemburg, anch’essa fondata sul concetto di saturazione nel contesto del ciclo allargato del capitale e sulla sua impossibilità intrinseca di realizzarsi entro i confini domestici quando la classe borghese non poteva assorbire tutta la produzione, non spiega quel vorticoso divenire di quegli anni caratterizzati se mai da una offerta che stentava a supplire ad una domanda crescente. Non era, per usare la terminologia di un noto marxista, David Harvey, un problema di spatial fix della sovraccumulazione di capitale sebbene fosse la distribuzione geografica internazionale delle risorse centrale nel processo di accumulo (Harvey D., 2001).
Per rinvenire alcuni dei tratti essenziali di quella fase dell’imperialismo a carattere petrolifero conviene ricorrere alla definizione di Marx della accumulazione originaria, definita, nel capitolo 24, sezione sesta del libro primo del Capitale, come “il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione”, riferendosi, in modo specifico, al settore agricolo. In questo capitolo egli si dilunga nella descrizione di quel processo storico di espropriazione secondo varie vesti giuridiche, delle terre agricole (comuni, ecclesiastiche, demanio o mezzadre), e di concentrazione in grandi latifondi che ha caratterizzato l’Europa tra il XV e il XIX secolo. Tale processo fu essenziale per la formazione del nascituro capitale industriale per tre ragioni: perché permetteva la formazione di una rendita che diveniva capitale nelle mani di una classe capitalista estranea a quella nobiliare (la traslazione delle “sorgenti della ricchezza” dai signori feudali a operai, commercianti e nuovi borghesi); perché privava i contadini delle fonti della loro sussistenza (i “quattro acri di terra” necessari per ogni nucleo abitativo), creando una “sovrappopolazione relativa” urbana che avrebbe costituito la manodopera proletaria per il capitale industriale e infine perché, astraendoli dal loro ecosistema rurale, caratterizzato dalla industria ausiliaria domestica, generava una domanda interna per quei mezzi di sussistenza (il “capitale variabile”) che verranno integrati nel modo di produzione capitalistica in alternativa a quello artigianale.
Nello stesso capitolo Marx proietta questo concetto oltre i confini domestici dello sfruttamento e racconta come i processi idillici coloniali (scoperta di giacimenti d’oro in terre coloniali, la decimazione e l’assoggettamento alla schiavitù delle popolazioni indigene, il seppellimento di queste nelle miniere, la conquista e il saccheggio delle Indide, la trasformazione dell’Africa in “un parco commerciale per il reperimento di pelli nere”), siano tutti momenti fondamentali del processo di accumulazione originaria, indugiando, particolarmente, sulla storia coloniale delle Province Unite e della sua Compagnia delle Indie Orientali
Di questo nesso esistenziale, tra colonialismo e accumulazione originaria, lo scrittore olandese Multatuili (nome d’arte di Eduard Douwes Dekker) ce ne offre un saggio didascalico nella sua famosa opera, Max Havelaar, forse una delle prime denunce scritte delle atrocità del colonialismo:
Un giorno però vennero dall’Occidente stranieri che s’impadronirono del paese. Volevano sfruttare la fertilità del terreno, e ordinarono agli abitanti di dedicare una parte del loro lavoro e del loro tempo alla coltivazione di altri prodotti che avrebbero reso di più sui mercati d’Europa. Per convincere anche l’uomo comune fu sufficiente una politica semplicissima. Poiché il giavanese era molto ligio ai suoi capi, bastava conquistarsi questi capi promettendo loro una parte dei profitti: e il piano riuscì perfettamente (Multatuli, 2007, p. 80)
Sussistono analogie tra il concetto marxiano di accumulazione originaria e la prima fase espansiva dell’industria del petrolio non solo nei meccanismi di espropriazione, anche violenti, delle “sorgenti della ricchezza” e nel conseguente processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione che hanno impedito a molti paesi dei territori (ex)coloniali di svilupparsi o di coinvolgere in quell’impresa la gran parte della popolazione. Esse comprendono anche il concetto di sovrappopolazione relativa, poiché mano amano che il petrolio soppiantava il carbone come fonte primaria, in ragione del suo rapporto grandemente accresciuto tra capitale fisso e capitale variabile, liberava mano manodopera per il nascente capitale industriale che le nuove applicazioni del petrolio stesso andavano generando. Infatti, la catena del valore del petrolio, dalle fasi estrattive fino a quelle applicative, richiedeva molto meno forza lavoro e, allo stesso tempo, le nuove applicazioni, segnatamente quelle caratterizzate dalla automazione, richiedevano nuovi capitali e forza lavoro, per essere messe in produzione. Di questo formidabile volano, però, approfittarono quasi esclusivamente gli Stai Uniti dove, infatti, all’alba della Seconda guerra mondiale, risiedeva metà del parco automobili circolante mondiale.
La rivoluzione della geofisica e la corsa globale ai giacimenti
Sin dagli albori della civiltà, ammoniva Ovidio, l’uomo penetrava le viscere della terra per estrarre minerali la cui brama era inritamenta malorum ecausa di guerre (Ovidio, Metamorfosi, Libro Primo):
Sulla terra, comune a tutti prima, come la luce del sole o l’aria, il contadino tracciò con cura lunghi confine. E non si pretese solo che la terra, nella sua ricchezza, fornisse messi e cibo, ma si penetrò nelle sue viscere a scavare i tesori che nascondeva vicino alle ombre dello Stige e che sono uno stimolo ai delitti. Così fu estratto il ferro nocivo e più nocivo ancora l’oro: e comparve la guerra, che si combatte con entrambi e scaglia armi di schianto con mani insanguinate.
Tuttavia, all’inizio del XX secolo ebbe inizio una nuova era quando la tecnica geologica permise all’uomo di scorgere le ombre dello Stige ed i tesori che ivi si celavano. Questa rivoluzione ebbe particolare significato nella storia dell’industria petrolifera, dove la ricerca di nuovi giacimenti trovò nelle nuove tecniche di prospezione geofisica un rinnovato corso vitale e frontiere nuove di accumulo insperato e sfruttamento. Fino al 1920, infatti, la geologia, applicata all’industria petrolifera, aveva operato secondo i canoni di quella che era nota come “geologia di superficie”: la mappatura e l’identificazione di probabili prospettive sulla base del paesaggio visibile. Ma mel 1920 la geologia di superficie aveva quasi esaurito le sue potenzialità e molte delle prospettive visibili erano state identificate. Gli esploratori dovevano trovare un modo per “vedere” sottoterra, per capire se le strutture del sottosuolo erano del tipo che intrappolavano il petrolio. La scienza emergente della geofisica fornì quel nuovo modo di vedere (Daniel Yergin, 1991, p 201). La nuova geofisica, con i suoi nuovi metodi gravimetrici, sismografici ed elettromagnetici, non era, agli albori, intrinsecamente migliore della geologia tradizionale, ma, trasferendo il dominio di investigazione dal campo di studio al laboratorio, rifletteva quella “idealizzazione di valori epistemici di esattezza e controllo” che era propria dello spirito del secolo (Cantoni R., 2017, pp 5).
L’estasi di una nuova corsa all’oro si stagliava nella prospettiva della ricerca del petrolio in quindici trilioni di metri cubi di crosta terrestre inesplorata. Tutto il mondo nascondeva ora ricchezze sommerse da esplorare e gli Sati Uniti erano gli unici a possedere le conoscenze scientifiche ed i mezzi tecnici per trovarle. Tale monopolio, congiuntamente al successo nella Seconda guerra mondiale, conferiva loro una posizione dominate nelle attività geofisiche di prospezione e nelle implicazioni che esse avrebbero avuto sulle questioni di sicurezza nazionale.
Non è arduo contemplare nella attività scientifica di prospezione mineraria anche quella inscindibile del controllo politico. Sin dall’antichità le rotte coloniali si delineavano sui progressi della cartografia. La geofisica era, tuttavia, solo una componente di una più vasta rete di sorveglianza globale che emerse dalle scienze della terra nel clima fertile della guerra fredda, la quale contemplava, tra le altre, le immagini satellitari, i sonar ed i radar ed altre tecnologie sviluppate per monitorare le correnti oceaniche, come misura di sicurezza antisommergibile. Le conseguenze di questa rete globale di monitoraggio erano molteplici, compresa quella di conferire agli USA una posizione privilegiata nel dominio della conoscenza geostrategica che poteva usare per attrarre nella sua sfera di influenza, esercitandovi la sua egemonia politica.
Al centro di questo panopticon vi era e vi è tutt’ora la famigerata USCG, United States Geological Survey, che si occupava di mappare le risorse minerarie americane, prima, e globali poi e che ancora oggi redige rapporti e inventari di tutte le risorse, incluse quelle petrolifere o dei minerali critici (litio, cobalto, grafite e terre rare, neodimio, praseodimio, disprosio e terbio che qualcuno definisce il “nuovo petrolio”), in tutto il mondo8. Il suo potere è accresciuto dai suoi mezzi tecnici ed economici formidabili, nonché dalle sue ramificazioni palesi e non. Racconta il giornalista investigativo David Strahan in una intervista fatta a Louis Christian, geologo di alcune majors petrolifere incaricato dalla USCG nel 2001, due anni prima della invasione dell’Iraq, di redigere le mappe delle risorse petrolifere di quel paese, di come l’attività di Christian risultasse finanziata dal State Department invece che dal Department of Interior, da cui l’agenzia dipende (Strahan D., 2007, pp 32). Strahan sospetta che sia la CIA (Central Intelligence Agency, che dipende dal Dipartimento di Stato) a finanziare e dirigere l’attività della USCG nelle “zone calde” del globo, come il Golfo Persico e la sua impressione riceve conferme da una intervista ad un dipendente della USCG che accetta di fare in forma anonima: “Per quel che ne so che hanno contribuito con dei soldi per restare in prima linea nel decidere su dove dovese andare lo studio9“.
Paradigmatica di questa forma egemonica è la vicenda del Sahara e della lotta di indipendenza algerina, della quale ce ne fornisce un resoconto dettagliato e per certi versi innovativo Roberto Cantoni nel suo libro Oil exploration, diplomacy, and security in the early Cold War: The enemy underground (2017). Le regole di concessioni per il Sahara algerino forgiate dal governo francese prevedevano che nessun gruppo straniero detenesse una maggioranza in alcuna concessione, che si incaricassero della fornitura e addestramento del personale tecnico, che rinunciassero a metà dei loro permessi dopo cinque anni e che, cosa più importante, riportassero tutti i dati geologici al Bureau de Recherches de Pétrole di Parigi. Tuttavia, le compagnie americane, facendo leva sulle loro superiori conoscenze geoscientifiche e le informazioni riservate ed esculsive che avevano raccolto sulla distribuzione delle risorse nel Sahara, trattavano per avere concessioni a condizioni migliori e, cosa più importante, per avere accesso sul mercato Francese. E quello con il governo francese non era il solo banco con il quale trattavano. Il Dipartimento di Stato Americano, insieme all’ENI di Mattei10, intrattenevano negoziati segreti con il Fronte di Liberazione Nazionale Algerino, offrendo loro condizioni vantaggiose, appoggio politico e, da parte degli Americani, informazioni geologiche esclusive sulla quantitá e qualitá delle risorse. In Aprile del 1959 la delegazione del FLN a New York pubblica un report sulle riserve di indorcarburi nel Sahara e sulle intenzioni della Francia a sfruttarle a suo esclusivo beneficio. Furono i legami stabiliti con americani e italiani (sebbene questi ultimi recisi drasticamente con l’assasinio di Mattei) a permettere agli indipendentisti Algerini di costituire un caso politico per l’Occidente, con l’annessione del Sahara alla nascente Repubblica Algerina e un piano post-coloniale di sfruttamneto delle risorse minerarie del Sahra occidentale (Cantoni R., 2017, pp152).
La fase post-coloniale dell’esplorazione petrolifera come anabasi
Il caso algerino offre uno scorcio plastico di quel periodo del secondo dopoguerra nel quale le nuove tecniche scientifiche di geoprospezione unitamente al nuovo contesto geopolitico post-coloniale, che vide dissolversi nel lasso di poco più di un decennio tutti i possedimenti coloniali europei, permisero il dipanarsi di una nuova fase dell’imperialistimo occidentale trainato dall’industria del petrolio e dalle majors anglosassoni, le quali videro nelle ex-colnie -e sprattutto nel loro sottosuolo, una nuova forntiera estrattiva. Potendo adottare una metafora per descivere questa nuova fase vorremmo farlo con quella della anabasi. Quella ‘anabasi’ che Pasolini in petrolio descrive come l’esperienza per gli occidentali dell’“inoltrarsi in un accertato, ma ignoto” lasciandosi al tempo stesso “alle spalle un luogo noto”.
Il luogo noto non era soltanto quello delle risorse storiche che si erano manifestate nei secoli come affioramenti naturali di idrocarburi e che sino ad allora aveva delineato la loro distriubuzione geografica, ma era ancor di piú la secolare geografia coloniale che definiva lo scacchiere politico tramite cui approvigionravisi. L’ignoto da accertarsi era il sottosuolo, ma anche le forme politiche idipendenti e sovrane, talvolta rivoluzionarie altre reazionarie, che si andavano costituendo tra i popoli sovrastanti. L’anabasi era dunque duplice: una anabasi nel tempo geologico e in quello storico.
A differenza dei flussi solari quasi istantanei e delle loro trasformazioni di energia metabolica e fitomassa, i combustibili fossili si sono formati attraverso una lenta trasformazione di calore e pressione della biomassa accumulata, sia terrestre che marina, che è durata in genere 107 – 108 anni con fattori di conservazione tipici (frazioni di carbonio di fitomassa rimaste in un combustibile fossile) per il carbone del 10% e per il petrolio greggio nei bacini marini inferiori allo 0,5% (Smil V., 2007, pp 204). Ogni anno, dunque, consumimamo circa 500 anni di Produzione Netta Primaria (la produzione di biomassa al netto dei servizi ecologici per sostenerla) del passato geologico della terra.
L’anabasi nel tempo storico prende forma nell’incontro che l’energivoro e progredito Occidente sperimenta con quei popoli che insistono sulle grandi aree di prospezione ed estrazione, sovente relegati ad una condizione pre-industriale di vita sociale, anche talvolta a cagione del passato colonialismo. Sono questi i popoli i cui giovani occhi Pasolini descrive come quelli di erbivori, opposti a quelli dei carnivori, che la hybris dell’Occidente coltiva nei suoi giovani figli del presente modello consumisistico, oltre che riflesso nell’archetipo del suo universale e incontrastato dominio perpetuo.
Sono stati scoperti oltre 20.000 giacimenti di idrocarburi in tutto il mondo, ma oltre il 70% del petrolio e del gas recuperabili si trova in sole 500 formazioni giganti e localizzate principalmente in cinque (su 260) bacini di produzione: Golfo Persico-Zagros, Siberia occidentale, Golfo del Messico, Volga-Ural e Maracaibo (alle quali va aggiunto l’Artico, che sia le nuove moderne tecniche d’estrazione che il cambiamento climatico rende sempre piú accessibile). Alcune sono aree scarsamente popolate o addirittura incontaminate, altre sono aree che videro fiorire nell’antichitá grandi civiltá e che abbiamo consegnato alla storia con il toponimo di “culla della civiltá”, ma che l’anabasi della ricerca petrolifera stenta a riconoscere e come tali a rispettare. La storia recente di questo incontro, anche quella dei fatti di cronaca dei nostri giorni, come le drammatiche vicende della martoriata Siria, raccontano della incapacitá di questi due antipodi della storia di comunicare costruttivamente ed equamente, nonché delle vessazioni e ingiustizie che l’una estremitá ha inferto all’altra, forse anche aiutata dall’ignoranza culturale oltre che dalla superiore conoscenza tecnica e scientifica.
Nell’appunto 41 di Petrolio “Acquisto di uno schiavo”, quello dedicato all’anabasi, Tristram, biondo rampollo della borghesia londinese, intellettuale progressista e impegnato, che é dotato, narra Pasolini, di quella ‘mezza cultura ‘ che gli consente “insieme di essere integrato e di essere all’avanguardia”, di scrivere sul “Guardian” e “di ridere con aria nichilista e il massimo disprezzo (come certi giovani ribelli che si incontrano nei libri russi da Dostoevskij a Bulgakov) dell’establishment”. Ebbene, costui decide di sperimentare l’ebrezza di possedere uno schiavo. Gli é giunta notizia che in alcuni remoti luoghi della fascia sudanese vi sono ancora dei mercati degli schiavi. I giovani schiavi, ci spiega Pasolini, sono per lo più figli di contadini mauritani, “negri di religione islamica”, il cui unico modo per ambire a raggiungere La Mecca è con il lavoro e vi vengono condotti, in Sudan, dopo un lungo viaggio attraverso il deserto del Sahara che dura anni, di lavoro forzato. Tristram acquisterà una bambina sui dodici o tredici anni, Giana, di una bellezza “così perfetta e disumana da apparire quasi metallica” e sul cui viso era impresso un riso “così remoto e così perdutamente estraneo” da angosciarlo. Dopo averle inflitto sevizie e punizioni, e averla condotta a ogni genere di “cerimonia sessuale”, pratiche che lei eseguiva “con la diligenza con cui i bambini fanno i compiti”, in una alternanza di affettuoso paternalismo e dispotica perversione, Tristram si risolve, dopo pochi giorni, di porre fine a quell’esperimento di sadismo e far ritorno in Europa. Decide dunque di donare a Giana la libertà, affidandola a una missione e quando il frate affidatario conduce Giana nella missione, tenendola per mano, Tristram rimane ad osservarla con stupito disappunto quando “essa non si voltò, nemmeno per un istante” nel tragitto. Egli si aspettava riconoscenza.
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Painter, David S. “Oil and the American century.” The Journal of American History 99, no. 1 (2012): 24-39.
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Yergin, Daniel. The prize: The epic quest for oil, money & power. Simon and Schuster,1991.
1 Il contesto legale Americano della prima grande corsa al petrolio e della nascente indutria petrolifera era conformato alla rule of capture, che stabiliva che il proprietario della terra avesse diritto a beneficare di tutto ció che vi risiedeva sotto (“through these hideen veins of the earth”) (Yergin D., 1991, pp 16).
2 I termini delle concessioni in Mexico sotto la dittatura di Profirio Diaz (“no business can be a permanet success, unless its head is an autocrat”, scriveva Sir Weetman Pearson, fondatore della Pan American Petroleum) seguivano lo schema stabilito da D’Arcy in Persia: una modesta royalty per ogni tonnellata di petrolio prodotta, una tassa sull’occupazione in superficie, nessuna imposta sul reddito e la proprietà diretta del petrolio (Maugeri L., 2006).
3 Nuovi declassificati documenti mostrano come, contrariamente a una opinione invalsa, il motivo principale dietro il colpo di stato organizzato a Teheran nel 1953 dalla CIA fosse la nazionalizzazione del petrolio operata da Mossadeq: essa, secondo Eisenhower, avrebbe sconvolto l’intero quadro politico internazionale e sarebbe stata una minaccia per gli interessi degli Stati Uniti e i suoi interessi petroliferi nel mondo (Abrahamian E., 2017).
4 “The present policy of the Standard Oil Company is to be interested in every producing area no matter in what country is situated”
5 Nel testo:one of the most astonishing things was the tremendous army of motor lorries and that the Allied cause had floated to victory upon a wave of oil.
6 Nel testo: “Germany had boasted too much superiority in iron and coal, but it had not taken into account of our superiority of oil […] As oil had been the blood of war, so it would be the blood of peace.”
7 Nel testo: The “natural frontiers” of Standard Oil, the Deusche Bank of the De Beers Diamand Corporation were at the end of the universe, or rather at the limit of their capacity to expand.
8 https://www.usgs.gov/centers/national-minerals-information-center/mining-and-quarrying
9 “It is my understanding that they contributed some money to stay on the cutting edge of where the study was going” (Strahamer D, 2017, pp 34)
10 É in questo contest che va letta la famosa frase di de Gaulle: “Il destino della Francia risiede nel Mediterraneo […] L’Italia dovrebbe rinunciare ad assurde rivalitá.” (Cantoni R., 2017, pp 119).