Indice
Perché Fascisme fossile
Per affrontare il tema del rapporto tra destre estreme “istituzionali” e ambiente facciamo riferimento – come annunciato nel primo articolo di questa serie – a Fascisme fossile. L’ extrême droite, l’énergie, le climat1, libro pubblicato a Parigi nel 2020 ma che in realtà è la traduzione di un testo inglese più corposo pubblicato in lingua originale solo nel 2021 col titolo White Skin, Black Fuel2. L’opera è frutto del lavoro di un ampio collettivo internazionale coordinato da Andreas Malm, docente di ecologia umana all’università svedese di Lund e autore di opere di grande successo come Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming e How to Blow Up a Pipeline3. Se l’intenzione delle autrici e degli autori è apertamente militante, come dice lo stesso nome del collettivo, che si richiama alla femminista e comunista tedesca Clara Zetkin, il libro è il risultato di una ricerca transnazionale che analizza formazioni e governi di destra estrema di quindici paesi europei e americani.
La coerenza del progetto e la ricchezza e varietà di energie messe all’opera fanno di Fascisme fossile un buon punto di partenza per orientarsi nel rapporto tra destre estreme “istituzionali” e ambiente, anche se la scelta – consapevole e voluta – di concentrarsi essenzialmente sulla crisi climatica fa perdere di vista alcune dimensioni importanti del fenomeno. La crisi climatica, infatti, è solo uno degli aspetti della crisi ecologica e l’anti-ambientalismo delle destre estreme presenta un gran numero sfaccettature che non hanno a che fare solo con la questione del riscaldamento globale.
I due fondamenti della relazione destre estreme istituzionali-ambiente
Zetkin Collective esordisce sottolineando i due aspetti chiave della relazione destre estreme isituzionali-ambiente.
Il primo è il fatto che la questione ambientale viene sempre subordinata agli elementi ideologici fondativi che abbiamo già visto analizzati da Pierre Madelin: la centralità del popolo (razzializzato o identitario), quella della nazione (pura e potente), l’autoritarismo, il culto della potenza militare, l’ostilità se non la fobia per l’alterità nelle sue varie forme (razzismo, xenofobia, omofobia, misoginia, eccetera).
Il secondo aspetto è costituito dal peso dei legami strutturali con il mondo imprenditoriale e finanziario. Questi sono di due tipi. Da un lato ci sono alcuni legami che discendono dall’attuale contesto storico: come quasi tutte le altre forze politiche anche le destre estreme – soprattutto quando crescono di consensi e vanno al governo – sono infatti soggette al formidabile potere di pressione e di ricatto delle grandi forze del capitalismo globale e delle istituzioni da loro controllate, come subiscono l’asservimento della politica all’economia tipiche del neoliberismo maturo. Il secondo tipo di legame è invece storico, in quanto da sempre le destre sono state strumenti della reazione padronale e delle classi alte contro il potere dal basso del mondo del lavoro e della società civile, la partecipazione popolare, la democrazia. Se nessuno dei due aspetti deve essere trascurato e se i casi europei sono tutti interessanti, il caso statunitense appare però esemplare perché mostra nella maniera più nitida la forza, l’incidenza e il funzionamento dei legami tra destre estreme e capitale.
Per mostrare come questi legami operano concretamente il collettivo introduce i concetti di “capitale fossile primitivo”, “capitale fossile generale” e “governance climatica globale”, formule che potrebbero apparire a prima vista astratte e troppo generalizzanti ma che nel corso dell’esposizione si dimostrano in grado di illustrare con efficacia realtà e processi importanti. Dietro queste sigle stanno infatti risorse finanziarie imponenti che determinano svolte politiche nazionali e globali e esercitano una salda presa sulle istituzioni politiche e sulle coscienze.
Lo scenario attuale e l’analisi dello Zetkin Collective
Per venire all’analisi della situazione attuale il Collective osserva che di fronte ai ripetuti avvisi degli scienziati sull’accelerazione e la pericolosità della crisi climatica ciò che ci si potrebbe aspettare è che le istituzioni di tutti i livelli, le imprese e i consumatori prendessero provvedimenti adeguati. Al contrario, e nonostante si parli con preoccupazione di crisi climatica da oltre trentacinque anni, non si è fatto quasi nulla e comunque nulla di veramente efficace, e a questa inazione ci si era ormai abituati. Fino a pochi anni fa nulla però lasciava presagire che a un certo punto “i governi europei, americani e non solo – da Mosca a Brasilia, da Roma a Washington – sarebbero stati in gran parte nelle mani di partiti e presidenti che non avevano altra preoccupazione se non seppellire al più presto la questione climatica e più in generale quella ambientale”. L’analisi del come e del perché l’ondata nera abbia portato con sé la negazione della crisi climatica è l’oggetto di Fascisme fossile, che è diviso in due sezioni.
Nella prima sezione il Collective spiega in che modo le destre estreme hanno finora affrontato la crisi climatica e le sue cause, cercando di ricostruire il percorso che ha portato fin qui, soprattutto nell’ultimo trentennio. Qui si evidenzia come visioni e politiche possono variare anche notevolmente ma al fondo sono riconducibili a due opzioni per lo più alternative tra loro ma che hanno molto in comune: o il negazionismo puro oppure l’idea che la crisi climatica esiste ma può essere affrontato solo dalla nazione bianca.
Nella seconda sezione si cerca un lato di comprendere le radici profonde delle posizioni delle destre estreme su clima e energia e da un altro lato si cerca – come abbiamo visto fare anche a Madelin – di capire cosa potrà accadere in futuro, cioè cosa dobbiamo aspettarci da un mondo al tempo stesso più caldo e più a destra.
Di tutto questo sforzo del Collective ci si soffermerà qui solo sulla prima parte, quella di descrizione della situazione attuale, sia perché più convincente sia soprattutto perché più utile a inquadrare gli aspetti essenziali del rapporto tra destre estreme istituzionali e clima.
Prima delle destre estreme: la parabola del negazionismo climatico
Anche se la recente ondata nera appare – e spesso si definisce – come una rottura radicale rispetto alle forme e ai valori della democrazia liberale e rispetto al modo in cui si è configurato il capitalismo della seconda metà del Novecento, il Collective ritiene che in realtà siano più gli elementi di continuità che quelli di discontinuità, anche in campo climatico. Al di là infatti delle retoriche ambientali ostentate da partiti, governi e istituzioni sovranazionali, ciò che ha prevalso negli ultimi cinquanta anni sono state le tattiche dilatorie delle classi dominanti erette a difesa dei propri interessi immediati e l’attuale successo delle fasce estreme della destra non fa che confermare e rafforzare tali tattiche, rendendole esplicite e rivendicandole apertamente.
Il modo, insomma, con cui le destre estreme trattano la crisi climatica non è che una variante recente, e forse più adeguata ai tempi, del modo in cui i grandi interessi economici hanno sempre affrontato la questione. Questo è il motivo per cui se vogliamo andare alla radice della questione bisogna fare un salto indietro ad almeno venticinque-trent’anni prima dell’esplodere dell’ondata nera e capire cosa è stato, perché si è sviluppato e come ha funzionato il negazionismo climatico.
Gettare questo sguardo al passato è importante per due motivi. Anzitutto, perché tutti i partiti di estrema destra della scena politica di questo inizio secolo – a parte qualche marginale distanziamento – hanno apertamente abbracciato un approccio, quello del negazionismo, che era stato ideato e promosso da altri soggetti e in un altro contesto storico. Secondo perché – di converso – il loro unanime appoggio al negazionismo ha contribuito potentemente a tirarlo fuori da una crisi pressoché letale nella quale era caduto ormai da diversi anni.
Il negazionismo, come vedremo tra un attimo, nasce nei primi anni Novanta come reazione rapida e aggressiva alla comparsa delle prime analisi sugli effetti della CO2 nell’atmosfera e delle prime proposte di ridurne la quantità. L’idea che si cerca di diffondere è che riscaldamento non esiste, quindi le attività umane non fanno male, anzi sono innocue per definizione e che quindi si può proseguire con il modello energetico e industriale attuale senza problemi. Si parla inizialmente di climato-scetticismo, ma è un termine volutamente fuorviante perché quella che viene messa in campo non è una prudenza su base scientifica. Il fronte che nega il riscaldamento globale rimane infatti saldo nelle sue posizioni anche di fronte alle prove scientifiche più incontrovertibili, per cui non si tratta può parlare di scetticismo bensì più appropriatamente di negazionismo. Un negazionismo anzi fideistico, basato su una fede inscalfibile nell’innocuità e anzi nella bontà della tecnologia industriale, della libera impresa e di tutte le grandi istituzioni del capitalismo, ingiustamente minacciate dalle misure di contrasto alla crisi climatica.
Quando, negli ultimi 10-15 anni, il negazionismo viene assunto dalle destre estreme in ascesa e che per lungo tempo hanno semplicemente ignorato la questione, questa prima fede viene intrecciata a una seconda: quella della nazione definita su base etnica e necessariamente sostenuta e resa potente dal possesso e/o dall’utilizzo delle energie fossili. Ma prima di arrivare a questa peculiare – ed effettivamente nuova – combinazione è fondamentale seguire la parabola originaria del negazionismo climatico.
Al di là delle scoperte di fine dell’Ottocento e le molte conferme successive, la nascita istituzionale della questione climatica si può datare al 1988, quando gli scienziati spiegano al Senato Usa che la forte siccità di quell’anno è dovuta ai gas con effetto serra e viene istituito l’International Panel for Climate Change, istituto di ricerca pubblico globale incaricato di studiare e monitorare il cambiamento climatico. Il 1988 è insomma l’anno in cui il riscaldamento globale diviene una questione pubblica, visibile e oggetto di preoccupazioni e proposte. La prima e più logica proposta è ovviamente quella di ridurre drasticamente le emissioni di CO2 mediante la riduzione dell’uso di combustibili fossili, ma già in questa fase che scatta la reazione di estrattori e utilizzatori di tali combustibili: dal 1989 tutto il settore petrolifero, con la Exxon in testa, elabora un piano e lancia una campagna per seminare dubbi e un gruppo di potenti multinazionali e associazioni di categoria crea la Global Climate Coalition la cui principale missione è la contestazione delle analisi scientifiche sul rischio climatico. Nascono insomma contemporaneamente, a fine anni Ottanta, tanto la preoccupazione e le proposte per la crisi climatica quanto la negazione sistematica della sua esistenza.
Il messaggio dei negazionisti, il loro catechismo, la narrazione che si impegnano a diffondere nel mondo coi loro potenti mezzi finanziari, politici e mediatici, è molto semplice: “i combustibili fossili sono buoni per la gente”. Ed è qui che il Collective introduce le definizioni di cui si è detto sopra, e anzitutto quelle di “capitale fossile primitivo” e “capitale fossile generale”. Il primo è costituito dalle imprese che estraggono i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas) mentre il secondo è costituito dalle imprese che fanno largo utilizzo dei combustibili fossili per produrre merci e servizi, prime fra tutte le industrie dei trasporti e quelle chimiche. Questa distinzione è importante perché nella storia del negazionismo questi due gruppi agiranno di concerto ma con ruoli e intensità differenti in quanto se per le prime la decarbonizzazione significherebbe l’estinzione pura e semplice, per le seconde costituirebbe comunque una sfida difficile e costosa, dagli esiti incerti. “Per il capitale fossile primitivo – osserva il Collective – la decarbonizzazione è la morte assicurata. Ciò non gli impedisce di lottare per la propria sopravvivenza, e – ciò facendo – per il bene del capitale della sua interezza, in una sorta di divisione del lavoro che dura ancor oggi”.
Questa lotta per la sopravvivenza, che vede insieme i due capitali fossili ma con quello primitivo in prima fila, si sviluppa con un enorme dispiego di mezzi finanziari e umani: think-tanks per condurre il contro-attacco alla climatologia, assunzione di climato-negazionisti di professione, organizzazione di conferenze anti-Ipcc e di congressi per politici e legislatori, interventi davanti al Congresso, in tv, nelle radio, inondando i mezzi di comunicazione di massa di pubblicità e di stampati per diffondere le proprie posizioni. In tutto questo un ruolo di punta viene svolto dalla Global Climate Coalition, oggi quasi dimenticata ma che negli anni Novanta è stato lo strumento fondamentale di tale offensiva globale e il più grande gruppo di pressione nel quadro delle negoziazioni sul clima, che ne sono state segnate indelebilmente.
Per tutti gli anni Novanta e fino i primi anni Duemila il messaggio diffuso per bloccare qualsiasi intervento e normativa che portassero a una riduzione di consumo di combustibili fossili era che il cambiamento climatico è fisiologico, naturale, c’è sempre stato e non dipende dalle attività umane e che la CO2 è innocua e anzi benefica. E in ogni caso i dati dei climatologi sono troppo incerti per essere considerati affidabili: non è neanche detto, quindi, che ci sia effettivamente un riscaldamento climatico in atto. Morale: non si deve fare nulla, non c’è nessuna limitazione da imporre, nessuna norma da adottare. Il grande sforzo della coalizione fossile ebbe un grande successo: a metà anni Novanta il dubbio era ormai largamente penetrato nell’opinione pubblica, il Partito repubblicano statunitense accoglieva tra le sue braccia i negazionisti e i media organizzavano per lo più dei “dibattiti equilibrati”, un minuto agli scienziati e uno ai negazionisti.
Negli stessi anni, tuttavia, cominciò ad emergere sempre più spesso e in modo sempre più chiaro che le grandi imprese estrattive conoscevano da molto prima del 1988, anzi dalla fine degli anni Cinquanta, quali erano gli effetti della CO2 sul clima. E queste rivelazioni imbarazzanti emergevano parallelamente all’emergere di prove sempre più incontrovertibili dell’esistenza del cambiamento climatico e delle sue origini antropiche. Confermando tenacemente la propria linea e le proprie attività negazioniste la Global Climate Coalition cominciò di conseguenza a perdere di credibilità tanto che tra il 1997 e il 2000 tutti i principali sponsor finirono col lasciarla, in quanto essa diventata più un impaccio che un aiuto alla conservazione dello status quo.
Riferendosi ai colossi industriali ed estrattivi in fuga dalla Global Climate Coalition il Collective scrive: “questi ex-scettici riconobbero improvvisamente l’esistenza del cambiamento climatico e la necessità di porvi rimedio. Ciò segnò la comparsa di nuove strategie, riunite sotto l’egida di quel che si può definire la governance climatica capitalista”. Ed ecco qui dunque la terza definizione: “la governance climatica capitalista è basata sull’idea che il riscaldamento del clima causato dalle attività umane esiste, ma vi si può porre efficacemente rimedio seguendo i rimedi indicati dal mondo delle imprese” (sottinteso: quelle fossili in testa).
Questa nuova strategia si sviluppò su molti fronti a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, senza abbandonare mai del tutto il negazionismo: le due strategie, anzi, sono andate a lungo in parallelo. Alla Global Climate Coalition si aggiunsero e si sostituirono organizzazioni nuove, portatrici della nuova dottrina, come il World Business Council for Sustainable Development e il Business for Innovative Climate and Energy Policy. Il messaggio da far passare era cambiato e la sede principale dove operare concretamente divennero i vertici internazionali, da quelli generali dell’Onu a partire da quello di Kyoto del 1997 alle Cop, le conferenze delle parti, cioè i vertici annuali sul clima che si svolgono dal 1995. In effetti la governance climatica capitalista si è rivelata molto più efficace del negazionismo perché ha allontanato dalle imprese le accuse di irresponsabilità e di diffondere menzogne e ha permesso di operare direttamente nei luoghi in cui si decidevano le politiche, con lo scopo – essenzialmente raggiunto – di renderle di fatto del tutto innocue, inutili per combattere il riscaldamento globale ma in grado di consentire al capitale fossile di non cambiare assolutamente nulla, anzi di far crescere in modo indisturbato la produzione e il consumo di combustibili fossili.
Questo si è visto bene gia al vertice di Kyoto del 1997 con l’adozione dei “meccanismi flessibili”: io non riduco ma pago qualcuno che lo fa – in qualche modo – al posto mio. E si è visto ancor meglio alla Cop di Parigi nel 2015, quando si è abbandonata l’idea della riduzione obbligatoria, cioè pianificata e imposta dagli organismi internazionali, delle emissioni in favore di quella della riduzione volontaria, basata su impegni degli stessi soggetti inquinatori, senza controlli né vincoli.
A partire da Kyoto era insomma iniziata “l’era delle soluzioni, delle opportunità, del win-win e delle pubblicità impregnate di propaganda ‘verde’. Dopo un decennio di negazionismo climatico abbastanza unanime, un’ampia parte della classe capitalista decise che il greenwashing era una strategia ideologica molto più promettente ed efficace”. Non si faceva nulla di concreto per il clima, anzi si bloccava qualsiasi provvedimento utile, ma al tempo stesso si andava in giro col bollino verde bene in vista sulla giacca, come eroici e unici credibili salvatori del futuro dell’umanità. Il negazionismo, che pure non era stato del tutto abbandonato e continuava ad essere diffuso e in parte foraggiato, era a quel punto al massimo del discredito e nessuno dei grandi protagonisti (imprese, organizzazioni internazionali, stati, forze politiche) lo utilizzava più, salvo i repubblicani statunitensi, derisi in tutto il mondo per questa posizione anacronistica.
Quando però – nella seconda metà degli anni 2010 – dopo decenni di accumulazione di prove scientifiche il negazionismo climatico sembra definitivamente sepolto, esso ritorna massicciamente in auge e conquista addirittura un consenso che non ha storicamente mai avuto. A fare da traino a questa inversione di tendenza è l’ondata nera, la crescita impetuosa in tutti i paesi del mondo delle forze di estrema destra.
Sin dall’inizio degli anni 2000, fa notare il Collective, queste forze hanno in effetti iniziato a riciclare senza modificazioni la narrazione negazionista standard degli anni Novanta, al punto da far sorgere la battuta secondo cui “se il capitale fossile primitivo è il motore storico della macchina della negazione, l’estrema destra ne è divenuta il tubo di scappamento”. Ma se la narrazione resta identica a quella elaborata a inizio anni Novanta dal capitale fossile (“il cambiamento non c’è, se c’è non è di origine antropica; la CO2 fa bene; i dati scientifici sono comunque incerti”) cambia la cornice culturale e ideologica e la potenziale credibilità dei nuovi soggetti che se ne fanno alfieri.
Riguardo alla cornice culturale e ideologica il Collective osserva che “mentre il modello classico della narrazione si preoccupava principalmente di difendere il libero mercato, l’appello dell’estrema destra è quello di difendere la nazione difendendo i suoi consumi energetici fossili e al tempo stesso chiudendo le porte all’immigrazione”. Riguardo alla credibilità due sono i punti di forza delle destre estreme rispetto ai capitalisti fossili. Il primo è dato dal fatto che mentre questi ultimi avevano interessi economici da difendere ed erano perciò sospetti, i partiti di estrema destra invece non ne hanno. Il secondo punto è che il ragionamento e gli slogan delle destre estreme non hanno l’obbligo di confrontarsi coi dati scientifici. Scrive al riguardo il Collective: “Non c’è limite alle menzogne che un partito di estrema destra può diffondere finché i suoi elettori sono ricettivi. Se lo ‘scetticismo’ ha talvolta esacerbato la reputazione di disonestà di alcune aziende, esso ha al contrario rafforzato l’immagine onesta dei partiti di estrema destra”, tanto più in un mondo della comunicazione politica come quello che si è venuto formando negli ultimi anni.
Riassumendo: il primo e più importante tema ambientale che le destre estreme si trovano ad affrontare nella loro impetuosa ascesa globale è quello della crisi climatica, e lo fanno adottando fedelmente la screditata narrazione negazionista che lo stesso capitale fossile aveva tatticamente abbandonato già dalla fine degli anni Novanta. Lo fanno schierandosi quindi apertamente dalla parte del capitale fossile e delle sue strategie, ma sulla base di ragionamenti e di retoriche proprie, basate sulle proprie linee ideologiche e delle sfide poste dalla crescita elettorale.
Il Collective indica poi tre grandi ambiti di analisi per comprendere in che modo si sviluppa e si applica la posizione delle destre estreme sul clima e sull’energia. Il primo ambito è quello del rapporto tra questione climatica e etnonazionalismo, cioè rifiuto degli stranieri e in particolare gli islamici. Il secondo ambito è quello della necessità della conservazione della potenza nazionale mediante una disponibilità sicura di combustibili fossili se non di una loro accresciuta esportazione. Il terzo ambito è quello, più complesso e sfumato, di quello che il Collective chiama il “nazionalismo verde”, cioè l’adozione di retoriche “verdi” basate sull’idea che però solo la nazione purificata, bianca, può affrontare efficacemente le sfide ambientali.
Costanti: il rapporto tra negazionismo ambientale e xenofobia
Uno dei pilastri ideologici delle attuali destre estreme è, come sappiamo, l’etnonazionalismo, invenzione della Nouvelle Droite adottata negli anni Ottanta da Le Pen poi esportata felicemente in tutta Europa che suona all’incirca in questo modo: “Il problema vero, centrale, è l’eccessiva presenza di stranieri di colore e in particolare di musulmani. Il nostro obiettivo, la nostra soluzione, è di realizzare una nazione etnicamente omogenea in cui il gruppo dominante abita il territorio e governa da solo all’interno delle proprie frontiere. Gli stranieri che vi sono venuti costituiscono di per sé una minaccia per la nazione e vanno tutti rimpatriati. Il passato è profondissimo ed è quello che ci contraddistingue, il futuro è quello che va rapidamente costruito purificando la nazione. Una volta fatto questo tutti i problemi si risolvono, compreso quello ambientale”.
È soprattutto grazie a questa argomentazione che le destre estreme sono finalmente uscite dal ghetto nel quale erano confinate dal 1945 ed è anche entro questa cornice che viene affrontata la questione del cambiamento climatico. La discussione sul cambiamento climatico – si afferma – è soltanto una forma di catastrofismo senza fondamenti reali il cui fine è quello di far accettare un aumento del numero di rifugiati climatici col pretesto che la loro situazione sarebbe stata creata da noi, che consumando troppo avremmo contribuito a distruggere il loro quadro di vita. Si tratta in realtà un complotto politico verde e socialista contro i bianchi e contro i paesi sviluppati ritenuti responsabili della miseria del mondo, le cui finalità ultime sarebbero quelle di alzare le tasse e aprire ulteriormente le frontiere. All’interno di questo ragionamento un posto di assoluto rilievo, anzi generalmente predominante, viene preso dalla minaccia costituita dall’Islam e dagli immigrati islamici che il Collective definisce come lo “spettro di un pianeta musulmano”.
Prima di spiegare il nesso istituito dalle destre estreme tra la questione climatica e quella dell’immigrazione o dell’invasione islamica, il Collective illustra alcune delle fonti cui questo nesso si ispira, due in particolare, cui accenno brevemente.
La prima fonte di ispirazione è costituita dalle opere una storica dilettante francese che si fa chiamare Bat Ye’Or e che in un libro rivela che dal 1973 gli arabi, i musulmani mettono sotto scacco e sotto il proprio dominio l’Occidente. Comandano infatti loro, mediante un organo di governo chiamato Dialogo euro-arabo, senza opposizione e nessuno se ne accorga. L’apocalisse è quindi già avvenuta, inavvertitamente, a partire dal 1973. Dal 2010 a questa teoria si aggiunge quella della Grande sostituzione elaborata da Renaud Camus meno delirante e decisamente più popolare. La seconda fonte è l’americano Mark Steyn che in un libro del 2006 sostiene che in Europa le donne bianche non partoriscono più mentre quelle musulmane hanno tassi di riproduzione altissimi per cui nel 2030 i musulmani superereranno i cristiani e nel 2040 la sharia sarà applicata al 100% su un continente dove i bianchi saranno in via d’estinzione. La stessa sorte seguirà in tutto il resto del mondo. Per evitare l’auto-estinzione dell’Occidente, quindi, la soluzione è quella adottata in Serbia: sterminare gli altri. Steyn non solo è diventato un editorialista richiesto e rispettato ma è stato invitato al Senato dai repubblicani a sostenere posizioni negazioniste e durante una conferenza organizzata da Coalition CO2 (un altro gruppo finanziato dai petrolieri) per dimostrare che la CO2 fa bene al pianeta e agli umani ha sostenuto che il mondo è minacciato di “riprimitivizzazione” a causa dei musulmani e degli attivisti climatici accomunati dall’odio per l’Occidente e che vogliono farlo tornare all’età della pietra.
Questi e altri soggetti che negli Stati Uniti propongono questo tipo di letture hanno dietro di sé televisioni, siti web molto visti, il sostegno di politici e di poderosi think tank come la Heritage Foundation, l’American Enterprise Institute e l’Heartland Institute con i loro finanziatori miliardari, per cui non sorprende che il neonazista norvegese Anders Breivik prima della strage di Utøya abbia messo in linea una dichiarazione di 1.500 pagine dove riprende fedelmente le tesi di Bat Ye’Or e la convizione che la crisi climatica sia un’invenzione finalizzata a depredare le ricchezze dell’Occidente.
Un contesto del genere fa in modo che mentre la narrazione negazionista dei petrolieri era: “ciò che conta davvero è il libero mercato, che è bene per tutti; il clima non è un problema”, quella delle destre diviene “rischiamo di perdere la nazione, il clima non è un problema”, anzi la discussione sul clima rischia di stornare l’attenzione dal vero rischio di catastrofe, quello costituito dall’immigrazione e dalla minaccia islamica. È importante notare che utilizzando lo stesso schema di ragionamento (“c’è una cosa che conta davvero e una falsa e distraente”) i petrolieri agitavano una promessa mentre le destre agitano un’apocalisse, il rischio di una catastrofe, e che la seconda è oggi molto più galvanizzante della prima, mobilita emotivamente di più e fonda fedi molto meno attaccabili. Ciò spiega il paradosso per cui di fronte a prove sempre più incontrovertibili dell’incombere della crisi ambientale le destre non solo insistono tenacemente nel negazionismo e lo rilanciano, ma finiscono anche col guadagnare consensi sempre crescenti.
“Complotto climatico e immigrazione – conclude riassumendo il Collective – sono insomma due facce della stessa medaglia, vanno nella medesima direzione: questi due fenomeni sono coalizzati per distruggere l’Occidente, i suoi valori, la sua cultura, i suoi stili di vita. È per questo che quando la destra attacca il clima quasi inevitabilemte sta parlando dell’immigrazione, e viceversa”.
Costanti: le basi fossili della potenza nazionale
Quasi tutte le destre estreme europee però, e con pochissime eccezioni, negano il cambiamento climatico non soltanto perché lo considerano una strategia retorica diversiva rispetto alla reale apocalisse, quella migratoria, ma anche perché la rinunzia al fossile comporterebbe un’inaccettabile riduzione della potenza nazionale. Un altro pilastro del rapporto tra destre estreme istituzionali e ambiente è infatti costituito dal nesso tra potenza nazionale (etnicamente o religiosamente purificata), clima ed energia.
Abbiamo fatto cenno alla Conferenza delle parti di Parigi del 2015 e di come essa abbia rappresentato un successo storico della governance climatica capitalista, cioè dello sforzo del capitale fossile per fare in modo che i trattati internazionali sul clima non avessero alcun effetto concreto sulle emissioni, cioè sulla loro capacità di aumentare la produzione e quindi i profitti.
Al di là di una serie di lodevoli impegni formali che hanno permesso ai governi di parlare di “grandi passi in avanti”, la Cop di Parigi ha stabilito due grandi principi di fondo: il primo è che la riduzione delle emissioni non viene più configurata come obbligatoria bensì come volontaria mentre il secondo è che non sono gli organismi internazionali a gestire le iniziative, ma i governi nazionali. Entrambi i principi sono evidentemente tagliati alla perfezione per fare in modo che si vada avanti come si è andati fino ad oggi, senza alcun fastidioso intralcio da parte degli organismi internazionali. Più in generale è vero che un gran numero di accordi internazionali sono stati e continuano ad essere fatti non per risolvere i problemi, ma per garantire al contrario che non si prendano provvedimenti vincolanti. Un accordo al ribasso o inefficace è meglio di un accordo che poi deve essere non applicato o peggio combattuto. Prevenire è meglio che curare. Gli accordi di Parigi hanno insomma da un lato offerto al capitale fossile la garanzia di non dover fare nulla di diverso dal business as usual e dall’altro agli stati nazionali di non dover essere più sottoposti a obblighi esterni vincolanti, permettendo così loro sviluppare le loro politiche energetiche in assoluta autonomia e libertà.
Di fronte a questo quadro sorprende osservare che tutte le destre estreme studiate dallo Zetkin Collective – da quelle scandinave a quelle tedesche, da quelle inglesi a quelle olandesi – si sono schierate compattamente e ferocemente contro gli accordi di Parigi, opponendosi a qualsiasi tentativo di instaurare una governance climatica, persino quella capitalista di facciata e inoffensiva.
La difesa degli interessi nazionali non giustifica questa opposizione in quanto gli accordi di Parigi non intaccano nessuna prerogativa nazionale, e si trattasse soltanto di questo ci si potrebbero aspettare un impegno per le rinnovabili che sono tipicamente locali, a filiera corta, mentre tutti questi paesi sono importatori di combustibili fossili. A dispetto del loro nazionalismo esasperato, anzi, alle destre estreme va bene consumare più fossili e che tutti ne consumino di più dato che sono per lo più contrarie alle rinnovabili fino a una vera e propria fobia nei confronti dell’eolico.
Come si spiega insomma tutto questo?
L’idea che il Collective avanza è che esista un profondo, organico legame tra progetto etno-nazionalista e piattaforma energetica fossile.
Un aspetto piuttosto bizzarro che accomuna in negativo gran parte delle formazioni della destra estrema sembra essere intanto una profonda ostilità per l’energia eolica. Questa ostilità rimanda almeno a due dimensioni. La prima è l’idea che gli impianti eolici siano invasivi, deturpano il territorio, rovinano l’ambiente, danno noia agli abitanti: al pari dei migranti e dell’Islam, insomma, rompono un equilibrio preesistente, costituiscono un’intrusione. Questa ostilità, che a tratti sconfina nella fobia è tale che in diversi casi si è arrivati a paragonarli ai minareti, entrambi simboli di un’invasione da fermare. La seconda dimensione riguarda più in generale le energie rinnovabili e i loro fautori, considerate le prime come incapaci per definizione di garantire il fabbisogno energetico nazionale e i secondi come sostenitori di un ritorno indietro in termini di civiltà e di livelli di sussistenza materiale della popolazione.
Ma al di là della specifica questione dell’eolico le destre estreme si oppongono a qualsiasi misura nazionale di lotta al riscaldamento globale, svelando in questo modo la loro fedeltà e la loro complicità nei confronti del capitale fossile, sia primitivo che generale. Se un caso esemplare è quello di Fidesz, il partito di Orban, passato da una totale indifferenza a una posizione molto aggressiva che prevede il negazionismo climatico, la resistenza alla riduzione delle emissioni e una rigida tutela dell’industria automobilistica, le formazioni spagnole e svedesi di estrema destra si pongono sulla stessa linea d’onda. Il ragionamento è: “è vero che importiamo tutta l’energia che ci serve, ma se tagliamo il fossile indeboliamo le imprese e la competitività della nazione”.
Poco diverso è il caso delle destre di paesi produttori di materie prime energetiche come Finlandia, Inghilterra e Germania, in cui l’opposizione alle rinnovabili è condotta addirittura in nome del ripristino di carburanti fortemente inquinanti e in via di abbandono o abbandonati da tempo come la torba e il carbone. In questi paesi le destre estreme mettono anzi al centro della loro propaganda e dei loro programmi la produzione nazionale di energia, pari solo per importanza alla questione dell’immigrazione.
Tuttavia i paesi davvero esemplari per quel che riguarda il nostro ragionamento sono quelli in cui ancora esiste un’importante produzione di carbone come ad esempio la Polonia, la Norvegia e gli Stati Uniti. Qui l’imperativo delle destre estreme non è solo di evitare la riduzione della produzione di carbone, ma al contrario di accrescerne l’estrazione e i consumi. Nel 2015 in Polonia il partito di estrema destra Democrazia e diritto (Pis) si è presentato alle elezioni e le ha vinte con ampio margine proprio incentrando la propria campagna elettorale su lotta all’emigrazione e massimo sfruttamento del carbone, nonostante questo combustibile fossile faccia di alcune aree della Polonia le più inquinate d’Europa. Le misure adottate sono state ben chiare: il ministro dell’ambiente, ecologo accademico, ha adottato una posizione negazionista, ha lasciato libertà di tagli boschivi ovunque, ha autorizzato ampi tagli persino in parchi nazionali forestali, ha tessuto le lodi della CO2, ha chiesto e ottenuto di svolgere la COP del 2018 nel bacino carbonifero di Katowice dove si è premurato di presentare il carbone come carburante pulito.
A livello ideologico il Pis, che ha governato dal 2015 al 2023, fa appello ai polacchi in quanto membri di una nazione fondata sul carbone che deve proteggersi contro i musulmani e gli altri stranieri, questo nonostante la Polonia sia un paese etnicamente e razzialmente tra i più compatti d’Europa (97% di polacchi) i musulmani siano solo lo 0,1% della popolazione. In questo quadro pervaso di xenofobia e islamofobia, il carbone giuoca un ruolo identitario essenziale: secondo la retorica del Pis l’Occidente vuole infatti imporre alla Polonia il multiculturalismo, mentre è necessario tornare a ciò che è veramente polacco, e niente lo è più del proprio carbone, di cui peraltro l’Occidente vuole impadronirsi.
In Norvegia la materia prima energetica abbondante è il petrolio offshore, poco estratto sino agli anni Novanta, quando l’estrazione è stata aumentata vigorosamente, per quanto ammantata da uno spesso strato di argomentazioni “verdi” tipiche della governance climatica capitalista: “i nostri fossili sono puliti, noi riforestiamo nel sud del mondo, siamo i paladini dei meccanismi flessibili, eccetera”. Dal 2013 al 2020 è stato al governo il Partito del progresso, di estrema destra, diventato il secondo partito norvegese nel 2005. Vista la linea già fortemente fossile dei governi precedenti al Partito del progresso è bastato assestarsi sulla loro linea di prudenza retorica ma chiedendo e ottenendo il ministero dell’energia e spingendo ancora più a fondo l’acceleratore sullo sfruttamento del petrolio nazionale. In sostanza la destra estrema norvegese non è stata rigidamente negazionista ma si è assestata su una linea di “prudenza” che ha significato sostanzialmente il cercare di allontanare il più possibile qualsiasi misura di contenimento pompando al contempo una crescita mai vista dello sfruttamento petrolifero.
Lo Zetkin Collective conclude che in Polonia e in Norvegia “l’alleanza tra l’estrema destra e il capitale fossile primitivo è cordiale, senza attriti tra i sostenitori del negazionismo e quelli della governance climatica, perché è cementata dal desiderio condiviso di continuare a estrarre il più a lungo possibile. In entrambi i Paesi, i partiti di estrema destra hanno avallato una politica nazionale preesistente e ne hanno estremizzato la logica, pattugliando i propri confini, sia fisici che mitici. […] È ormai chiaro che i partiti di estrema destra imparano gli uni dagli altri e dall’ideologia borghese, pur sviluppandosi nel proprio contesto nazionale”.
Una variante (in fondo solo un greewashing): il “nazionalismo verde”
Se i casi di paesi come la Polonia e la Norvegia appaiono come abbastanza lineari, con delle destre impegnate a salvaguardare inflessibilmente sia frontiere che risorse fossili, non riducendo produzione e consumi ma anzi espandendoli orgogliosamente, ci sono casi nazionali più complessi, in cui le destre estreme provano ad adottare una retorica “verde” senza mutare sostanzialmente le loro linee anti-ambientali, si dedicano insomma a varie forme di greenwashing adattando alcune parole d’ordine verdi alle loro idologie e alle loro strategie retoriche dominanti.
Qui, a differenza degli ecofascismi, temi e problemi ambientali non sono presi realmente sul serio né tantomento abbracciati con convinzione, ma si gioca sulle parole e sui programmi per dare l’impressione di non trascurare la questione ambientale, ricontestualizzandola comunque all’interno di visioni e di retoriche di estrema destra.
Il Collective trova utile definire queste strategie come “nazionalismo verde”.
Il partito che ha tentato in modo più consapevole e organico di andare in questa direzione è stato il Front National (oggi Rassemblement national-RN) dopo l’arrivo alla presidenza di Marine Le Pen, nel 2011. Nel 2014, addirittura, il RN lancia il Collectif Nouvelle Écologie pensato per simpatizzanti e membri del partito che hanno a cuore la protezione “della famiglia, della natura e della razza”. A dispetto di un negazionismo climatico ancora aggressivamente ostentato dalla formazione-madre, Nouvelle Écologie inaugura una sottile strategia di greenwashing pensata per attirare fasce di elettori di destra attraversate da preoccupazioni ambientali, così come avviene nel campo dei diritti Lgbt.
Nel 2017 il RN fa un ulteriore passo in avanti, sostituendo il negazionismo climatico con l’ambizione a una protezione della nazione francese come antidoto alla distruzione dell’ambiente. Secondo questo approccio un’economia autenticamente francese sarebbe dunque quella realmente “verde” e viceversa, un’economia realmente verde non può essere che franco-centrica. Questa svolta pretenderebbe di fare del RN un partito eco-nazionalista che lotta per un’ecologia patriottica sganciata dalla mondializzazione e caratterizzata di un più alto grado di indipendenza economica.
Nel 2019 Le Pen si spinge oltre, facendo scrivere il programma per le europee a Hervé Juvin, un saggista di estrema destra che elenca una serie di disastri ambientali, sanitari e antropologici e li attribuisce alla mondializzazione, che è “la fine di ogni legame tra la vita umana e il territorio che gli è proprio”. La logica conseguenza di questa analisi è che “la chiave della nostra sopravvivenza, come quella delle altre specie, è la chiusura dei confini perché ‘l’Europa è la terra degli Europei’”. Nel programma c’è anzi un appello all’autodifesa contro un’‘ideologia del nomadismo’ in gran parte responsabile della distruzione in corso del continente e preconizza una ‘civilizzazione ecologica in Europa’. Sulla base di questo programma si sviluppa la campagna elettorale, incentrata sullo slogan “grazie al ritorno alle frontiere salveremo il pianeta”. In tal modo nel 2019 l’estrema destra istituzionale francese ha definitivamente ridipinto di verde il suo nazionalismo, peraltro con ottimi risultati elettorali.
In questa progressiva svolta verso il “verde” in salsa nazionalista il Fn seleziona e adotta alcune parole d’ordine della Nouvelle Droite come l’etnodifferenzialismo, il rifiuto della mondializzazione, il legame coi territori. Estremamente importante, ad esempio è quest’ultimo punto, che permette di lavorare meglio sulle zone marginalizzate dallo sviluppo neoliberista e sul mondo contadino, per quanto il RN resti un partito convintamente e inflessibilmente sviluppista e industrialista. La nipote di Marine Le Pen, Marion, fonda un centro studi in cui rielabora in chiave moderata alcuni temi della Nouvelle Droite come quello secondo cui “preservare dei paesaggi, dei territori, un modo di vita alimentare vuol dire proteggere un’identità”.
Questo percorso avviato da Fn nel 2011 verso la proposta di un verde autenticamente nazionale è insomma il risultato della rielaborazione e della ricontestualizzazione di diversi temi che abbiamo visto sorgere all’interno della galassia ecofascista francese e americana tra gli anni Sessanta e i primi anni Duemila.
Dal punto di vista della teoria ci sono infatti due elementi chiave che finiscono con l’essere condivisi da un lato dagli stragisti solitari statunitensi e australiani come Patrick Crusius e Brenton Tarrant, dalla Nouvelle Droite, e dagli ecofascisti americani e dall’altro lato dal RN in versione green. Il primo elemento è la convinzione che proteggere la natura significhi tutelare anzitutto la nazione. Pur non negando insomma la crisi ecologica questa viene utilizzata come argomento per fortificare i confini, anzitutto mediante politiche protezioniste. Il secondo elemento è che difesa della natura e immigrazione siano incompatibili e che l’unico modo per difendere efficacemente la natura sia fermare e invertire l’immigrazione. Come afferma il segretario di RN, Jordan Bardella, in modo lapidario: “L’ecologia è il confine”.
Ma, osserva il Collective, per arrivare alla propria formulazione di nazionalismo verde il RN si è avvalso solo in piccola parte delle sofisticate elaborazioni ecofasciste: il grosso è stato ottenuto riesumando vecchie ricette in cui si fondevano paura della sovrappopolazione e amore per la terra, con l’aggiunta dell’idea che la sinistra abbia stabilito un monopolio illegittimo sull’ambientalismo che la destra deve spezzare.
Detto tutto questo ciò che è veramente essenziale osservare è che tanto il RN francese quanto tutti i partiti di estrema destra (europei o americani) che adottano forme di nazionalismo verde al momento del voto parlamentare (a livello regionale, nazionale ed europeo) o delle decisioni di governo sono sempre dei nemici acerrimi di ogni regolazione ambientale seria, in qualsiasi campo. Ed è questo che non va mai dimenticato, tanto più che lo si verifica sistematicamente su tutto lo spettro delle destre estreme istituzionali, comprese quelle che provano a fare una retorica green molto spinta, come il partito dei “veri finlandesi”.
Vale la pena concludere su questo argomento osservando il modo in cui il nazionalismo verde interpreta la crisi climatica quando non viene puramente e semplicemente negata. In tal caso essa viene fatta fondamentalmente risalire a due cause: a) le popolazioni del Sud del mondo crescono troppo e aumentano a dismisura i consumi globali di combustibili fossili; b) le migrazioni vengono effettuate mediante mezzi di trasporto che consumano combustibili fossili. Si tratta di due spiegazioni di pura fantasia, che non hanno alcun rapporto con le cause reali del fenomeno, ma che sono perfette per giustificare alcune posizioni sistematicamente anti-climatiche dei partiti di estrema destra: i consumi non c’entrano niente e il fossile non si tocca. Il nazionalismo verde, conclude lo Zetkin Collective, finisce con l’essere una variante delle politiche anti-climatiche, accanto al negazionismo e alla governance climatica capitalista.
Dall’altra parte dell’Oceano: Trump, di conserva Bolsonaro e infine Milei
La prima parte di Fascisme fossile si chiude con un trasferimento oltre oceano: nel Brasile di Bolsonaro e negli Stati Uniti di Trump, cioè dei governi di estrema destra in carica al momento della stesura dell’opera (2020).
Da un punto di vista delle culture politiche non ci sono differenze sostanziali rispetto alle destre estreme europee, ma il caso statunitense in particolare presenta delle specificità che ne fanno la quintessenza dei rapporti tra destre estreme e questione climatica, perché si tratta del principale consumatore di combustibili fossili al mondo, di uno dei maggiori produttori, del paese che ha avuto storicamente il ruolo più importante nel determinare le politiche climatiche globali e infine del paese in cui il rapporto tra capitale fossile e mondo della politica è sempre stato più organico. In termini numerici essi sono la superpotenza fossile per eccellenza con il 26% delle emissioni globali nel 2016 per 333 milioni di abitanti contro il 22% dell’Unione europea che ha 444 milioni di abitanti. E, last but not least, restano il cuore egemonico del capitalismo planetario.
Al contempo dal 2016 sono anche un paese che ha avuto – e ora ha di nuovo – un presidente che rappresenta in modo emblematico l’ondata nera.
Donald Trump si è subito contraddistinto per una retorica e per delle misure squisitamente anti-ambientaliste e anti-ambientali. Ma soprattutto con la sua presidenza il negazionismo climatico, in ritirata da anni su scala globale, si è presa la sua rivincita: dopo la sua elezione “è l’ala clima-negazionista più intransigente del capitale fossile primitivo che governa gli Stati Uniti in materia di clima e di energia”. E qui il Collective indica i soggetti concreti delle strategie e delle politiche fossili e anti-ambientali, in nome di chi parlano, quali interessi sostengono.
Molto è importante è ad esempio il caso di Robert E. Murray, il più grande imprenditore carbonifero statunitense, che ha spinto sin dalla campagna elettorale del 2016 Trump a rilanciare alla grande il carbone dopo che con Obama la sua produzione era declinata. Oppure di Harold Hamm, grande produttore di pretrolio da fracking, 29° uomo più ricco degli Stati Uniti, secondo solo ai famigerati fratelli Koch in campo energetico, sostenitore dei grandi oleodotti che erano stati bloccati con Obama dalle proteste dal basso. Hamm – scrive il Collective – “è diventato l’ambasciatore dell’‘indipendenza energetica’ americana, sostenendo che il massimo sfruttamento delle risorse fossili nazionali con le tecnologie più avanzate renderà gli Stati Uniti autosufficienti dal punto di vista energetico, senza bisogno di importarne, in particolare dai Paesi musulmani […] Hamm ha dichiarato alla Convention nazionale repubblicana che “il nostro problema più grande non è il cambiamento climatico. È il terrorismo islamico”. Non gli piacciono le turbine eoliche, “che ti perseguitano una volta che sono state installate”. […] Per lui il problema ambientale è, senza sorpresa, “la sovrappopolazione, che danneggia l’ambiente più di ogni altra cosa. Ci saranno regole per fermare la sovrappopolazione in Africa? In Medio Oriente? Probabilmente dovremmo”.
Accanto a questi esponenti del capitale fossile primitivo decisivi nel sostenerne la campagna elettorale, Trump schiererà poi nel proprio gabinetto un pool di negazionisti storici legati mani e piedi alle imprese estrattive, con curricula di primissima grandezza: Steve Bannon, Rick Perry, Mike Pompeo, Rex Tillerson, con Bannon che “merita una menzione speciale per aver associato negazionismo climatico, sciovinismo energetico e supremazia bianca con una certa profondità ideologica”.
Per quanto riguarda le politiche concretamente adottate, l’amministrazione trumpiana si muove nell’ottica di demolire qualsiasi barriera all’accumulazione del capitale fossile, ostacolando e bloccando anzitutto le piccole riforme avviatee da Obama come il Clean Power Plan e poi avviando con decisione provvedimenti per lo sfruttamento minerario o petrolifero di zone da sempre considerate delicate come l’offshore, i parchi naturali e le riserve indiane.
Questo ampliamento indiscriminato dell’estrazione di combustibili fossili non ha d’altra parte soltanto lo scopo di garantire l’“indipendenza energetica” richiesta da Hamm, cioè la fine delle importazioni, ma anche quello di imporre una “dominazione energetica” su altri paesi. Nella strategia trumpiana, infatti, il massimo sfruttamento delle energie fossili nazionali permetterebbe agli Stati Uniti non solo di emanciparsi dal ricatto energetico altrui, ma di imporre il proprio dopo aver provocato la dipendenza altrui dal petrolio statunitense. Esemplare a questo riguardo è il progetto di un oleodotto Usa-Messico passante sotto il muro che impedisce ai migranti di entrare negli Stati Uniti. Il Collective parla a questo riguardo dell’“immagine perfetta della dominazione energetica: un muro per mantenere i non-bianchi all’esterno associato a un oleodotto sotto di esso pensato affinché quegli stessi non-bianchi siano dipendenti dal nostro petrolio e dal nostro gas”.
Trump e il suo entourage non sono solo esemplari nell’evidenziare il rapporto organico tra negazionismo e razzismo e quello tra destre estreme e capitale fossile. Essi mostrano con evidenza esemplare una serie di fobie e di argomentazioni false e pericolose che sono pane comune per le destre estreme di tutto il mondo. È il caso ad esempio dell’ostilità personale di Trump nei confronti dell’eolico oppure del sostegno di tutta la galassia trumpiana all’idea che la CO2 fa bene e che il suo aumento nell’atmosfera costituisce soltanto un vantaggio, fino all’argomentazione di Mike Pompeo che magnifica gli enormi vantaggi dello scioglimento della banchisa artica in termini di apertura allo sfruttamento minerario dell’area e di maggiore rapidità e scorrevolezza dei trasporti.
Il negazionismo climatico, lo smantellamento delle politiche obamiane e il programma di massimo incremento possibile delle produzioni fossili dell’amministrazione Trump, spinto e sostenuto anzitutto dal capitale fossile primitivo ha conquistato d’altra parte con estrema facilità tutto il settore del capitale fossile generale, al quale non è parso vero di poter tornare anche loro a perseguire profitti e crescita senza alcun impaccio politico o normativo.
Nonostante infatti durante il primo mandato Obama avesse fatto molto per i petrolieri, nel secondo aveva risentito del peso dei movimenti e aveva ascoltato più la voce degli scienziati bilanciando così il proprio operato con alcuni provvedimenti correttivi che però hanno fatto infuriare i petrolieri e li hanno indotti a temere che la loro governance climatica globale potesse alla fine essere indebolita. Preoccupati da questa tardiva deriva obamiana, alla fine i petrolieri sono passati dalla lobby punto per punto a un’adesione politica alla linea dell’etno-nazionalismo predicato da Trump e dai suoi collaboratori. Per quanto blandi e tardivi, i provvedimenti obamiani hanno insomma provocato la reazione del capitale fossile primitivo e l’accodamento soddisfatto a questa reazione di quello generale.
A livello popolare, cioè dell’elettorato che nel 2016 ha sospinto inaspettatamente un outsider come Trump alla presidenza, si deve registrare il fatto che il partito repubblicano prima e Trump poi in maniera più estrema avevano etichettato tutte le politiche di Obama come politiche “negre”, considerandole per ciò stesse abnormi e pericolose: la sanità negra, la giustizia negra, l’istruzione negra. In questo minaccioso calderone anche le politiche ambientali e quelle climatiche in particolare hanno finito con l’essere identificate come politiche “negre” al punto che a partire dal 2008 il riconoscimento del cambiamento climatico come un fatto assodato e una causa di preoccupazione è progressivamente crollato tra i bianchi. Nell’elettorato bianco più conservatore è passata insomma l’idea che “se Obama crede nel riscaldamento globale, deve per forza trattarsi di una truffa architettata per colpire i bianchi”.
Il trumpismo non è d’altra parte il frutto di un caso, di un accidente della storia, della bizzarria del sistema politico americano, della sua comunicazione o della sua società. Il Collecrtive conclude al riguardo: “Nel tempo lungo del riscaldamento globale, l’ascesa al potere di Trump non deve nulla al caso. Sarebbe più appropriato dire che Trump si è caricato sulle spalle il fardello dell’impero americano, portando le tendenze del capitalismo globale e le idee che le accompagnano fino alla Casa Bianca. In patria, lo Stato trumpiano ha riorganizzato le classi dominanti sotto la guida del capitale fossile primitivo, riducendo significativamente l’autonomia relativa delle prime rispetto al secondo”.
Una conferma di questo carattere sistemico dell’ondata nera e del suo rapporto con la crisi ambientale e climatica si era manifestato clamorosamente sempre sul continente americano quando Trump non era neanche alla metà del suo mandato: nel Brasile di Jair Bolsonaro.
Anche quello di Bolsonaro, quando si presenta come outsider alle elezioni presidenziali del 2018 è un curriculum da estremista di destra ben noto, provocatoriamente ostentato. Al di là della retorica fascista, il suo programma elettorale è un semplice bignamino neoliberale ortodosso, senza particolari novità e totalmente silente riguardo alle misure di tutela ambientale. Una volta al potere, invece, egli mostra di avere idee ben chiare al riguardo: distruggere, anzitutto, ogni regolazione.
In confronto agli Stati Uniti, in realtà, l’impatto del Brasile sulla concentrazione di CO2 nell’atmosfera è relativamente modesto, ma da un altro lato è vero che il paese ospita 67% delle foreste tropicali globali, strategiche per assorbire la CO2 stessa. Se si tagliano quelle l’impatto sulla crisi climatica può essere molto alto. Durante la dittatura degli anni Sessanta – che Bolsonaro ricorda con nostalgia – erano iniziati i grandi tagli che erano proseguiti nei decenni successivi con una pausa soltanto tra 2005 e 2012 con i governi di sinistra di Lula e di Dilma Roussef. Poi erano ripartiti con la presidenza liberale di Michel Temer finché nel 2018 arriva Bolsonaro il quale sostiene apertamente che “c’è ancora margine per la deforestazione in Amazzonia”. Il suo programma elettorale prevede infatti la possibilità di tagliare in tutta tranquillità la foresta tropicale in favore dell’industria mineraria e soprattutto dell’agrobusiness, cioè la storica élite reazionaria della bancada ruralista. Questi potentissimi settori economici di conseguenza plaudono a Bolsonaro, lo finanziano e lo sostengono, favorendo così la sua sorprendente elezione. Nel frattempo questi settori sono gli stessi che iniziano ad accelerare i tagli nella foresta amazzonica già nel corso della campagna elettorale. Dopo la vittoria si verifica quindi un record assoluto e impressionante di tagli e un’ampia diffusione di disastrosi incendi, coi quali si arriva a un doppio effetto negativo per quel che riguarda la CO2: non solo vengono tagliate foreste che potrebbero assorbirla ma vengono accresciute le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera a causa degli incendi. Un ulteriore effetto ambientale, insomma, della svolta del paese verso la destra estrema.
Le politiche antiambientali e climalteranti del governo Bolsonaro non si limitano tuttavia alla devastazione del patrimonio forestale. Anche se il petrolio non ha un peso determinante come in altri paesi, anche in questo campo vengono attuate scelte tutt’altro che neutrali: a) alla principale impresa petrolifera del paes, Petrobas, vengono concesse un gran numero di licenze per lo sfruttamento di giacimenti offshore; b) il ministro dell’ambiente e il ministro degli esteri stabiliscono un canale privilegiato con i think tank negazionisti statunitensi finanziati dai petrolieri; c) Bolsonaro si affretta ad azzerare i fondi per il contrasto alla crisi climatica.
Nonostante inoltre che nel Brasile di Bolsonaro prevalgano la retorica nazionalista e gli interessi del capitale estrattivo e la questione dell’immigrazione sia irrilevante, il razzismo entra comunque a far parte della retorica della destra estrema, rivolgendosi anzitutto contro le popolazioni indigene che si oppongono alla deforestazione, popolazioni che vengono considerate inferiori e che devono subire per principio tutto quello che viene deciso dai poteri forti. Non manca però neanche l’attacco alla minoranza afro-brasiliana che nei decenni precedenti era riuscita a ottenere un ampliamento dei propri diritti. Nonostante le differenze tra Brasile da un lato e Stati Uniti e i paesi europei dall’altro, insomma, anche l’ideologia del bolsonarismo è contrassegnata dalla bianchitudine e la sua base è essenzialmente bianca, attratta dal disegno di una società gerarchizzata razzialmente. Non casualmente nelle elezioni del 2018 Bolsonaro otterrà le percentuali di voto maggiori nel sud bianco del paese, quello “europeo”.
L’arrivo della destra estrema incarnata da Bolsonaro induce, infine, non solo una modifica radicale delle politiche ambientali, con un attacco di dimensioni inedite alla foresta amazzonica. Quella che cambia è anche la collocazione internazionale del Brasile, che nel corso degli ultimi decenni è diventato peraltro un protagonista di prima grandezza della politica globale. Il caso più importante è quello della posizione del paese nelle trattative climatiche globali. Nello storico summit di Rio De Janeiro del 1992 il presidente Cardoso – che, ricordiamolo, era un liberale, anzi un neoliberista – aveva perorato con forza l’adozione del principio “chi inquina paga, in proporzione”, principio radicale che era stato infatti sdegnosamente respinto dai paesi del Nord. Nel 2009 a Copenhagen Lula – che è al contrario un progressista per principio ostile al neoliberista – si era invece accodato alla richiesta di Obama di rendere volontari e non obbligatori gli impegni per la riduzione delle emissioni, con un evidente passo indietro rispetto al 1992. Con l’arrivo di Bolsonaro si passa a uno stadio ancor più regressivo: quello del negazionismo puro, anzi dell’adesione all’idea che la crisi climatica sia un complotto, cosicché il paese stabilisce di seguire Trump fuori dal pur ormai inutile accordo di Parigi.
Per motivi cronologici resta fuori dalla ricostruzione e dall’analisi dello Zetkin Collective l’uomo con la motosega, Javier Milei, che rappresenta persino una radicalizzazione, sia a livello di retoriche che di programma che di azione di governo, di tutte le tendenze già viste nelle campagne elettorali e nelle presidenze di Trump e di Bolsonaro.
Il che conferma – se ce ne fosse bisogno – che le destre estreme istituzionalie l’ondata nera stanno sotto il segno di una volontà di negare la crisi ambientale, di dissolvere le politiche ambientali adottate nei decenni scorsi e di procedere a uno sfruttamento sempre più massiccio delle fonti energetiche fossili e più in generale delle risorse naturali.
1 Zetkin Collective, Fascisme fossile. L’extrême droite, l’énergie, le climat, Paris, La fabrique, 2020.
2 White Skin, Black Fuel. On the Danger of Fossil Fascism, London, Verso, 2021
3 Andreas Malm, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, London-New York, Verso, 2016; Id., How to Blow Up a Pipeline: Learning to Fight in a World on Fire, London-New York, Verso Books, 2021 (trad. it. Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia, Firenze, Ponte alle Grazie, 2022).