1 – Le promesse mancate, tra speranza e scetticismo
2 – Il ruolo della scienza: una questione aperta
3 – Il disamore per la scienza
4 – Il valore delle idee: le risorse dell’immaginazione
5 – Il linguaggio della comunicazione scientifica
6 – Il carattere eversivo della scienza
7 – I limiti della conoscenza: “ Ubi Dubium, Ibi Libertas”
8 – Scommettere sul cambiamento
Questo testo è frutto di un intenso periodo di discussioni, viaggi, riunioni e confronti con diversi amici insegnanti e, in diverso modo, ottimi educatori. Con riconoscenza a: Danila, Gianluca, Elena, Francesco, Emanuele, Alessandro, Stefano, Giorgio, Fausto, Ilenia, Luigi, Chiara, Goffredo e tutti i collaboratori de “Lo Straniero”.
“L’etimologia di latino scientia è rimasta ignota finché non è apparso evidente che scio ha il suo remoto antecedente in accadico še’û, ebraico šã’ ã, tedesco sehen, suchen: è un “vedere dopo aver cercato di scorgere”. La complementarità del “ vedere-sapere” è confermata dal latino sapio, nel senso di “sapere come autopsia”: accadico sapû (guardare), ebraico sãfã (essere veggente, profeta), della stessa base di ????? (chiaro).”
Giovanni Semerano, “Le origini della cultura europea: rivelazioni della linguistica storica” (1984)
“Nessun insegnante ha mai insegnato qualcosa a qualcuno. La gente in fondo è autodidatta. La parola “educatore” deriva dal latino “educare“, verbo simile a edùcere che significa “guidare, condurre”. E appunto questo l’educatore deve fare: guidare, essere entusiasta, capire se stesso, mettere tutto questo sotto gli occhi degli altri e dire: “Guardate, è meraviglioso. Venite a mangiare con me”.”
Leo Buscaglia, “Vivere, amare, capirsi” (1996)
1 – Le promesse mancate, tra speranza e scetticismo
Abbiamo smesso di credere nel progresso. Questo sì che è un bel progresso!
Jorge Luis Borges, “Borges et Borges“ (1969)
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, nel cuore della nazione più tecnologicamente evoluta e più militarmente protetta al mondo, quando ancora le rovine di Ground zero stentavano ad essere rimosse, lo scrittore americano Wendell Berry ha così affermato: “Verrà presto un tempo in cui non sarà possibile ricordare l’orrore dell’11 settembre senza anche inquietarsi per quel senso di ottimismo che puntualmente accompagnava le nostre idee sulla tecnica e sull’economia e che quello stesso giorno ebbe fine” (Berry, 2001). La quantità di azioni preventive (guerre, armamenti intelligenti, sistemi informatizzati di controllo, dispositivi di ispezione satellitare, detector metallici e biologici) sviluppate e messe in atto sotto la voce sicurezza dopo l’abbattimento delle due torri di New York parrebbe contraddire la prospettiva di esaurimento del facile ottimismo verso la tecnica e l’economia. Sappiamo, però – come certamente sa chi le mette in atto – che tali azioni hanno dubbia efficacia in pratica, piuttosto sono perseguite con valenza propagandistica. L’effetto maggiormente ricercato è di tipo dissuasivo verso l’esterno del sistema e consolatorio verso il suo interno, a dimostrare che se il cervello del vecchio ordine fa fatica a riconoscere la realtà dei fatti i suoi muscoli soverchi, invece, già stanno esercitandosi e, infatti, la combattono.
Il re, però, rimane nudo: le strategie dell’intelligence mondiale e nazionale sono sbeffeggiate con regolarità nel Nord-est italiano da un mitomane che sistema ordigni nelle chiese, negli Stati Uniti da adolescenti psicopatici che superato ogni controllo, compiono stragi a scuola con fucili di famiglia e a Baghdad, da quando impera l’ordine, le bombe esplodono come consuetudine. Non esistono tecnologie né strategie belliche risolutive contro il terrorismo: è una guerra asimmetrica, gruppi sempre più ridotti di persone sono in grado di procurarsi armi sempre più potenti.
Assieme al vanto della sicurezza, molto delle certezze sulle “magnifiche sorti e progressive” del mondo contemporaneo si è incrinato. Alla luce dell’inasprimento dei conflitti e dei problemi globali che caratterizzano questo scorcio del XXI secolo è difficile rileggere senza scetticismo le prospettive che dominavano l’immaginario anche solo un decennio fa. Perfino il rischio nucleare, malaccortamente accantonato nel passaggio di millennio, è tornato in auge. Il disincanto appare maggiormente chiaro, e il quadro preoccupante, se le considerazioni si spostano sui limiti e sui costi sociali ed ambientali dello sviluppo. Non si tratta solo delle guerre del petrolio, che per il fabbisogno energetico potrebbe essere sostituito – come per la crisi del carbone in Inghilterra alla fine dell’Ottocento. La scarsità d’acqua e l’impoverimento dei patrimoni naturali (foreste, biodiversità, risorse ittiche) cominciano pericolosamente a combinarsi con l’esaurimento dei metalli e delle materie prime (alluminio, cobalto, nichel, molibdeno, rame). Per la sua straripante crescita industriale, la Cina ha smesso di esportare a basso costo ferro e carbone mettendo in crisi la produzione mondiale dell’acciaio.
Il disordine sta guadagnando terreno e in campo sociale il disfacimento del controverso rapporto nei confronti della scienza, che era di rispettosa ammirazione fino a poco tempo fa, è visto come uno dei fattori di crisi della modernità. Nonostante il rinnovo dei proclami per gli ultimi portenti tecnologici (nano-dispositivi, idrogeno, laser terapie, biogenetica), la delusione per i sistematici insuccessi del passato non svanisce, anzi si salda con un sentimento anche di irritazione per le promesse disattese. Non dovrebbe allora stupire che verso le soluzioni prospettate dagli esperti l’atteggiamento generale sia di scetticismo e diffidenza, puntualmente verificabili che si tratti di inceneritori di rifiuti, di stoccaggio di scorie radioattive, di organismi geneticamente modificati o di clonazione. La situazione, in realtà, è profondamente ambigua. La scienza soffre una seria e preoccupante “perdita di credibilità”, in senso letterale e figurato: mentre le viene meno il sostegno economico e politico la sua reputazione culturale è sotto attacco; ma contemporaneamente la nostra vita (commerciale, culturale e politica) continua ad essere pervasa da ogni genere di messaggi che per i loro obiettivi sfruttano le questioni scientifiche come arma risolutiva di persuasione – o dissuasione (Lévy-Leblond, 1998).
Se l’atteggiamento è contraddittorio, il pericolo di confusione è molteplice. Nelle mani del potere il controllo della cultura scientifica, abbinato alla retorica del progresso, costituisce un ineguagliabile strumento di giustificazione dello status quo e di sostegno dell’indirizzo politico, mentre si mina alla base la prerogativa di libertà delle attività di ricerca e di sviluppo della scienza. Contemporaneamente, la sfera pubblica è pervasa da spiriti ribelli che, con diverso accento, criticano l’eccessiva dipendenza dalle tecnologie del vivere moderno, fino all’occorrenza di pulsioni antiscientifiche puramente irrazionali o fondamentaliste, queste ultime predicanti il ritorno ad una dubbia condizione di primordiale innocenza. Occorre però distinguere: per quanto sia sovente accomunata, anche strumentalmente, agli impulsi irrazionali, la maggior parte della critica agli eccessi iper-tecnologici non pone in discussione la scienza in sé, piuttosto solleva dubbi sulla necessità ed opportunità di moltissime sue applicazioni e sulle motivazioni che effettivamente la indirizzano – L’economista Joseph A. Schumpeter (1883-1950) individuava nel processo di “distruzione creatrice” della tecnologia il motore del sistema industriale capitalistico (Schumpeter, 1934).
Per una pluralità di ragioni, quindi, ci si rivolge con preoccupazione ai politici, che non riconoscono più il ruolo fondamentale della ricerca pubblica se non come supporto delle attività produttive in termini di sviluppo e innovazione, e con frequenza sorge l’esortazione a una più ampia e consistente diffusione della cultura scientifica, chiamando in causa i mezzi di informazione, il sistema educativo e gli scienziati affinché giochino per questo fine un ruolo maggiormente attivo. Si avverte, infatti, che la scienza potrebbe ancora emergere come strumento per la costruzione di un nuovo ordine, soprattutto se saprà emanciparsi riconquistando la fiducia con politiche maggiormente partecipative, derivanti da norme pratiche e culturali condivise, e se saprà dar garanzia di valutazione pubblica delle strategie, degli strumenti e dei risultati del suo operato.
è utile, perciò, riflettere apertamente sull’argomento sempre problematico dell’educazione alla scienza, senza pensare a soluzioni “tutto compreso”, prevedibilmente monocordi. Piuttosto, alla luce delle contraddizioni, ma anche delle potenzialità, che più facilmente si evidenziano analizzando i modi di operare dei suoi adepti (ricercatori, professori, studenti, scrittori e divulgatori), per stimolare una riflessione sui temi della scienza e del suo insegnamento allargata e il più possibile integrata anche al di fuori dell’ambito scientifico.
2 – Il ruolo della scienza: una questione aperta
” Mi piacerebbe (…) che in tutte le facoltà scientifiche si insistesse a oltranza su un punto: ciò che farai quando eserciterai la professione può essere utile per il genere umano, o neutro, o nocivo. (…). Non nasconderti dietro l’ipocrisia della scienza neutra: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall’uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla “
Primo Levi, Covare il cobra (1986)
Affrontare complessivamente e con ordine il tema dell’educazione alla scienza è un’impresa. Bisognerebbe, intanto, accordarsi sul ruolo principale delle attività scientifiche: appagamento del desiderio di conoscenza, sollievo dalle fatiche del lavoro per provvedere alle necessità materiali, sostegno dei vorticosi cicli dell’economia. Poi, anche ipotizzando un criterio impersonale, l’argomento della scienza come strumento di potere va trattato e occorrerebbe stabilire quanto di partecipazione si intende dare alla gestione delle sue attività. Nella migliore delle ipotesi, con la scienza libera, partecipata e applicata principalmente per la soddisfazione dei bisogni, per la definizione di questi diversi aspetti resta risolutiva la modalità di percezione della scienza nella società. Il rischio è di continuare a muoversi su crinali disagevoli, dovendo scegliere da quale parte collocarsi nelle cosiddette “guerre di scienza”. Occorrerebbe resistere alle tentazioni dogmatiche del “realismo scientifico”: la “verità sperimentale” come obiettivo, una maldestra “oggettività dell’esperienza” come criterio. Allo stesso tempo non si dovrebbe cedere allo sconforto del “costruttivismo sociale”: la scienza come riflesso socio-culturale, giustificazione a posteriori dell’esperienza relegabile in un circoscritto ambito storico, in perenne attesa del paradigma successivo.
Gli spazi da proporre fra dogmatismo e nichilismo sono non delimitati e sfuggenti, perché tendono a cedere alla seduzione delle derive intellettuali (economiche e culturali) da cui sono assediati. Il rischio di trovarsi a sostenere posizioni illusorie o auto-contraddittorie è palese, ma va corso e i cammini disagevoli devono essere esplorati. La scienza è una “utopia dimostrabile”, un ossimoro: accettare che non sia spiegabile in ogni suo aspetto, così come confutarne la parte utopica, equivale a negarne l’essenza stessa e, assieme, a disconoscere inquietudini ataviche e umanissime dell’animo.
Fra relativismo e dogma, conviene non accomodarsi da nessuna parte e muoversi nei luoghi di confine (i varchi) dove è più facile osservare la trasposizione dei concetti e delle scoperte fra l’esterno e l’interno del laboratorio. Nei processi di comunicazione fra diversi settori disciplinari o nei confronti dell’arena pubblica occorre, infatti, uno sforzo di coerenza. Perché, come per le traduzioni, i punti critici possono diventare oscuri e le più piccole incoerenze si fanno insostenibili quando l’informazione è solo testualmente trasportata da una lingua all’altra. Il passaggio comunicativo fra ambiti diversi è un momento critico anche per la conservazione del messaggio, quando gli agenti capaci di corrompere, deviare o confutare la “notizia” possono più facilmente intervenire.
Per “tradurre” e divulgare scienza e per un’analisi dei suoi risultati, positivi e negativi nel complesso, occorre una preventiva rielaborazione delle conoscenze, con doti di pazienza e trasparenza. Possono tornare utili in questo caso strumenti illustrativi non scientifici, come quelli della poesia, dell’arte e delle lettere, per mediare con canoni comunicativi maggiormente ordinari i toni e l’enfasi del linguaggio scientifico. Per definire il quadro della situazione, sono utilissime le analisi di quanti hanno saputo trasporre i criteri della scienza e la consapevolezza dei suoi limiti in altri ambiti dell’esperienza. Non va sottovalutato il contributo dei visionari della fantascienza (come Dick, Asimov, Lem, Huxley, Mary Shelley), il cortocircuito fra letteratura e scienza dove si fronteggiano opposti atteggiamenti verso le tecnologie.
Le riflessioni raccolte in alcune antologie di Primo Levi (1919–1987) – “Il sistema periodico”, “L’altrui mestiere” e “Storie naturali” in particolare – si mostrano pertinenti e attuali, rispetto ai temi dell’educazione scientifica. Nell’analisi delle opere dello scrittore e chimico torinese è impossibile prescindere dalla drammaticità della sua esperienza personale, nonostante questo (o forse, proprio per questo) uno studio dei suoi scritti attento agli aspetti comunicativi della scienza può evidenziare valenze etiche e pedagogiche difficili da cogliere ad una prima lettura. “La personalità di Levi è tale che, anche quando veste i panni dello scienziato, non dimentica mai il suo esser uomo tra gli uomini; (…) l’atroce esperienza che gli è toccata da vivere (e da testimoniare) gli permette di porsi interrogativi di carattere morale anche davanti ad eventi dove una mente scientifica, contaminata da facili entusiasmi, spesso rischia di abbassare la soglia” (Mansueti, 2003).
Una riflessione a parte per meriti educativi meriterebbe, infine, l’opera del biologo evoluzionista e storico della scienza Stephen Jay Gould (1941–2002), probabilmente il più noto e autorevole divulgatore scientifico del Novecento 1. A Gould si devono la maggior parte delle riflessioni che negli scorsi decenni hanno contribuito a demitizzare l’idea del progresso associato alla teoria dell’evoluzione (il cosiddetto “Paradigma panglossiano”), a sconfessare le interpretazioni più degeneri del darwinismo (la selezione naturale come fondamento dell’individualismo sociale, la divisione dell’umanità in razze, il quoziente intellettivo come carattere ereditario) e, infine, a smentire la pretesa del creazionismo di essere introdotto nelle scuole americane alla pari con le teorie di Darwin. Alcuni suoi amici e colleghi hanno ricordato: “Chi divulga (scrittori, saggisti, giornalisti) arrangia sempre le notizie scientifiche in modo sensazionalistico. Nessun editore, nessun giornale accetterebbe di scrivere un articolo affermando che le questioni della scienza sono complicate, che non è possibile fare previsioni perché ci sono seri problemi sperimentali e forse non ci sarà mai una risposta (…). [Gould, invece,] raccontava la complessità del mondo in modo tale che i lettori potessero comprendere da soli, addolcendo la sua prosa con riferimenti al baseball, alla musica corale, all’architettura delle cattedrali (…). Non sempre si realizza che per rendere chiare le spiegazioni scientifiche, in termini accessibili a chiunque, bisogna conoscere gli argomenti con la più profonda padronanza possibile” (Lewontin, 2002).
3 – Il disamore per la scienza
” Nessuno lodi Perillo, più crudele del tiranno Falaride, per il quale costruì un toro promettendogli che l’uomo che vi fosse racchiuso avrebbe muggito per il fuoco accesovi sotto, e che fu il primo a sperimentare su di sé questo supplizio come frutto di una crudeltà più giusta della sua. Fino a tal punto egli aveva distorto un’arte nobilissima, destinata a rappresentare dei e uomini “.
Plinio il vecchio, “Storie Naturali” XXXVII, 89
Una considerazione su tutte inquadra lo stato di afflizione in cui versa l’educazione alla scienza: le aule delle facoltà scientifiche stanno svuotandosi, con imbarazzo di molti osservatori per i possibili riflessi sociali, economici e culturali. Sulle motivazioni della fuga le opinioni sono divergenti: molti accennano alle incertezze economiche e alla precarietà occupazionale cui gli aspiranti studiosi scienziati vanno incontro; altri sostengono che il calo è solo apparente, conseguenza della moltiplicazione degli insegnamenti universitari in mille rivoli. Probabilmente, la prospettiva di questo singolare fenomeno va chiarita anche prendendo consapevolezza di un processo storico che, poco a poco, ha spogliato la scienza di tutte le sue attrattive e finalità originali.
è stato osservato che oramai quando si pensa al ruolo della scienza o se ne parla, quasi sempre “più che alla scienza ci si riferisce alla tecnologia o allo sviluppo tecnologico che la scienza ha reso possibile, confondendo così la scienza con le sue applicazioni. In pratica si parla ormai solo di tecnoscienza” (Vinassa de Regny, 2004). Già Bertrand Russel (Russell, 1931) notava come la scienza avesse spostato il suo asse di gravità dalla comprensione della natura verso il suo dominio, compiendo definitivamente il passaggio dalla contemplazione alla manipolazione:
“Noi possiamo voler conoscere la natura di un oggetto perché ci affascina, oppure perché vogliamo possederlo e controllarlo. Il primo impulso porta a un tipo di conoscenza che potremmo definire contemplativo, il secondo ad una conoscenza pratica. Negli sviluppi della scienza il desiderio di potere sta prevalendo sempre più sull’impulso alla contemplazione (…). L’uomo era rimasto finora soggiogato dalla natura, ma emancipatosi da questa soggezione mostra ora i difetti dello schiavo fattosi padrone”.
Come suggerisce Luigi Cerruti 2 “il contrasto è notevole fra chi analizza il mondo per capire quali relazioni ci siano fra sé e il mondo stesso e chi lo indaga, invece, come un colpevole cui estorcere la verità – Bacone parlava di torturare la natura per costringerla a rivelare i suoi segreti”. Quando ad una scienza carica di valori e attenta ad essi è contrapposta una scienza distaccata, oggettiva e – se va bene – neutra rispetto ai valori, mentre la pressione esercitata da pubblicità, film, videogiochi e telefonini sull’immaginario e sulla socialità dei giovani è insostenibile, non ci si può stupire se “le nostre proposte didattiche suscitano meno interesse di un necrologio (…) e nelle aule è dura impresa andare oltre la semplice presenza degli allievi”. Ad un’analisi minimamente ravvicinata, questa rimozione dei valori appare come una delle cause principali per la scarsa popolarità delle lezioni scientifiche. L’educazione ai valori della scienza è anche una esigenza didattica: se aspirazioni ed esperienze dello studente non sono coinvolte nel processo educativo non si capisce perché si dovrebbe avere per le scienze “un interesse più duraturo di quello che si ha per una tratta in autobus: giunti a destinazione (l’interrogazione) si scende e si fa altro (…). In questa prospettiva, dobbiamo piuttosto guardare con attenzione al consenso che vanno riscuotendo molte istituzioni private (…) grazie al vantato successo agli esami dei loro allievi” (Cerruti, 1999).
Non si intende esaltare il ruolo della scienza pura a discapito della scienza applicata; la prima da sola resterebbe poco più che un esercizio teorico e sappiamo che la seconda verrebbe poi da sé, lo stesso. Condividiamo l’idea che “un valore senza pratica è come un matrimonio senza sesso, ossia è – con un termine che dice tutto – platonico”, e che “la pratica conferma l’accettazione del valore, la rende stabile e ben radicata” (Cerruti, 1999). Dobbiamo però aggiungere che vi è qualcosa di perverso nel modo in cui è esercitato il dominio sulla natura: il desiderio di “conoscenza pratica” rispetto alle risorse naturali si esaurisce improvvisamente nel momento in cui il controllo su di esse pare garantito. Raramente ci si interroga sul destino di un dispositivo fuori uso o di una risorsa naturale esausta, una volta esaurita la loro funzione, quando anche schiacciando il tasto “Play” non si accende più nessuna luce. Questo atteggiamento di scientifico ha poco o niente; piuttosto rasenta il confine con l’alchimia e la stregoneria i cui seguaci credevano possibile il controllo delle entità naturali attraverso formule magiche da recitare solo con esattezza, senza cognizione alcuna del perché avrebbero dovuto funzionare. Nel mito della scienza degenere, di Mary Shelley, il mostro si ribella a Frankenstein quando acquisisce autocoscienza del proprio orrore; ma non c’è bisogno di individuare alcuna ribellione per i contraccolpi ambientali del presente (inquinamento, scorie, variazioni climatiche, impoverimento degli ecosistemi), basta considerare che in termini di utilizzo del patrimonio ambientale il criterio unico è stato quello del maggior profitto nel più breve tempo possibile, senza stare a ragionare troppo per il sottile sulle conseguenze che sarebbero derivate dallo sfruttamento e dalla devastazione, fino all’ultimo, di risorse e territori.
Per recuperare la situazione è opportuno allora uno sforzo di umiltà, di immaginazione e soprattutto di apertura, riconoscendo in modo inequivocabile il valore democratico della pratica pedagogica scientifica: “Divulgare la scienza (…) diffondere la cultura scientifica significa portare a conoscenza di tutti coloro che non lavorano in una specifica disciplina scientifica i risultati della disciplina stessa. Ma significa anche – e soprattutto – portare a conoscenza di tutti il senso profondo della ricerca scientifica, il perché del perenne interrogarsi sul mondo che ci circonda” (Vinassa De Regny, 2004). Mentre i vantaggi delle tecnologie sono distribuiti in modo insopportabilmente iniquo, informare e chiamare alla condivisione delle strategie di sviluppo tutte le componenti della società, in particolare quelle che ne subiscono gli svantaggi (gli abitanti di un sito destinato a discarica o allo stoccaggio di scorie nucleari, le popolazioni coinvolte dalla costruzione di una centrale nucleare, i pazienti sottoposti a terapie sperimentali, i militari che utilizzano proiettili di uranio impoverito), sembra una pratica rivoluzionaria, invece è solo una questione di completezza dell’informazione e della sua disseminazione. Perché é necessario “restituire la ricerca a coloro a cui appartiene: noi tutti (…) Occorre quindi soprattutto diffondere la “cultura” della scienza più che divulgarne i principi o le applicazioni tecnologiche (come normalmente si fa)” (Vinassa De Regny, 2004).
Non si tratta solo di realizzare una trasmissione di conoscenze e di idee; bisognerebbe legare gli insegnamenti alle esperienze ed ai valori di ognuno, puntando ad una condivisione dell’ atteggiamento scientifico. Neppure ci si può aspettare che gli insegnamenti in campo scientifico possano avere effetto di routine , senza esaltare il ruolo svolto dal desiderio di consapevolezza autonomamente sviluppato (cioè da uno stimolo assieme di curiosità e di ribellione) e senza accettare la possibilità di un mutamento evolutivo, perfino di un rifiuto, di questa conoscenza nel momento della sua trasmissione. Poiché viviamo in una società “complessa ma ricca di opportunità, pur nell’asimmetria del rapporto didattico”, non si dovrebbe neppure dubitare “che gli insegnanti possano a loro volta ricevere lezioni informali dai loro studenti, per esempio su cosa vuol dire vivere a vent’anni in questa società” (Cerruti, 1999).
4 – Il valore delle idee: le risorse dell’immaginazione
Il tentativo di comprendere le leggi dell’universo è fra i pochi pretesti che permettono all’esistenza umana di sollevarsi oltre il livello della farsa, per assumere la compostezza della tragedia.
Steven Weinberg, “I primi tre minuti” (1977)
La capacità di produrre idee è l’attitudine maggiormente caratteristica della nostra specie; grazie al linguaggio siamo in grado di trasmetterle tra noi e grazie alla scrittura, oggi anche in forma digitale, possiamo conservarle e perfezionarle nel tempo. Proprio l’organizzazione in schemi e norme delle idee (l’insieme delle attività intellettuali e dell’immaginario) é ciò che rende specifica la cultura di ogni società. La conoscenza, di conseguenza, è un patrimonio fondamentale per la società, non solo in senso economico, e i processi di comunicazione e condivisione delle idee (cioè l’educazione) sono un punto critico per le dinamiche di evoluzione e di conservazione della collettività.
Gli schemi culturali, però, cambiano nel tempo ed evolvono guidati da forze a loro interne o esterne. La padronanza ed il controllo del patrimonio delle idee (cioè del sapere) sono sempre state risorse preziose per la gestione della vita societaria e oggetto di potere e di segretezza. Fin dalla nascita dell’agricoltura, con lo sviluppo delle società sedentarie e delle gerarchie per la suddivisione del lavoro, le élite al potere hanno cercato di sequestrare l’informazione, dosandola sapientemente al popolo rispetto al quale dovevano giustificare il proprio ruolo: potere e sapere (sciamani, sacerdoti, filosofi, principi e sovrani) si sono (quasi) sempre dati reciproco sostegno. La storia, poi, ha mostrato il ruolo fondamentale della conoscenza e dalla sua libera circolazione per le conquiste della democrazia. Passaggi fondamentali sono stati l’invenzione della stampa – strumento principe per la conservazione e circolazione delle idee – e lo sviluppo dei mezzi di informazione moderni, come internet, grazie ai quali è diventato sempre più semplice scambiare informazioni che in precedenza erano accessibili solo a pochi (Carlini, 2005).
Oggi, tanto chi usa gli strumenti di comunicazione quanto chi lavora per lo sviluppo di nuove idee sa come sia in crescita la tipologia e la quantità delle informazioni che sono richieste o offerte. A tal punto questa è diventata la nostra principale occupazione che più di un terzo dei lavoratori nelle società avanzate svolge attività correlate con la produzione e la diffusione di informazioni: “Perfino un contadino può sfruttare per il proprio lavoro le conoscenze della tecnologia, grazie alle previsioni meteorologiche” (Carlini, 2005).
L’evoluzione del pensiero e delle forme del conoscere ha portato ad una notevole complessità del mondo del sapere per la cui gestione si segue una suddivisione per aree culturali che, grossomodo, sono fatte corrispondere accademicamente con le arti (visive, teatrali, letterarie), le scienze umane, le scienze sociali, le discipline tecniche e le scienze naturali. A sua volta, ogni categoria culturale può essere frazionata in ulteriori gruppi, e la suddivisione potrebbe essere portata avanti a piacere, trovando sempre, dopo ogni “riduzione” del sapere, ancora un mondo intero da esplorare.
In un’intervista rilasciata nel 1992, preoccupato per l’eccessiva tendenza alla specializzazione del sapere (il “riduzionismo”, appunto) il sociologo Edgar Morin aveva affermato:
“Credo che il divorzio tra la cultura scientifica e la cultura umanistica sia un fatto gravissimo. Perché la cultura scientifica è incapace di riflettere su se stessa e la cultura umanistica, che è capace di riflessione, non ha più un grano da macinare dato che oggi le conoscenze vengono ormai solo dalla scienza”.
Questa sistemazione formale del sapere in categorie è, però, una forzatura. Una semplice analisi mostrerebbe che fra i diversi campi vi è un enorme flusso di informazioni. Le diverse discipline si sovrappongono, si affiancano e interagiscono in un complesso amalgama interdisciplinare. Per taluni, anche la scienza è arte; per altri le discipline umanistiche e sociali sono anch’esse scienza. Per alcuni la storia siede fra le scienze umane, mentre per altri andrebbe associata con gli studi sociali; oppure, l’antropologia fisica andrebbe separata da quella culturale, e così via (Stimpson, 2002).
Se le scienze umane e le scienze naturali si sono allontanate – seguendo un percorso inverso a quello della prima rivoluzione scientifica illuminista – questo vale per il linguaggio, i concetti e le finalità, ma questa constatazione non dovrebbe riportarsi ad una loro strutturale incapacità di comunicazione. Le scienze umane e quelle naturali sono co-dipendenti e hanno bisogno l’una dell’altra per rinnovarsi e analizzarsi, nei metodi e negli strumenti. Probabilmente, questo è maggiormente vero per la scienza le cui ricerche si muovono ormai lontano dalle esperienze della quotidianità e il cui linguaggio è continuamente in trasformazione: parole nuove sono coniate appositamente per descrivere oggetti e concetti, come equazioni o strutture chimiche, indescrivibili con le parole comuni.
Le parole, però, non riescono da sole a rendere sempre ed esattamente, in modo unanimemente apprezzabile, il significato di quanto indicano, anche se sono la principale risorsa che abbiamo per descrivere l’esperienza. Da qui ha origine la tensione del linguaggio scientifico, e da qui nasce la considerazione che il linguaggio della scienza è principalmente metaforico (si veda il paragrafo: “Il linguaggio della comunicazione scientifica”). Date queste premesse, si può arrivare ad affermare che il linguaggio della scienza sarebbe potenzialmente e internamente poetico, se non fosse invece relegato a gergo.
Forse, allora, non è solo casuale l’estremo amore che spontaneamente Primo Levi dichiarava per l’analisi delle parole. Secondo la critica, Levi incarna in pieno il ruolo di ponte tra cultura umanistica e sapere scientifico; probabilmente la sua sensibilità derivava dal voler tradurre in entrambe le direzioni, usando termini il cui significato rimanesse intatto nel passaggio dall’uno all’altro campo. In ” L’aria congestionata” (L’altrui mestiere, 1985) aveva scritto:
“Proseguendo pesantemente e senza discrezione l’indirizzo umanistico, ricorriamo per le cose nuove alle lingue vecchie, al latino e al greco. Ora non pare che i risultati (…) siano sempre bene accetti, (…) vocaboli palesemente innaturali, imposti dall’alto, prefabbricati, troppo lunghi e poco chiari, privi di qualsiasi suggestione di analogia, spesso carichi invece di suggestioni e di analogie false. A giudicare dagli effetti (…) appare evidente la ripugnanza con cui l’uomo parlante accoglie le parole che è costretto ad usare ma che gli giungono nuove”.
Nella stessa raccolta, in “Dello scrivere oscuro“, discutendo delle proprie preferenze linguistiche in letteratura, così ebbe a osservare:
“Non si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo. Chi lo fa, obbedisce in generale a tabù politici o a timori atavici. (…) Neppure è vero che solo attraverso l’oscurità verbale si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. (…) Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia”.
Una credenza è certamente da sfatare: gli scienziati non possiedono una capacità di visione né di descrizione delle vicende naturali maggiore di quella dei poeti, anche se questo è creduto da moltissimi umanisti che ritengono, fra l’altro, quel genere di conoscenza per loro come chiuso, quasi proibito. Un italianista e critico letterario, Emanuele Zinato, ha suggerito (Zinato, 2002):
“Forse spetta proprio alla letteratura, con la sua vocazione incorreggibilmente antispecialistica il compito di restituire il pensiero scientifico all’esperienza comune, trasfigurando criticamente e concretamente i nuovi universi creati in laboratorio. Del resto la letteratura non ha mai disdegnato di tematizzare a suo modo gli eventi più sensazionali della tecnica, rivivendo emotivamente (con entusiasmo o con repulsione) scoperte rivoluzionarie, serbatoi di nuove metafore e di nuovo lessico (…). Come scrisse Calvino, dunque ” la letteratura costruisce un ponte tra i modelli della logica scientifica e l’esperienza e il linguaggio quotidiani: più la scienza va avanti più c’è lavoro per la letteratura “.
Probabilmente, di alcuni fenomeni naturali gli scienziati possono avere una visione maggiormente approfondita, ma si tratta solitamente di circostanze assolutamente circoscritte nel tempo e nello spazio e limitate ad alcune piccolissime porzioni dell’infinito. Così uno scienziato ambientalista ha recentemente commentato (Suzuki, 2004):
“La scienza è un modo particolare e conveniente per osservare il mondo. Mettendo a fuoco solo alcune parti della natura, controllando tutto ciò che le influenza e misurando e descrivendo ogni frammento, possiamo acquisire una profonda conoscenza … di quel frammento. Nel processo, gli scienziati perdono di vista la struttura entro cui ogni parte va a collocarsi e non possono più apprezzare i ritmi, i cicli e i percorsi che originariamente avevano reso importante quel frammento”.
5 – Il linguaggio della comunicazione scientifica
“ L’abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà e il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia ”.
Primo Levi, Ex chimico, “L’altrui mestiere” (1985)
Abbiamo già affermato che la scienza, per sua stessa natura, vuole essere spiegabile, anche se questa ambizione può esser soddisfatta solo parzialmente. Chi si propone questo compito, deve affrontare diversi ostacoli, strettamente legati tra loro: le difficoltà del linguaggio scientifico, la complessità delle idee da esprimere e le limitazioni legate al mezzo di comunicazione scelto e alle sue tempistiche (libro, rivista, radio, internet o televisione). Queste difficoltà sono le stesse di qualsiasi altro tipo di comunicazione ma con un’apprezzabile aggiunta: “Divulgare scienza non significa semplicemente comunicare un risultato, bensì esporre anche un ragionamento che lo provi o un esperimento che lo verifichi” (Vinassa de Regny, 2004). Il contingentamento dei tempi e degli spazi sui mezzi più comunemente utilizzati per l’informazione scientifica (televisione, quotidiani, ma anche libri di testo scolastici), riduce drasticamente la loro fruibilità con valenza educativa, o perlomeno condiziona fortemente il messaggio che attraverso essi è possibile trasmettere. Il “formato”, insomma, vincola fortemente i contenuti. Questo non vale solo per la scienza: in tutti i campi della divulgazione il ricorso a slogan, a pacchetti preconfezionati di idee va bene per le forme di sapere precotte – o congelate. Utilizzare il termine “educazione” in questi casi, forse, non è corretto, “condizionamento” è probabilmente più adeguato.
Queste affermazioni implicano che ci si può affidare alle conoscenze della scienza solo se questa è perseguita con applicazione e partecipazione in ogni suo passaggio, dalla raccolta delle informazioni sperimentali, alla loro analisi e sintesi, alla comunicazione con garanzia di indipendenza e libertà da condizionamento ad ogni livello; il che non è certo quello che accade oggi.
I condizionamenti esterni – principalmente la propensione a “vendere” bene il prodotto, secondo canoni extrascientifici (diciamo da spot commerciale) cui siamo stati indottrinati – si esplicitano nei passaggi della comunicazione e diventano chiari quando si analizzano il carattere fondamentalmente introverso della divulgazione scientifica e la difficoltà del suo linguaggio, intriso di retorica in ogni manifestazione. Per quanto la retorica possa sembrare estranea, addirittura antitetica, alla scienza, paradossalmente essa risulta invece essere la sua forma principale di comunicazione, nelle pubblicazioni, nelle presentazioni alle conferenze, o negli articoli di divulgazione sulla stampa, alla radio o in televisione.
Gli articoli che gli scienziati si scambiano sono sostanzialmente tutti identici nella forma con minime variazioni fra le differenti discipline scientifiche; la dimensione retorica è predominante, con la discussione relegata al termine del lavoro, dopo la presentazione dettagliata delle procedure sperimentali, le osservazioni e l’analisi dei dati. Se si passa alla presentazione pubblica dell’attività scientifica, analogamente si osservano tutta una serie di luoghi comuni che prendono corpo mentre si esegue il non indifferente lavoro di trascrizione per la divulgazione delle idee. La trasformazione, quando fatta professionalmente, riguarda ogni aspetto del testo: struttura, grammatica e vocabolario. Le variazioni maggiormente rilevanti sono effettuate seguendo un procedimento schematico di semplificazione: sostituire l’esoterico col familiare, introdurre attori viventi invece di sostanze inanimate, scegliere le forme verbali attive rispetto a quelle passive (Lévy-Leblond, 1998).
Potrebbe sembrare solo una questione di strategie di traslitterazione del messaggio, da affidare a studiosi di semantica. Riflettendo, però, si realizza con facilità che non è necessario accettare che la comunicazione avvenga principalmente per via retorica; questa modalità comunicativa sottintende un atteggiamento formale e non confidenziale fra i dialoganti. La regressione alla retorica è lo specchio di una situazione tacitamente accettata nella quale gli scienziati traggono le conclusioni, fanno le scoperte e – con l’aiuto dei professionisti – le “traducono” per i profani nel linguaggio corrente. È un’indicazione rilevante: implicitamente, si considera l’intercomunicazione della scienza con gli altri come un’operazione unidirezionale.
Accettando questa situazione, ci si rimette tutti. Se la qualità degli argomenti scientifici potesse essere aperta al dibattito pubblico, se la scienza potesse scendere dai suoi piedistalli e smettere l’atteggiamento di febbrile attività non ne avrebbe danni, piuttosto un guadagno enorme di vitalità, pur dovendo accettare che i processi di produzione del suo sapere possono essere considerati non più puri (né meno) di quelli di ogni altra attività intellettuale. Purtroppo, in senso istituzionale, i passaggi della comunicazione non prevedono quasi mai spazi per una critica delle attività scientifiche, o per il dibattito, né soprattutto esiste un linguaggio comune per permettere al monologo di trasformarsi in dialogo.
Da Galileo in poi, il principale mezzo di espressione per descrivere le leggi naturali è stato la matematica, asettica e simbolica. Occorre considerare, tuttavia, che a mano a mano che la scienza è diventata più astratta e lontana dall’esperienza quotidiana, il ruolo della metafora per la descrizione del mondo nel linguaggio comune – dove non sempre si padroneggia la matematica – è diventato sempre più importante (si pensi all’analogia fra sistema solare e struttura atomica di Bohr; ma anche alla rappresentazione di una supernova o di una molecola proteica, non descrivibili che con modelli astratti). Per gli scienziati, abituati a muoversi con mezzi più specifici e potenti, le metafore e gli accostamenti dei concetti fisici con le esperienze naturali sembrano non poter svolgere un ruolo comunicativo peculiare, oltre a quello di dar enfasi al discorso; in realtà nell’immaginario comune questi espedienti assumono un ruolo didattico concretizzante. Commentando “Il libro dei dati strani” di R. Houwink (L’altrui mestiere, 1985), Levi, così rifletteva su questi temi:
“La nostra capacità di rappresentazione è scarsa, e chi voglia o debba farci capire quanto grandi sono le cose molto grandi, e quanto piccole le piccole, urta contro una nostra antica sordità, oltre che contro l’insufficienza del comune linguaggio. Se ne sono resi conto da sempre i divulgatori di scienze quali l’astronomia e la fisica nucleare, ed hanno cercato di compensare questa insufficienza ricorrendo al paradosso e alla proporzione: se il sole fosse ridotto alla grandezza di una mela (…) se un miliardo di anni fosse compresso a un giorno (…) ma in molti casi “capire” vuol dire invece rendersi conto che di alcuni oggetti e fenomeni non ci è concesso costruirci un’immagine (…) la nostra fantasia ha le nostre dimensioni, e non le possiamo imporre di superarle”.
Se nel linguaggio della scienza la metafora è accettata solo come un espediente per la divulgazione, mal sopportato dalla pratica razionalistica anche perché implica in qualche modo il riconoscimento di un limite descrittivo, questo invece potrebbe proprio essere un espediente utile per rovesciare la situazione a vantaggio del processo di comunicazione. Occorre aprire le porte alla metafora; essa va accettata come conseguenza della trasposizione del linguaggio scientifico sul piano sociale, non solo quando un problema concettuale diventa insormontabile.
Si tratterebbe di una breccia nel mondo austero della comunicazione scientifica, che coerentemente, per esempio, preferisce la praticità impersonale della lingua inglese alla capacità di astrazione del latino, ma sarebbe anche una efficacissima difesa della conoscenza scientifica dall’attacco esterno: se si è potuto torturare gli scienziati per le loro idee, ben altro ci vorrebbe per smontare gli strumenti interpretativi dell’immaginario, una volta condiviso un nuovo paradigma.
Poi, aperta la breccia della metafora, con un linguaggio comune a disposizione, si può andare oltre e riconoscere le forme d’arte non solo come espedienti per la rappresentazione della natura e dei suoi segreti ma anche come strumenti di educazione alla scienza, a tutti gli effetti. A quanti si troveranno scandalizzati per questo genere di proposta, possono tornare utili, ancora, le parole di Primo Levi. Pur partito dal presupposto e dall’intento dello scrivere chiaro e preciso (“il massimo di informazione con il minimo ingombro” nella versione letteraria) quando arriva a collaborare con Italo Calvino per alcune difficoltosissime traduzioni di Raymond Queneau (“La canzone del polistirene”, “Piccola cosmogonia portatile”), si trova spiazzato dalla forma del testo e così commenta in “La cosmogonia di Queneau” (L’altrui mestiere , 1986):
“La poesia risuona dappertutto intorno all’uomo attento. E non solo nella natura; c’è poesia nel ranuncolo e nella luna in primavera, ma anche nei vulcani, nel Calcio e nella funzione fenolo (…) la fatica epica dei Curie, che dalla pechblenda ha condotto all’isolamento del Radio, aspetta invano il poeta che la sappia narrare (…) non la scienza è incompatibile con la poesia, ma la didattica, cioè la cattedra sulla pedana, l’intento dogmatico-programmatico-edificante”.
La poesia può arrampicarsi dappertutto, intorno alle cose tangibili e no, nell’oscurità più assoluta, rivelando e creando mondi. Alcuni ricercatori del Massachusetts Institute of Technology curano una serie di volumi esplicitamente finalizzati a dimostrare che scienza, letteratura e poesia assieme non solo costituiscono una stessa forma del sapere, ma possono fornire chiavi interpretative dei fenomeni naturali educative, spiazzanti e liberatorie (Rothenberg e Pryor, 2004):
“L’evoluzione mostra quale energia vitale si celi nella strategia del cambiamento apparentemente privo di finalità. Ma la sopravvivenza umana – se ce la facciamo – va celebrata solo se si abbina ad uno scopo (…). La natura ci ha imposto il beneficio della curiosità, per renderci capaci all’adattamento, e della saggezza dell’insoddisfazione, per spingerci in ogni condizione a cercare risposte diverse (…). La scienza è per definizione rigorosa e scrupolosa, dunque non deve perdersi in proclami (…). Occorre assaporare gli enigmi della natura, danzare loro attorno, evocarli, sfruttando l’eccezionale capacità di trasfigurazione delle immagini e delle parole (…) Le risposte migliori alle domande più difficili devono assumere lo stile dell’arte, perché l’arte offre soluzioni che non eludono né lasciano poi abbandonato l’oggetto della domanda; piuttosto lo conservano per sempre in quella parte di noi che continuamente aspira al sublime, all’impossibile ed alla verità”.
Imbarazzo, irritazione e ansia, in un rapporto interculturale sono inevitabili, ma non sono certo l’utilizzo di un linguaggio anticonformista o il ricorso a forme di espressione artistica i maggiori pericoli che la scienza corre nel passaggio della comunicazione. Il problema è se gli scienziati intendono continuare ad associare la loro comunicazione ad un atteggiamento difensivo-offensivo, oppure se preferiscono giocarsela con umorismo (che è un requisito per l’autoconsapevolezza emozionale), trasformando le occasioni della divulgazione in ponti mobili per l’esplorazione fra diversi mondi possibili. La trasformazione maggiormente perniciosa nella popolarizzazione del suo messaggio la scienza lo corre nell’esclusione – volontaristica o freudiana – del fatto che “il suo scopo è quello di creare modelli di rappresentazioni plausibili per l’organizzazione delle esperienze all’interno del mondo della natura” e che “questi modelli, aperti e necessariamente approssimati, non devono essere considerati rappresentazioni di una realtà assoluta (…), la retorica della scienza professionale scorda totalmente questa posizione epistemologica e rappresenta piuttosto la scienza come una rivelazione di realtà definite, ma così operando fomenta un fondamentalismo tanto pericoloso quanto le versioni religiose” (Glaserfeld, 2003).
6 – Il carattere eversivo della scienza
L’oggettività non va confusa con l’assenza di giudizio; piuttosto, l’oggettività sta nel riconoscere le proprie preferenze ideologiche per poi assoggettarle ad una critica profonda, e anche nella volontà di rivedere o abbandonare le proprie idee quando non superano la prova (come solitamente accade).
Stephen Jay Gould
La migliore conferma delle potenzialità del pensiero scientifico come metodo oggettivo di interpretazione della natura sta probabilmente negli sforzi che da sempre sono stati fatti per ostacolarne la libertà, coi mezzi della censura e della propaganda o direttamente con le epurazioni. Il pericolo è che, attraverso la semplice formulazione di congetture e la loro verifica sperimentale, si possa mettere in dubbio la fondatezza del potere basato su concezioni del mondo antidemocratiche giustificate dalla superstizione, dalle credenze religiose o dalla dottrina politica ed economica.
Molto si può dire anche sulle interpretazioni della realtà deviate dal dogmatismo scientifico e culturale asservito all’ideologia dominante – che oggi, pacificamente, andrebbe associata con lo strapotere finanziario delle multinazionali. Dai tempi dell’eresia di Galileo e di Giordano Bruno, delle teorie nazi-fasciste sulla razza, del diniego delle leggi di Mendel in Unione Sovietica, per arrivare ai tentativi di cacciare Darwin dalle scuole dei volenterosi teocons contemporanei, più e più volte è stato possibile osservare come sia profondamente sovversiva l’idea che la scienza possa collocarsi fuori del controllo del potere. Nessuna mentalità assolutista – politica, religiosa o economica – può tollerare l’esistenza di un metodo di indagine oggettivo del quale non sia possibile predeterminare gli esiti. Ogni regime per giustificarsi e sostenersi deve tendere a piegare gli sviluppi scientifici ai diktat dell’ideologia politica: tutte le formazioni economico-sociali usano con decisione e consapevolezza il proprio sistema educativo per eliminare i residui delle formazioni precedenti e per porre le basi utili a una propria riproduzione senza devianza.
Le successive interpretazioni della teoria dell’evoluzione di Darwin costituiscono probabilmente il miglior esempio di come un paradigma scientifico possa essere piegato, da una parte o dall’altra, per giustificare e sostenere una dottrina. In un saggio intitolato “Usi e abusi della biologia” l’antropologo Marshall Sahlins ricorda le affermazioni dei seguaci del “darwinismo sociale”, adottato come codice morale nel mondo liberale alla fine del XIX secolo: “L’ordine sociale è fissato da leggi della natura esattamente analoghe a quelle dell’ordine della fisica”, e le leggi di Darwin per la selezione, così come la lotta per la sopravvivenza “non possono essere negate più di quanto non sia negabile la legge di gravità” (Sahlins, 1976). Per smentire queste convinzioni, difficili a morire, nel 1902 il principe anarchico Piotr Kropotkin, scrisse un volume mirato a sostenere le idee del cooperativismo animale come fondamenta dei processi dell’evoluzione; il risultato fu un testo, “Il mutualismo”, concettualmente bellissimo ma sostanzialmente privo di attendibilità. Infine, le idee sulla “divisione del lavoro”, contornate da considerazioni su ottimizzazione, competitività ed efficienza delle strategie della produzione industriale – trasversalmente assecondate – trovano il loro modello interpretativo nel legame tra i concetti di complessità e progresso evolutivo. Questa correlazione fu sostenuta da Darwin stesso che la considerò valida sia a livello dei singoli individui in funzione dei loro organi (funzionali, complessi, specializzati) sia al livello dei gruppi e degli individui che li compongono.
Stephen Jay Gould, fra gli altri, ha speso la maggior parte della sua vita per dimostrare l’inconsistenza di ognuna di queste tesi, puntando invece ad esaltare il carattere sovversivo del pensiero scientifico e la necessità di assumere, di fronte alle interpretazioni costruttiviste, un atteggiamento di radicalità rispetto alla spiegazione dei fenomeni naturali, puntando a risalire fino alla radice del discorso scientifico. Non è congruo trarre considerazioni risolutive, su cui addirittura giustificare la fondazione l’ordine sociale, dalle osservazioni sperimentali quando occorre ammettere l’incapacità di spiegazione di numerosissimi fenomeni e la possibilità che le interpretazioni offerte per quelli spiegabili siano nella maggior parte fallaci: alcuni libri di testo affermano che il 95 % delle teorie scientifiche, presto o tardi, si rivela erroneo.
Forse il problema è che ci si riferisce solitamente alla scienza come ad un corpo organizzato della conoscenza, una collezione di fatti e informazioni oltre la portata dei non-scienziati. Correttamente, la scienza andrebbe identificata in un metodo più che in un insieme di fatti e verità. Il metodo richiede la formulazione di teorie che possono essere verificate, ma che sovente poi si rivelano errate. Questo metodo, poi, funziona bene per tutti i corpi e le realtà che possono essere testati, ma va molto meno bene (se non malissimo) per tutte quelle entità astratte che vanno dalle teorie economiche, agli affetti, alle emozioni alle previsioni in borsa.
Un punto basilare è che la scienza è frutto di un’azione comune, un processo di cognizione collettiva, e questa caratteristica è essenziale, non accidentale: una supposizione scientifica resta tale fino a che chi l’ha ipotizzata non la condivide e fino a che altri non la fanno propria eindipendentemente la verificano; solo a quel punto un’ ipotesi può diventare teoria o legge. La condivisione della conoscenza, che deve essere conservata e trasmessa, è una necessità: senza consenso sui metodi di indagine selezionati e sui risultati delle misure non vi è scienza.
A maggior ragione è essenziale che la scienza faccia parte degli argomenti del dibattito pubblico e che si cerchi la condivisione del significato dei risultati della ricerca. Nessun uomo libero dovrebbe scordarsi che la difesa della libertà è inseparabile dalla difesa della verità. Purtroppo, la possibilità di distorsione o di cancellazione dei fatti (storici e scientifici) è un’arma pericolosa nelle mani del potere, di qualunque potere; per questo la condivisione della conoscenza è una garanzia della sua conservazione e assieme una difesa della libertà. Nel caso della scienza, è inaccettabile che solo poche élite possiedano conoscenze che riguardano la vita di tutti e che sostengano pure per il bene comune di dover preservarle dalla diffusione coi brevetti, perché senza i diritti brevettuali nessuno produrrebbe i farmaci, svilupperebbe software o metodi di analisi strumentale.
Negli anni della guerra fredda, numerosi intellettuali europei (tra cui Hannah Arendt e Bertrand Russel), nel tentativo di creare la maggior quantità possibile di anticorpi contro il ritorno di regimi totalitaristi diedero vita a Berlino, nel 1951, al Congresso internazionale per la libertà della cultura (probabilmente sostenuto anche dalla CIA). Fra gli italiani aderirono personaggi come Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, che così si esprimevano:
“Noi riteniamo che il mondo moderno può proseguire nel suo avanzamento solamente in virtù di quel principio di libertà della coscienza, del pensiero e dell’espressione che si è faticosamente conquistato nei secoli passati. Noi riteniamo che, in quanto uomini e cittadini, anche coloro che professano le arti e le scienze siano tenuti ad impegnarsi nella vita politica e civile, ma che al di fuori delle tendenze e degli ideali politici e delle preferenze per l’una o per l’altra forma di ordinamento sociale e di struttura economica sia loro dovere custodire e difendere la propria indipendenza e che gravissima e senza perdono sia la loro responsabilità ove rinuncino a questa difesa. E riteniamo che nell’attuale periodo storico, che ha visto e vede tanti sistematici attentati alla vita dell’arte e del pensiero da parte dei potenti del giorno, i liberi artisti e scienziati siano tenuti a prestarsi reciproca solidarietà e a confrontarsi nel pericolo”. (Manifesto costitutivo della “Associazione Italiana per la libertà della cultura”, 1951)
La specializzazione delle attività oggi non favorisce prese di coscienza e di responsabilità; il riduzionismo, fondamentale per l’efficacia delle metodologie di indagine, è un problema nel momento delle analisi perché con prospettiva minimalistica ostacola gli atteggiamenti di radicalità, deviando l’attenzione dalle cause verso gli effetti. Occorre osservare che la scienza moderna è relativamente giovane, essendo nata solamente quattro secoli fa. Il termine “scienziato” ebbe origine solo nei primi decenni dell’ottocento; Isaac Newton e Michael Faraday usavano ancora dichiararsi “filosofi naturali” e avevano conoscenze approfondite per la loro epoca nei più svariati campi. Solo nello scorso secolo sono vissute persone esclusivamente dedite alla produzione di nuove conoscenze: i ricercatori, che ancora poco prima si facevano chiamare studiosi e che col tempo, continuando a specializzarsi, hanno smesso persino di assumere gli incarichi di insegnamento, divulgazione e applicazione delle conoscenze che essi stessi vanno sviluppando. Dalla libertà dell’attività di ricerca il passaggio alla qualificazione specialistica, alla frammentazione e alla gerarchizzazione è stato molto breve. E, occorre osservare, i risultati della produzione specialistica sono stati così efficaci che l’attività pratica ha preso il sopravvento su quella speculativa; solo negli ultimi decenni sono clamorosamente emersi i danni derivanti da questa suddivisione del lavoro della scienza.
Oggi il pericolo maggiore non è cadere sotto un regime totalitario, come quelli di inizio Novecento, ma piuttosto l’instaurazione del pensiero unico della mercificazione applicato anche alla scienza e alla cultura, incontrastato e supportato dell’illusione del pieno dominio umano sulla materia. Come è stato rilevato dai redattori della rivista francese di cultura Rock, “Les Inrockuptibles”, è in corso:
“Una guerra all’intelligenza senza precedenti nella storia recente (…) la crescente influenza dell’economia sulla ricerca scientifica ha minato le pietre miliari del metodo scientifico: libertà, apertura e imparzialità. Non si tratta in generale di un tentativo di cancellazione della cultura, piuttosto del suo assoggettamento sotto il regime giuridico della proprietà intellettuale e dell’indirizzo strettamente aziendale della produzione e della trasmissione del sapere (…). La guerra è mossa (…) contro tutto ciò che eccede e contravviene il diretto impiego produttivo, l’immediata spendibilità del lavoro intellettuale sul mercato (…) La guerra contro l’intelligenza è (…) contro il suo carattere extraeconomico, contro quello spreco, quei caratteri inflazionistici e antieconomici che costituiscono la condizione stessa di esistenza e sviluppo della cultura”. (Appel contre la guerre à l’intelligence, Les Inrockuptibles, 2003)
In questa situazione potrebbe sembrare azzardato suggerire come principale contromisura il riconoscimento aperto dell’incompletezza e della limitatezza del sapere scientifico. Nella Bibbia, la caduta dell’uomo dipende dall’aver mangiato il frutto della conoscenza; il risultato è un senso di potere intossicante, accompagnato dai mali che derivano dall’uso del sapere, per contradditori obiettivi, da parte di creature imperfette. Rinunciare alla conoscenza non è più una possibilità, ma riconoscerne la stupefacente limitatezza dovrebbe essere una buona cura disintossicante.
7 – I limiti della conoscenza: Ubi Dubium, Ibi Libertas
” Tutte le più importanti rivoluzioni della scienza hanno avuto come risultato comune lo spodestamento dell’arroganza umana, un piedistallo dietro l’altro, rispetto alle precedenti convinzioni sulla nostra centralità nel cosmo”.
Stephen Jay Gould, Un dinosauro nel pagliaio (1995)
Diversamente da quanto si vede sovente suggerito e da quanto creduto nel senso comune, il metodo scientifico è molto lontano dal volersi considerarsi giudice finale della verità. Al contrario: la scienza è nemica di ogni certezza, proprio la consapevolezza del carattere effimero della propria conoscenza, l’attitudine al dubbio del ragionamento scientifico, ne permettono e ne garantiscono l’evoluzione. Neppure si può presumere che la conoscenza scientifica abbia un’autorità precostituita maggiore di quella della poesia, della filosofia o dell’arte per la percezione e la descrizione del significato dell’esistenza: la credenza che la realtà della natura sia spiegabile solo attraverso la scienza è un’attitudine limitante. Steven Weinberg, Nobel per la fisica nel 1979, ha affermato: “è evidente è che al livello delle cellule non vi è nulla che possa somigliare alla consapevolezza che è una cosa imponderabile, sperimentabile solo direttamente e individualmente e non attraverso i sensi; né vi è qualcosa come la vita a livello degli atomi e delle molecole. È vano cercare un significato nei fenomeni quantistici” (Weinberg, 1993).
Bertrand Russel metteva in guardia dal mondo che sarebbe risultato se la pratica tecnico-scientifica avesse dominato indiscussa: “il razionalissimo regime mondiale della scienza vieterebbe la recita dell’Amleto – avvertiva – e chiunque non lavorasse per produrre sarebbe incarcerato”. Affermazioni come queste erano il riflesso di preoccupazioni di tipo filosofico, non tutte andate smentite. Oggi, la monocultura della tecno-scienza, corroborata dalla retorica dello sviluppo e supportata dagli interessi finanziari, non sembra minimamente capace di prendere in considerazione l’ipotesi della propria limitatezza e fallibilità. Di fronte ai danni provocati all’ambiente, alla minaccia di scomparsa di società ed economie non omologate, alla finitezza delle risorse, ciò che essa evidenzia maggiormente è la propria incapacità immaginativa. Ai contradditori esiti dello sviluppo risponde perseguendo nientemeno che maggiori investimenti nella tecnica, più stretti controlli e misure, migliore organizzazione, più efficienza, seguendo la deriva logica dell’escalation: il ricorso ad ancor più tecnologia come soluzione per l’eccesso di tecnologia.
è possibile riconoscere tratti di fideismo in questo atteggiamento e non appaiono fuori luogo le similitudini che accostano scientismo e religione nella prospettiva contemporanea. Beppe Fenoglio, ironizzando, immaginò l’Almirante Alonso Pérez de Guzman della cattolicissima “Grande Armada” spagnola, a rapporto da Filippo II dopo la disfatta nella Manica. All’ottusa accusa di aver cagionato la sconfitta, per carenza di fede e per aver tollerato la bestemmia, l’Almirante duca di Medina Sidoni (il più pio di Spagna) avrebbe risposto: “Ve lo escludo, maestà, (…) a bordo come in chiostro (…) Guardia e rosario. Sveglia e salmodia. Ritirata e rosario. E tre digiuni per settimana, e anche … clisteri (…) per mortificare ancora più la carne, per incrementare l’effetto dei santi digiuni”. Con analoga coerenza ideologica la teoria dello sviluppo necessario mette a segno le strategie per affermarsi, propagarsi e sostenersi. I clismi per lo spirito del nostro tempo sono le ubiquitarie norme procedurali, i piani di certificazione, la manualistica della perfezione. Ottimi per mortificare i rarissimi sussulti di entusiasmo scientifico e culturale, assieme a termini come “qualità”, “eccellenza” e “sicurezza”, garantiscono (a caro prezzo) quanto dovrebbe esser ovvio: che un alimento non è tossico, che la composizione di una merce è quella indicata sopra, che un attrezzo non è pericoloso se usato appropriatamente. Ancore più preoccupanti sono i tentativi di certificazione delle persone, come per esempio sta accadendo con la definizione del portfolio delle competenze, un’aberrazione della riforma scolastica, una sorta di patente a punti delle capacità acquisite, che dovrebbe accompagnare ogni scolaro fin dalle materne.
In tema di fede tecno-scientifica, questi sono gli ultimi ritrovati di una propensione sociale dei secoli XIX e XX, prominente e indicativa a questo proposito: l’intensa preoccupazione per la precisione, un concetto che allo stesso tempo raffigura un ideale e un argomento, nella scienza e nella società. Beffardamente, questa tendenza è emersa come pratica esorcizzante (la precisione della conoscenza con funzione auto-rassicurante) in occasione dello Tsunamiche il 26 dicembre 2004 ha devastato le coste del Sud-est asiatico. Mentre per banali motivazioni di profilassi urgeva rimuovere con gli inesistenti mezzi a disposizione le quasi 300.000 vittime dell’olocausto, il mondo occidentale rivendicava il diritto alla loro conoscenza “metrologica”. I mezzi di comunicazione si sono concentrati sulla conta e sul riconoscimento dei cadaveri, ipotizzando, in luoghi dove non c’era più la terra né vi era acqua, prelievi e congelamenti per poter poi procedere (con comodo) ai test del DNA. Poi sono seguiti gli oboli col telefonino, fortunato accostamento del binomio “fede e tecnologia”: le indulgenze via SMS.
Che le misure debbano essere effettuate con accuratezza, che gli strumenti siano tanto migliori quanto più capaci di registrare variazioni minime su scale sempre più ridotte e che i risultati debbano essere riportati con dettaglio per un ricercatore sono dati di fatto, più che istanze imposte dalla committenza. Ma la tendenza parossistica a svolgere il lavoro scientifico solo secondo le modalità più accurate e precise possibili sembra anch’essa doversi accomodare fra gli schemi di una obbedienza auto-volontaria, tipica di una ideologia interiorizzata. Il pericolo principale è la dimenticanza che accuratezza e precisione non sono necessarie sempre e ai massimi livelli, ne sono di per sé valori.
La trasmissione alle scienze umane di schemi metrologici – ottimi per le scienze fisiche – ha portato in passato a teorizzare l’antropologia criminale di Cesare Lombroso o gli studi scientifici dell’intelligenza attraverso la rapidità di trasmissione del pensiero e il quoziente intellettivo. Un rischio ulteriore è l’esaurimento delle capacità critiche per l’applicazione sistematica, ma impersonale, delle procedure messe a punto, una volta per tutte, per gli scopi dell’accuratezza e della precisione. Troppo spesso l’atteggiamento è fatalistico: “L’operazione è riuscita perfettamente, ma il paziente è deceduto”. Non serve definire valori di tossicità, certificare le misure e assicurare standard ecologiciper la produzione automobilistica, se poi a metà febbraio, attorno al quarantesimo giorno del 2005, numerosissime città italiane già superano il limite di trentacinque giorni l’anno con inquinanti per il traffico superiori di quelli stabiliti dall’Unione Europea (Pasolini, 2005).
Primo Levi, in più occasioni diede corpo ai propri dubbi sulla tendenza alla normazione e alla normalizzazione:
“Non ha mai avuto il dubbio che l’evidente divorzio fra le dottrine tecniche e quelle morali, e l’altrettanto evidente atrofia di queste ultime, siano dovute proprio al fatto che l’universo morale manca finora di definizioni e tolleranze valide? Il giorno in cui non solo tutti gli oggetti, ma anche tutti i concetti, la Giustizia, l’Onestà, o anche il Profitto, o l’Ingegnere, o il Magistrato, avranno la loro buona specifica, con le relative tolleranze, e ben chiari i metodi e gli strumenti per controllarle, ebbene quello sarà un gran giorno. E neppure dovrebbe mancare una specifica delle specifiche: ci sto pensando da tempo”. ( Le nostre belle specificazioni, in “Vizio di forma”, 1986)
“Piuttosto che un misuratore di bellezza è un misuratore di conformità (..) anche l’uomo medio, oggi, si può tarare (…) gli si può far credere che sono belli mobili svedesi e i fiori di plastica, e solo quelli; gli individui biondi, alti e con gli occhi azzurri, e solo quelli; che è solo buono un certo dentifricio, solo abile un certo chirurgo, solo depositario della verità un certo partito (…) è poco sportivo disprezzare una macchina solo perché riproduce un procedimento mentale umano”. ( La misura della bellezza, in “Storie Naturali”, 1966)
Tanto come chimico quanto come scrittore, Levi aveva dato prova di grande apprezzamento delle doti della precisione e del senso della buona misura, ma da intendere come mezzi per evitare la dismisura, tanto per superficialità quanto per esagerazione, con valenza anche in campo morale. La formulazione di un metodo di analisi accurato la definizione della sua specificità hanno valenza principalmente utilitaristica, non filosofica: sono il contrario della misurazione erronea ma anche il sistema per ottenere “il massimo di informazione con il minimo di ingombro” (in senso scientifico). Accuratezza e precisione sono strumenti che permettono, soprattutto, di percepire il livello raggiunto dalle nostre conoscenza e capacità, sono quindi utili per conoscere il mondo e per misurarsi con i suoi e i nostri limiti.
Misurare un fenomeno implica la necessità di delimitarne il confine (suo o della nostra capacità di indagine), il limite oltre il quale la considerazione del fenomeno non è più valida. Nel 1927, Werner Heisenberg formulò il cosiddetto “Principio di indeterminazione”, affermando l’esistenza di un’inevitabile contributo di imprecisione nella misura simultanea della posizione e del momento di una particella. Si tratta di un concetto fondamentale della fisica moderna: esiste un limite particolare per la sensibilità di ogni misurazione, dalla sua trasgressione possono derivare benefici ma anche svantaggi in termini di conoscenza e di controllo delle operazioni. Non la padronanza ma la percezione del limite è il punto di arrivo del valore di una misurazione.
Grandezze misurabili, come la temperatura, e concetti di termodinamica, come l’entropia, possono essere usati per descrivere il comportamento di insiemi di particelle, ma non offrono informazioni sulle particelle individuali o sulle loro forze. In un memorabile lavoro sulla complessità (Anderson, 1972) è stato scritto: “Ad ogni livello [nella struttura gerarchica della natura] sono necessarie nuove leggi, nuovi concetti e generalizzazioni, che richiedono ispirazione e creatività con approfondimento identico a quello del livello precedente (…) la psicologia non può essere applicata alla biologia, né la biologia alla chimica”.
La convinzione che scienza e tecnologia siano i mezzi per la creazione di un’universale civiltà democratica e la rimozione del “senso del limite” sono i tratti maggiormente caratteristici della moderna fede nel progresso. L’ideale neopositivista e il culto neoliberista del mercato globale, sostenuti dall’accresciuto potere dei mezzi della scienza di fine Novecento, si sono incontrati in questa convinzione nella quale è anche riscontrabile una versione laica dell’escatologia cristiana (Gray, 2005). La presunzione di avere a disposizione uno strumento inesauribile di conoscenza e di controllo della realtà fisica, sottrae invece alla scienza la sua principale linfa: l’atteggiamento di incertezza, il dubbio, a funzionare contemporaneamente da stimolo per nuove ricerche e da alibi per l’insoddisfazione scaturita dopo l’ultima risposta.
Un buon metodo scientifico contraddice il dogma delle certezze. Le certezze mummificano la scienza, così come il dogma incatena la religione. Il suggerimento sarebbe di affidarsi sempre alla massima buddista: “Fidati di chi cerca la verità, dubita di chi l’ha trovata”. Un consumato atteggiamento di radicalità ne preferirebbe, però, la versione zen maggiormente esplicita: “Se lungo il tuo cammino incontri il Buddha, uccidilo”.
8 – Scommettere sul cambiamento
“ L’eguaglianza umana è un fatto contingente, (…) se la nostra epoca si distingue dal resto della storia dell’umanità proprio perché alla molteplicità degli ominidi si è sostituita una straordinaria uniformità biologica che racchiude le nostre affascinanti diversità culturali, perché non avvantaggiarsi di questo dono? Perché non tentare di vivere in fratellanza?”
Stephen Jay Gould, Riflessioni di storia naturale (1998)
Certamente, continua ad essere nostra speranza che la medicina giunga vittoriosa nella lotta contro il cancro e l’AIDS, che presto si trovi un combustibile rinnovabile capace di soddisfare i bisogni energetici magari riducendo le emissioni inquinanti, che la fame (con malaria, lebbra, dissenteria, morbillo, tubercolosi, polmonite) sia debellata in quei paesi che con una variante ipocrita e caritatevole dell’ottimismo definiamo “in via di sviluppo”. Dobbiamo ammettere, però, che nella maggior parte le attese prospettate dalla scienza nella seconda metà del secolo scorso sono andate deluse, né possiamo nutrire eccessive speranze per le ammiccanti rassicurazioni che sono fornite oggi.
Certamente, sappiamo che il futuro non può più essere sinonimo di progresso, che le tendenze al mutamento globale possono danneggiarci su vari piani: tecnico, sociale, economico, politico e ambientale. La situazione non appare ottimistica, ma se non altro si coglie qualche nuova opportunità: è innegabile, per esempio, che nel campo della scienza ci sia un atteggiamento di maggiore interesse e disponibilità alla discussione rispetto al passato. A disposizione per dar corpo al cambiamento, restano “i mezzi, le motivazioni e le opportunità” (Sterling, 2002).
Continuando ad averne i mezzi, è difficilmente concepibile non affidarsi alle conoscenze sviluppate, per esempio, per la gestione delle attività sanitarie, ambientali e alimentari, o per sfruttare le diverse forme di informazione e comunicazione digitale oggi disponibili. Perfino i più feroci critici delle tecnologie contemporanee affermano che della scienza abbiamo un estremo bisogno, anche solo per proteggerci dai fallimenti, per prevenire i pericoli e per porre rimedio ai danni del passato. Però, le implicazioni politiche devono essere riconosciute: “Troppo spesso ci si dimentica (o si accetta passivamente) il fatto che la tanto sottolineata mancanza di modelli etico-ideologici in campo sociale non è altro che parte di un progetto di omologazione riduzionista che non ci vuole più donne, uomini, genitori, insegnanti, cittadini, ma solo consumatori soggetti all’ultima delle ideologie, quella economica” (Mansueti, 2002).
Per uscire da questa prospettiva si è proposto (Hodson, 1998) di inserire nei curriculum scientifici insegnamenti sulle dinamiche che legano scienza, tecnologia, società, ambiente ed economia. Ovvero, si suggerisce di arricchire i piani di studio con insegnamenti utili per: “valutare l’impatto sociale del cambiamento scientifico e tecnologico, dichiarando che scienza e tecnologia sono culturalmente determinate; riconoscere che le decisioni sullo sviluppo scientifico e tecnologico sono prese per soddisfare interessi particolari, e che i benefici ottenuti da alcuni possono esserlo a scapito di altri; riconoscere che lo sviluppo scientifico e tecnologico è inestricabilmente legato alla distribuzione della ricchezza e del potere; sviluppare i propri punti di vista e stabilire la propria posizione nei confronti dei valori ad essi sottostanti; prepararsi all’azione e intraprenderla” (Cerruti, 1999).
Oggi, la fiducia nel progresso della scienza e della tecnologia continua ad offuscare la nostra percezione della condizione umana. Semplicemente, imparando a distogliere lo sguardo con discrezione, aiutati dai mille e più mondi virtuali che le tecnologie possono offrirci, abbiamo disimparato la regola che ovunque “gli uomini cercano di soddisfare i loro bisogni nel modo più rapido e soddisfacente possibile, anche se i risultati sono la guerra e la rovina” (Gray, 2005). Utilizzando una visione monoculare ci siamo concentrati sul raggiungimento dei successi materiali, trascurando le ripercussioni sugli altri, sull’ambiente e, a più lungo termine, anche su di noi. Pochissimi ricordano il Vajont o sono informati sugli esodi per le grandi dighe in India e in Cina, in quest’ultimo paese, secondo il China Labour Bulletin, nel 2004 sono morti più di seimila minatori, seppelliti dentro i giacimenti di carbone, e continua ad esser arduo valutare il numero delle vittime irachene della guerra, nonostante il nostro amore alla precisione.
Il presente è stato descritto come: ” (…) un periodo storico davvero interessante: sbandiamo come le palline di un flipper e possiamo andare a finire praticamente dappertutto (…) i Grandi e i Buoni non soltanto sono sconcertati dagli eventi, ma stanno clamorosamente confezionando prove su misura per i loro preconcetti” (Sterling, 2004). Gli educatori, dovendola affrontare a viso aperto, devono mostrare quale sia situazione; allo stesso tempo, però, non devono giocare solo un ruolo da Cassandra, irrimediabilmente sfiduciata e disinteressata alla sopravvivenza umana. L’educazione scientifica e il ruolo pubblico degli scienziati vanno ripensati dentro e fuori le istituzioni, con regole nuove che considerino l’importanza pedagogica della scienza per lo sviluppo di una razionalità critica e libera, per l’allargamento del dibattito democratico e, importantissimo, per fornire le motivazioni e le speranze per il cambiamento.
Per una breve stagione all’inizio degli anni settanta, ma facendo scuola, uno scienziato oggi misconosciuto, Giulio Maccacaro direttore del nuovo “Sapere”, tentò di diffondere la cultura scientifica in modo ben diverso dalla tradizione divulgativa italiana. Maccacaro proponeva di “far parlare chi di scienza muore e chi, sapendolo o no, di scienza fa morire (…) rifiutando insieme lo scientismo e il luddismo scientifico” (Vinassa De Regny, 2005). In una congiuntura storica completamente ridisegnata e con le dovute distinzioni, trent’anni dopo, la rivisitazione di quel programma di lavoro (Bert, 2005) può ancora fornire ottime indicazioni per riprendere il lavoro:
“Come minimo la convinzione che la persona umana non può e non deve mai essere usata come un mezzo, uno strumento ma deve essere il fine delle nostre azioni; esattamente il contrario di quel che serve al potere: strumenti e mezzi, appunto, non menti libere e autonome (…). Occorre deporre l’ingenua speranza che sostituire un potere a un altro risolva definitivamente le contraddizioni o le ingiustizie, perché esse sono soprattutto in noi. Quella che va combattuta è la tendenza dei sistemi a persistere e a replicarsi immutati: la risposta è la scommessa sul cambiamento(…), sullo svelamento dei meccanismi del potere. (…) Il potere, ogni potere va continuamente stanato e svelato là dove si cela. Combatterlo significa innanzi tutto mostrarne la presenza, metterlo a nudo; il passo seguente consiste nel facilitare l’ampliamento del campo visivo, le descrizioni multiple, la ricerca di altri mondi possibili che esistono sempre.” (Giorgio Bert, “ La scommessa sul cambiamento”, 2005)
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1 Di Stephen J. Gould si vedano, per esempio, “ Intelligenza e pregiudizio. Le pretese scientifiche del razzismo” , Editori Riuniti; “ Questa idea di vita. La sfida di Charles Darwin”, Editori Riuniti; “La struttura della teoria dell’evoluzione”, Codice Edizioni; “Riflessioni di storia naturale“, Il Saggiatore
2 Luigi Cerruti insegna “Storia della chimica” all’Università di Torino, e “Storia e Epistemologia della Scienza” presso la “Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario del Piemonte”. Le citazioni sono tratte dal sito “Minerva”, dedicato alla cultura scientifica e agli aspetti storici, etici ed epistemologici delle scienze sperimentali (http://www.minerva.unito.it/ ).